Arlecchino
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« Risposta #1 inserito:: Luglio 23, 2018, 12:53:34 pm » |
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E Marchionne mi disse: «Se il ceto medio finisce, chi comprerà la Panda?»
I maglioni («non blu, neri!»), i gamberoni, lo spot della Cinquecento («il coglione sono io»), la convinzione che il capitalismo finanziario fosse al capolinea e la lezione di Barenboim: non sono io a suonare, ma i musicisti a trasformare i miei gesti in musica
Di Massimo Gramellini
Non capendo un tubo di automobili, figuriamoci di economia e finanza, l’unico titolo che ho per parlare dell’era Marchionne alla Fiat è di raccontare gli sporadici incontri che ho avuto con lui durante gli anni in cui ho lavorato a Torino per «La Stampa».
Nel 2007, non so perché, mi fu chiesto un parere sul «numero zero» di uno spot per il lancio della Cinquecento. Azzardai alcune osservazioni, ignorando che lo avesse confezionato il capo in persona. Qualche giorno dopo ricevetti una telefonata da un numero sconosciuto: «Appena mi hanno riferito le sue idee, ho pensato che lei fosse un coglione. Ma le ho fatto testare sul pubblico e pare che piacciano. Quindi il coglione sono io». E mise giù, senza dire grazie o buonasera, nemmeno il suo nome.
L’impatto dal vivo avvenne nei saloni austeri del Lingotto, dove lui e l’allora direttore di Fiat Auto, Luca De Meo, si divertivano a tirarsi addosso i pacchetti di sigarette da una parte all’altra del tavolo delle riunioni. La mia prima domanda fu banale: «Come mai indossa sempre un maglione blu?» La sua prima risposta, letale: «Come mai non va dall’oculista? Il mio maglione non è blu, è nero». Con uno scudetto tricolore cucito all’altezza del cuore. Ciò che subito mi colpì di quell’uomo che parlava in italiano come uno straniero era la retorica patriottica, tipica di chi guardava e amava il suo Paese da lontano. Ogni volta che il discorso inciampava sull’Italia, uscivano fuori il figlio del carabiniere e l’emigrato precoce: si toglieva gli occhiali e li puliva freneticamente contro la manica del maglione (nero). Il suo modo per scaricare la commozione. Per svuotare i nervi, invece, mi spiegò che non c’era nulla di meglio, potendoselo permettere, che salire su una Ferrari e farsi qualche giro del circuito di Fiorano a velocità forsennata.
All’epoca pensavo ancora che fosse un italiano atipico, ma ero condizionato dal suo imbarazzo per le guasconate arci-italiane del premier Berlusconi. Mi disse che se ne vergognava a tal punto da avere cominciato a usare il secondo passaporto, quello canadese, però sembrava una boutade per strappare una risata di complicità: non lo avrebbe mai fatto, credo. Mi raccontò di quando era stato convocato a palazzo Chigi insieme con il gotha dell’economia italiana, ma che, dopo mezz’ora di barzellette di quell’altro, si era alzato dicendo che doveva andare a lavorare, lui.
Mi costruii l’immagine di un Marchionne quacchero e moralista. Come mi sbagliavo. Sotto quel maglione nero, già allora covava italianità allo stato puro, un talento innato per l’improvvisazione anche cinica, ma sempre spiazzante. Quando il capo della General Motors era venuto a bussare a quattrini con arie da padrone, lui gli aveva parlato per un giorno intero di quanto orribili fossero i suoi conti. Non quelli della Fiat, ma quelli della General Motors, che si era studiato durante la notte. Non solo non gli aveva restituito il miliardo e mezzo di dollari che gli doveva, ma lo aveva convinto a farsene dare uno supplementare per levarselo dai piedi.
Il 4 luglio 2007, giorno del lancio della Cinquecento con un cerimonia sul Po, rimarrà per sempre uno dei più belli della sua carriera. Aveva appena detto che la competitività non andava perseguita abbassando gli stipendi degli operai e la gente lo applaudiva per la strada. Il mito di salvatore della Fiat si nutriva di episodi leggendari, come quello della sua nomina, quando l’elicottero di Marchionne era atterrato sul terrazzo del Lingotto proprio mentre quello di Morchio, il predecessore appena licenziato, si alzava in volo: una scena da Apocalipse Now. In quei giorni si compiaceva della sua fama di duro. A Gianluigi Gabetti propose di assumere nella corrispondenza privata il soprannome di Ruthless. Spietato. Arrivarono a un compromesso: l’uno si sarebbe firmato Ruth e l’altro Less. Ignoro se avesse dato un soprannome anche a John Elkann, ma ne ha sempre parlato con stima e a ogni colloquio cambiava il tempo del verbo: «Il ragazzo crescerà… sta crescendo… è cresciuto. È in gamba, ha imparato in fretta».
Quando la crisi economica appannò la sua popolarità, non riuscì a farsene una ragione. Un giorno mi chiamò nel suo ufficio al Lingotto, dominato dal quadro di un artista newyorchese inneggiante alla Competitività, e mi chiese a bruciapelo: «Perché Landini sta più simpatico alla gente di me?» Crozza aveva appena fatto la sua imitazione, ma lui non l’aveva ancora vista. Ebbi così il privilegio, si fa per dire, di mostrargliela sul suo Mac. Mentre il Marchionne di Crozza diceva: «Noi apriamo le concessionarie solo di notte, così se sei una donna incinta e ti svegli con una voglia improvvisa di Fiat…», il Marchionne vero esplose a ridere come un ragazzino. «Ma parlo veramente così?», mi chiese, con la voce di Crozza.
Di lui mi ha sempre intrigato la contraddizione tra l’istinto da manager spietato e la convinzione che il capitalismo finanziario, di cui in questi anni è stato uno dei maggiori interpreti, fosse giunto al capolinea. L’istinto del predatore mi apparve chiaro durante un pranzo a base di gamberoni. Me ne era rimasto uno solo nel piatto, quando mi alzai per rispondere a una telefonata. Feci un gesto con la mano che voleva dire «un attimo», ma lui forse equivocò e la sua forchetta si abbatté fulminea come la zampa di un ghepardo sul gamberone superstite. Le perplessità sul sistema economico, che pure lo aveva reso ricco, le espresse nel corso di una conversazione avvenuta nel suo ufficio torinese, un paio di anni fa, alla vigilia di Natale. Mi disse di essersi ritrovato, durante un convegno negli Stati Uniti, a parlare a una platea di finanzieri assetati di sempre maggiori profitti a scapito dei lavoratori. E di avere pensato, mentre li guardava negli occhi, che prima o poi l’avidità li avrebbe distrutti.
Mi spiegò il paradosso di un sistema dove il lavoratore e il consumatore sono la stessa persona: impoverendosi il primo, scompare il secondo. «Qualche emiro che compra una Ferrari lo troverò sempre. Ma se il ceto medio finisce in miseria, chi mi comprerà le Panda?». Gli dissi che era pronto per buttarsi in politica, ma ci rise su, raccontando di quando, anni prima, era stato a trovare Monti a palazzo Chigi e l’allora premier gli aveva indicato scherzosamente la sua poltrona: «La sto scaldando per te». Forse avrebbe potuto fare politica solo in America, dove era meno coinvolto emotivamente, se il suo grande amico Joe Biden, il vice di Obama, si fosse candidato alla presidenza degli Stati Uniti. Nei suoi sogni, più che capopopolo, si è sempre visto direttore d’orchestra.
Una volta volle mostrarmi a tutti i costi la registrazione di una puntata di «Otto e Mezzo» con l’intervista di Lilli Gruber al maestro Barenboim: «Non sono io a suonare, ma i musicisti a trasformare i miei gesti in musica».
22 luglio 2018 (modifica il 22 luglio 2018 | 06:48) © RIPRODUZIONE RISERVATA
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