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Autore Discussione: Adriano GUERRA. -  (Letto 8421 volte)
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« inserito:: Dicembre 04, 2007, 12:22:41 pm »

Il padrone della Russia

Adriano Guerra


Putin è, e resterà - non si sa ancora come, ma è certo - il capo supremo della Russia. Quello che decide che cosa bisogna fare, quello che fa, quello che controlla. Questo dice il voto plebiscitario degli elettori russi. Tutto come previsto, dunque? Sì per quel che riguarda il ruolo «tagliapartiti» assunto da una legge elettorale che fissava al 7% dei voti la soglia minima per l'accesso alla Duma.

Solo il partito del presidente, «Russia unita», il partito comunista di Zuganov, il partito dei nazionalisti di destra di Zhirinovski e «Russia Giusta» saranno presenti nel nuovo parlamento. (E tra gli esclusi i partiti dell’opposizione liberale - «Jabloko» di Grigorij Javlinskij e l’«Unione delle forze di destra» di Nikita Belyk). Errate invece le previsioni di chi parlava di un possibile aumento, rispetto al 2003 dell’astensionismo (che in tutti i casi si sarebbe dovuto attribuire però più alla consapevolezza dell’inutilità del voto che alla volontà di una parte dell’elettorato di esprimere un dissenso).

Ma il problema posto dalle elezioni politiche russe non è da cercare nelle cifre. E neppure nel fatto che Putin abbia ottenuto un risultato personale strepitoso, sia pure, forse, inferiore alle sue speranze. In realtà qualcosa di grosso era mutato in Russia già prima e durante la campagna elettorale. Da qualche mese, esattamente da quando sono incominciate le grandi manovre del Presidente per restare alla testa del Paese superando l’ostacolo posto da un articolo della Costituzione che gli vieta di candidarsi per la terza volta, in Russia molte cose sono cambiate. La Duma ha incominciato ad essere esautorata, l’opposizione ad essere emarginata quando non perseguita. E questo ha potuto avvenire anche perché in precedenza quel che di democratico era nato dopo il crollo dell’Urss e la nascita dello Stato russo, era stato colpito nel profondo con l’abolizione del voto libero nelle repubbliche e nelle regioni dello Stato federale, con l’attribuzione di poteri sempre più forti a Mosca, direttamente al capo dello Stato, e con la formazione di un grande apparato burocratico interamente nuovo, composto - come non solo numerose inchieste ma una catena di gravi e anche tragici episodi hanno rivelato - da alcune migliaia di uomini collocati nei punti chiave provenienti tutti dalle fila della polizia politica. Contemporaneamente colpi gravi sono stati inferti - come si sa - alla libertà di stampa, di circolazione delle idee e di manifestazione.

Il Piano Putin è però tutt’altro che giunto alla fine e ci si domanda, adesso, con curiosità mista a preoccupazione, attraverso quali vie, da qui al 2 marzo, quando avranno luogo le elezioni presidenziali, Putin potrà riuscire a restare comunque alla testa della Russia.
Trovando con vari artifici e con la modifica della Costituzione, il modo di presentare per la terza volta la sua candidatura? Mettendo alla testa dello Stato un suo «uomo di paglia» (e forse proprio in vista di questa eventualità Medvedev, Ivanov e Zubkov sono stati da lui collocati per tempo sulla linea di partenza)? Puntando nettamente, attraverso la via della formazione di un «partito unico» («Russia Unita»), alla creazione di un regime personale?

Vi è persino chi si chiede se non si stia puntando alla ricostituzione dell’Unione sovietica. (Siamo in presenza di un assordante culto della persona - si dice - di un ritorno poderoso dello Stato padrone e vi è la prospettiva che il Paese possa essere retto in un prossimo futuro dal «segretario generale» di un partito unico: perché non pensare allora ad ritorno all’Urss?). L’ipotesi - non è male ripeterlo - non sta però in piedi: nel bene e nel male l’Urss è stata nel secolo scorso qualcosa di diverso dal regime di un «uomo forte».

La prospettiva che si vada in Russia verso un sistema autoritario è però davvero presente. Due problemi allora si aprono: Il primo è quello dell’ atteggiamento dei russi di fronte ai pericoli aperti dal processo involutivo in corso. Che Putin possa contare su di un consenso amplissimo non è una novità. E non da oggi sappiamo che questo consenso non è semplicemente il risultato di una politica che, grazie in primo luogo al continuo aumento del prezzo del petrolio, ha portato ad un deciso miglioramento delle condizioni di vita della popolazione e alla nascita, accanto ad un potente gruppo di detentori di enormi ricchezze, di una fascia estesa di classe media. Questo è avvenuto. Ma alla base del consenso raccolto oggi da Putin c’è anche, e soprattutto il fatto che la popolazione russa che aveva vissuto come una umiliante sconfitta non tanto la caduta del comunismo e dell’Urss quanto quella dello Stato russo, precipitato dal ruolo di superpotenza a quello di Paese del Terzo mondo, ha ritrovato negli anni della nuova gestione l’orgoglio nazionale che aveva perso e la consapevolezza di poter tornare a far assolvere al Paese un ruolo di primo piano. È bene - e qui passo al secondo problema - tener conto di questo: intanto perché nell’ondata di consensi conseguita da «Russia unita» si cela sicuramente un grosso pericolo.

Non è vero infatti che il partito di Putin non abbia connotati politici, culturali e - diciamolo - ideologici, precisi. Il nazionalismo russo confina troppo strettamente da sempre con lo sciovinismo e con l’antica vocazione imperiale di Mosca per lasciare indifferente il resto del mondo. Non si può però dimenticare che la Russia non può non essere considerata una grande potenza, avente i ruoli, i diritti, i riconoscimenti che spettano ad una grande potenza. Ne deriva la necessità di una politica accorta nei suoi confronti. Di iniziative che puntino sul disarmo, non già sulla militarizzazzione ai suoi confini occidentali. Di non chiudere mai le porte del dialogo, da portare avanti certamente col potere, con Putin, ma anche e soprattutto con la Russia come tale, in primo luogo con tutte le forze che nel Paese si battono sulle trincee della democrazia. Occorre dunque eliminare dalla politica dell’Occidente ogni elemento che possa rappresentare per la Russia un’umiliazione, una spinta all’isolamento e alla chiusura. Ma nello stesso tempo occorre aver chiaro - anche quando si parla di petrolio e di gasdotti - che non è un’ingerenza interna in un altro Paese affermare che elezioni come quelle che hanno avuto luogo ieri in Russia non rappresentano certo un esempio di vita democratica.

Pubblicato il: 03.12.07
Modificato il: 03.12.07 alle ore 13.10   
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 17, 2008, 09:15:28 pm »

Kosovo, un'indipendenza che divide

Adriano Guerra


Attorno al Kosovo, la cui indipendenza - ad un tempo garantita, assistita e sorvegliata dai Paesi occidentali - sarà proclamata oggi, è in corso una «grande guerra» di parole, talvolta pesanti ma anche in più di un caso lasciate a metà, sotto il segno ora della minaccia e ora della speranza. Quel che sembra prevalere è la consapevolezza che si sia di fronte ad una scelta irrevocabile. E irrevocabile perché nata non attraverso un dibattito attorno a diverse proposte ma a conclusione di una vera guerra: quella scatenata da Milosevic nel momento in cui l’ultimo leader jugoslavo decise di consegnare lo Stato federale al nazionalismo serbo.

Con quello che ne è seguito sino al tentativo di risolvere con la «pulizia etnica» il problema del Kosovo.

Più che alle prese di posizione delle parti coinvolte dall’esterno - la Serbia, i governi e gli Stati maggiori della Nato, la Russia - dipenderà in primo luogo da quel che faranno i kosovari, gli albanesi che sono maggioranza, e i serbi della minoranza, se quel che sta per nascere sarà un fattore di pace o di destabilizzazione.

In ogni caso è positivo che anche la «guerra di parole» si sia un poco attenuata. Belgrado ha - è vero - proclamato preventivamente «nulla» perché «illegale» la dichiarazione di indipendenza che l’Assemblea di Pristina si appresta ad approvare, ma di fatto, nel momento in cui ha offerto ai kosovari «qualcosa in più dell’autonomia», ha sconfessato gran parte della politica attuata sino a quel momento nei confronti dell’area. Certo era possibile, e sarebbe auspicabile, che a Belgrado si fosse più espliciti sulle ragioni che hanno portato sloveni, croati, bosniaci, macedoni e poi gli albanesi del Kosovo, a chiedere la fine dello Stato federale jugoslavo. Colpisce, anche se è certo in parte comprensibile, la reticenza che caratterizza su questo punto la nuova Serbia democratica di Tadic. E con la Serbia anche vari osservatori. Come se fossero da cercare nel conflitto fra «opposti ma uguali nazionalismi» nonché nelle scelte, «frettolose» e «non lungimiranti» (ma in realtà maturate con ritardo) compiute dall’Europa nei confronti del processo di dissoluzione che si era aperto nei Balcani, le cause che hanno portato, attraverso le sanguinose pagine che conosciamo, alla fine della Jugoslavia. Cause che stanno nel fatto che con Milosevic il potere di Belgrado aveva assunto un netto carattere «imperiale» rompendo il «patto fra le nazionalità» che Tito aveva costruito e favorendo il formarsi in tutto il Paese di un nazionalismo, anzi di una «ideologia della nazione» fondata - come ha scritto Predrag Matvejevic - su basi religiose. Ma qui per una lettura attenta dei fatti di oggi, altri interrogativi si pongono. Quelli che riguardano ad esempio la particolare natura dell’unità jugoslava sorta nel momento in cui Tito decise di trasformare la guerra antifascista in «rivoluzione sociale». Dando vita così alla Federazione unitaria che conosciamo ma che ha forse incominciato ad incrinarsi nel momento in cui venivano meno (con l’autogestione?) le «motivazioni sociali» sulle quali era nata.

Anche alla Russia era, ed è possibile, chiedere una riflessione più attenta sulla tragedia dei Balcani. E questo proprio perché negli anni della crisi e poi del crollo dell’Urss essa insieme all’apparire sulla scena dei nazionalismi antirussi ha vissuto il dramma della caduta del fattore di unificazione rappresentato dalla «rivoluzione sociale» con la quale era nata.

Questa riflessione è del tutto assente a Mosca, a livello della politica dello Stato, così come sono assenti ripensamenti sulle ragioni che hanno portato al di là delle frontiere, alle «rivoluzioni colorate».

A Mosca c’è però una crescente e reale preoccupazione per le scelte che gli Stati Uniti e la Nato stanno compiendo o pensano di compiere e c’è un visibile atteggiamento tendente a tenere aperta la porta del dialogo con l’Occidente.

Certo Putin ha continuato a definire «immorale e illegale» la scelta che i paesi della Nato si apprestano a rendere esplicita per il Kosovo. Ha ribadito che alla sessione dell’Onu sosterrà le posizioni di Belgrado: nel contempo si è però affrettato a precisare che «se qualcuno prende decisioni stupide e illegali non vedo perché noi dovremmo imitarlo». E non ha esplicitamente parlato di sostegno ai separatisti serbi del Kosovo e della Bosnia o di possibili «interventi paralleli» per unificare nel Caucaso l’Ossetia o per strappare alla Georgia l’Abkasia. Allo stesso modo ha continuato a minacciare ritorsioni nei confronti dei progetti americani relativi al «piccolo scudo spaziale» da collocare nella Repubblica Ceca e nella Polonia, e a quelli della Nato per inglobare l’Ucraina nell’Alleanza. Nel contempo ha proposto però, parlando del Kosovo, di «elaborare degli standard per la soluzione di questo tipo di conflitti» e ha messo in discussione, attraverso il vice premier Sergej Ivanov, un «progetto di sicurezza collettiva» così da porre fine alla corsa al riarmo sciaguratamente ripresa. La ricerca del dialogo proposta da Putin, che - come è emerso chiaramente dalla conferenza stampa dell’altro ieri - continuerà ad essere il capo supremo della Russia anche dopo la prossima scontata ascesa di Dmitrij Medvedev alla carica di presidente - appare diretta a riproporre il ritorno all’antico sistema bilaterale. Un ritorno impossibile per molte ragioni, tra le quali quelle che derivano dal ruolo che la Cina, l’India e anche altri Paesi, hanno già conquistato nel «secolo americano». Mentre ci si domanda cosa potrà riservare il futuro non solo a coloro che si apprestano a salutare la conquista dell’indipendenza ma alle popolazioni di tutti i Kosovo sparsi in Europa (si pensi anzitutto alla Bosnia e al Caucaso) non si vede proprio perché l’Europa nello stesso momento in cui invia nel Kosovo con un po’ di trepidazione gli uomini della «missione civile», non dovrebbe assumere un’iniziativa forte. Per non fare da spettatrice al dialogo Usa-Russia (che rimane, fortunatamente aperto) ma anche per impedire che la sua politica di apertura verso Est possa essere vista da altri, nello stesso momento in cui fa saltare al suo interno vecchi steccati e confini, come una minaccia.

Pubblicato il: 17.02.08
Modificato il: 17.02.08 alle ore 15.10   
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 19, 2008, 12:14:38 am »

Matvejevic: «Basta con il passato il futuro dei Balcani è l’Europa»

Marina Mastroluca


«Il futuro si gioca sulla memoria. Le piccole nazioni tendono a conservarla, per confermare la loro identità. Ma ci sono momenti in cui non bisogna difendere la memoria ma difendersi dalla memoria, da cià che ha in sè di duro, di aggressivo». Rimuovere il passato, per sopravvivere. Per Predrag Matvejevic, scrittore e docente di slavistica, è qui la chiave del futuro dei Balcani, un’inversione di rotta nella tradizione di popoli abituati a guardare indietro. E oggi invece destinati a spostare lo sguardo in avanti. Verso l’Europa, come luogo in cui i confini etnici e le conflittualità possono sciogliersi.

Il Kosovo si è proclamato indipendente, era inevitabile questa conclusione?

«Non vedevo come inevitabile neanche la distruzione della Jugoslavia e questo ne è l’ultimissimo atto. Persino i montenegrini, i più vicini ai serbi che sono ortodossi e slavi, si sono separati. La separazione del Kosovo ormai era annunciata, semmai ci si aspettava che gli Stati Uniti facessero pressione su Pristina per posticipare la proclamazione e dare così tempo al presidente serbo moderato Tadic di consolidare il suo governo. Invece gli albanesi sono andati avanti».

I serbi di Mitrovica nord hanno già annunciato l’intenzione di creare un loro parlamento, sembra il primo passo verso la secessione. Che scenario si apre?

«Tutto questo era prevedibile. Sarà davvero molto difficile riuscire a portare i serbi di questa regione sotto il controllo di Pristina. E credo anche che sarà molto difficile per i serbi vivere nella parte albanofona, anche se verranno rispettate le garanzie che sono state annunciate. Ci sarà senza dubbio uno spostamento della popolazione serba, tanto più se Mitrovica resterà ancorata a Belgrado. In alcune aree potrà avvenire uno scambio, cosa che l’Onu non vede di buon occhio ma che in certe circostanze può essere il male minore. C’è poi l’altra incognita dei serbi di Bosnia».

Nella Republika Srpska c’è già chi ha chiesto un referendum per pronunciarsi sull’indipendenza dalla federazione con i croato-musulmani. L’indipendenza del Kosovo può innescare un effetto a catena?

«Dodik è un ultra-nazionalista duro. Se i serbi di Bosnia cercano di separarsi, i nazionalisti croati dell’Erzegovina cercheranno di fare altrettanto, per unirsi alla Croazia. La situazione in questo caso potrebbe tornare là dove era 15 anni fa. Sembra però che ci siano stati accordi dietro alle quinte, perché la Bosnia non si tocchi. Non credo che il presidente Tadic possa incoraggiare il referendum dei serbi bosniaci e la Bosnia ha molti condizionamenti esterni, è impoverita. Pochi oserebbero fare gesti bellicosi forti».

Mosca ha messo in guardia contro il rischio di aprire con l’indipendenza del Kosovo il vaso di Pandora del separatismo.

«Putin non ha mai difeso la Serbia, piuttosto il suo impero. Pensa alla Cecenia, più che al Kosovo. Ma un po’ di rischio in effetti c’è. Potremmo dire che c’è uno spettro che da oggi si aggira per l’Europa: il rischio della separazione delle entità etniche che oggi sono inserite all’interno di vari paesi. Parlo dei ceceni, degli osseti, dei baschi, dei curdi come dei fiamminghi e dei valloni. Ma la situazione del Kosovo è un caso a sé: Milosevic ha distrutto l’autonomia, persino la lingua degli albanesi».

Sarà possibile una convivenza?

«Bisognerà vedere come si comporterà il governo kosovaro, in cui ci sono alcuni membri dell’Uck: non tutti erano angeli. Thaci ha fatto comunque un discorso moderato, ha offerto garanzie. In Kosovo ci sono tanti soldati di diversi Paesi, si è fatto di tutto per impedire un nuovo conflitto. È stato nell’ultimo decennio il più grande investimento dell’Onu. Non credo che si possa prevedere una nuova guerra: sono tutti stanchi, esausti delle guerre. Ci saranno difficoltà, questo sì. Penso per esempio al rischio di esporre all’albanizzazione la Macedonia, un piccolo Paese già con una forte presenza di albanesi, stimata tra il 30 e il 40 per cento. Quando si crea uno Stato nazionale è sempre un pericolo per quanti stanno attorno. Credo che in un avvenire più lontano il Kosovo confluirà in una Grande Albania. Che cosa accadrà allora?»

La Serbia ha annunciato che richiamerà gli ambasciatori dei Paesi che riconosceranno il Kosovo.

«Interrompendo le relazioni diplomatiche si condannerebbe all’isolamento fuori dall’Europa. Può accadere che l’Europa ammorbidisca il suo atteggiamento facilitando l’avvicinamento di Belgrado».

La Ue può essere la cornice nella quale le tensioni balcaniche trovano una soluzione?

«Adesso credo di sì. L’Europa ha imparato tante cose, dopo aver fatto tanti errori in Bosnia, dove c’era un islam laico che avrebbe dovuto difendere. Oggi questo potrebbe essere un argomento forte di fronte al mondo islamico radicale. L’Europa lo ha capito tardi».

Pubblicato il: 18.02.08
Modificato il: 18.02.08 alle ore 18.07   
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« Risposta #3 inserito:: Marzo 03, 2008, 06:01:40 pm »

Eppure qualcosa può cambiare

Adriano Guerra


L’invito che viene rivolto a chi si occupa delle cose russe è di tornare, per "leggere" i risultati del voto di ieri nella Federazione russa, ai vecchi metodi della kremlinologia: quanti voti ha ottenuto Dmitrij Medvedev rispetto non già agli altri candidati, tagliati fuori in partenza dal confronto, ma a quelli conquistati nelle elezioni precedenti da Putin? E ancora: come saranno collocati i ritratti del nuovo e del vecchio Presidente, divenuto ora premier, negli uffici pubblici?

Insomma se è vero che Medvedev - come sembra indubbio - ha fatto un passo in avanti, si può dire che Putin abbia fatto un passo indietro?

Le prime risposte ai quesiti dati dal voto sono apparentemente nette. La grande maggioranza dei russi ha partecipato al voto che si è trasformato, cosa di cui nessuno dubitava, in un plebiscito per Medvedev . Un plebiscito che ha alla base in primo luogo - come è da tutti riconosciuto - il vasto consenso che Putin ha saputo conquistare non solo facendo appello all’"orgoglio russo" ma con una politica che, e non solo nel campo dell’economia, ha permesso di ridare al paese il ruolo e l’orgoglio della grande potenza.

L’operazione decisa da Putin nel momento in cui si è trovato costretto, impossibilitato com’era a candidarsi alla presidenza per la terza volta, ad escogitare un marchingegno per restare al comando, è dunque riuscita. Il suo appello agli elettori perché Medvedev venisse eletto è stato accolto. Ed è certo che, sulla base degli accordi pattuiti, Medvedev nominerà ora Putin capo del governo.

Ma davvero il futuro della Russia è stato scritto con la penna di Putin? L’interrogativo vero nasce qui e riguarda il futuro. E nasce dal fatto che è al capo dello Stato e non al capo del governo che la Costituzione russa - scritta all’epoca di Eltsin guardando alle Carte costituzionali degli Stati uniti e della Francia - assegna di fatto il potere.

Tutto previsto - si dirà - e a dimostrarlo c’è il fatto che Putin ha scelto per la carica di Presidente con Medvedev un suo uomo. E gli elettori al momento del voto ne erano ben consapevoli.

Alla testa della Russia - si dice - rimarrà dunque il vecchio Presidente: sino a che punto però Medvedev rispetterà l’impegno e accetterà di abdicare al ruolo di capo dello Stato che il voto gli ha assegnato?

Né - va ancora detto - si è di fronte soltanto ad un confronto a due. Ci sono infatti altri protagonisti che possono far sentire la loro voce. Ci sono gli "siloviki", vale a dire gli uomini che controllano i ministeri che contano (quelli degli interni, della difesa, della sicurezza), gli "amici" di Putin provenienti da Pietroburgo e con essi gli uomini dell’ex Kgb che, dando vita a quella che è stata chiamata la "verticalizzazione del potere" (e cioè la sostituzione con uomini nominati dal centro dei dirigenti degli organismi della Federazione in precedenza eletti col voto democratico) hanno nelle loro mani le strutture di comando. E ancora ci sono i sostenitori del "capitalismo di Stato" (che vogliono sottrarre le aziende ad un gruppo di oligarchi) e quelli delle cosiddette "riforme" (e cioè delle privatizzazioni, per consegnare le aziende ad un altro gruppo di oligarchi).



Né si tratta di uomini e di gruppi che si battono per le loro idee nelle aule della Duma. Le cronache provenienti da Mosca, ma anche da Londra, teatro, come si sa, di una sanguinosa "guerra di spie" tutt’altro che conclusa, ci hanno di frequente mostrato con quali armi sia stata condotta la battaglia che ha portato agli attuali equilibri esistenti fra le forze in campo. Equilibri che sembrerebbero caratterizzati da una certa riduzione del peso di coloro che erano stati considerati sin qui "uomini di Putin". Le cronache ci hanno anche detto di quanto sangue sia stato versato da giornalisti, deputati, uomini dell’opposizione che hanno cercato di far luce sui misfatti del potere, incominciando dalle pagine più truci della guerra cecena.

Come si muoveranno ora queste forze? E Medvedev opererà nei loro confronti come l’"uomo di paglia" di Putin o con un progetto e una forza propria?

Quel che si può dire per ora è che nelle settimane che hanno preceduto il voto Medvedev ha esposto le linee di un programma che sembrerebbe caratterizzarlo, rispetto a Putin, come un uomo di Stato aperto verso l’Occidente, un "democratico" e un "riformista" (nel senso di contrario allo strapotere dello Stato), e soprattutto come un avversario degli uomini che attualmente hanno nelle loro mani, insieme a pezzi di potere, i mezzi dello Stato. La corruzione deve essere cacciata - ha detto - e alla testa delle società dovranno andare "persone capaci e veramente indipendenti". È certo possibile che Medvedev abbia parlato così non solo col consenso ma per volontà di Putin, nel momento in cui quest’ultimo era impegnato a liberarsi di sostenitori divenuti troppo scomodi, e che dunque non ci sia da aspettarsi troppe novità almeno a breve tempo. Tuttavia qualcosa potrebbe muoversi e forse si è mosso. L’errore nel quale non si dovrebbe cadere quando si parla della Russia è quello di pensare che in quel paese tutto sia destinato a rimanere fermo per decenni. Bisogna liberarsi - va detto a questo proposito - da alcune "idee ricevute" dure a morire. Quelle che parlano di una Russia "che ha bisogno di un uomo forte", di un "partito unico", e dunque oggi di Putin come ieri ha avuto bisogno di Stalin e prima di Stalin dello zar. E ancora che parlano di una Russia che, a differenza del resto del mondo, non avrebbe bisogno di una democrazia basata sul pluripartitismo e di regole del gioco, sia pure imperfette e limitate, come quelle che negli Stati uniti possono servire per cacciare Bush e in Italia per impedire il ritorno di Berlusconi. Come se la storia della Russia non avesse visto anche la lotta per cacciare gli zar e poi - e per mano di coloro stessi, da Chruscev a Gorbaciov che ne furono i continuatori - per liberare il paese dallo stalinismo.

Penso insomma che sia sbagliato guardare con rassegnazione alla Russia. E che sia del tutto legittimo guardare alle elezioni di ieri come ad "elezioni farsa", connesse con un processo involutivo grave (e reso più grave dal fatto che esso appare sorretto da una vasto e, per ora, crescente, consenso popolare avente alla base idee e ambizioni nazionalistiche di tipo persino "imperiale"). Ma contemporaneamente penso sia necessario cercare di individuare quel che in quell’immenso paese si muove nella direzione di una possibile formazione di un sistema politico che possa rendere difficile ai "partiti unici" e agli "uomini forti" di tornare sulla scena. E penso per questo che l’Occidente faccia bene, nello stesso momento in cui alimenta le sue relazioni politiche ed economiche con la Russia (relazioni che dovrebbero essere accompagnate dal rigetto di misure dirette ad alimentare in quel paese idee e politiche tipiche da "fortezza assediata" ) a continuare a porre sul tappeto ogni volta che si parla con Mosca le questioni della democrazia, degli oppositori che vengono arrestati, dei candidati ai quali viene impedito di partecipare alle elezioni, delle libertà di riunione e di stampa che vengono negate.

Pubblicato il: 03.03.08
Modificato il: 03.03.08 alle ore 9.07  
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« Ultima modifica: Agosto 21, 2013, 07:50:03 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 17, 2008, 02:54:14 pm »

L'azzardo del Kosovo

Ue, Serbia e pressioni russe


di Alberto Ronchey


Aspre discordie in Serbia, ultranazionalisti contro moderati, sul modo d'affrontare la secessione del Kosovo e le trattative con l'Ue. Dimissioni del governo, elezioni anticipate. Quando e come potrà districarsi l'ultimo groviglio conflittuale balcanico? Riconoscere la dichiarazione d'indipendenza del Kosovo dalla Serbia, come hanno deciso i maggiori governi europei e quello di Washington, può rivelarsi un gravoso azzardo. E' la tesi di numerosi altri governi, anche fra gli europei, vista la convulsa reazione dei serbi assistiti dai russi. Ma non meno esasperati erano i kosovari, pronti a riprendere le armi conserv ate dalle forze di Hashim Thaci anche dopo la fine di Slobodan Milosevic. «Non può dubitarne chiunque abbia trascorso qualche giorno in Kosovo», ripetevano testimoni come, sul Corriere, Christopher Hitchens. La dichiarazione d'indipendenza, in base al principio d'autodeterminazione dei kosovari, appariva inevitabile. I serbi continuano a ricordare che la risoluzione 1244 dell'Onu aveva confermato la loro sovranità, sia pure condizionata, sulle terre contese.

Ma la vertenza include anche altre vicende. Il tribunale dell'Aja, da tempo, accusa i governanti serbi di non collaborare per la cattura dei criminali di guerra Ratko Mladic e Radovan Karadzic, protagonisti sul campo della «pulizia etnica». Seguono ulteriori contestazioni o recriminazioni. Sarà complessa, e incerta, la stessa gestione dei controlli a garanzia della minoranza serba nel Kosovo, peraltro agguerrita. Quella vigilanza, per l'Onu o la Nato e la missione «civile» del-l'Ue, implica in pratica il protettorato sulla società kosovara, che fra l'altro qualche rapporto europeo definisce «malata d'illegalità ». Nella Commissione di Bruxelles, ora si discute sulle condizioni d'una sufficiente apertura dell'Ue a Belgrado per moderare il nazionalismo serbo. Intanto, Mosca opera già decisamente con le sue misure di tutela e soccorso per gli «slavi del Sud».

Gazprom acquista il controllo dell'industria energetica serba dopo l'accordo per un costoso gasdotto, l'Aeroflot vuole partecipare al controllo della Jat e anche dell'aeroporto di Belgrado. La Russia slavista o panslavista, cirillica e ortodossa, tende a presidiare il suo ultimo avamposto europeo dopo la dissoluzione dell'Urss e la perdita degli Stati già satelliti sul fronte occidentale, mentre teme il contagio separatista fra i diversi gruppi etnici che aspirano a costituire «piccole patrie» in quel demanio bicontinentale. Il governo di Putin esercita le sue pressioni con i petrorubli e la potestà di veto nel Consiglio di Sicurezza dell'Onu, senza escludere intimidazioni. Per ora, non è prevista una sfida militare. Ma rimane il pericolo di scontri al confine tra Serbia e Kosovo. Sarà necessaria da parte occidentale, Nato e Ue, ogni cautela per evitare altri conflitti dopo quelli d'inizio e di fine '900. «I Balcani — avvertiva già Churchill ai suoi tempi — hanno prodotto più storia di quanta ne potessero digerire». Ora, dopo le stragi seguite all'implosione della Jugoslavia, è l'Europa che non può digerire un capitolo supplementare di quella storia.

15 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Agosto 11, 2008, 12:01:31 am »

Messaggio all’Occidente

Adriano Guerra


Non è solo una questione fra Mosca e Tblisi. Nello scontro militare in atto in queste ore in Ossezia i veri protagonisti sono Russia e Stati Uniti. O almeno questa è una delle chiavi interpretative di questo pericoloso conflitto. Ce ne sono altre: «Diritto dei popoli all’autodeterminazione», «Diritto di intervento per proteggere cittadini osseti in possesso di passaporto russo e minacciati dai georgiani», «Salvaguardia dell’unità territoriale del paese», «Spinta imperiale russa verso il Caucaso del Sud», «Offensiva di Tblisi contro l’autonomia dell’Ossezia del Sud». E ancora «Difesa di minoranze etniche minacciate», «Controllo degli oleodotti e dei gasdotti che collegano il mar Caspio all’Europa occidentale e alla Turchia», «Altolà russo alla marcia della Georgia verso l’Europa e la Nato», «Rottura dello status quo come inevitabile conseguenza della soluzione adottata per il Kosovo», «Ricorso alla guerra da parte del Presidente georgiano per emarginare gli oppositori interni e riacquistare la fiducia dei georgiani delusi». Le classiche risposte alla più difficile delle domande -perché scoppia una guerra?- sono tutte valide per il sanguinoso conflitto che si è aperto, o riaperto, tra la Russia e la Georgia. E tutte incontrano obiezioni, almeno a prima vista, altrettanto valide. Di certo c’è anzitutto che, nonostante l’accordo di tregua raggiunto nel 1992 a conclusione del sanguinoso conflitto che aveva visto incrinarsi paurosamente, nell’Ossezia come nell’Abkazia e in altre regioni ancora, l’unità territoriale georgiana, nell’area si era creata una situazione insostenibile. L’Ossezia del Sud era, è, contemporaneamente una regione autonoma della Georgia, come tale facente capo a Tbilisi, e una Repubblica indipendente, con tanto di presidente, Eduard Kokoity. Una Repubblica non riconosciuta da nessuno ma sostenuta dal vasto sostegno della popolazione ossetina (in netta maggioranza rispetto a quella georgiana) e dalla Russia. E, ancora, l’Ossezia è una regione ove circolano legalmente sia il rublo russo che il lari georgiano e dove dovrebbero convivere pacificamente, sotto il controllo dei caschi blu, non però dell’Onu ma delle stesse forze tripartite - i georgiani, i russi e gli ossetini - firmatarie dell’accordo del 1992, le forze armate della Georgia e quelle della Repubblica di Kokoity. Inutile in questa situazione chiedersi chi possa aver sparato il primo colpo: se Tbilisi per riprendere nelle proprie mani un territorio sostanzialmente perduto o Mosca per risolvere una volta per tutte la «questione georgiana». Può essere utile piuttosto guardare a quel che avviene, anzi che è già avvenuto, al là dell’Ossezia del Sud. Anche perché sembra ormai accertato che sul terreno il conflitto - violentemente esploso con la morte di centinaia di civili (Mosca ha parlato di «pulizia etnica») sia già finito con la sconfitta del tentativo georgiano - beninteso se tentativo c’è stato - di battere le forze mililtari della «Repubblica indipendente» portando così a termine l’occupazione della capitale della regione, Tskhinvali. Si è infatti saputo che le forze militari russe, giunte nell’Ossetia del Sud attraverso il tunnel Roki scavato in tempi sovietici in più di un punto a 3000 metri di altezza, agendo con l’aiuto dei «volontari russi» provenienti dall’Ossezia del Nord, hanno raggiunto e conquistato Tskhinvali. Gli stessi dirigenti russi hanno parlato del resto di vittoriosa conclusione del conflitto. Ma, se così stanno le cose, perché allora il bombardamento di Gori, e di altre località a decine di chilometri di distanza dai confini dell’Ossetia, e la proclamazione da parte del presidente georgiano Saakashvili dello stato di guerra nei confronti della Russia? Il dubbio che si sia di fronte non già semplicemente ad un conflitto etnico degenerato ma ad una situazione di guerra di dimensioni più vaste, sembra tutt’altro che immaginario. Forse al di là delle formule può essere utile tentare di collocare in un quadro realistico alcune delle possibili ragioni per cui si è giunti al conflitto elencate all’inizio. Se si guarda alla questione del petrolio, quel che colpisce, e che rende del tutto particolare la situazione georgiana, sta nel fatto che a pochi chilometri da Tbilisi passa l’unico oleodotto che proveniendo dalla capitale dell’Azerbajgjan, Baku e dirigendosi verso il porto sul Mediterraneo di Cehyan in Turchia, porta il petrolio del Caspio verso l’Europa senza attraversare la Russia. Allo stesso modo se si guarda al ruolo che nel rendere calda la situazione nell’area georgiana può aver avuto la politica di allargamento dell’Europa verso Est non c’è dubbio che l’idea di venirsi a trovare in un futuro neppure troppo lontano a contatto di confine con l’Europa e persino con la Nato anche nell’area del Caucaso meridionale, non può certo essere facilmente accolta a Mosca. Dopo che gli Stati uniti avevano acquisito nell’area georgiana un preciso «diritto di presenza», la Russia aveva scelto la strada, in cambio del mantenimento, sia pure in forma ridotta, delle basi ex sovietiche, dell’accettazione della situazione che si era aperta con la proclamazione da parte della Georgia dell’indipendenza. Ma se la Georgia dovesse entrare nella Nato evidentemente verrebbe a saltare anche l’ipotesi del mantenimento nel paese da parte della Russia di una presenza pur ridotta ma essenziale per garantire tranquillità e sicurezza al «fianco meridionale» del paese. Da qui, ora che la situazione nella Cecenia sembra tranquilla, potrebbe essere sbocciata l’idea di dare un colpo alla corsa verso l’0ccidente della Georgia. E di far questo utilizzando una serie di circostanze favorevoli venutesi nel frattempo a creare: lo spazio di manovra per modificare lo status quo che sarebbe nato, si pensa a Mosca dando una lettura certamente interessata e unilaterale della scelta occidentale, in seguito al riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo; la situazione di relativo stallo della politica americana a pochi mesi dalle elezioni presidenziali (per giunta assai incerte); e infine anche - perché no? - le Olimpiadi cinesi con lo spazio ridotto che esse lasciano a quel che avviene lontano dalla Cina. Ma forse la circostanza più favorevole per i russi è rappresentata dalla debolezza di Saakashvili e dalla fragilità del suo regime dopo che si è tanto rapidamente esaurita la fase, che tante speranze aveva aperto, di una sterzata democratica.

Pubblicato il: 10.08.08
Modificato il: 10.08.08 alle ore 14.29   
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« Risposta #6 inserito:: Agosto 12, 2008, 10:43:49 pm »

L’avanzata di Putin

Adriano Guerra


Le notizie non tutte controllate e controllabili che giungono dalla Georgia, parlano ad un tempo di nuovi e gravi passi di escalation del conflitto militare - fonti georgiane non controllabili hanno parlato dell’occupazione da parte delle truppe russe di Gori e cioè di una località che si trova nettamente all’interno di un’area della Georgia non contestata - e nel contempo di una vasta iniziativa politico-diplomatica perché si possa giungere al «cessate il fuoco», iniziativa che ha al suo centro il tentativo di mediazione avviato dall’ Europa attraverso il presidente francese Sarkozy.

Che rapporto c’è tra le due così contradditorie immagini che vengono dal Caucaso? Proprio a Gori il ministro degli Esteri francese che nella mattinata aveva discusso il progetto francese con Saakashvili avrebbe dovuto far tappa prima di raggiungere Mosca. E nella serata il progetto francese è già stato giudicato inaccettabile dal ministero degli Esteri russo. Siamo dunque di fronte a una risposta negativa, netta e persino brutale da parte dei dirigenti russi a ogni ipotesi di trattativa? E dunque a una sfida di incalcolabile portata lanciata da Putin e da Medvedev al mondo intero? Perché di questo si tratterebbe nel momento in cui la guerra condotta dai russi sin qui giudicata una «risposta sproporzionata» all’iniziativa militare georgiana ma pur sempre di dimensioni locali assumesse l’aspetto di una guerra di invasione. La situazione è comunque tale da rendere necessarie immediate iniziative per impedire il peggio. Al di là dei risultati - resi del tutto incerti da quel che sta avvenendo sul campo - cui potrà giungere l’iniziativa europea portata avanti dal presidente francese Sarkozy va però segnalata perché rappresenta un autentico fatto nuovo. E questo per più ragioni: perché essa prende atto realisticamente della sconfitta sul campo delle forze georgiane, avventatamente guidate dal presidente Saakashvili e soverchiate rapidamente dalle preponderanti forze messe in campo da Mosca. E ancora perché pone alla «vittoria» militare conseguita della Russia un confine preciso: quello del rispetto della intangibilità delle frontiere georgiane. E non delle frontiere che separano l’Ossetia del Sud e l’Abkasia dal resto della Georgia come vorrebbero gli esponenti delle forze separatiste, ma delle vecchie frontiere di Stato universalmente riconosciute. E infine, e soprattutto, perché per la prima volta in modo chiaro l’Europa sembra muoversi - e, sin qui, senza troppe sbavature (imponendo persino al recalcitrante Berlusconi di telefonare a Mosca per invitare l’«amico Putin» a ordinare il «cessate il fuoco») - in modo autonomo. E a rivendicare per sé un «ruolo chiave» motivato - ha detto il ministro degli Esteri francese Bernard Kouchner alludendo al fatto che è stato con aerei militari americani che la Georgia ha potuto trasferire direttamente nella zona di guerra il contingente militare che si trovava nell’Iraq - dal fatto che «gli Stati Uniti sono in un certo senso parte del conflitto».

Il compito che l’Europa attraverso l’iniziativa francese si è assegnato non è però facile. Lo si è visto con chiarezza oggi. E questo anzitutto perché la Russia considera confini di Stato quelli presidiati dalle sue forze armate nell’Ossetia del Sud. Quando Medvedev dice «Non abbiamo intenzione di invadere la Georgia» dimentica di aggiungere infatti che nel momento in cui le sue truppe sono entrate nell’Ossetia del Sud col pretesto di difendere la popolazione russo-ossetina dalle violenze georgiane, la Russia ha di fatto violato i confini della Georgia. Prima ancora di bombardare Gori dall’alto o da raggiungerla - come hanno denunciato i georgiani - da terra.

Ma Mosca acconsentirà a ritirare le sue forze armate perché siano sostituite da forze di interposizione di altri paesi estranei al conflitto? E - ancora - verrà posta fine alla guerra contro la Georgia scatenata nell’Abkazia dalle forze secessioniste di Sergei Bagapsh e alle operazioni al di là dei confini nell’area?

Quando la crisi ha al centro da una parte princìpi che dovrebbero regolare sempre i rapporti fra gli Stati - e tra questi in primo luogo quelli che riguardano la difesa dello status quo e dell’intangibilità delle frontiere - e dall’altra spinte all’autonomia e anche all’indipendenza, e dunque alla separazione, l’opera di mediazione si fa di tutta evidenza straordinariamente difficile. Specie quando le spinte di cui si è detto sorgono da realtà nate e affermate, come è il caso del Caucaso (ma il discorso - si pensi al Kosovo e alle ragioni che hanno spinto quella popolazione a chiedere la separazione dalla Serbia - riguarda certamente anche altre aree) sotto il segno di una politica imperiale. Nella situazione difficile nella quale dopo il crollo dell’Urss si era venuto a trovare il Caucaso, le cui popolazioni erano state sottoposte da Stalin con le deportazioni di interi popoli e con la creazione di frontiere del tutto assurde, a prove durissime, Mosca è intervenuta dapprima con provvedimenti politici che è difficile non definire irresponsabili. Si pensi alla decisione di attribuire agli osseti del Sud, a tutti gli effetti cittadini georgiani, il diritto al passaporto russo. (È la scelta che ha fatto sì che in un momento tragico del secolo scorso la maggioranza degli abitanti tirolesi dell’Alto Adige diventassero di punto in bianco - nel mezzo di una folle ubriacatura nella quale trovavano posto insieme al «no» all’Italia fascista e all’unificazione col Tirolo austriaco, le speranze più assurde riposte in Hitler - cittadini della Germania nazista. E si sa quale è stato poi il costo pagato da quelle popolazioni per la sciagurata scelta di quei giorni).

Alla iniziativa di Mosca la Georgia ha risposto rinfocolando il nazionalismo antirusso e poi puntando decisamente, con Saakashvili, sugli Stati Uniti e sull’ingressso nell’Europa e nella Nato. Si è giunti così alla situazione attuale caratterizzata, al di là degli assurdi tentativi di Saakashvili di modificare le cose a suo favore con l’occupazione dell’Ossetia del Sud, alla decisione di Putin e di Medvedev, di risolvere il problema con le armi. E di far ciò sull’onda di una campagna nazionalistica basata ad un tempo su motivi imperiali (il rifiuto di considerare l’area del Caucaso qualcosa di separato e di separabile dalla Russia) e su desideri di rivincita nei confronti di un mondo - gli Stati Uniti prima di tutto - che visto da Mosca era impegnato a perseguire nella vecchia politica dell’accerchiamento. Soluzione militare, dunque, così come con le armi era stata bloccata (fino a quando?) la lotta per l’indipendenza della Cecenia. Un colpo alla Georgia, dunque, per colpire a morte Saakashvili, in difficoltà all’interno, ma anche per indirizzare un monito agli ucraini, ai moldavi e a quanti, nell’Asia centrale, si muovono verso gli Stati Uniti: «Fate attenzione perché non permetteremo a nessuno di mettere in discussione impunemente la nostra sicurezza». La Georgia non è però la Cecenia. E non solo perché è uno Stato sovrano e perché vi transita un gasdotto che arriva nell’Europa occidentale senza passare per la Russia. Ma ancora e soprattutto perché è considerata dagli Stati Uniti un avamposto strategico e con Saakashvili ha chiesto l’ingresso nell’Europa e nella Nato.

Irrealistico dunque il tentativo francese di trovare una soluzione al conflitto? Forse no. Forse una soluzione potrebbe essere trovata puntando, come sembra fare Sarkozy, su una soluzione che da una parte garantisca, come vogliono gli Stati Uniti, la formale unità territoriale della Georgia (magari puntando decisamente verso forme di autonomia per l’Ossetia e il l’Abkazia così da non rendere troppo traumatico nel futuro il ricorso all’autodeterminazione da parte delle popolazioni delle due regioni) e dall’altra fornisca a Mosca garanzie precise per quel che riguarda la questione della sicurezza. Come? Ad esempio assicurando Mosca che la questione dell’ingresso della Georgia nelle strutture europee e nella Nato non è all’ordine del giorno. Come del resto l’Europa ha già detto, sia pure sottovoce.

È già in grado Sarkozy di fornire assicurazioni di questo tipo negli incontri che avrà domani a Mosca? Difficile dirlo. In ogni caso una richiesta in tal senso potrebbe essere forse un buon motivo per una telefonata a Parigi da parte del ministro degli Esteri italiano. E anche, naturalmente, da parte del ministro del governo ombra.

Pubblicato il: 12.08.08
Modificato il: 12.08.08 alle ore 8.30   
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« Risposta #7 inserito:: Agosto 21, 2008, 06:29:03 pm »

Nato-Russia tutti i Ma

Adriano Guerra


A Bruxelles i ministri degli Esteri della Nato avevano di fronte due problemi. Quello - eliminando indugi e aree di silenzio su quel che è mutato in peggio con Putin nella Russia - di dare a Mosca una risposta forte così da renderle impossibile di continuare a trattenere nelle proprie mani quello spazio di territorio georgiano che la provocazione militare di Saakashvili e il bluff della garanzia americana sulla salvaguardia dell'integrità territoriale della Georgia, avevano creato.

«Mai più", è stato detto a Bruxelles riconoscendo così che la conquista di Gori e di altre località georgiane da parte della Russia non è stata soltanto una "risposta esagerata" ma una vera e propria aggressione militare nei confronti di un paese sovrano. E di un paese per giunta unito agli Stati uniti e all'Occidente da stretti vincoli politici e militari.

La Russia è stata dunque avvertita quel che è avvenuto con una "vittoria militare", conseguita con la violenza e l'arroganza come tutti abbiamo visto alla televisione, è stato solo un ulteriore rafforzamento dei legami dei suoi vicini con l'Occidente.

Questo il primo problema affrontato a Bruxelles e sembra che Mosca, seppure a malincuore e cercando di salvare la faccia con parole e gesti ostili (il "no" all'intervento dell'Onu, le roboanti dichiarazioni dei suoi militari sulla strada fra Gori e Tbilisi e quelle altrettanto finto-perentorie dei suoi uomini politici) abbia incominciato a imparare la lezione: il ritiro delle sue truppe è incominciato e così lo scambio dei prigionieri e il "via libera" ai convogli umanitari mentre i primi uomini dell'Osce dovrebbero arrivare ai confini russo-georgiani nelle prossime ore.

C'era da affrontare, dicevamo, un secondo problema: quello di mantenere aperta la porta alla Russia e al dialogo con Mosca che era stato avviato sui "sei punti" del progetto presentato a nome dell'Europa da Sarkozy. Si trattava cioè di bloccare i tentativi americani di punire la Russia accelerando al massimo i tempi dell'ingresso della Georgia nella Nato e, più in generale, portando rapidamente avanti la linea dell'accerchiamento della Russia stessa, dalla Polonia all'Ucraina all'area del Caucaso. E a Bruxelles si trattava di conseguire questi risultati non già allentando ma rafforzando i legami dell'Europa con Washington, così da aiutare gli Stati uniti a uscire dalla situazione pericolosa e insostenibile nella quale erano stati cacciati dall'irresponsabile iniziativa di Saakashvili che Bush non aveva avuto la forza di condannare.

A Bruxelles anche a questo problema è stata data una prima, parziale ma importante soluzione rifiutando la proposta americana di sospendere il Consiglio Nato- Russia che era stato istituito a Pratica di mare nel maggio 2002 e, per quel che riguarda la questione dell'ingresso della Georgia nella Nato, guadagnando tempo e cioè dando vita ad una commissione incaricata di studiare le modalità per avviare le procedure per l'accoglimento della candidatura. Se a questi indubbi, seppur limitati, risultati si è giunti nello stesso momento in cui segnali negativi giungevano dall'Onu, dalla Polonia e dall' Ucraina (ove gli Stati uniti insistono per dar vita al più presto a quello scudo spaziale che, progettato in funzione antiraniana, ha ormai un carattere essenzialmente antirusso) è certo per merito anzitutto dell'Europa. E cioè proprio di quell'Europa che per cento ragioni - per le divisioni interne, perché non dispone di una propria forza militare da mettere in campo, per l'insufficenza dei consensi popolari che ha saputo sin qui conquistare, perchè dipendente dalla Russia per le forniture di gas e di petrolio ecc. ecc - è sicuramente debole come tutti ripetiamo di continuo. Ma che di fronte alla guerra georgiana ha saputo assumere un ruolo attivo di mediazione, rifiutando di innalzare sia la bandiera bianca di fronte alla Russia sia quella della crociata antirussa innalzata un po' dappertutto da molti filoamericani di complemento. Ad esempio da Angelo Panebianco secondo il quale l'Europa, ricca solo di "profeti disarmati", avrebbe dovuto limitarsi a seguire in silenzio, "senza se e senza ma" gli Stati uniti. Era un cattivo suggerimento che l'Europa, e con essa, come si è visto, anche gli Stati uniti (che, fortunatamente per il mondo, non guardano alla politica con gli occhi dell'editorialista del Corsera) non ha seguito. Fortunatamente, ripetiamo. Perché "senza se e senza ma" - è stato detto quando la formulazione campeggiava da noi in vari striscioni della sinistra di opposizione e persino del sindacato - non si fa infatti analisi, non si fa politica.

Grazie insomma anche ai "profeti disarmati" di Macchiavelli evocati da Panebianco, nel momento in cui con estrema leggerezza un poco in tutto il mondo si diceva che la "nuova guerra fredda è incominciata" per cui non resterebbe altro da fare che raggiungere il campo di battaglia, uno spiraglio di pace rimane aperto.

Le difficoltà sono però ancora molte e sono state certamente accresciute dalla guerra georgiana. Si pensi all'appello che proprio ieri i dirigenti della regione secessionista dell'Abkhasia hanno rivolto a Mosca per chiedere il definitivo distacco della loro terra dalla Georgia; alla crisi che si è aperta, o riaperta, non solo fra la Russia e l'Ucraina per la Crimea e per il contenzioso sulla flotta russa di stanza a Sebastopoli, ma all'interno della stessa Ucraina fra le forze del Presidente e quelle del governo.

Col crollo dell'Urss una serie di confini che negli anni sovietici erano stati tracciati a dir poco con leggerezza, e cioè senza tener conto delle tante e diverse realtà etniche, politiche, culturali (per cui l'Ossetia era stata divisa in due; il Nagorno Karabah, un'"isola" armena, era stata inserita nel territorio azero; la Crimea, abitata in maggioranza da russi, era stata attribuita per meriti speciali, come si trattasse di un'onorificenza, all'Ucraina, ecc) sono inevitabilmente esplosi. E' nata così una situazione che rende difficile, e, si potrebbe dire ,talvolta persino assurdo - se non ci fosse il problema di impedire, creando precedenti, che si venga a formare una sorta di pericoloso e destabilizzante effetto domino - il mantenimento puro e semplice dello status quo. I pericoli sono resi poi più gravi dalla presenza di una Russia che non solo è tornata ad essere una grande potenza, ma che, sempre più autoritaria all'interno, continua a non riconoscere ai paesi dell'ex Urss coi quali confina, i diritti più elementari che spettano ad ogni Stato indipendente, quelli in particolare di definire liberamente il quadro della collocazione internazionale e del sistema di alleanza a cui far capo. Rimane da dire però che a questa pericolosa situazione si è giunti anche perché in Occidente è prevalsa quella linea dell'allargamento ad Est della Nato e della costruzione ai confini della Russia dello scudo spaziale americano, che l'Europa - ecco dove sta la sua debolezza - ha fatto propria e che ancora, forse puntando sul "cambio della guardia" alla Casa Bianca non sembra decisa a contestare concretamente. Anche se adesso da più parti si incomincia ad avanzare qualche "se" e qualche "ma".

Pubblicato il: 21.08.08
Modificato il: 21.08.08 alle ore 9.08   
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 11, 2008, 09:16:17 am »

I muscoli della Russia, il dialogo dell’Europa

Adriano Guerra


Ci si può chiedere se quello do lunedì fra Medvedev e Sarkozy non sia stato un classico “dialogo fra sordi”. Come si può infatti parlare di “accordo raggiunto” nel momento in cui Mosca, dopo aver accettato un accordo sul ritiro delle proprie truppe dai territori georgiani e sulla loro sostituzione con i 200 uomini della Ue che si andranno ad aggiungersi a quelli dell’Osce, ha reso noto di schierare a sua volta 7.6O0 uomini dell’Ossezia del Sud e nell’Abkazia? E mentre incidenti più o meno gravi continuano a verificarsi ai confini tra la Georgia e la Russia, e nel mar Nero e nelle acque atlantiche di fronte al Venezuela navi qua russe e là americane incrociano per svolgervi manovre come sempre - si dice - da tempo in programma?

Di tutta evidenza sarebbe assurdo nascondere la gravità della crisi che si è aperta nel momento in cui il presidente Saakashvili ha tentato di risolvere a favore della Georgia il problema della collocazione dei due territori contesi provocando da parte di Mosca una reazione che l’Occidente ha subito definito “esagerata”. Qualche volta, come si sa, a far scoppiare le guerre oltreché il “primo” è anche il “secondo colpo”: quello cioè, nel caso concreto, della Russia che, utilizzando la possibilità offertale dall’iniziativa georgiana, ha deciso di giocare la stessa carta di Saakashvili, e cioè di risolvere a proprio favore la questione schierando sul campo le proprie forze armate.

I pericoli dunque permangono e sono gravi. Non si può tuttavia dimenticare che nonostante la sua fragilità e l’esistenza di interpretazioni diverse fra le parti che ne rendono difficile l’attuazione, l’iniziativa messa in campo dall’Europa con Sarkozy, ha permesso di giungere a risultati che non vanno sottovalutati. Non solo si è giunti al “cessate il fuoco” ma al parziale ritiro delle truppe russe dai territori georgiani non facenti parte dell’Ossetia del Sud e dall’Abkazia. E ancora alla dichiarazione formale da parte del governo di Tbilisi che la Georgia non farà nel futuro uso delle armi per riprendere i due territori. E stata poi aperta la strada per la conferenza di pace che dovrebbe individuare una soluzione per il problema dei rapporti fra la Russia e la Georgia. È stata anche indicata la data nella quale la conferenza stessa dovrebbe svolgersi, e la sede della stessa.

Certo al punto a cui si è giunti il raggiungimento di un accordo a breve termine può apparire del tutto improbabile. Quello fra l’Occidente che continua a sostenere il principio dell’intangibilità delle frontiere e Mosca che continua a ribadire che mai e poi mai le due Repubbliche da essa sostenute torneranno nelle mani di Tbilisi, rimane, almeno all’apparenza, un dialogo fra sordi. Forse è poi inevitabile che la Georgia paghi duramente a breve termine il fatto di non aver creato le condizioni - trasformandosi ad esempio in Stato federale o confederale così da assegnare ai due territori la più ampia autonomia - per un accordo con le popolazioni ossetine e abkase. Solo in queste ore d’altro canto a Tbilisi l’opposizione incomincia a far sentire la sua voce chiedendo le dimissioni di Saakashvili. Quanto alla Russia quel che la può spingere, sia pure alternando alle parole di pace quelle delle minacce, a imboccare la via di una soluzione negoziata, è la realtà di una vittoria sul campo che è tale solo in apparenza. Sul piano internazionale il tentativo di mettere in campo un sistema di alleanze è infatti fallito. Le due Repubbliche riconosciute da Mosca non hanno ottenuto il riconoscimento non soltanto della Cina ma da nessuno dei Paesi confinanti appartenenti all’ex Unione sovietica. Si aggiunga che la situazione economica della Russia si è aggravata al punto tale da rendere se non improponibili almeno difficili quelle prove di forza - nei confronti dell’Ucraina o della Moldavia - delle quali tanto si parla.

D’altro canto la Russia sa che non è certo continuando sulla strada intrapresa che può bloccare il cammino verso l’Occidente e la Nato della Georgia e degli altri Paesi confinanti. Quel che sta avvenendo conferma insomma che la linea che l’Europa ha assunto, bloccando spinte americane contrarie al dialogo ma nel contempo ponendo fine ad un atteggiamento troppo remissivo nei confronti delle velleità imperiali e dell’involuzione politica di Mosca, non ha alternative.

Pubblicato il: 10.09.08
Modificato il: 10.09.08 alle ore 9.56   
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