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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 317612 volte)
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« Risposta #675 inserito:: Luglio 09, 2017, 09:59:37 am »

Scalfari intervista Francesco: "Il mio grido al G20 sui migranti"
Colloquio con il Papa a Santa Marta: "Temo il pericolo di alleanze pericolose tra Potenze.
Noi, lei lo sa bene, abbiamo come problema principale e purtroppo crescente nel mondo d'oggi, quello dei poveri, dei deboli, degli esclusi"

Di EUGENIO SCALFARI
08 luglio 2017

GIOVEDÌ scorso, cioè l'altro ieri, ho ricevuto una telefonata da Papa Francesco. Era circa mezzogiorno e io ero al giornale, quando è squillato il mio telefono e una voce mi ha salutato: era di sua Santità. L'ho riconosciuta subito e ho risposto: Papa Francesco, mi fa felice sentirla. "Volevo notizie sulla sua salute. Sta bene? Si sente bene? Mi hanno detto che qualche settimana fa lei non ha scritto il suo articolo domenicale, ma poi vedo che ha ripreso".

Santità, ho tredici anni più di lei. "Sì, questo lo so. Deve bere due litri d'acqua al giorno e mangiare cibo salato". Sì lo faccio. Sono seguiti altri suoi consigli ma io l'ho interrotto dicendo: è un po' che non ci parliamo, vorrei venire a salutarla, vado in vacanza tra pochi giorni ed è parecchio che non ci vediamo. "Ha ragione, lo desidero anche io. Potrebbe venire oggi? Alle quattro?". Ci sarò senz'altro.

Mi sono precipitato a casa e alle tre e tre quarti ero nel piccolo salotto di Santa Marta. Il Papa è arrivato un minuto dopo. Ci siamo abbracciati e poi, seduti uno di fronte all'altro, abbiamo cominciato a scambiare idee, sentimenti, analisi di quanto avviene nella Chiesa e poi, nel mondo.

Il Papa viaggia incessantemente: a Roma, in Italia, nel mondo. Il tema principale della nostra conversazione è il Dio unico, il Creatore unico del nostro pianeta e dell'intero Universo. Questa è la tesi di fondo del suo pontificato, che comporta una serie infinita di conseguenze, le principali delle quali sono l'affratellamento di tutte le religioni e di quelle cristiane in particolare, l'amore verso i poveri, i deboli, gli esclusi, gli ammalati, la pace e la giustizia.

Il Papa naturalmente sa che io sono non credente, ma sa anche che apprezzo moltissimo la predicazione di Gesù di Nazareth che considero un uomo e non un Dio. Proprio su questo punto è nata la nostra amicizia. Il Papa del resto sa che Gesù si è incarnato realmente, è diventato un uomo fino a quando fu crocifisso. La " Resurrectio" è infatti la prova che un Dio diventato uomo solo dopo la sua morte ridiventa Dio.

Queste cose ce le siamo dette molte volte ed è il motivo che ha reso così perfetta e insolita l'amicizia tra il Capo della Chiesa e un non credente.

Papa Francesco mi ha detto di essere molto preoccupato per il vertice del "G20". "Temo che ci siano alleanze assai pericolose tra potenze che hanno una visione distorta del mondo: America e Russia, Cina e Corea del Nord, Putin e Assad nella guerra di Siria".

Qual è il pericolo di queste alleanze, Santità?

"Il pericolo riguarda l'immigrazione. Noi, lei lo sa bene, abbiamo come problema principale e purtroppo crescente nel mondo d'oggi, quello dei poveri, dei deboli, degli esclusi, dei quali gli emigranti fanno parte. D'altra parte ci sono Paesi dove la maggioranza dei poveri non proviene dalle correnti migratorie ma dalle calamità sociali; altri invece hanno pochi poveri locali ma temono l'invasione dei migranti. Ecco perché il G20 mi preoccupa: colpisce soprattutto gli immigrati di Paesi di mezzo mondo e li colpisce ancora di più col passare del tempo".

Lei pensa, Santità, che nella società globale come quella in cui viviamo la mobilità dei popoli sia in aumento, poveri o non poveri che siano?

"Non si faccia illusioni: i popoli poveri hanno come attrattiva i continenti e i Paesi di antica ricchezza. Soprattutto l'Europa. Il colonialismo partì dall'Europa. Ci furono aspetti positivi nel colonialismo, ma anche negativi. Comunque l'Europa diventò più ricca, la più ricca del mondo intero. Questo sarà dunque l'obiettivo principale dei popoli migratori".

Anch'io ho pensato più volte a questo problema e sono arrivato alla conclusione che, non soltanto ma anche per questa ragione, l'Europa deve assumere al più presto una struttura federale. Le leggi e i comportamenti politici che ne derivano sono decisi dal governo federale e dal Parlamento federale, non dai singoli Paesi confederati. Lei del resto questo tema l'ha più volte sollevato, perfino quando ha parlato al Parlamento europeo.

"È vero, l'ho più volte sollevato". E ha ricevuto molti applausi e addirittura ovazioni. "Sì, è così, ma purtroppo significa ben poco. I Paesi si muoveranno se si renderanno conto di una verità: o l'Europa diventa una comunità federale o non conterà più nulla nel mondo. Ma ora voglio farle una domanda: quali sono pregi e difetti dei giornalisti?".

Lei, Santità, dovrebbe saperlo meglio di me perché è un assiduo oggetto dei loro articoli.

"Sì, ma mi interessa saperlo da lei".

Ebbene, lasciamo da parte i pregi, ma ci sono anche quelli e talvolta molto rilevanti. I difetti: raccontare un fatto non sapendo fino a quale punto sia vero oppure no; calunniare; interpretare la verità facendo valere le proprie idee. E addirittura fare proprie le idee di una persona più saggia e più esperta attribuendole a se stesso. "Quest'ultima cosa non l'avevo mai notata. Che il giornalista abbia le proprie idee e le applichi alla realtà non è un difetto, ma che si attribuisca idee altrui per ottenere maggior prestigio, questo è certamente un difetto grave".

Santità, se me lo consente ora vorrei io porle due domande. Le ho già prospettate un paio di volte nei miei recenti articoli, ma non so come Lei la pensa in proposito. "Ho capito, lei parla di Spinoza e di Pascal. Vuole riproporre questi suoi due temi?".

Grazie, comincio dall'Etica di Spinoza. Lei sa che di nascita era ebreo, ma non praticava quella religione. Arrivò nei Paesi Bassi provenendo dalla sinagoga di Lisbona. Ma in pochi mesi, avendo pubblicato alcuni saggi, la sinagoga di Amsterdam emise un durissimo editto nei suoi confronti. La Chiesa cattolica per qualche mese cercò di attirarlo nella sua fede. Lui non rispondeva e aveva disposto che i suoi libri fossero pubblicati soltanto dopo la sua morte. Nel frattempo però alcuni suoi amici ricevevano copie dei libri che andava scrivendo. L'Etica in particolare, arrivò a conoscenza della Chiesa la quale immediatamente lo scomunicò. Il motivo è noto: Spinoza sosteneva che Dio è in tutte le creature viventi: vegetali, animali, umani. Una scintilla di divino è dovunque. Dunque Dio è immanente, non trascendente. Per questo fu scomunicato.

"E a lei non sembra giusto. Perché? Il nostro Dio unico è trascendente. Anche noi diciamo che una scintilla divina è dovunque, ma resta immune la trascendenza, ecco il perché della scomunica che gli fu impartita". E a me sembra, se ben ricordo anch'io, su sollecitazione dell'Ordine dei Gesuiti. "All'epoca di cui parliamo i Gesuiti erano stati espulsi dalla Chiesa, poi furono riammessi. Comunque, lei non mi ha detto perché quella scomunica dovrebbe essere revocata".

La ragione è questa: Lei mi ha detto in un nostro precedente colloquio che tra qualche millennio la nostra specie si estinguerà. In quel caso le anime che ora godono della beatitudine di contemplare Dio ma restano distinte da Lui, si fonderanno con Lui. A questo punto la distanza tra trascendente e immanente non esisterà più. E quindi, prevedendo questo evento, la scomunica si può già da ora dichiarare esaurita. Non le sembra, Santità?

"Diciamo che c'è una logica in ciò che lei propone, ma la motivazione poggia su una mia ipotesi che non ha alcuna certezza e che la nostra teologia non prevede affatto. La scomparsa della nostra specie è una pura ipotesi e quindi non può motivare una scomunica emessa per censurare l'immanenza e confermare la trascendenza".

Se Lei lo facesse, Santità, avrebbe contro di sé la maggioranza della Chiesa?

"Credo di sì, ma se solo di questo si trattasse ed io fossi certo di ciò che dico su questo tema, non avrei dubbi, invece non sono affatto certo e quindi non affronterò una battaglia dubitabile nelle motivazioni e persa in partenza. Adesso, se vuole, parliamo della seconda questione che lei desidera pormi".

Porta il nome di Pascal. Dopo una gioventù alquanto libertina, Pascal fu come improvvisamente invaso dalla fede religiosa. Era già molto colto, aveva letto ripetutamente Montaigne e anche Spinoza, Giansenio, le memorie del cardinale Carlo Borromeo. Insomma, una cultura laica e anche religiosa. La fede a un certo punto lo colpì in pieno. Aderì alla Comunità di Port-Royal des Champs, ma poi se ne distaccò. Scrisse alcune opere tra le quali i "Pensieri", un libro a mio avviso splendido e religiosamente di grande interesse. Ma poi c'è la sua morte. Era praticamente moribondo e la sorella l'aveva fatto portare nella propria casa per poterlo assistere. Lui voleva morire nell'ospedale dei poveri, ma il suo medico negò il permesso, gli restavano pochi giorni di vita e il trasporto non era fattibile. Chiese allora che un povero tratto da un ospedale che gestiva i poveri pessimamente, anche in fin di vita, fosse trasportato nella casa dove stava e con un letto come quello che aveva lui. La sorella cercò di accontentarlo ma la morte arrivò prima. Personalmente penso che uno come Pascal andrebbe beatificato.

"Lei, caro amico, ha in questo caso perfettamente ragione: anch'io penso che meriti la beatificazione. Mi riserbo di far istruire la pratica necessaria e chiedere il parere dei componenti degli organi vaticani preposti a tali questioni, insieme ad un mio personale e positivo convincimento". Santità ha mai pensato di mettere per iscritto un'immagine della Chiesa sinodale? "No perché dovrei?". Perché ne verrebbe un risultato abbastanza sconvolgente, vuole che glielo dica? "Ma certo mi fa piacere anzi lo disegni". Il Papa fa portare carta e penna e io disegno. Faccio una riga orizzontale e dico questi sono tutti i vescovi che Lei raccoglie al Sinodo, hanno tutti un titolo eguale e una funzione eguale che è quella di curare le anime affidate alla loro Diocesi. Traccio questa linea orizzontale poi dico: ma Lei, Santità, è vescovo di Roma e come tale ha la primazia nel Sinodo perché spetta a Lei trarne le conclusioni e delineare la linea generale del vescovato. Quindi il vescovo di Roma sta sopra la linea orizzontale, c'è una linea verticale che sale fino al suo nome e alla sua carica. D'altra parte i presuli che stanno sulla linea orizzontale amministrano, educano, aiutano il popolo dei fedeli e quindi c'è una linea che dall'orizzontale scende fino a quello che rappresenta il popolo. Vede la grafica? Rappresenta una Croce.

"È bellissima questa idea, a me non era mai venuto di fare un disegno della Chiesa sinodale, lei l'ha fatto, mi piace moltissimo".

Si è fatto tardi. Francesco ha portato con sé due libri che raccontano la sua storia in Argentina fino al Conclave e contengono anche i suoi scritti che sono moltissimi, un volume di centinaia di pagine. Ci abbracciamo nuovamente. I libri pesano e li vuole portare lui. Arriviamo con l'ascensore al portone di Santa Marta, presidiato dalle guardie svizzere e dai suoi più stretti collaboratori.

La mia automobile è davanti al portico. Il mio autista scende per salutare il Papa (si stringono la mano) e cerca d'aiutarmi a entrare in automobile. Il Papa lo invita a rimettersi alla guida e ad accendere il motore. "L'aiuto io" dice Francesco. E accade una cosa che secondo me non è mai accaduta: il Papa mi sostiene e mi aiuta a entrare in macchina tenendo lo sportello aperto. Quando sono dentro mi domanda se mi sono messo comodo. Rispondo di sì, lui chiude la portiera e fa un passo indietro aspettando che la macchina parta, salutandomi fino all'ultimo agitando il braccio e la mano mentre io - lo confesso - ho il viso bagnato di lacrime di commozione.

Ho scritto spesso che Francesco è un rivoluzionario. Pensa di beatificare Pascal, pensa ai poveri e agli immigrati, auspica un'Europa federata e - ultimo ma non ultimo - mi mette in macchina con le sue braccia.

Un Papa come questo non l'abbiamo mai avuto.



© Riproduzione riservata 08 luglio 2017

Da - http://www.repubblica.it/vaticano/2017/07/08/news/scalfari_intervista_francesco_il_mio_grido_al_g20_sui_migranti_-170253225/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1
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« Risposta #676 inserito:: Luglio 29, 2017, 12:03:23 pm »

Eugenio Scalfari

Vetro soffiato
Atei militanti ecco perché sbagliate
Un conto è non rispecchiarsi in alcuna religione rivelata. Altro è credere, in modo assoluto e intollerante, nel grande nulla

Gli atei. Non so se è stata mai fatta un’indagine nazionale o internazionale sul loro numero attuale, ma penso che non siano molti. I semi-atei sono certamente molti di più, ma non possono definirsi tali. L’ateo è una persona che non crede in nessuna divinità, nessun creatore, nessuna potenza spirituale. Dopo la morte, per l’ateo, non c’è che il nulla. Da questo punto di vista sono assolutisti, in un certo senso si potrebbero definire clericali perché la loro verità la proclamano assoluta.

Anche quelli che credono in una divinità (cioè l’esatto contrario degli atei) ritengono la loro fede una verità assoluta, ma sono infinitamente più cauti degli atei. Naturalmente ogni religione cui appartengono è molto differente dalle altre, ma su un punto convergono tutte: il loro Dio proclama una verità assoluta che nessuno può mettere in discussione. Nel caso della nostra storia millenaria il mondo è stato spesso insanguinato da guerre di religione. Quasi sempre dietro il motivo religioso c’erano anche altri e più corposi interessi, politici, economici e sociali, ma la motivazione religiosa era comunque la bandiera di quelle guerre, che furono molte e insanguinarono il mondo.

Gli atei - l’ho già detto - non sanno di essere poco tolleranti, ma il loro atteggiamento nei confronti delle società religiose è rigorosamente combattivo. La vera motivazione, spesso inconsapevole, è nel fatto che il loro Io reclama odio e guerre intellettuali contro religioni di qualunque specie. Il loro ateismo proclamato vuole soddisfazione, perciò non lo predicano con elegante pacatezza ma lo mettono in discussione partendo all’attacco contro chi crede in un qualunque aldilà, lo insultano, lo vilipendono, lo combattono intellettualmente. È il loro Io che li guida e che pretende soddisfazione, vita natural durante, non avendo alcuna speranzosa ipotesi di un aldilà dove la vita proseguirebbe, sia pure in forme diverse.

Con questo non voglio affatto dire che l’ateo sia una persona da disprezzare, da isolare e tanto meno da punire. Spesso i suoi modi sono provocatori, rissosi e calunniosi, ma questo non giustifica reazioni dello stesso genere. Certo non ispirano simpatia, ma questa è una reazione intellettuale di fronte alla prepotenza del loro Io.

Infine c’è una terza posizione, anch’essa minoritaria come gli atei, ma profondamente diversa: i non credenti. Non credono a una divinità trascendente, per quanto riguarda l’aldilà suppongono l’esistenza di un Essere e qui si entra in un’ipotesi affascinante che può assumere le forme più diverse. Per alcuni l’Essere è la forma iniziale dell’Esistere, per altri è l’Esistere che dorme, in perenne gestazione; per altri ancora è il caos primigenio, al quale l’energia delle forme torna dopo la morte d’una forma qualsiasi e dal quale forme nuove sorgono continuamente, con loro leggi e loro vitalità energetica. La vita e l’aldilà, da questo punto di vista, sono in continuo avvicendamento del quale noi umani ignoriamo i meccanismi creativi, ma che tuttavia sono in continua e autonoma attività.

L’Essere e il Divenire. Ci furono nell’antica Ellade, due filosofi che in un certo senso sono i predecessori di questo modo di pensare: Parmenide ed Eraclito. Non furono i soli, ma certamente i più classici e i più completi, ciascuno dal suo punto di vista.

Parmenide definì l’Essere come una realtà vitale ma stabile, non modificabile, il letto della vita che l’Essere contiene ma che non assume alcuna vitalità. Eraclito non ignora l’Essere, ma ipotizza che esso alimenti il Divenire. Si potrebbe dire che la vita dorme nell’Essere e si sveglia nel Divenire.
Ammetto qui la mia incompleta informazione culturale: più o meno i due filosofi appartengono alla stessa epoca e alla stessa terra, ma non credo che le date delle loro vite coincidano e tanto meno se abbiano avuto conoscenza l’uno dell’altro.

Il più vicino al mio modo di sentire è Eraclito. I suoi “detti” sono lucidi e splendidi così come ci sono stati tramandati. Parlo in particolare di quello che dice: «Ciascuno può mettere una sola volta nella sua vita i piedi nell’acqua del fiume». Quella frase quando la lessi ed ero molto giovane non la capii subito; ma poco dopo ne compresi il senso profondo: l’acqua del fiume scorre e quindi varia di continuo; tu ci metti il piede e quell’acqua non la ritrovi più perché scorre e cambia continuamente. L’acqua è una forma dell’Essere, ma il suo scorrere è la forma del Divenire.

Così è la nostra vita, i nostri pensieri, i nostri bisogni, i nostri desideri e la carezza della morte, che uccide una singola forma ma non la sua indistruttibile energia.

Questi sono, ciascuno a suo modo, i non credenti. Non credono in un aldilà dominato da una divinità trascendente delle religioni e non credono al nulla nichilista e prepotente degli atei, il cui Io è sostanzialmente elementare; anche se dotato di cultura e di voglia d’affermarsi. In realtà è un Io che non pensa. Un Io che non pensa e non si vede operare e non si giudica. Così è un Io di stampo animalesco. Mi spiace che gli atei ricordino lo scimpanzé dal quale la nostra specie proviene.

23 luglio 2017© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2017/07/19/news/atei-militanti-perche-sbagliate-1.306444?ref=RHRR-BE
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« Risposta #677 inserito:: Agosto 03, 2017, 05:32:39 pm »

Macron ha in mano l'Europa. E Renzi come risponde?
Il segretario Pd deve superare i vecchi contrasti e formare una squadra di prima scelta. Tre nomi sono indispensabili: Prodi, Letta e Veltroni

Di EUGENIO SCALFARI
30 luglio 2017

OGNI giorno che passa aumentano le discussioni su Macron. Più che su Trump, più che su Putin e su Erdogan. E non parliamo di Angela Merkel e tanto meno di Renzi. Chi è Renzi? Il signor Nessuno. È Macron che detta legge. Piace e dispiace, non solo sui punti di vista ma perfino secondo i giorni e soprattutto i suoi punti di vista si alternano sui giornali e nei talk show televisivi. Ma perché? Vi ricordate De Gaulle? Era un ufficiale francese di scarso peso durante l'ultima guerra mondiale. Dopo la sconfitta di Dunkerque riparò in Inghilterra dove nessuno si occupò di lui, salvo qualche pari grado inglese. Poi ritornò in Francia. Guidava una divisione francese ed ottenne di rientrare a Parigi per primo: questione di effetto pubblicitario. Ma da allora crebbe in Europa di giorno in giorno e il gollismo diventò addirittura un partito che ispirò la storia di Francia e d'Europa anche dopo la sua morte. Macron è un gollista? Per certi versi no, ma per altri sì. Dopo dirò quella che può sembrare una bestemmia storica: il gollismo risale alla politica di Richelieu, di Mazzarino e del Re Sole, Luigi XIV. E Macron fa parte di quella tradizione che ha mezzo millennio di storia. Cerchiamo di capir bene: la Francia è la Francia e da mezzo millennio vuole identificarsi con l'Europa. Col mondo no, con l'Europa sì. Perciò stiamo molto attenti al nuovo presidente francese.

Il problema attuale è l'Africa, anche per la Francia che ha sempre controllato la costiera mediterranea africana, da Tobruk a Ceuta. Naturalmente la costiera africana riguarda anche l'Italia e questo profila lo scontro in atto: Macron vuole trattenere i migranti nell'Africa dalla quale fuggono e cerca di mettere insieme Tripoli e Bengasi per un accordo negoziato a Parigi. L'Italia di Gentiloni e di Minniti vuole invece che l'Africa cresca in popolazione e in investimenti italiani, europei, americani, che rinsanguino i migranti fuggitivi, offrano loro lavoro e reddito determinando un movimento inverso rispetto a quello francese: non sono i rifugiati ad essere di nuovo chiusi nei paesi d'origine, ma piuttosto tecnici, capitalisti privati e pubblici internazionali a trasferirsi in Africa per pilotarne lo sviluppo economico e sociale.

Qui si confrontano due governi: Francia e Italia, Macron e Gentiloni-Minniti. Al di là delle apparenze, delle strette di mano e dei reciproci ringraziamenti, la realtà è questa. Qui cade opportuna la domanda: qual è la presenza di Renzi in questa vicenda? È assente o presente? E la sua presenza è concreta oppure soltanto figurativa, una sorta di "Paese dei campanelli" che serve soltanto a far diventare cantati i talk show dei vari Mentana, Gruber e chiunque altro?

***

Ho parlato recentemente con Renzi, non del tema libico-africano che era solo nello sfondo, ma dell'Italia e dell'Europa, o meglio di Renzi e dell'Europa nelle sue varie posture economiche, sociali, politiche. Ecco che cosa ne ho ricavato, detto in parole povere: Renzi sente Macron come l'avversario. Non è soltanto una valutazione politica, ma personale: Macron occupa la scena molto più di Renzi e questo per Matteo è intollerabile. Ecco perché ha deciso di aspettare la fine della legislatura prima di affrontare la competizione elettorale e tornare alla presidenza del Consiglio: deve avere una vasta forza politica per affrontare il rivale francese e deve essere una forza non solo vasta, ma coesa e qualificata, della quale lui sia la guida riconosciuta. Di centro-sinistra. Attenzione: prima viene la parola centro e poi sinistra. Se si scrive col trattino tra le due parole, quel "centro" acquista maggior peso; senza trattino è una compagine unificante che non dovrebbe consentire una sinistra dissidente, ma una classe dirigente unica, che esamina i progetti, ne discute liberamente, ma alla fine trova una soluzione condivisa e agisce di conseguenza.

Ho più volte richiamato da questo punto di vista l'esperienza del Partito comunista italiano ai tempi degli anni Cinquanta dello scorso secolo, fino agli anni Ottanta. Il comitato centrale, insediato dal Congresso nazionale, era il gruppo storico che governava il partito. Spesso, anzi quasi sempre, le discussioni e le analisi erano diverse e contrastanti: Ingrao non la pensava mai come Amendola, Longo aveva un'altra visione rispetto a Berlinguer, Napolitano rispetto a Reichlin e così via; ma alla fine il gruppo dirigente trovava la soluzione e il partito si muoveva compatto, riunito da due elementi: l'ideologia marxista e la classe operaia.

L'attuale classe dirigente del Pd, che ha credibilità, si compone di cattolici democratici e di sinistra marxiana, uniti insieme; non può dar vita ad una sinistra-sinistra ostile al partito e a sua volta frazionata in una decina di gruppetti che nel loro insieme non pervengono neppure al 10 per cento. Questa situazione va superata ed è a Renzi che spetta di imporlo. Deve avere una squadra di primaria scelta alla quale deve dimostrarsi sostanzialmente obbligato, superando vecchi ed aspri contrasti dei quali deve assumersi la responsabilità e il vivo desiderio di superarli. Se non si comporterà in questo modo il partito pronto alle nuove e assai difficili incombenze nazionali ed europee non ci sarà e se raggiungerà un 25 per cento, con numerosi contrasti interni, diventerà ancor più friabile. In quel caso si profilano alleanze spurie con la destra berlusconiana e il relativo fallimento di un Capo che guarda solo se stesso. Per far questo bisogna avere alle spalle mezzo millennio di storia politica nazionale. Noi non ce l'abbiamo. Quella culturale sì, anche più antica, ma non politica. Macron ha l'una e l'altra a sua disposizione e per questo è imbattibile.

La classe politica che Renzi deve mobilitare l'ho indicata con alcuni scenari già due o tre volte indicati in precedenti miei interventi, perciò li condenso in tre nomi, uno più difficile dell'altro ma egualmente indispensabili: Enrico Letta, Romano Prodi, Walter Veltroni. A fianco a questi ce n'è una trentina d'altri nomi, a cominciare da Gentiloni e da gran parte del suo governo, Minniti in testa.

Una squadra così, se Renzi la mobilita non per amor suo ma per costruire una politica riformatrice e attuarla, sarà un risultato determinante per l'Italia e per l'Europa. Diversamente torneremo a Enrico IV, Re di Francia e di Navarra e a suo nipote, il Re Sole,
di cui saremo una pedina nello scacchiere dominato dai cavalli, dalle torri, dagli alfieri con il Re e la Regina. Partita chiusa, caro Matteo; una partita così è perduta in partenza. Viene in mente il film Borsalino: anche in quel caso sembrava vinta e invece fu decisamente perduta.

DA - http://www.repubblica.it/politica/2017/07/30/news/macron_ha_in_mano_l_europa_e_renzi_come_risponde_-171949622/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1
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« Risposta #678 inserito:: Agosto 27, 2017, 09:01:53 pm »

Dall'Europa a Trump, confusi e divisi contro il Califfato
Distrutti i centri di comando dell'Isis resta il problema delle periferie islamiche. Con il quale deve cimentarsi il nuovo assetto mondiale degli imperi e delle grandi potenze
 
Di EUGENIO SCALFARI
20 agosto 2017

LA SPAGNA e poi la Finlandia: le periferie del mondo islamico sono in pieno movimento anche se le vittime civili sono relativamente poche e i terroristi quasi tutti eliminati. Cifre modeste ma geograficamente diffuse. Da dove vengono i carnefici? Chi li ispira? Il Califfato esiste ancora? E Al Qaeda? E i gruppi marocchini? E gli Emirati Arabi? E i franchi tiratori di Mosul, di Raqqa, di Aleppo?

Insomma infuriano varie buriane ed Ezio Mauro nel nostro giornale di ieri ne ha messo in luce il significato. Lo condivido e a mia volta dirò anche io quel che penso su quanto continua ad accadere sul piano degli attentati sovversivi. La parola "sovversivo" è molto antica: risale a metà Ottocento, in Europa e soprattutto in Francia, in Italia, in Austria, in Russia. In Francia era ancora recente la Grande Rivoluzione. I sovversivi erano coloro che volevano cambiare profondamente la situazione politica e sociale di un territorio e a volte erano animati da patriottismo, a volte dall'anarchia oppure da un'ideologia. Altre volte addirittura da ideali reazionari che volevano riportare società e interessi da tempo scomparsi.

I sovversivi ci sono stati sempre e motivati con ragioni e interessi profondamente diversi, in un certo periodo il numero, i luoghi, le motivazioni di ceti sociali da cui provenivano davano luogo a organizzazioni durature e ideologicamente caratterizzate. Oppure erano forme, diffuse e potenti, di brigantaggio.

Ma questo non ha quasi nulla a che vedere con il sovversivismo anche se talvolta effettuarono occasionali alleanze tra briganti e sovversivi. Qual è la situazione di oggi? I briganti esistono ancora, hanno cambiato nome da tempo. Si chiamano Mafia, oppure 'Ndrangheta, oppure Camorra: è un brigantaggio con abiti civili e armi più economiche e politiche che da guerra. Il fenomeno nuovo (relativamente) è di tutt'altro genere ed è caratterizzato in modi assai diversi: in gran parte ha una motivazione religiosa che colora e in parte nasconde una rivolta sociale.

Questi sono i due fenomeni, diversi ma strettamente congiunti. Quanto alle loro strutture organizzative, anch'esse sono duplici: una o due sono i centri di comando, l'altra invece è costituita dalle periferie sociali dei Paesi dove la ricchezza e il capitale costituiscono la realtà di fondo. I centri di comando - religiosi - erano costituiti soprattutto a Mosul e a Raqqa. Lì c'era il quartier generale del Califfato e i suoi eserciti militarizzati che difendevano il loro territorio, dominavano le loro cellule sparse nel mondo, istruivano in appositi campi adeguatamente attrezzati i giovani che venivano da apprendisti di terrorismo e tornavano poi nei Paesi di origine organizzando cellule operative.

Questa situazione è parzialmente cambiata anche perché alcune grandi Nazioni per motivi diversi hanno tuttavia deciso di eliminare al più presto possibile i comandi del Califfato. Questa operazione è stata in gran parte risolta: Mosul e Raqqa sono state in gran parte conquistate, l'apparato militare del Califfato quasi interamente distrutto; il Califfo in persona sarebbe stato ucciso. Resta tuttavia intatto il problema delle periferie e, a fronte di esso, il nuovo assetto mondiale degli imperi e delle grandi potenze che, tra i tanti problemi che debbono affrontare, hanno anche quello delle periferie, della loro trasformazione politica e dei rapporti che si raccordano nella società globale.

Se vogliamo elencare con adeguate parole questo insieme di problemi diremo: tecnologie, emigrazioni, rapporti tra Paesi dai quali gli abitanti fuggono e Paesi che li respingono o li imprigionano, forze democratiche in varia trasformazione, alleanze e contrasti in costante mutamento. Infine: diminuzione dell'autorità delle Nazioni Unite e quindi un mondo in piena e pericolosa confusione. Come si vede, il panorama complessivo non è affatto felice.

***

Di Trump è inutile parlare: la sua è una politica mutevole se non addirittura giornaliera rispetto alla Russia, alla Germania, alla Francia, alla Libia, alla Cina, all'Egitto, alla Corea del Nord e all'Italia. È la meno considerata la nostra Nazione e quindi ne parlano poco e Trump pochissimo.

Con queste mutazioni non si può certo concludere che gli Usa non contino niente. Contano moltissimo, ma somigliano molto alla pallina bianca della roulette. Conta moltissimo perché dove si ferma vince. Solo che quasi a ogni giro il numero vincente cambia. Vince ma cambia. Somiglia maledettamente a Trump.

La Cina ha costruito un capitalismo dittatoriale, con delle sfumature di democrazia. Sfumature. Nella sostanza è un immenso Paese che compra tutto: isole, territori, banche, crediti, debiti, stadi sportivi, movimenti storici. Compra tutto e invia, quando necessario, gruppi di suoi cittadini nei luoghi comprati.

Sostanzialmente è un Paese tirannico e pacifico. Sembra una contraddizione e invece è un risultato. Della religione gli importa poco o niente. Quanto al Giappone, conta molto in economia e basta. In Europa, oltre a Merkel della quale tra poche settimane conosceremo l'esito decisivo delle elezioni, c'è Macron del quale abbiamo più volte parlato. È de Gaulle, è Pompidou, è Mazzarino, è il cardinale di Retz, è il grand commis, è Enrico IV, è il Re Sole. Insomma è la Francia che vuole incarnare l'Europa. Napoleone sì e no. Talleyrand un po' di più. Tocqueville bene, ma con un po' più di energia. Insomma Macron è Macron. Il numero dei francesi che si occupano di politica è in mastodontica diminuzione. Ma di quelli che invece se ne occupano lui è il Presidente con poteri quasi assoluti. E l'Europa? Ma non è francese l'Europa? Macron è europeista e sovranista. Piaccia o non piaccia. Il gioco con lui tocca soprattutto a Merkel.

Toccherebbe anche all'Italia, ma a chi? Spesso, anzi quasi sempre, chiudo questi articoli domenicali parlando di Renzi. Gli do consigli non richiesti, gli faccio critiche richieste ancora di meno. Renzi da solo non può fare nulla. In buona compagnia non ci vuole stare. Vuole decidere tutto lui e da solo, magari facendo qualche mezza alleanza non cucita ma imbastita che è molto diversa. Imbastirà con Alfano. Imbastirà con Franceschini, forse anche con Delrio e forse addirittura con Berlusconi. Se questo è il suo modo di procedere, alla fine non conterà niente anche se diventerà presidente del Consiglio.

Ciò che dovrebbe fare per contare in Europa nel nome di Ventotene e di Giustizia e Libertà l'ho già detto fino alla noia.
"Dimmi quando tu verrai dimmi quando quando quando... ".

© Riproduzione riservata 20 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/08/20/news/dall_europa_a_trump_confusi_e_divisi_contro_il_califfato-173424360/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1
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« Risposta #679 inserito:: Settembre 01, 2017, 05:38:21 pm »

I nostri occhi puntati sull'Africa
Immigrazione, accoglienza, povertà, lavoro, respingimenti e traffici umani sono le parole attraverso cui si declina il rapporto con l’Europa

Di EUGENIO SCALFARI
31 agosto 2017

IL 28 agosto, lunedì, c’è stata una riunione internazionale a Parigi cui hanno partecipato i capi di Stato e di governo di quattro nazioni dell’Ue: Francia, Germania, Italia, Spagna e in più alcuni alti funzionari dell’Ue e anche (come osservatori) dell’Onu.

Il tema, visto all’ingrosso, era quello del rapporto tra l’Europa dell’Ue e l’Africa del nord e del centro occidentale, dal Ciad al Niger e a tutti i paesi minori a sud della costiera mediterranea. Ovviamente la più interessata era la Libia, oltre che, ma in chiave minore, il Marocco e l’Algeria. Insomma il complesso ex imperiale e coloniale francese cui va aggiunta la colonia libica che fu in mani italiane dal 1911 fino al 1943, che la rese libera dal colonialismo prima giolittiano e poi fascista.

L'incontro del 28 scorso è stato il primo sul tema Europa-Africa, ma ce ne sarà tra pochi giorni un secondo e poi finirà con l’insediare una sorta di organo permanente di intervento e di gestione d’un tema che sopporterà allo stesso tempo pace e tempesta ma che si proporrà una finalità nobile e positiva per un verso, combattuta e sanguinosa dall’altro.

Il finale sarà sicuramente positivo (o almeno è questo ciò che penso) ma richiederà una trentina d’anni a dir poco prima che i risultati si stabilizzino al punto massimo che avremo finalmente raggiunto.

Il risultato del primo incontro è stato la partenza, condensata in due brevi documenti: uno di due pagine redatto in lingua inglese che indica le finalità dell’incontro; l’altro di sette pagine redatte in lingua francese, che entra nel dettaglio dei problemi che vanno affrontati e risolti e per alcuni ne indica genericamente la soluzione.

Sono alquanto stupito del modo con cui buona parte della stampa italiana ha dato conto di quanto è accaduto: un titolo molto evidente in prima pagina e un paio di pagine all’interno, assai diverse da giornale a giornale. Il tutto alla data di martedì. Ma su quasi tutti i giornali di mercoledì, cioè di ieri, il tema era già scomparso. Si parlava della Corea del Nord e di ciò che accade in quel teatro e poi del tema delle pensioni, dei palazzi instabili che esistono in mezza Italia, della scarsità di acqua e ovviamente di calcio. Non una parola sul tema Europa- Africa che è a mio avviso il numero uno nel rapporto tra due continenti che si fronteggiano da millenni e oggi si declina con varie parole: immigrazione, accoglienza, respingimento, traffici umani, incontri e scontri in tutto il Mediterraneo, povertà, lavoro, investimenti, alleanze tra governi e tribù, problemi sanitari, amicizia e contrasti con l’Africa centromeridionale e orientale.

Pensate che all’origine del nostro pianeta l’Africa e l’Europa erano un’unica terra, il Mediterraneo non esisteva. Parliamo di un passato di miliardi di anni che potrebbe ricostruirsi, sia pure tra altrettanti millenni.
Ebbene, scordarsi dopo un giorno dei problemi avviati per la convivenza utile anche se molto difficile da realizzare, è una leggerezza che ritengo inaccettabile, anche perché nell’incontro dello scorso lunedì uno dei personaggi chiave è stato il nostro premier Gentiloni e uno dei personaggi elogiati è stato il nostro ministro Marco Minniti, che non era presente (c’erano soltanto capi di Stato e di governo) ma è stato ricordato da Macron come uno dei più validi a occuparsi del problema e della sua concreta attuazione fin dalle prossime settimane.

Ma noi, giornali e giornalisti, ci occupiamo d’altro. Buon pro non ci farà.
***
Due parole su alcuni aspetti del tema Europa-Africa. Finora il Ciad e il Niger non erano stati presi in considerazione. Erano invece territori folti di bande del malaffare che ingaggiano africani in gravi ristrettezze di ogni genere e che sono pronti a pagare e a diventare schiavi degli affaristi, con la promessa che saranno portati fino all’imbarco su battelli di fortuna per essere transitati sulle coste europee, quelle italiane in particolare, con tutto quello di pessimo che ne seguirà, morte compresa.

Questo tema è stato preso in considerazione. Ciad e Niger combatteranno gli affaristi di merce umana e saranno loro a occuparsi delle persone schiavizzate e a rischio di morte.

Naturalmente Ciad e Niger e paesi limitrofi saranno inseriti nel piano europeo; aiuteranno e saranno aiutati. Sono problemi tutt’altro che semplici e andranno perciò seguiti con la massima attenzione. Facevano più o meno parte dell’impero coloniale francese ed è perciò ovvio che sia Macron quello che più degli altri si interessa di questi temi.

Merkel dal canto suo ha proposto l’abolizione del trattato di Dublino. Ottima proposta che va immediatamente realizzata, anche se non sarà facile perché riguarda tutti i 27 Paesi dell’Unione.

Infine: non si perda di vista che in tutto il “bailamme” africano ci sono anche molti islamici sensibili all’Isis: altro tema che non va mai perso d’occhio. Caro Gentiloni, caro Minniti e caro Renzi, l’Africa ci riguarda come tema principale. Non lo dimenticate e riservategli la massima attenzione.

© Riproduzione riservata 31 agosto 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/08/31/news/i_nostri_occhi_puntati_sull_africa-174261566/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P4-S1.8-T1
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« Risposta #680 inserito:: Settembre 20, 2017, 10:28:18 pm »

Un nome per guidare la nuova Europa di Ventotene
Nel vecchio Continente attuale una figura simile è molto difficile da trovare. Ma un personaggio c’è: è tedesco ma non è un allievo di Angela Merkel, semmai potrebbe essere il contrario. Ha un’esperienza politica di prim’ordine; è social-democratico; ha 73 anni, età perfetta per quella carica; è stato Cancelliere tedesco dal 1998 al 2005. Si chiama Gerhard Schröder.

Di EUGENIO SCALFARI
17 settembre 2017

In un’intervista rilasciata venerdì al nostro giornale Romano Prodi rilancia la legge sullo “Ius soli” presentata da tempo al Parlamento. Il testo è fermo al Senato dove il Pd non raggiunge da solo la maggioranza assoluta e quindi ha bisogno di essere rafforzato con apporti esterni. Successivamente però le opposizioni a quel progetto sono aumentate e la maggioranza l’ha congelato, almeno fino a quando la legge di stabilità finanziaria non sarà stata approvata. Ciò significa che lo “Ius soli” tornerebbe in Parlamento nel gennaio 2018 senza tuttavia escludere che bisognerebbe forse emendarlo e rendere possibile il formarsi di una maggioranza assoluta. Il 2018 è tuttavia l’anno di fine legislatura e quindi di un nuovo Parlamento. La conseguenza di tutto questo discorso è che la sorte dello “Ius soli” è diventata quanto mai dubitabile.

Di qui l’intervento di Prodi il quale, per evitare che quella legge finisca in un cassetto e lì rimanga per un tempo indeterminato, ne chiede la ripresentazione immediata, magari con qualche emendamento di poca importanza e senza il voto di fiducia. Il tema a suo giudizio è talmente importante che il voto parlamentare deve esser dato per coscienza e non col vincolo politico della fiducia. Naturalmente la posizione di Prodi è interamente per il sì: chi nasce in Italia deve essere italiano e quindi europeo, sempre che, subito dopo la nascita, quel neonato e la sua famiglia restino in Italia per un periodo ragionevole di tempo e non per pochi giorni.

Romano: quasi sempre e ormai da molti e molti anni la pensiamo allo stesso modo. In questo caso tuttavia vedo parecchie e notevoli difficoltà. Le elenco anche se alcune di queste mie domande potrebbero sembrare paradossali.

1. La cittadinanza viene concessa a qualunque neonato figlio di genitori stranieri, provenienti da qualunque altro Paese, oppure alcuni ne sono esclusi ed altri no? Faccio un esempio: una famiglia anagraficamente nata in un qualunque Stato dell’Unione europea fa automaticamente parte dei 27 Paesi dell’Ue e non ha quindi bisogno di chiedere la cittadinanza ad uno di essi diverso da quello dei genitori?

2. Questo principio — se esiste per l’Europa dell’Ue — può essere esteso anche ad altri Paesi la cui storia abbia valori comuni con i nostri? Per esempio l’Inghilterra uscita dall’Ue ma comunque europea a tutti gli effetti; o anche gli Stati Uniti d’America e il Canada? E l’America del Sud e quella Centrale, di origini spagnole o portoghesi? Se queste ipotesi fossero applicate tutto il mondo occidentale avrebbe un’unica cittadinanza. Ma se non fosse così e per quanto ci riguarda, la cittadinanza italiana sarebbe singolare e non condivisibile se non si nasce sul nostro territorio. Nel qual caso si pongono altri e complessi problemi.

3. Accenniamo ad uno di questi. Supponiamo che i genitori del neonato in Italia sono di New York o di Los Angeles o di qualsiasi città Usa. E mettiamo che il neonato in Italia, una volta raggiunta l’età della ragione, preferirà avere la cittadinanza americana oppure inglese o tedesca o francese o brasiliana. Butterebbe via quella italiana e ne chiederebbe un’altra? Oppure si possono avere insieme tre o anche più cittadinanze?

4. Infine un’altra ipotesi: la famiglia che fa nascere il figlio in Italia appartiene ad una etnia profondamente diversa e anche a una diversa religione. Supponiamo che la famiglia sia turca oppure del Ghana, oppure dell’India o del Pakistan. Quel neonato è italiano se nasce a Roma o a Bari o a Palermo. Se è anagraficamente italiano, quando sarà adulto e avrà figli italiani, quei figli avranno profonde tracce dei genitori e dei nonni. L’americano no e l’arabo o il cinese sì? Ha un senso tutto questo?
Oppure in una società globale, sei giudicato e devi rispettare i doveri e i diritti del luogo dove ti trovi e non necessariamente in quello dove sei nato?

Caro Romano, mi piacerebbe conoscere la tua risposta a queste domande. Papa Francesco, come certamente sai, suppone che nella società globale in cui viviamo interi popoli si trasferiranno in questo o quel Paese e si creerà, man mano che il tempo passa, una sorta di “meticciato” sempre più integrato. Lui lo considera un fatto positivo, dove le singole persone e famiglie e comunità diventano sempre più integrate, le varie etnie tenderanno a scomparire e gran parte della nostra Terra verrà abitata da una popolazione con nuovi connotati fisici e spirituali.

Ci vorranno secoli o addirittura millenni affinché un fenomeno del genere accada ma — stando alle parole del Papa — la tendenza è questa. Non a caso egli predica il Dio Unico, cioè uno per tutti. Io non sono credente, ma riconosco una logica nelle parole di papa Francesco: un popolo unico e un unico Dio. Non c’è stato finora nessun capo religioso che abbia predicato al mondo questa sua verità.

Per lo “Ius soli” se ne riparlerà tra qualche mese in Parlamento e vedremo come andrà a finire. Nel frattempo però è accaduto in Europa un evento che nessuno si attendeva: di fronte alla Plenaria del Parlamento europeo Jean-Claude Juncker ha raccontato una situazione che sembrava poco ascoltata ma era invece molto importante e oserei dire rivoluzionaria a pochi giorni di distanza dalle elezioni politiche in Germania.

Ho scritto “una situazione rivoluzionaria” ed è effettivamente questa la realtà, ma se si guarda con occhio storico si vedrà che essa era già in corso di attuazione ai tempi del primo governo Prodi e poi quando lo stesso Prodi diventò Presidente della Commissione Ue ed estese i confini a molti altri paesi dell’Europa ex sovietica ed infine fu fatta propria da Matteo Renzi tre anni fa, all’epoca della sua visita con Hollande e con Merkel all’isola di Ventotene in seguito alla quale lo stesso Renzi formulò un programma europeista e quindi spinelliano, per l’attuazione del quale l’ex premier aveva cominciato a battersi senza tuttavia ottenere nulla di concreto.

Quel programma che per brevità possiamo chiamare Ventotene, è da tempo condiviso da Mario Draghi con un campo di competenze molto diverso ma con analoghe o addirittura identiche finalità ed ora, con una mossa improvvisa e radicale, è stato fatto proprio da Jean-Claude Juncker. In che cosa consiste? Nel rafforzamento e mutamento dell’Europa sulla linea di Ventotene.

Un’Europa collettiva, con meno senso di sovranismo nazionale e molto più ampio sovranismo europeo. A questa linea aderiscono già molte personalità ed anche alcuni governi. Abbiamo già indicato i nomi di Renzi e di Draghi ed ora anche quelli di Mattarella, Gentiloni e Minniti. Non è poco, le forze in campo sono autorevoli e sarebbero maggiori se Renzi si risvegliasse dal letargo vacanziero e riprendesse completamente il programma di Ventotene, da lui stesso lanciato ma poi messo a dormire.

L’intervento di Juncker, cui altri ne seguiranno come da lui stesso previsto dopo le imminenti elezioni tedesche, consiste nella creazione di un Ministro delle Finanze europeo, d’una velocità di offerta e di domanda economica promossa dai Paesi dell’eurozona, dal rafforzamento politico all’interno dell’Unione, dal presidente dell’eurozona, dalla creazione d’una vigilanza politica e poliziesca che controlli le cosiddette periferie dell’Isis in Europa, Londra compresa.

Juncker ha poi lanciato un programma di investimento e proposto una serie di accordi di libero scambio con paesi come il Giappone, il Messico, l’Australia e la Nuova Zelanda e tutta l’America Latina, dall’Argentina al Brasile, al Cile e a tutti gli altri. Ha proposto anche la creazione di un nuovo Fondo europeo e una politica dell’immigrazione molto simile a quella praticata da Gentiloni e Minniti per quanto riguarda l’Africa occidentale.

Infine — e sia pure con opportune cautele — Juncker ha lumeggiato la nuova figura d’un Presidente europeo eletto direttamente dal popolo sovrano dell’Unione. Non è da escludere che lo stesso attuale presidente della Commissione di Bruxelles che decadrà dal suo attuale incarico nel 2019, pensi a se stesso come candidato a quella carica presidenziale che oggi è più di forma che di sostanza ma che in un’Europa sulla linea di Ventotene diventerebbe del tutto simile alla struttura costituzionale degli Usa.

L’alternativa è che quella carica, ammesso che la linea Ventotene diventi una realtà, sia rivendicata da Merkel o da Macron. Si tratta tuttavia, in entrambi i casi, delle due figure politicamente più importanti dell’Europa attuale, partecipi di un duumvirato che non può essere rotto a favore dell’uno o dell’altro. Più probabile, sempre che sia una figura conosciuta e approvata dal corpo elettorale europeo, che sia di uno spagnolo o di un italiano. Non credo Renzi e non credo neppure Gentiloni o Mattarella: non sono personaggi di autorità popolare europea. Mario Draghi? È la persona più nota e più internazionale. Forse avrebbe le maggiori chance anche se non è molto amato dalla classe dirigente tedesca. Ma l’idea che Draghi sia pronto a battersi per raggiungere quell’obiettivo mi sembra — conoscendolo bene — da escludere.

Un Presidente europeo con poteri simili a quelli del Presidente americano non è facile da individuare. Il primo negli Stati Uniti americani fu Washington che veniva dall’aver guidato e vinto la guerra anticoloniale contro gli inglesi. Nell’Europa attuale una figura simile è molto difficile da trovare. Ma un personaggio c’è: è tedesco ma non è un allievo di Angela Merkel, semmai potrebbe essere il contrario. Ha un’esperienza politica di prim’ordine; è social-democratico; ha 73 anni, età perfetta per quella carica; è stato Cancelliere tedesco dal 1998 al 2005; adesso presiede un’associazione dedicata ad educare politicamente e culturalmente i giovani.

Si chiama Gerhard Schröder. Sarebbe un eccellente Presidente della nuova Europa. E Juncker potrebbe essere uno dei ministri del suo governo mentre Merkel, come tutti gli altri capi dei 27 governi, continuerebbe ad essere la Cancelliera del proprio, sempre che le elezioni imminenti vadano a suo favore. Quanto all’Italia, in una situazione auspicabile di quel genere, noi avremmo tutto lo spazio per far valere le nostre motivazioni ed anche un ruolo importante nella politica europea, specie sul tema dell’immigrazione e su quello economico dell’occupazione e del liberalismo socialdemocratico.

Se il nome di Schröder che ora abbiamo fatto e la proposta che diventi presidente dell’Europa andassero a buon fine, immagino che Spinelli, Rossi e Colorni ne sarebbero felici. Ed io con loro.

© Riproduzione riservata 17 settembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/09/17/news/un_nome_per_guidare_la_nuova_europa_di_ventotene-175701962/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1
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« Risposta #681 inserito:: Settembre 24, 2017, 12:04:40 pm »

Perché è urgente che nascano gli Stati Uniti d'Europa

"L'Europa deve essere decisamente rafforzata e quasi tutti i protagonisti, capi di Stato e il governo dell'Ue ne sono convinti"

Di EUGENIO SCALFARI
24 settembre 2017

MENTRE leggete questo giornale i tedeschi stanno votando per eleggere il loro Parlamento che a sua volta dovrà eleggere il suo Cancelliere (quasi certamente da pronunciare al femminile) perché sarà certamente Angela Merkel a ottenere corposo vantaggio rispetto agli altri partiti. Ma la sua maggioranza sarà comunque relativa e avrà bisogno di alleanze per avere una coalizione che raggiunga la maggioranza assoluta.

Il compito è facilissimo perché gli altri partiti compatibili a far blocco con la Cdu sono soltanto due: i socialisti guidati da Schulz, l’ex presidente del Parlamento europeo, e i liberali che probabilmente rientreranno in Parlamento dal quale erano stati esclusi non avendo ottenuto il numero minimo previsto dallo statuto parlamentare.

E se, per ottenere la maggioranza assoluta, fosse necessaria un’alleanza di tutti e tre? Sembra impossibile un’ipotesi del genere. Qualora si verificasse, la Cdu dovrebbe accogliere uno dei due e guidare un governo senza maggioranza assoluta, situazione quanto mai sgradevole per la Germania e per l’Europa. Ma è un’ipotesi che si può escludere come avremo conferma tra poche ore. Il risultato riguarderà non soltanto la Germania ma l’intera Europa della quale la Germania, malgrado ciò che pensa Macron, è l’asse portante. Quindi è questo il tema che dobbiamo ora esaminare.

L'Europa deve essere decisamente rafforzata e quasi tutti i protagonisti, capi di Stato e il governo dell'Ue ne sono convinti. Il sovranismo dei 27 Paesi e soprattutto quello dei 19 che usano la moneta comune: l'Eurozona deve avere un ministro delle Finanze unico, responsabile della politica economica; un sistema bancario anch'esso unico; una sorta di Fbi unica nella lotta contro il terrorismo dell'Isis; un'unica politica estera e per quanto riguarda l'immigrazione; infine una struttura militare e naturalmente un'unica cittadinanza per quel popolo sovrano che eleggerà un proprio Parlamento e un presidente che abbia poteri di governo in tutto simili a quelli che ha il presidente degli Stati Uniti d'America.

Questi temi sono stati indicati e resi pubblici nei giorni scorsi dal presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker e anche da Mario Draghi nella sua veste di capo della Banca centrale europea: anche lui sente la necessità d'una politica economica e bancaria che abbia come diretto interlocutore il ministro delle Finanze dell'Eurozona: è un binomio che esiste da un secolo in tutti i Paesi europei ma non ancora a livello di un'Eurozona perfettamente unita nella quale le singole nazioni regrediscano allo stesso modo in cui si trovano i governi d'una California o d'un Texas di fronte al governo presidenziale di Washington.

Negli Usa tuttavia i singoli Stati federati hanno rispetto al governo centrale lo stesso peso, ma quel Paese è da oltre 70 anni il più grande impero mondiale e ha una struttura da tempo collaudata. In Europa invece la federazione non esiste ancora. Se — come in molti ci auguriamo — sarà instaurata almeno entro due anni, i governi dei 19 Paesi dell'Eurozona avranno di fatto un peso diverso e non c'è dubbio che quello della Germania sarà il numero uno, seguito dalla Francia di Macron.

Ricorderete che la guerra americana tra nordisti e sudisti, voluta da Lincoln per abolire la schiavitù in tutti gli Stati dell'allora Confederazione e rendere tutti i cittadini di quei medesimi Stati eguali di fronte alle leggi locali e nazionali, fu una guerra tra il Nord e il Sud e vinse il Nord che guidò a lungo il Paese. La Federazione cioè c'era sulla carta ma era ancora il Nord a fornire la classe dirigente. Negli anni questa prevalenza si attenuò e infine scomparve. Oggi come oggi i singoli Stati della Federazione hanno peso diverso dal punto di vista economico ma non da quello politico: cittadinanza, legalità, occupazione, educazione, struttura militare, politica estera, sono tutti federali. C'è voluto tempo naturalmente ma abbastanza breve.

In Europa il percorso sarà certamente analogo, il che significa che il rapporto in senso federalistico dei 19 Paesi dell'Eurozona sarà guidato dalla Germania e, sia pur in modo minore, dalla Francia. Merkel sarà il vero protagonista di quel rafforzamento indicato da Juncker ma proprio per questa ragione non potrà essere il primo presidente dell'Eurozona. Dovrà essere scelto tra i candidati dei 19 Paesi, Germania compresa, ma non potrà essere la Cancelliera. Lei è fondamentale per costruire il nuovo sistema federale, ma non presiederlo. Romolo costruì Roma, e nel breve tempo in cui la costruì fu re: poche settimane. Ma il primo vero re fu Tarquinio Prisco e poi Anco Marzio e poi Tarquinio il Superbo; nessuno di questi era nato a Roma.

***

E tuttavia la Germania è un Paese del Nord, si affaccia sul Mare del Nord, sul Baltico, ma non sul Mediterraneo. Da questo punto di vista storico, geografico e anche sociale l'Europa è divisa in due. Qui sta la forza di Macron e la storia della Francia. Ma qui sta anche la storia della Grecia, della Spagna e soprattutto dell'Italia.

La nostra Nazione che ovviamente fa parte dell'Eurozona è stata la guida di tutta l'Europa (e non soltanto) dai tempi di Giulio Cesare fino alla fine dell'Impero romano. Nei secoli successivi è stato uno dei principali Paesi dal punto di vista culturale ma non più politico. Comunque sede del Papato, potere religioso ma, specie lungo tutto il Medioevo e il Rinascimento, anche potere politico d'importanza assai notevole.

Durante il Novecento, nel bene e nel male, abbiamo avuto di nuovo un certo peso politico e anche ora l'abbiamo.

Per quanto riguarda l'Europa da costruire questo peso c'è ed è anche avvertito dagli altri Paesi. Debbo purtroppo constatare che il Pd è il solo ad avvertire questa nostra importanza. Non lo sentono e anzi sono antieuropee le altre forze politiche: i Cinquestelle, la Lega di Salvini, i Fratelli d'Italia della Meloni e neppure Forza Italia di Berlusconi. Purtroppo non l'avverte neppure la sinistra-sinistra salvo a modo suo Massimo D'Alema.

Per fortuna il nostro presidente della Repubblica Sergio Mattarella è pienamente consapevole della nostra importanza per l'Europa; lo è molto anche il Capo del governo Paolo Gentiloni e il Presidente emerito Giorgio Napolitano. Infine lo è anche il segretario del Pd Matteo Renzi, che si è battuto per l'Europa di Ventotene con notevole energia durante il suo governo. Esiste un documento ufficiale del Renzi capo di governo, nel quale si parla addirittura di un ministro delle Finanze unico per l'Eurozona e una cosiddetta Fbi, cioè una polizia europea contro il terrorismo del Califfato.

Ci auguriamo che questo atteggiamento sia sempre più attivo in questi mesi sia sul tema di rafforzare istituzionalmente l'Europa e sia sul tema di estrema importanza dell'immigrazione africana sul quale il nostro governo e in particolare il ministro Minniti stanno attuando una politica molto apprezzabile.

Questa partecipazione italiana alla costruzione di un'Europa federale sarebbe tanto più importante se il Pd riuscisse ad aumentare la propria forza parlamentare e quindi il proprio contatto con gli elettori che saranno chiamati alle urne nella primavera dell'anno prossimo. Purtroppo questa presenza politica nell'opinione pubblica non sembra ben praticata. Un Pd debole e bisognoso di strane alleanze non avrebbe molta importanza nella costruzione della nuova Europa. Questa insufficienza dovrebbe essere corretta rapidamente. I mezzi non mancano e li abbiamo spesso indicati. Purtroppo, da questo punto di vista, i nostri interlocutori sembrano sordi e in un mondo di sordi soffrono sia loro che non sentono sia noi che non siamo sentiti.

© Riproduzione riservata 24 settembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/09/24/news/perche_e_urgente_che_nascano_gli_stati_uniti_d_europa-176337173/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P2-S1.4-T1
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« Risposta #682 inserito:: Settembre 27, 2017, 12:34:18 pm »

Le elezioni in Germania e il crepuscolo europeo
L’europeismo tedesco è finito in soffitta o in cantina. Il tema, rilanciato da Jean-Claude Juncker, non scompare ma passa in altre mani

Di EUGENIO SCALFARI
26 settembre 2017

Il leader dei socialisti tedeschi (Spd) Martin Schulz ha deciso di non fare alcuna coalizione con la Cdu di Angela Merkel. L’Spd che aveva nel precedente Parlamento il 26 per cento, in quello attualmente eletto è al 20 e questa è la ragione che ha motivato il passaggio dei socialisti all’opposizione.

Merkel non si è persa d’animo e ha in poche ore sostituito i socialisti di Schulz con i liberali-liberisti e i verdi. Invece d’una coalizione di centrosinistra ne ha fatta una decisamente di destra e per di più anti-immigrati.

In una situazione così diversa da quella che si auspicava e per di più con l’ingresso in Parlamento del partito populista di estrema destra semi-nazista, cresciuto dal 4 al 12,6 per cento, pensare che la Germania possa essere il perno del rafforzamento dell’Unione europea e soprattutto dell’Eurozona è diventato semplicemente immaginario: l’europeismo tedesco è finito in soffitta o in cantina. Il tema, rilanciato da Jean-Claude Juncker, non scompare ma passa in altre mani.

Certamente in quelle dell’Italia e anche in quelle di Macron, sebbene l’europeismo del presidente francese sia soprattutto un’Europa francese piuttosto che una Francia europea.
Questa situazione, che dopo l’intervento di Juncker sembrava molto positiva, si è trasformata nel suo contrario. Tutto questo a causa dell’egotismo di Schulz. Un personaggio che è stato per anni presidente del Parlamento europeo diventa l’affossatore dell’Europa regalando il suo Paese alle forze antieuropee.

È pur vero che la coerenza è una virtù molto fragile perché le persone cambiano continuamente il loro rapporto con il mondo

in cui vivono; ma di solito si tratta di cambiamenti marginali. Uno come quello di Schulz però non è marginale ma fondamentale ed è un tragico danno per le sorti dell’Europa, di quelli che ci vivono e in particolare della Germania, passata in poche ore dal bianco al nero.

© Riproduzione riservata 26 settembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/09/26/news/le_elezioni_in_germania_e_il_crepuscolo_europeo-176501302/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1
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« Risposta #683 inserito:: Ottobre 09, 2017, 06:39:15 pm »

Da soli non si vince. Finalmente Renzi lo ha capito

L'apertura all'intera dissidenza di sinistra è una novità interessante.
Ma lo è ancora di più il nascere di una élite politica che consiglia il segretario del Pd

Di EUGENIO SCALFARI
08 ottobre 2017

Come sta la società, come stanno gli individui che ne fanno parte, come sta il popolo cosiddetto sovrano e insomma come sta il mondo e l’Italia che politicamente ci interessa? Ezio Mauro giovedì scorso si è posto analoghe domande chiedendosi soprattutto come sta la sinistra italiana: aveva immaginato una sorta di Spirito Santo laico che cercasse di tutelarla e incoraggiarla a dare il meglio di sé. Ma alla fine dell’analisi politica aveva concluso che quello Spirito Santo era disperato perché la sua tutela non era servita a niente e Lui alzava le mani piangendo.

Domenica scorsa anch’io avevo affrontato analoghi temi e avevo concluso l’articolo citando la celebre canzone del jazz americano intitolata Stormy Weather: “Il tempo è brutto e piove di continuo”. Così purtroppo stanno le cose e non sono migliorate in questi pochi giorni. Basta questo per ciò che riguarda l’Italia. Nel frattempo è accaduto di peggio in Sicilia dove si voterà per la Regione tra pochi giorni e dove un numero notevole di candidati aderenti al Pd e al partito di Alfano sono passati con Berlusconi. Altro che Stormy Weather: se la Sicilia politica fosse lo specchio dell’intera Italia bisognerebbe far suonare il Requiem di Mozart che musicalmente fa pensare più all’Inferno che al Paradiso.

Qualche segnale positivo è tuttavia arrivato alcuni giorni fa. Renzi ha aperto non uno spiraglio ma una porta e non solo a Pisapia, come del resto aveva fatto un mese fa, ma all’intera dissidenza di sinistra da Bersani a D’Alema, a Vendola, a Civati, insomma a tutti quelli che se ne sono andati o non erano mai entrati. Non è stato solo a prendere queste decisioni ma ha avuto suggerimenti di persone autorevoli che recentemente si sono avvicinate o riavvicinate a lui: Orlando, ministro della Giustizia ma in competizione con Renzi alle primarie, Romano Prodi, Walter Veltroni, i ministri Franceschini e Minniti.

L’apertura ai dissidenti sarebbe facilitata dal disegno di legge elettorale che prevede due terzi eletti con la proporzionale e un terzo votato in collegi che consentono una coalizione. Gli oppositori di questa legge che sarà presto presentata in Parlamento la considerano incostituzionale, ma non se ne comprende la motivazione. Non esiste alcuna norma costituzionale che vieti alleanze elettorali, mentre è altamente positiva l’abolizione delle preferenze che di solito aiutano il nascere di clientele, spesso di tipo mafioso.

Comunque l’apertura di Renzi è una novità ed è ancor più interessante il nascere di una élite politica che lo consiglia. Personalmente avevo auspicato che “il Re fosse assistito da una Corte di dignitari”; questa Corte si va finalmente formando e spero influisca utilmente sul segretario del partito. Avevamo dedicato a questa tesi la rievocazione del Partito comunista ai tempi di Togliatti e del gruppo che insieme a lui e con diverse intonazioni aveva governato il partito: Longo, Berlinguer, Amendola, Ingrao, Scoccimarro, Reichlin, Napolitano, Natta, Pajetta e molti altri. Spesso le loro idee differivano dalle altre e spesso anche da quelle di Togliatti, il quale, dopo ampie discussioni, prendeva lui la decisione come gli spettava, ma tenendo conto dei pareri diversi e talvolta addirittura divergenti dai suoi.

L’ideale è che questo avvenga anche con Renzi e il rientro dei dissidenti potrebbe arricchire il partito da questo punto di vista, come la presenza attiva di Cuperlo dimostra. Forse la pioggia di Stormy Weather cesserebbe di infradiciarci e il bel tempo della democrazia tornerebbe. Ma la democrazia che cos’è? Ecco un tema che non interessa soltanto l’Italia ma l’Europa e tutto il mondo occidentale. Cerchiamo di rispondere a questa domanda.

***

Democrazia è parola di origine greca, demos significa popolo. Disegna dunque un sistema politico in cui tutto il popolo partecipa al governo, naturalmente se ha voglia di partecipare.

La forma di questa partecipazione è varia. Può essere diretta (in forma referendaria) o indiretta e cioè con l’elezione da parte del popolo sovrano di un’assemblea deliberante. Naturalmente oltre all’elezione da parte del popolo sovrano esiste anche un potere con la sola competenza di controllare che la politica non invada campi diversi da quelli che gli sono stati riservati dalla Costituzione e dal principio di libertà che la stessa parola demos implicitamente contiene. Una democrazia illiberale tradisce il valore stesso del popolo sovrano e quindi non può e non deve essere accettata. Questo controllo da parte del potere giudiziario-costituzionale si estende anche alla democrazia diretta referendaria. Se la risposta del popolo deve essere data con un sì o con un no al quesito posto dai presentatori del referendum, occorre che la domanda non sia improponibile, come per esempio sarebbe quella che limitasse la libertà politica degli elettori.

Sembra dunque che la democrazia dia al popolo tutta la sovranità che gli compete. Ma le cose non stanno effettivamente così. Su questo punto ci fu un anno fa un dibattito tra Zagrebelsky, ex presidente della Corte costituzionale e giurista di grande vaglia, e me proprio sul tema della democrazia parlamentare. Lui sosteneva che il Parlamento e il referendum siano la vera e autentica forma del potere del popolo sovrano; io al contrario sostenevo che una democrazia elitaria, garantita dalla legge, avrebbe dovuto designare gli organi dirigenti del partito i quali a loro volta avrebbero compilato le liste dei candidati parlamentari. La mia tesi era molto semplice: gli elettori di solito non conoscevano i candidati designati dal partito, ma votavano il partito e cioè i suoi candidati. In sostanza il vero sovrano è la classe dirigente del partito che dà vita in questo modo a un sistema che io non chiamo democrazia ma più correttamente oligarchia.

E il popolo sovrano chi lo rappresenta? Direttamente non è il Parlamento a rappresentarlo mentre attraverso lo strumento referendario esso si rappresenta direttamente. Ma in una società sempre più complessa, con problemi economici, sociali, politici, internazionali, sempre più complessi, con l’aggiunta dell’immigrazione e del terrorismo mondialmente diffuso, il referendum non può essere la forma predominante delle decisioni politiche per la loro complessità e urgenza.
Non resta dunque che l’oligarchia la quale si traveste da diretta rappresentanza del popolo sovrano, ma non lo è.

Aggiungo a queste considerazioni la costante diminuzione dell’affluenza al voto dei cittadini elettori. Questa diminuzione dei votanti si realizza anche in forme assolutamente nuove. I grillini ne sono un esempio eloquente: aderiscono a un movimento che non ha alcun programma politico, non ha identità, non ha valori ma proclama un obiettivo: di spodestare i partiti esistenti siano piccoli o siano grandi, non importa, via tutti.

I grillini non hanno obiettivi politicamente concreti; fanno alcune proposte che piacciono a una moltitudine non politicizzata e contraria alla partitocrazia. Proposte che soddisfano alcuni bisogni popolari senza peraltro rimuoverne le cause che li producono. Non hanno una politica europea, oscillano sull’importanza della moneta comune. Sono privi di ideologie.

In realtà sono l’altra forma degli astenuti che ormai oscillano tra il 35 e il 40 per cento dei cittadini con diritto al voto. In più bisogna considerare le posizioni dei grillini e dei populisti di Lega e Fratelli d’Italia. Sapete la novità? A questo punto gli immigrati diventano una necessità
se diventeranno cittadini elettori. Ma ci vorrà un bel po’ di tempo. Idem per lo Ius soli, che se approvato attualmente riguarda i neonati. Perciò continua il diluvio e siamo fradici dalla testa ai piedi.

© Riproduzione riservata 08 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/08/news/da_soli_non_si_vince_finalmente_renzi_lo_ha_capito-177658432/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P1-S1.4-T1
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« Risposta #684 inserito:: Ottobre 21, 2017, 11:53:47 am »

Eugenio Scalfari

Il Dio Tempo e la corte di Renzi
Tutto scorre e le cose cambiano.
E il Pd, già primo partito, rischia di perdere le elezioni.

A meno che non si rinnovi

Il tempo cambia di continuo; in un luogo fa un caldo secco, in un altro infuriano i temporali più terribili: fulmini, pioggia a diluvio, maremoti e terremoti. Ma cambia anche l’umore di chi vive il clima a modo suo: alcuni sfuggono il caldo e sopportano tranquillamente il freddo; altri all’incontrario. Infine c’è pure qualcuno che del tempo se ne infischia, non fa parte del suo buon vivere.

Così va il mondo, che vive il tempo in molti modi diversi l’uno dall’altro per quanto riguarda il clima. Ma con quella parola si designa anche una realtà del tutto diversa: quella del tempo che scorre via ogni attimo. Clima e temporalità, preistoria, tempo antico oppure medio o moderno o attuale o futuro. E tu che oggi osservi la temporalità non c’eri e non ci sarai quasi mai, tu vivi il presente attimo per attimo, non c’eri prima di nascere e non ci sarai dopo la morte.

Da questo insieme di considerazioni risulta evidente che il tempo è tutto ed è perfino collettivo e individuale. Da qui nasce l’idea che Dio altro non sia che il tempo o addirittura che il Tempo (ora va scritto con la maiuscola) sia Dio.

Se consideriamo il Tempo come Dio è evidente che una scintilla di temporalità sia dentro ciascuno di noi. Ieri eravamo di cattivo umore, oggi l’umore è discreto e forse domani sarà ottimo o pessimo. Ciascuno di noi cambia di continuo e così pure le famiglie, le comunità, i popoli. A volte c’è odio, a volte amore o allegria o malinconia o nostalgia o speranza. Il Tempo scorre e tu scorri insieme a lui ma a tuo modo. A me piacerebbe emigrare, a te no, a me l’astuzia, a te la sincerità e così via.

Possiamo applicare queste scintille di Tempo a tutto ciò che accade intorno a noi e commentarlo a nostro modo. Lunedì scorso per esempio papa Francesco, parlando con i giornalisti italiani accreditati a seguire il suo viaggio in Colombia, ha risposto all’argomento da alcuni sollevato sulla politica dell’immigrazione. Ha approvato la politica italiana su questo tema e in particolare quella adottata in Libia dal nostro governo che tende ad accettare entro tempi ragionevoli l’ingresso di emigrati africani in Italia e contemporaneamente ha lodato il nostro Paese per il programma di investimenti nella Libia tripolitana per far rientrare nella loro patria quelli che erano fuggiti, creando per loro lavoro e un’esistenza accettabile e garantita dalla presenza italiana: una lode molto apprezzata dal governo Gentiloni e dal nostro ministro Minniti che sono gli autori di questa politica.

Il Tempo c’entra anche in questo importante intervento del Papa. Fin qui la sua posizione era interamente orientata verso la libertà dell’immigrazione; adesso si è verificato un mutamento più realistico: immigrazione da accogliere e al tempo stesso sviluppo dell’economia africana per aiutare l’Africa a costruire una migliore società.

Ho colto questo passaggio perché dimostra la molteplicità temporale della politica. Non soltanto, ma soprattutto perché è la politica a rispondere a domande fondamentali per la nostra vita collettiva. La pace o la guerra credo sia tra le più importanti ma non la sola. Almeno in teoria, ma molto spesso anche nella realtà, si intraprende una guerra con tutto ciò che di rischioso e di doloroso comporta, sperando nella vittoria e quindi in una pace tutta a proprio favore. Ma ci sono anche i pacifisti ad oltranza, il loro pensiero è molto nobile anche se in parte è un sogno più che un progetto concreto. Si sogna che i conflitti tra le Nazioni siano risolti con la diplomazia e non con gli eserciti. È vero, la diplomazia più fare molto per affrontare i motivi di conflitto e realizzare gli obiettivi in un senso accettabile da tutte le Nazioni in contrasto, ma la guerra resta quanto meno uno strumento di minaccia se l’accordo non viene raggiunto.

È questa la realtà? Direi di no. Se fosse questa le guerre sarebbero assai più rare e invece sono assai frequenti nella storia. La ragione è ancora e sempre quella del potere: un sentimento insopprimibile nelle classi dirigenti che hanno i mezzi per influenzare la pubblica opinione. Tutte le guerre, locali o internazionali, sono nate così: un sentimento di potere, un’opinione pubblica conforme e la sconfitta del pacifismo.

La vera realtà è che il desiderio del potere porta alla guerra, la diplomazia viene dopo per accrescere i vantaggi di una vittoria o per limitare i danni d’una sconfitta.

Dobbiamo tuttavia osservare che l’esistenza ormai diffusa di armi atomiche ha avuto, almeno pare, l’effetto di impedire le guerre mondiali. Non i conflitti locali dove usare armi atomiche sarebbe pura follia. Infatti le guerre locali abbondano, ma sono tollerate: è sempre la ricerca del potere a provocarle, ma su scala sopportabile.
Gli esempi, in questa fase, sono in Siria e in generale nel Medio Oriente. Una miscela assai grave è quella della Corea del Nord, ma lì il pericolo di provocare un conflitto mondiale è presente e finora incita la diplomazia a portare avanti un negoziato sempre che il sentimento del potere non abbia la prevalenza.

Chiuderò queste riflessioni con qualche considerazione sull’Italia, dove si sta per giocare il tema delle elezioni politiche. Avverranno forse tra sei mesi, ma non si può escludere che avvengano prima. I protagonisti sono a dir poco cinque: Renzi, la sinistra-sinistra, Berlusconi, Salvini, i 5 Stelle. Evidentemente troppi per dare un governo al Paese, quale che ne sia l’orientamento.

Per raggiungere questo risultato occorre che i partiti minori si misurino con i maggiori ad essi più prossimi oppure siano ignorati o eliminati. E quindi: la sinistra-sinistra, che non ha alcun desiderio di confluire con il Pd, sarà sconfitta ma toglierà voti a Renzi.

La destra dovrà accettare l’alleanza con Salvini, ma questo schieramento difficilmente otterrà la vittoria.
Renzi, con Alfano e il sindaco Orlando, ma senza la sua sinistra, rischia di arrivare terzo dopo la destra e dopo Grillo. A meno che non si apra una serie di grandi nomi che potrebbero rilanciare il partito in tutta Italia e probabilmente anche in Sicilia.

Ho più volte suggerito a Renzi questa decisione: costruire una Corte, come facevano un tempo i Re che si circondavano dei notabili più efficienti, più popolari, più ascoltati. Nel Pd o vicino ad esso come sono molti a cominciare da Romano Prodi e da Walter Veltroni. E molti anche in Sicilia.

Una mossa di questo tipo metterebbe Berlusconi in difficoltà a mantenere l’alleanza con la Lega di Salvini e probabilmente gli stessi grillini perderebbero una parte dei loro seguaci e il numero degli astenuti diminuirebbe a favore di un nuovo Pd. La verità è infatti questa: bisogna costruire un nuovo Pd e Renzi da solo non lo può fare. Con una Corte di quel genere la forza del Pd aumenterebbe in Sicilia, in Italia e anche in Europa.

Temo però che Renzi non si senta disposto di affidarsi ad una vecchia ma ormai nuovissima classe dirigente. Se non si convertirà alla realtà, tra pochi mesi sarà fuori gioco e purtroppo cambierà in peggio la democrazia italiana e anche quella europea.

17 settembre 2017© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2017/09/13/news/il-dio-tempo-e-la-corte-di-renzi-1.309872?ref=fbpe
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« Risposta #685 inserito:: Ottobre 23, 2017, 10:37:46 pm »

Scorciatoie populiste, gli errori più gravi del leader
Sulla questione Bankitalia Matteo Renzi punta sui numerosi cittadini che maledicono le banche.
Ma la sua scelta causa una serie di contraccolpi

Di EUGENIO SCALFARI
22 ottobre 2017

Dobbiamo tornare sulla questione Renzi-Banca d'Italia non perché ci siano novità ma per esaminare le conseguenze e le varie interpretazioni. In favore di Renzi c'è un certo tipo di populismo: quei numerosi cittadini con patrimoni e redditi alquanto limitati, che - a torto o a ragione secondo i casi - maledicono le banche che per loro rappresentano gli interessi di un capitalismo ladro. È assai probabile che Renzi, conoscendo questo fenomeno che tutti conosciamo, abbia puntato su di loro per allargare la platea dei suoi ascoltatori e sperabilmente degli elettori per il Pd. Questa motivazione è tuttavia molto esile, rispetto alla mole dei contraccolpi che ha suscitato e susciterà.

Il primo è la contrarietà di una buona parte della classe dirigente del Pd, di quasi tutta la classe dirigente del Paese e della pubblica opinione. Il secondo è un errore vero e proprio: gli italiani che se la prendono con le banche hanno di mira quelle operanti sul loro territorio, qualcuna grande e molte piccole e locali, ma non la Banca d'Italia della quale molti ignorano le funzioni. L'attacco di Renzi invece è stato soltanto nei confronti dell'Istituto di emissione e non alle banche e banchette che egli anzi difende. È curiosa questa dicotomia: lui spera di ottenere voti da chi odia le banche, ma parlando contro la Banca d'Italia dimentica che questa ha come compito di difendere le banche in difficoltà e di solito lo esplica.

Il terzo errore riguarda il suo rapporto con le personalità più autorevoli del Pd. Nella celebrazione effettuata sabato della scorsa settimana al teatro Eliseo gremito nella platea e nelle tribune dalla parte migliore e più attiva del partito, Renzi ha riconosciuto la necessità che il partito non fosse chiuso ma aperto: un partito che aveva il compito di ringiovanire e ricostruire la sua struttura e la sinistra che è in crisi in tutti in Paesi d'Europa salvo finora in Italia. Prima di lui aveva parlato Walter Veltroni e poi Paolo Gentiloni. Veltroni in qualche modo aveva fatto la storia del partito, le origini, la sua cultura politica, e le sue caratteristiche strutturali. Quando Renzi ha preso per ultimo la parola ed ha concluso la celebrazione, ha riconosciuto a Gentiloni un'efficiente condotta del governo di cui il Pd ha la maggioranza, e a Veltroni addirittura una qualità di padre del partito e in qualche modo padre della patria. Sostenendo che queste persone facevano parte insieme a lui della dirigenza del Pd e che altre ancora ne avrebbe accolte accanto a sé per formare una vera e propria classe dirigente con la quale avrebbe discusso e concordato tutte le azioni importanti da svolgere. Insomma una sorta di super direzione con la quale il partito avrebbe avuto una guida collettiva, di cui naturalmente il segretario era il capo riconosciuto.

Sono passati pochi giorni da quella riunione ed è scoppiato il caso Banca d'Italia. Discuteremo a parte la sostanza di quel caso, ma voglio ora far notare ai lettori che del resto ne sono certamente al corrente, che Veltroni non è stato informato minimamente dell'attacco all'Istituto di emissione e nessuna delle personalità ne era stata informata a cominciare ovviamente da Romano Prodi. Nessuno sapeva nulla, neanche Gentiloni che ricevette però la mozione per sottoscriverla con l'accordo del governo.

Per fortuna del Paese a Gentiloni quella mozione non piacque affatto così come era stata redatta dal Renzi e dal suo "Cerchio magico". Perciò mise al lavoro Anna Finocchiaro per modificarla non solo nella forma ma anche nella sostanza. Finocchiaro è molto brava in questo genere di questioni delicatissime e riuscì a modificarla in gran parte ma non totalmente. Tuttavia diventò accettabile per un governo come quello che abbiamo anche se però Renzi aveva già diffuso pubblicamente il testo originario. Quindi quello ufficiale contiene le correzioni notevoli di Finocchiaro ma quello del partito nella sua originaria integralità è comunque stato reso noto con tutti i mezzi di comunicazione. La reazione di Veltroni si compendia in due parole: "Documento incomprensibile e inaccettabile". Oltre a lui e con analoghe motivazioni si è schierato il presidente del gruppo Pd al Senato Luigi Zanda e molte altre personalità del partito. Il sigillo a queste posizioni è la dichiarazione fatta da Giorgio Napolitano che in qualche modo rappresenta e sostiene in ogni occasione con le appropriate motivazioni il bene del Paese.

L'altro errore compiuto da Renzi con la sua mozione è il più complicato e il più devastante di tutti ed è la coincidenza della posizione renziana con quella di Grillo, di Salvini e di Meloni. Questi movimenti sono sostanzialmente populisti in una fase dove appunto populismo e antipopulismo sono i due grandi fronti che si combattono in tutta Europa. L'errore, di cui secondo me Renzi non si è minimamente reso conto, è per l'appunto una sorta di populismo ancora iniziale; se questo tipo di politica continuerà, diventerà la vera caratteristica d'un partito nato su tutte altre basi e tutt'altre finalità. Definisco populista l'attacco alla Banca d'Italia perché appunto Renzi cerca nuovi elettori in fasce sociali che praticano inconsapevolmente un populismo di notevole marca: attaccare le banche e le banchette in genere non è una posizione seria e motivata: è un modo di pensare che cerca il male dove non c'è o dove ci può essere ma non come categorie (banche e banchette) ma su singoli istituti di credito e in alcune specifiche occasioni.

Di tutto questo credo che Renzi non si sia reso conto e proprio per questo ha compiuto un ulteriore errore dal suo punto di vista: vuol ingraziarsi chi vede il proprio male economico nelle banche e attacca non quelle banche ma la Banca d'Italia accusandola di far del male al sistema mentre la funzione che la Banca d'Italia esercita e che in larga misura effettua è proprio quella di proteggere il sistema bancario. Si vedrà ora se Ignazio Visco, governatore dell'Istituto di emissione sia incline a ritirarsi dalla carica o viceversa desidera essere riconfermato per i prossimi sei anni.

Ho avuto occasione tre giorni fa di parlare telefonicamente col governatore e posso riferire che lui non pensa affatto di ritirarsi anche se, qualora le autorità competenti lo pregassero di dimettersi per dar luogo a un mutamento, lui certamente darebbe le dimissioni per comportarsi come richiesto. Ma se questo non avverrà (e sicuramente non avverrà) il governatore attenderà le decisioni del presidente della Repubblica, lieto se saranno una riconferma. Spiegherà poi tutte le sue azioni con opportune documentazioni quando sarà interrogato dalla commissione incaricata di approfondire il funzionamento del sistema bancario italiano.

***

Ho già scritto prima che in tutta Europa è in corso uno scontro tra democratici e populisti. Inizialmente i movimenti populisti europei erano di piccola taglia elettorale e rappresentavano appunto quei piccoli gruppi di elettori i quali detestano la democrazia, che secondo loro, è un regime che fa l'interesse di pochi e danneggia quello del popolo sovrano. Negli ultimi tempi però questi piccoli movimenti che spesso non arrivavano neppure ad oltrepassare la soglia di voti che bisogna avere per entrar nei vari Parlamenti, hanno avuto una crescita di rapidità impressionante e quantitativamente di notevole rilievo. In tutti i Paesi d'Europa a cominciare dalla Germania, dall'Olanda, dalla Spagna, dalla Grecia, dall'Italia. In Francia no, questa crescita non c'è stata. Non c'è stata neppure negli otto Paesi che non hanno la moneta comune. Essere fuori dall'Eurozona è già di per sé un motivo di populismo monetario che consente ad essi di non conformarsi alla politica europea ma di averne una propria che spesso è più aperta verso Mosca che verso Bruxelles.

***

Il fatto della massima importanza che da un paio di anni sta avvenendo in tutta Europa è la trasformazione profonda della politica. Fino a un paio d'anni fa la politica era alla ricerca di quali fossero i provvedimenti da adottare per conseguire il bene del popolo. Il bene in tutti i sensi: maggior benessere economico, sociale, culturale. E poi di rapporti possibilmente amichevoli con le altre nazioni e in particolare con quelle politicamente più importanti nel proprio continente e nel mondo intero specie in tempi di società globale.

Infine la politica doveva perseguire e tutelare i grandi valori della libertà e dell'eguaglianza, senza mai abbandonare la tutela di uno di quei due valori che in quel momento non aveva dalla sua la maggioranza del popolo, ma che non poteva e non doveva in nessun caso scomparire. Un paese che gode della massima libertà ma con notevole distacco dall'eguaglianza sociale deve tuttavia tutelarne quel valore e viceversa. Una libertà senza eguaglianza affida il bene comune ai gruppi più forti, specie economicamente, di quel Paese se invece è l'eguaglianza a trionfare e la libertà a scomparire siamo a un passo dalla dittatura come del resto è accaduto in Russia.

Quei due valori sono dunque fondamentali entrambi e per mantenerli come tali occorre realizzare il mandato che ci viene dal pensiero di Montesquieu: una struttura politica di poteri separati l'uno dall'altro anche se al vertice debbono condividere lo stesso obiettivo e cioè la realizzazione del bene sociale attraverso la separazione dei poteri: quello legislativo, quello esecutivo e quello giudiziario. Quei poteri separati debbono tuttavia perseguire il medesimo fine che è appunto il bene comune e questo è assicurato da un vertice che alla tutela di quel fine è dedicato. Di solito si tratta del presidente della Repubblica e di una Corte non giudiziaria ma costituzionale che giudica infatti la costituzionalità degli atti compiuti dai singoli poteri.

Per restaurare e rinnovare la democrazia occorre un partito che col populismo non abbia nulla a che vedere e che pensi alla politica che abbia una P maiuscola come usava Aristotele. Quella maiuscola significa appunto una politica che persegua il bene comune in tutti i suoi aspetti, che non sono soltanto quelli economici e sociali, ma si compendiano appunto nella libertà e nell'eguaglianza, entrambe tutelate da appositi organi istituzionali. Avevamo sperato che il Pd fosse lo strumento politico per la realizzazione o il mantenimento o la maggiore efficienza e comunque l'atmosfera politica del Paese e del continente cui apparteniamo e questo era infatti la finalità del Partito democratico quando è nato dieci anni fa. E non voglio dire che sia scomparsa questa finalità, ma dico che è in pericolo e che il Partito democratico oscilla molto da questo punto di vista. Purtroppo Renzi ha il carattere che ormai conosciamo. Speravo che l'avesse cambiato e ne ero felice. Vedo che non è avvenuto ed anzi ha rifatto un passo indietro dalla strada appena imboccata.

Ora deve scegliere tra ritorno all'idea del partito aperto e un organo di consultazione e di attuazione di quanto deciso, oppure populismo fino in fondo all'insegna del "comando io" e allora, come Grillo e Salvini, diventeremo il peggio del peggio.

© Riproduzione riservata 22 ottobre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/10/22/news/scorciatoie_populiste_gli_errori_piu_gravi_del_leader-178958725/?ref=fbpr
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« Risposta #686 inserito:: Novembre 07, 2017, 11:57:58 am »

Il fattore Gentiloni per ricucire lo strappo tra generazioni
La continuità dura mezzo secolo. Poi avviene la rottura con i suoi effetti sulla politica. Non è affatto escluso che il presidente del Consiglio sia il successore di se stesso

Di EUGENIO SCALFARI
05 novembre 2017

LA STORIA e la filosofia della storia si pensano e si scrivono in vari modi. Si cerca anche di scoprire quali sono gli elementi essenziali e ricorrenti che alla storia danno un carattere, ma finora quell’elemento non è stato individuato tranne che in rare occasioni. Lo individuò a suo modo Cartesio e poi Kant e poi Hegel e Benedetto Croce. Molti altri la storia la fanno ma senza studiarne il carattere.

Quasi nessuno, ch’io sappia, ha studiato l’importanza delle generazioni, eppure quella è la vera legge che ha governato e governa l’andamento della storia. Le generazioni si succedono, il padre e la madre guidano ed educano i figli, la loro sensibilità, il loro modello di comportamento e anche la vita del loro futuro, gli studi che dovranno fare, la qualità degli amici che frequentano, la scuola dove vengono istruiti. Naturalmente i genitori, madre e padre, hanno compiti diversi ma — se la famiglia è omogenea — i figli crescono tra loro.

Il frutto di questo pensiero comincia fin dall’inizio dell’adolescenza, verso i 14, 15 anni. A quel punto figli e figlie cominciano a pensare in modo indipendente anche se in parte informati e influenzati dai genitori e anche dalla scuola. A 20 anni sono ormai del tutto autonomi e i pensieri e i comportamenti sono decisi da loro anche se i suggerimenti dei genitori continuano e vengono ascoltati. Tra i 22 e i 25 anni è ormai il loro tempo e la loro generazione comincia ad operare in modo non più guidato ma autonomamente consapevole.

Ora la domanda è questa: la nuova società rinnovata ma continuativa fino a quando sarà in grado di trasmettere alla successiva la continuità con la precedente? L’esperienza insegna che la continuità dura di solito tre o al massimo quattro generazioni, un secolo; ma più spesso mezzo secolo o poco più, cioè 50 o 60 anni al massimo. Dopo questo lasso di tempo avviene la rottura generazionale, con i suoi effetti sulla cultura ma soprattutto sulla politica: i suoi vizi ma anche le sue virtù. In teoria la società ( polis) ha il compito di fare il bene del popolo e chi governa conferma sempre che questo è il suo compito e questo il suo obiettivo. Talvolta coincide con la realtà ma più spesso no o per errori commessi da chi governa o con il desiderio di potere che induce a decisioni che spesso producono rotture inconciliabili. Bisognerebbe cambiare questa storia ma essa coincide con la storia del mondo, e cioè con la storia delle rotture, di generazione in generazione.

Sono di vario tipo queste rotture e avvengono soprattutto per lo scorrere del tempo che segna cambiamenti epocali e nuove attitudini per viverli e gestirli. Esigono anche che vi siano personalità che guidino questi mutamenti con l’intento esplicitamente dichiarato, anche se non sempre aderente alla realtà, di gestire quella rottura e le cause che l’hanno determinata. Bisognerebbe raccontarla questa storia, ma equivale alla storia del mondo. Occorre però capire in quale situazione si trova la generazione che attualmente decide le sorti del Paese. Non c’è modo migliore per l’inizio di un’epoca nuova recependo e guidando il cambiamento che la rottura ha prodotto ma assicurando nel contempo la continuità.

La cosa più singolare è che in questo momento la rottura si è verificata in tutto il mondo democratico occidentale e non soltanto nella politica ma nella vita e nella sua complessità: la famiglia, i rapporti uomo donna, la scuola per i figli, le Istituzioni che debbono governare e controllare il Paese, la propria professione, il lavoro, il futuro.

Naturalmente la rottura epocale della quale stiamo vivendo l’inizio non ha le stesse motivazioni in tutti i Paesi dell’Occidente. Noi dobbiamo comunque essere al corrente di quella prodotta nel nostro Paese e in quella Europa nella quale viviamo. Personalmente credo che la nostra rottura politica sia stata motivata dal sistema nel quale operano molti partiti. Negli altri Paesi d’Europa e d’America non è così: nella generalità dei casi esistono Parlamenti con due partiti, una destra e una sinistra che hanno in comune il sentimento democratico e cioè fare il bene del popolo, ma inteso e applicato in modi diversi. Uno dei due vince e ha quindi la maggioranza assoluta anche se l’affluenza al voto dei cittadini elettori è in costante diminuzione. A differenza degli altri Paesi, nel nostro i partiti che hanno un rilievo, anche se si distinguono tra quelli maggiori e quelli minori, sono a dir poco cinque e questa situazione determina uno stato confusionale molto elevato. Nella storia italiana c’è sempre stata, dalla caduta della Destra storica, una molteplicità di partiti dovuta al trasformismo imperante. Naturalmente questo trasformismo fu influenzato dall’avvicendarsi delle generazioni. L’Italia, proprio per questa ragione, non è mai riuscita a unirsi sostanzialmente. Esistono un Nord, un Centro, un Sud e due isole. Affermare che le condizioni di questo territorio siano comuni a tutti è un errore madornale. Lo Stato in Italia è una costruzione più formale che sostanziale. Fu fondato nel 1861 non a caso da personaggi molto diversi l’uno dall’altro: Mazzini, Garibaldi, Cavour. Fu un’operazione della massima importanza e pluralità, ma insieme all’unità formale e politica non ci fu l’unità sostanziale dei sentimenti, del lavoro, delle risorse, dei costumi. Rimasero differenti e in parte tuttora lo sono. L’unità d’Italia fu una rottura dell’equilibrio politico precedente ma, come già detto, fu istituzionale ma non sostanziale e se guardiamo all’Italia di oggi questa situazione risulta ancora più evidente.
***
Mentre leggete queste righe si sta votando in Sicilia per eleggere il governatore di quella Regione a statuto speciale e i membri del suo Parlamento. I sondaggi che precedono il voto danno la destra di Berlusconi e di Salvini in gara per il primo posto. Chi perderà sarà il secondo; la competizione al vertice è dunque tra la destra e il Movimento 5 Stelle. Il terzo — risulta dai sondaggi — sarà il Pd. Comunque l’ingovernabilità non è prevista perché, se saranno i 5 Stelle a vincere saranno loro a governare.

Le elezioni siciliane avranno una influenza negativa sul partito renziano quando si andrà alle elezioni generali nella primavera del 2018? La maggior parte dei commentatori sostiene questa tesi. Personalmente ho molti dubbi e anzi ho quasi la certezza che questa influenza negativa non ci sarà. La ragione è questa: l’influenza delle elezioni regionali o comunali dura sicuramente il primo mese e quello successivo; a volte arriva a tre mesi ma certamente non di più. Il popolo degli elettori che va a votare alle elezioni nazionali si è già scordato di quello che è avvenuto in Sicilia, è normale che avvenga così; può influenzare alcuni professionisti della politica ma non il popolo che va a votare. Tra quelle siciliane e quelle nazionali corrono quattro mesi o forse cinque secondo che il voto si faccia a febbraio o a marzo o addirittura ad aprile. Quindi non è questa la ragione che in questo momento turba fortemente il Partito democratico.

In Italia, come abbiamo già detto, la democrazia è affidata a un numero piuttosto elevato di partiti, per consistenza maggiori alcuni e minori altri ma tutti comunque operanti attivamente nella società e nelle istituzioni.
Negli altri Paesi europei questa molteplicità di partiti non esisteva o perlomeno era di scarsissima influenza rispetto alla governabilità. Adesso tuttavia la situazione in Europa è profondamente cambiata, perlomeno in alcuni Paesi: la Spagna sta vivendo una crisi addirittura di sopravvivenza unitaria; la Germania ha subito (ed anche l’Austria) un profondo mutamento. Dopo la fine dell’ultima guerra mondiale il cancelliere Adenauer governò la Germania nella sua ripresa dopo la sconfitta nazista e nel suo europeismo che peraltro non arrivò mai oltre la confederazione dei vari Stati tra di loro. Quando arrivò Merkel esisteva già l’alleanza tra il suo partito, Cdu, e il Csu bavarese. Questa alleanza, con la legge elettorale tedesca, riuscì per un periodo a governare da sola o a passare all’opposizione di fronte a una vittoria dell’Spd, il partito socialdemocratico tedesco. Successivamente però la situazione cambiò e la Cdu ebbe sì il maggior numero di parlamentari ma non la maggioranza assoluta. Cominciarono dunque le “grandi coalizioni”. Quelle più frequenti furono con il partito socialdemocratico che però ebbe un peso molto notevole sulla politica generale del Paese.

Questa volta la situazione elettorale è andata diversamente: il Partito socialdemocratico aveva già perso la sua ala sinistra (Linke) e Schulz che ne era diventato da poco tempo segretario ha dovuto registrare una perdita molto pesante nelle ultime elezioni. In conseguenza ha deciso di passare comunque all’opposizione per tentare di risollevare il suo partito e in tal modo ha messo Merkel in seria difficoltà: deve cercare alleanza alla sua destra dove i liberali- liberisti sono decisamente conservatori nell’economia del rigore e antieuropei: l’Unione confederata sì, la federazione no a nessun patto. Ora Merkel si trova in questa molto scomoda ma inevitabile situazione: il suo partito di centrodestra si allea con la destra. Il suo peso in Europa è inevitabilmente diminuito; il tandem con la Francia è diventato di fatto inesistente perché Macron si avvale della situazione tedesca e si è posto come numero uno dell’europeismo operante. Per alcuni versi la situazione italiana somiglia a quella tedesca anche se gli attori sono profondamente diversi da quelli della Germania. Esaminiamo questa situazione.

Cominciamo dal Movimento 5 Stelle nel quale si è prodotta una situazione completamente diversa da prima: il candidato premier e quindi il capo del partito è da poche settimane Di Maio il quale sta dimostrando un’attitudine a guidare un movimento ormai di fatto diventato partito, molto diversa da quella del suo predecessore. Grillo aveva in mente soltanto l’abbattimento di tutti gli altri partiti. Il fatto di raggiungere una maggioranza assoluta lo lasciava abbastanza indifferente perché non avrebbe mai raggiunto il 51 per cento da solo. Del resto, come ho già detto, a lui non interessava governare: voleva soltanto una scopa per portar fuori l’immondizia degli altri partiti; poi sarebbe accaduto quello che nessuno avrebbe potuto prevedere e tantomeno Grillo.

Di Maio è invece completamente diverso e Grillo è ormai diventato una sorta di suggeritore, ascoltato o no. Di Maio non vuole spazzar via gli altri ma vuole vincere. Sa benissimo però che quand’anche vincesse le elezioni di primavera da solo non potrebbe governare e quindi qualche alleanza dovrà pure prevederla visto che il premio esistente nella precedente legge elettorale è ormai del tutto scomparso. È pur vero che un 5 Stelle alleato direttamente con un altro partito allo stato dei fatti è imprevedibile anche perché probabilmente provocherebbe una forte diminuzione degli aderenti i quali sono grillini per protestare. Se gli domandi il programma ti rispondono che ce l’hanno ma non te lo vengono a spiattellare. Protestano e quindi sono dei protestatari, il che in qualche modo li avvicina ai populisti.

Di Maio non può certo abbandonare questa posizione ma deve in qualche modo inserirsi nella politica e non sputarle contro. Infatti ha previsto che alle prossime elezioni inviterà anche e soprattutto persone competenti nelle materie principali del governo, in economia, politica sociale, scuola, problemi europei, immigrazione. Personalità competenti e simpatizzanti anche di altri partiti. Se riuscirà in questo disegno avrà alcune alleanze indirette ma operanti e quindi il suo 25 per cento potrebbe avvicinarsi addirittura al 40. Insomma dei Verdini su misura 5 stellata. Non a caso ci sarà nei prossimi giorni un lungo incontro- scontro tra Di Maio e Renzi. Ho la vaga sensazione che l’incontro sarà più interessante dello scontro, altrimenti non ci sarebbe questo appuntamento televisivo da entrambi desiderato. Mostreranno tutti e due i muscoli al pubblico, ne parleranno tutti i giornali. Non ho ben capito quali siano le ragioni di Renzi per questo appuntamento ma si capiscono benissimo quelle di Di Maio, dunque è lui a guadagnare più dell’altro. Comunque con Di Maio i 5 Stelle, diventati ormai un partito, possono guadagnare qualche punto: dall’attuale 28 possono anche arrivare alla trentina, certo non di più.

La destra berlusconiana. Non può che chiamarsi così anche se è alleata di Salvini e di Meloni che insieme i sondaggi li prevedono al 18 per cento mentre Forza Italia di Berlusconi gira tra il 12 e il 14. Uniti insieme arrivano più o meno al 30. Ma chi è il capo? Salvini rivendica questa posizione e numericamente insieme ai Fratelli d’Italia ce l’ha, ma Berlusconi è un giovanotto di ottant’anni ancora interessante e soprattutto interessato. L’alleanza con Salvini è indispensabile per lui ma può eventualmente cercarne altre, mentre con Salvini non ci va nessuno; è lui che deve raccogliere voto per voto come ha tentato di far perfino in Sicilia. Ma, Meloni a parte, nessun altro si alleerà con Salvini al posto di Berlusconi quindi Salvini ha un percorso solitario, Berlusconi può cambiare gioco come vuole. Non a caso il primo è antieuropeista e il secondo è europeista in piena regola anche se dell’Europa non gli importa assolutamente niente ma gli è molto utile conservare l’immagine e non a caso è tuttora iscritto al partito popolare dell’Unione. Comunque l’alleanza attuale gira anch’essa intorno al 30 per cento, alla pari più o meno con i 5 Stelle.

Il Partito democratico è guidato da un Renzi che ha riscoperto, dopo la celebrazione del decennale dalla fondazione del partito, il fascino del “Comando io”. Evidentemente è un atteggiamento caratteriale dal quale non si separerà mai.

Il “Comando io” è una realtà generale nella storia dei popoli: se non c’è un leader non esiste un partito. Il tema però non è quello di mirare la leadership ma la sua struttura operativa che deve essere collegiale come è sempre stata la civiltà occidentale. C’è uno Stato Maggiore sempre e dovunque: negli eserciti, nelle comunità, nelle religioni, nei sindacati, nelle famiglie. Un leader e i suoi compagni. Il “Comando io” ce l’hanno soltanto i dittatori ma quelli ormai, almeno in Occidente, non esistono più.

Del resto il Partito democratico è percorso da crescenti fremiti: Orlando freme, Franceschini freme, tutte e due sono nel governo ma tutte e due controllano pacchetti di voto nel partito. Ma poi c’è un altro gruppo di comando di grande autorevolezza a cominciare da Veltroni, da Prodi, da Enrico Letta, che dovrebbero far parte dello Stato Maggiore. Quindi il “Comando io” è pura follia in un sistema democratico. Naturalmente c’è un Rosato, una Boschi, la presidente della Regione Friuli Venezia Giulia Serracchiani, ma quello è il giglio magico non uno Stato Maggiore.

Dopo avere esaminato i tre principali raggruppamenti politici, contornati da raggruppamenti minori, a cominciare dai dissidenti di D’Alema e di Bersani, chiudiamo parlando del governo Gentiloni. Il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, si è rivelato in pochi mesi un vero uomo di governo, fu investito di questa funzione quando Renzi la rifiutò dopo la sconfitta referendaria e indicò lui al presidente della Repubblica. Sembrava un suo sostituto messo a Palazzo Chigi e obbediente alle sue indicazioni.

Che Gentiloni sia riconoscente e quindi affettuosamente amico di Renzi è pacifico ed è dovuto, ma Gentiloni, che è persona di notevole intelligenza politica e moralità, si è immedesimato, come era ovvio e necessario fare, con la carica che gli fu affidata. L’ha condotta con indipendenza e intelligenza e ha creato un binomio con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, che rappresenta uno dei punti più saldi di una situazione peraltro molto agitata. Nel suo governo ci sono alcune personalità di prim’ordine sulle quali una dominante: il ministro dell’Interno, Marco Minniti. Ne parlo perché la sua personalità politica è piuttosto rara: oltre che ministro dell’Interno lo è anche dell’Immigrazione, degli Esteri per quanto riguarda la costiera africana del Mediterraneo e perfino dell’Economia per quanto riguarda le ripercussioni migratorie. È legato soprattutto a Gentiloni ed è di fatto il suo braccio destro. Questo governo condurrà l’Italia fino alle elezioni generali di primavera, ma non è affatto escluso che Gentiloni sia il successore di se stesso. Gli uomini su cui contare per il nuovo governo li conosce benissimo. Una parte saranno di nuova provenienza politica e una parte saranno quelli riconfermati. Se Renzi formasse il suo Stato Maggiore probabilmente riguadagnerebbe punti e arriverebbe di nuovo al 30. Tre gruppi al 30 rendono il Paese ingovernabile, tanto più che una nuova generazione non è ancora operativa e quindi il popolo sovrano è ancora di vecchio stampo.

In realtà la nuova maggioranza la deve trovare Gentiloni altrimenti l’ingovernabilità non è superata. I Verdini non bastano, bisogna che il Pd cresca e non si chiami più partito renziano. Lui resti il leader ma senza Stato Maggiore è meglio che si ritiri a Pontassieve.

© Riproduzione riservata 05 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/05/news/il_fattore_gentiloni_per_ricucire_lo_strappo_tra_generazioni-180267205/?ref=RHPPRB-BH-I0-C4-P2-S1.4-T1
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« Risposta #687 inserito:: Novembre 12, 2017, 12:22:35 pm »

L'uomo solo al comando non batte i populismi di massa
La destra di Berlusconi, di Salvini e di Meloni è unita all'esterno, disunita all'interno. Ma per la raccolta dei voti si presentano tutti e tre sottobraccio. Il Pd di Renzi deve essere aperto non solo nei confronti dell'esterno ma anche all'interno

Di EUGENIO SCALFARI
12 novembre 2017

Debbo cominciare l'articolo politico che intendo scrivere con una citazione di Freud ricordata di recente sul nostro giornale da Massimo Recalcati. "L'uomo non è padrone nemmeno a casa propria". Ma perché non è padrone? Perché è certamente alle prese con l'ingovernabilità tra la sua vita e la sua coscienza. L'Io dovrebbe impedirla e spesso questa ingovernabilità viene risolta, ma l'Io a sua volta è un vigilante vigilato: da un lato vigila sulle sue passioni, buone o cattive che siano, e dall'altro le festeggia anche lui ed anzi ne accresce la potenza. Così le passioni diventano sempre più irruenti e rendono la tua coscienza verso il tuo prossimo e verso te stesso sempre più fragile. Questo è il problema. È politico? Sì è anche politico, anzi lo è soprattutto perché la politica è il confronto tra il pubblico e il privato, tra gli interessi particolari e quello generale.

Noi italiani ed anche noi europei siamo giunti ad un punto in cui quel confronto è diventato generale. Gli esempi più evidenti li danno in questa fase l'Italia e la Germania dal punto di vista della governabilità. L'Italia avrà probabilmente, dopo le elezioni del 2018, tre partiti maggiori di pari forza, che non saranno in grado di stabilire alleanze e questo complica ulteriormente il problema.

La Germania ha già avuto le elezioni e la conseguenza è stata quella di un taglio totale della sinistra: la Merkel rappresenta il centro ed è alleata con la destra. Niente di male, può accadere ed è infatti accaduto più volte, ma c'è un'aggiunta da fare: nella situazione attuale aumenta il populismo. L'unico vero vincitore in tutta Europa è il populismo, con la sola eccezione della Francia dove è stato duramente sconfitto. Germania, Spagna, Italia e insieme a loro gran parte dell'Europa dell'Est sono dominate dal populismo nelle sue varie forme che costruisce per accrescere la sua influenza sul popolo (cosiddetto) sovrano.

Il nostro populismo è ultra-trionfante. Se si guarda al referendum costituzionale dell'anno scorso, esso registrò il massimo dell'affluenza come non si era mai vista da molti anni e il massimo dei No, alcuni dei quali furono espressi da personaggi di rilevante autorità culturale, a cominciare da Mario Monti, o da rappresentanti della sinistra dissidente, ma a dir poco il 70 per cento dei No fu votato da persone che avrebbero votato contro qualsiasi referendum proposto da partiti costituzionalmente riconosciuti. In fondo la sostanza di quel referendum, al di là di imperfezioni (numerose) si basava su un punto di notevole importanza: il passaggio da un Parlamento fondato su due Camere a una Camera unica, come avviene in tutti i Paesi democratici dell'Occidente.

Se dal referendum vinto dal populismo passiamo all'esame politico del campo attuale troviamo il populismo in tutta la destra: quella di Berlusconi ha le caratteristiche del grande attore di teatro che però impersonava qualunque personaggio e recitava qualunque testo, comico o drammatico che sia, ma l'attore è sempre lui e piace ad un pubblico molto numeroso. Un altro populista è Salvini. Bossi non lo era, Zaia e Maroni non lo sono, ma Salvini sì ed opera entro tutti i Comuni e le Regioni del Nord identificati con un Nord che voleva dominare sull'Italia intera dopo averla conquistata. Non potendo conquistare come nordisti l'odiata Roma, l'odiata Napoli, l'odiata Firenze, preferiscono andarsene in nome dell'autonomia. Soprattutto il popolo veneto che non può dimenticare che furono i loro bisnonni o meglio i loro trisavoli a conquistare l'intero Mediterraneo, da Costantinopoli alla Turchia e alle sue colonie, alla Libia e al Marocco compresi Malta e Creta e Cipro e Rodi. E vi pare che chi ha nel suo spirito questo ricordo e questo messaggio non voglia l'autonomia dal governo dell'odiata Roma? E il Piemonte? E la Lombardia delle Cinque Giornate contro l'Austria? È vero, questo è il nostro Risorgimento senza il quale l'Italia non sarebbe stata unita. Ma un fondo populista vede ancora in polemica il Nord e il Sud, oltre all'autonomismo siciliano e quello pugliese.

***

Torno allo scacchiere politico (il populismo è un elemento psicologico). La destra di Berlusconi, di Salvini e di Meloni è unita all'esterno, disunita all'interno. Ma per la raccolta dei voti si presentano tutti e tre sottobraccio; tre personaggi da avanspettacolo di notevole qualità, sia in commedia sia in tragedia. In opera musicale Meloni è un contralto, Salvini un baritono-basso, Berlusconi tenore o baritono alto. Orchestra al completo. Del resto il Berlusca con Fedele Confalonieri intrattennero da giovani il pubblico delle sale da ballo e perfino quello dei transatlantici da crociera di sessant'anni fa. Che trionfo, che carriera!

Segue Grillo, lui fa il burattinaio dei vari Arlecchini dei Cinquestelle. Da qualche tempo tuttavia gli Arlecchini si sono liberati dalla loro divisa di pezze a colori e hanno scoperto di essere uomini politici. I quali, fedeli in questo alle istruzioni di Grillo, non fanno alleanze se non con il loro popolo. E il loro popolo chi è, da dove viene, che cosa vuole? Il loro popolo non ama affatto la cosiddetta classe dirigente del Paese, buona o cattiva che sia. Vuole abbatterla, vuole che il terreno sia spianato, distrutte le siepi, i giardini con i cancelli, le spiagge libere a tutti, i partiti che non condividono queste richieste battuti e liquidati. L'Europa? Chissenefrega dell'Europa. L'euro? Forse era meglio la lira.

Se non ci fosse il Cinquestelle, che deve chiamarsi Movimento anziché partito perché partito è un pastrocchio che non dovrebbe più esistere e loro sono lì appunto per liquidarlo, probabilmente andrebbero a rafforzare la massa degli astenuti e viceversa: gli astenuti che decidono di votare vanno alle urne e votano scheda bianca o Cinquestelle.

Allora facciamo i conti: la destra berlusconiana, salviniana, meloniana, è fondamentalmente populista, magari sofisticata perché un programma di governo gli piacerebbe averlo e in parte ce l'hanno a cominciare dall'anti-immigrazione, sono guidati da un vecchio miliardario e da un combattivo padano che piace anche all'isola che sogna addirittura l'indipendenza. I grillini sono populisti senza menzionare la parola. Gli astenuti (salvo un 20 per cento che è la normalità), sono populisti anch'essi. Abbiamo in questo modo due formazioni politiche arricchite (o disturbate) da frange minori che stanno in coda al corteo ma comunque ne fanno parte. Ciascuna di queste forze rappresenta tra il 25 e il 30 per cento dell'elettorato, al quale bisogna aggiungere un 25-30 per cento degli elettori che non votano, senza conteggiare quel 20 per cento suddetto.

Il totale - destra, grillini, astenuti - dà più o meno il 75 per cento. Resta un 25 per cento dove si insedia il centrosinistra e la sinistra. Queste sono le operazioni numeriche datate al presente; ci vorranno altri sei mesi prima che si apra la corsa e molte cose possono accadere. Se cambiassero però, cambierebbero soltanto in meglio perché peggio di così è difficilissimo. Dobbiamo però aggiungere che tutte le forze (tutte) fin qui esaminate non spendono nemmeno una parola sull'Europa, salvo talvolta Berlusconi il quale sostiene di piacere ad Angela Merkel e che lei piace a lui. I seduttori sono simpatici, anche se spesso fanno danni come i processi sulle "olgettine" hanno dimostrato.

***

E qui siamo a Renzi e al partito a lui d'intorno e non tutto schierato in suo favore. Nel suo caso mi permetto un'altra citazione dall'articolo di Massimo Recalcati: "Anche dalla psicoanalisi può venire un'indicazione preziosa: l'accanimento nella volontà di governo che pretende di sopprimere il disordine tende sempre a rovesciarsi nel suo contrario; un ordine ottenuto con l'applicazione crudele del potere è peggio del male che vorrebbe curare; ogni volta che l'ambizione umana cerca di realizzare un ordine senza disordine si scontra fatalmente con delle manifestazioni straripanti e anarchiche del disordine. Il governo giusto non è quello che persegue lo scopo di annullare l'ingovernabile ma quello che lo sa ospitare".

Più volte ho sostenuto che Matteo Renzi era un uomo capace di buon governo, ma aveva un grave difetto caratteriale: voleva a tutti i costi comandare da solo, sistema incompatibile con una democrazia, soprattutto di sinistra (quella non più comunista dopo l'arrivo alla testa del Pci di Enrico Berlinguer). Probabilmente non si tratta di un difetto caratteriale ma psicoanalitico: se conoscesse bene il fondo dell'anima e le sue conseguenze sul suo comportamento forse quel difetto scomparirebbe.

Lui nega sempre con forza di voler comandare da solo. Sostiene che, come in tutti i partiti, c'è un leader anche in quello da lui guidato, ma è affiancato da una direzione con la quale spesso si consulta e a volte anche con persone autorevoli per capacità e per storia che aderiscono al suo partito e che lui incontra assai spesso per confrontare i punti di vista e acquisire esperienze e suggerimenti.

In una recente conversazione telefonica mi ha fatto i nomi di queste persone, tra i quali ricordo quello di Piero Fassino, di Dario Franceschini, di Andrea Orlando e di personalità tra le quali primeggia il nome di Walter Veltroni. Gli ho ricordato che le sue consultazioni sono però a sua propria disposizione. Per esempio sull'attacco - a mio avviso del tutto improprio - contro il governatore della Banca d'Italia non ha informato nessuno, non Veltroni, tantomeno Prodi e non credo che Fassino lo sapesse. La sua quindi è una consultazione che avviene su sua propria decisione, non è uno Stato Maggiore che opera con un Capo e con i comandanti delle varie armate. Se lui non creerà una sorta di Stato Maggiore non nel governo, dove Gentiloni ce l'ha, ma nel partito, la questione di un leader che comanda da solo resta ferma e questo non va affatto bene. Debbo dire che l'ha riconosciuto. Non so quanto valga questo riconoscimento ma mi sembra doveroso riferirlo.

Il secondo problema che riguarda il leader e l'intero partito è quello dell'ingovernabilità che, anzi, è un problema dell'intero Paese. L'ingovernabilità comporta alleanze e queste bisogna farle prima delle elezioni. Un'alleanza con Bonino sarebbe molto opportuna e comunque il partito deve essere aperto non solo nei confronti dell'esterno ma anche all'interno. Questo significa che il leader si consulta con gli esponenti più autorevoli del partito su tutte le decisioni da prendere.

Se questo avverrà il partito sarà profondamente rinnovato e potrà risolvere in qualche modo positivo il problema dell'ingovernabilità. Altrimenti la sinistra, quella dentro il Pd e quella che ne sta fuori, sarà liquidata dal populismo che sta dilagando e se vincerà decadranno i valori e gli ideali e crescerà purtroppo l'ingovernabilità dei corpi e delle anime.

© Riproduzione riservata 12 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/12/news/l_uomo_solo_al_comando_non_batte_i_populismi_di_massa-180876516/
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« Risposta #688 inserito:: Novembre 16, 2017, 08:56:50 pm »

I democratici e la sinistra

Gli uomini democratici debbono ricostruire la sinistra.
Stiamo andando incontro all’ingovernabilità.
Le alleanze saranno indispensabili dalla sinistra al centro

Di EUGENIO SCALFARI
14 novembre 2017

Se dobbiamo dare un giudizio su quanto è avvenuto nella direzione del Pd convocata dal segretario di quel partito, mi avvarrò per cominciare di un sintetico scritto di de Maistre che nel suo libro Mélanges, considerato un capolavoro da Baudelaire, dice: «La ragione non genera che dispute, mentre l’uomo per comportarsi bene nel mondo non ha bisogno di problemi bensì di ferme credenze».

Applico questa massima a quanto è accaduto nella direzione del Pd: il discorso di Renzi l’ha seguita e le sue «ferme credenze» sono state queste.
1. Nella situazione attuale occorre che tutta la sinistra sia unita e chi è uscito dal partito rientri.
2. Non parliamo di quanto è accaduto negli anni precedenti.

Allora il partito era unito e ciascuno democraticamente esponeva le sue opinioni e i suoi dissensi; la maggioranza sosteneva il presidente del Consiglio e capo del partito e la minoranza esercitava un compito importante e utile, del quale ho sempre tenuto conto nei limiti del possibile.

3. Se in un momento difficile i dirigenti ritornano, compiranno un atto molto utile non solo per il partito ma per l’Italia e anche perfino per l’Europa.
4. Dal loro rientro in poi discuteremo insieme la linea futura, la campagna elettorale che condurremo nei prossimi mesi, quello che nel frattempo faremo e diremo.
5. Non ci chiedano però l’abiura rispetto a quello che abbiamo fatto finora. Avremo pur compiuto qualche errore perché la perfezione non esiste nel mondo, ma sono stati errori marginali. Comunque d’ora in avanti discuteremo la linea e l’attueremo insieme.

La notizia che fuori discorso Renzi ha dato è una sua dimostrazione di buona fede e di forte desiderio che il rientro dei dissidenti avvenga: è stato incaricato Piero Fassino di trattare con loro le modalità del rientro e il merito dei temi che saranno discussi e sui quali i rientrati avranno il loro peso indipendentemente dal loro numero. Fassino è una personalità primaria: a suo tempo fu segretario del partito che allora si chiamava Ds, democratici di sinistra; poi fu un ottimo sindaco di Torino e ora è una delle personalità più attive del Pd. Affidare a lui la trattativa coi dissidenti è il segnale più evidente della serietà del tentativo e delle garanzie che sono previste.

Accetteranno? Capiscono l’importanza d’un partito che a quel punto andrebbe da Bersani a Franceschini, da Pisapia a Minniti, da D’Alema a Orlando? E tengono conto dell’appello di Veltroni alla riunificazione? Walter è il padre del Pd e ancora nelle ultime ore ha fatto un pubblico appello all’unità. Se c’è una voce che merita d’essere ascoltata è la sua. È pessimista che il suo appello sia accolto ed è anche critico verso certi comportamenti renziani, ma conviene sul fatto che il partito debba essere di nuovo unito e riscrivere tutta la carta di rifondazione d’una sinistra moderna e antipopulista (perché è il populismo il vero nemico in Italia e in Europa).

Voglio ora discutere un punto sul quale l’errore della dissidenza di sinistra si manifestò pubblicamente: il referendum costituzionale che mirava a costruire un assetto sostanzialmente monocamerale. L’affluenza fu altissima e la votazione dei No fu del 60 per cento di fronte al 40 dei Sì. I dissidenti democratici, che ancora non erano usciti dal partito, votarono No o si astennero dando pubblica notizia della loro astensione.

Ho ricordato varie volte questo aspetto della questione: il grosso dei No fu votato dal populismo ispirato dai grillini, dalla Lega di Salvini e dai Fratelli d’Italia. Mi chiedo: come è possibile che la sinistra-sinistra non sapesse che tutti i Paesi europei sono monocamerali? E perché l’Italia ha rifiutato quel sistema, tanto più che l’intero mondo occidentale sta attraversando un’immensa crisi economica e sociale e anche politica che rende il monocameralismo assolutamente necessario in una situazione dove le decisioni da parte del governo e del Parlamento debbono essere realizzate con la massima velocità?

Gli uomini democratici debbono ricostruire la sinistra. Stiamo andando incontro all’ingovernabilità. Le alleanze saranno indispensabili dalla sinistra al centro. E voi, dissidenti, volete che il Pd non potendo avere il vostro appoggio concentri con scarso successo la sua ricerca di sostegno al centro, oppure capite che una sinistra forte e compatta può ottenere dal centro ulteriori appoggi opportuni ma non indispensabili?

Mi sembra assolutamente elementare quel poco che qui ho scritto, come sono altrettanto consapevole dei difetti caratteriali di Renzi, che in questo caso sembra però averli superati. L’appello di Veltroni e l’incarico a Fassino vi sembrano poca cosa? Riflettete e poi decidete. Guardate a Cuperlo: rappresenta esattamente quello che dovete fare nella storia della democrazia italiana.
Debbo ora fare un’ultima osservazione critica. Mi dispiace molto, anzi moltissimo perché riguarda due persone con le quali ho da tempo rapporti di grande amicizia.

Si tratta del presidente del Senato, Grasso, e della presidente della Camera, Boldrini. Grasso si sta proponendo come il nuovo leader della sinistra-sinistra; Laura Boldrini è sulla medesima posizione: non capisco bene come risolveranno il problema di presiedere in due un partito per ora fatto di schegge che unite insieme arrivano a stento a superare la soglia prevista per l’ingresso nelle Camere. Ma la mia osservazione riguarda un altro punto della questione: i due presidenti delle Camere sono ora impegnati in una delicatissima azione politica e si oppongono entrambi alla riunificazione che si può fare soltanto a condizione dell’abiura da parte dell’attuale segretario del Pd.

La questione che li riguarda è però che essi resteranno per altri sei mesi se non anche di più presidenti delle Camere. Non sentono che un presidente del Parlamento non può e non deve spendere gran parte del suo tempo diventando leader d’un partito, grande o piccolo che sia? E si preoccupano di sapere quale sia il giudizio che di questa loro situazione dà l’opinione pubblica?

Personalmente entrai in Parlamento quarant’anni fa e naturalmente mi dimisi dal giornale che dirigevo ma ho sempre dichiarato, quando si votava su una qualunque questione, che io non mi sarei conformato al vincolo di mandato e avrei votato solo secondo coscienza come il mio partito o diversamente da esso. Se fossi parlamentare in questa situazione mi alzerei all’inizio di ogni seduta dichiarando di uscire dall’aula per non rientrarvi fino al giorno dopo perché la presidenza potrebbe essere indotta a comportamenti dettati dalla sua leadership di un partito.

La verità è che se vogliono far politica in prima persona debbono lasciare le cariche che ora stanno ricoprendo: chi presiede un’assemblea parlamentare deve essere assolutamente neutrale. Loro pensano di esserlo ed è una buona intenzione ma se ci fosse un contrasto politico non resisterebbero. Perciò prima si dimettono e meglio è.

© Riproduzione riservata 14 novembre 2017

Da - http://www.repubblica.it/politica/2017/11/14/news/i_democratici_e_la_sinistra-181045373/?ref=RHPPLF-BH-I0-C8-P1-S1.8-T2
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« Risposta #689 inserito:: Novembre 20, 2017, 06:00:23 pm »

Un partito democratico e aperto per fermare i populismi
L’Italia d’oggi è affetta da un populismo dilagante ma di nature profondamente differenti

Di EUGENIO SCALFARI
19 novembre 2017

Il socialismo democratico è in decadenza in tutta Europa e in tutto il mondo occidentale, compresi l’Inghilterra, gli Stati Uniti e le due Americhe del Centro e del Sud. Resta da capire il perché, ma occorre anche comprendere che cos’è la democrazia socialista.

Quando trionfò in quasi tutto il mondo il comunismo bolscevico, il socialismo di fatto aveva cessato di esistere. Quel poco che ancora sopravviveva era una sorta di piccola appendice del comunismo bolscevico. Parlando della situazione italiana fu tipico, da questo punto di vista, il partito d’Azione con il suo slogan “Giustizia e Libertà”. La decadenza attuale ha varie cause. La più importante è quella che identifica i liberali con il capitalismo, che usa la libertà ma assai poco la giustizia.

Una motivazione altrettanto importante è l’ondata di immigrazione che proviene soprattutto dall’Africa e ha l’Europa come principale meta da raggiungere. La terza infine è la pessima distribuzione della ricchezza e per conseguenza l’aumento della diseguaglianza economica e sociale. Quest’ultima in teoria dovrebbe favorire la crescita nei ceti più deboli ma ha invece generato un fenomeno relativamente nuovo cui gli studiosi di scienze sociali hanno dato il nome di populismo: il popolo è una massa che si ribella a tutto ma al tempo stesso ha bisogno di un capo che la guidi.

Quindi la situazione è un’anarchia con tendenze dittatoriali che rischiano in tempo breve di trasformarsi in una vera e propria dittatura.
Anche le dittature possono avere forme diverse l’una dall’altra. Nell’America del Sud e in particolare in Argentina ci fu la dittatura peronista: Peron le dette un ampio impulso a sfondo sociale e dopo la sua morte la vedova lo portò avanti con ancora maggior vigore.

Nel Centro America trionfò dopo lunghe battaglie la dittatura comunista di Fidel Castro a Cuba e il castrismo, declinato in varie forme e movimenti, oltre che a Cuba si diffuse in gran parte dell’America del Sud, dall’Uruguay al Cile al Venezuela e alla Colombia. Questo è il quadro generale del populismo.

Se vogliamo approfondire la situazione italiana, anche da noi nacque il populismo che risale al fascismo di Benito Mussolini. All’inizio della sua carriera politica era un socialista rivoluzionario, poi divenne guerrafondaio e incitò dal suo giornale Il Popolo d’Italia all’intervento italiano nella prima guerra mondiale dove avemmo come nemici tradizionali l’Austria e la Germania. Alla fine di quella guerra, gli ex combattenti che erano centinaia di migliaia fondarono un’associazione per rivendicare un particolare riguardo economico: molti avevano subito profonde ferite la cui guarigione era stata tuttavia parziale. Il sostegno economico doveva essere rivolto ai mutilati in particolare e a tutti gli ex combattenti in generale.

Mussolini si appoggiò molto agli ex combattenti e spronò il popolo a sostenerli e ad aderire al fascismo che per l’appunto aveva fatto di loro la sua base principale. I Fasci, fondati nel 1919, erano decisamente anticomunisti e proprio per questa ragione furono anche finanziati dal capitalismo delle grandi imprese a cominciare dalla Fiat e non soltanto: anche dalle associazioni degli Agrari particolarmente forti nell’Italia adriatica.

Mussolini metteva soprattutto in rilievo gli interessi dei reduci e dei Fasci di combattimento, che volevano la Repubblica. Si allearono invece con i nazionalisti che misero come condizione il mantenimento della monarchia. Tutto ciò venne fuori al congresso a Napoli del Partito fascista nel 1922. È inutile ricordare cosa avvenne dopo: la marcia su Roma, la conquista dell’Etiopia e dell’Albania, il Re imperatore e Mussolini il Duce. La domanda da farsi è: come mai quando cadde il fascismo tutti gli italiani si proclamarono antifascisti? Era il populismo che aveva sostenuto prima il fascismo e poi quando cadde in massa lo sconfessò. E adesso siamo ancora populisti? E come e con chi?

L’Italia d’oggi è affetta da un populismo dilagante ma di nature profondamente differenti. C’è un populismo motivato dall’immigrazione che ispira soprattutto la Lega di Salvini. Il populismo di Berlusconi riflette invece il fascino con il quale lui ha incantato una notevole quantità di persone. In che modo? La politica di Berlusconi somiglia molto al gioco delle tre carte che attrae e raduna molta gente; il capo del banco a volte fa vincere qualcuno della folla che si addensa attorno al suo tavolo ma il vero risultato è che intasca tutto lui. Non parlo qui di denaro, parlo di seguito elettorale. Lui è un attore e autore contemporaneamente, non ama la dittatura: ama vincere come tutti i giocatori.

I grillini (non sopportano di venire chiamati così ma questo è il nome con cui sono nati e tale rimane) sono i populisti per eccellenza: raccolgono gran parte di quelli che odiano non solo i politici ma la politica, non fanno alleanze con nessuno, i loro obiettivi sono la distruzione di tutti gli altri partiti o quanto meno la loro sonora sconfitta elettorale. Se andranno al governo dopo aver realizzato l’obiettivo numero uno, che è appunto la messa in mora della forma partito, decideranno (lo dicono sin d’ora) di corrispondere un aiuto economico a tutti i cittadini dei ceti popolari più bassi e medio-bassi imponendo un’imposta patrimoniale sui ceti molto ricchi, con la quale finanziare l’aiuto agli altri.

Ci sono poi coloro che si astengono dal voto. L’astensione definita naturale è quella che riguarda le persone anziane o indisposte o quelle già maggiorenni ma ancora troppo giovani per essere interessate alla politica. In termini numerici l’astensione naturale è valutata al 20 per cento del corpo elettorale ma noi siamo al 40-45 per cento il che significa che il 20-25 per cento è un’astensione a sfondo populista: cittadini che forse militavano in un partito che poi li ha delusi. Non avendo un altro partito che li attraesse si sono rifugiati nell’astensione o nel grillismo. I due flussi si equivalgono come intendimento, solo che gli astenuti furono delusi da un partito che amavano e la storia del costume ci insegna che chi è deluso da un amore assai difficilmente ci ritorna. E Renzi?

Il Pd non è populista, qualche passo sulla buona strada l’ha effettuato: Renzi ha escluso ogni abiura del suo passato di leader, ma nel futuro che comincia da subito e diventa quindi anche presente è disposto ed anzi desideroso di aprire il Partito ai dissidenti usciti dal partito. È desideroso che rientrino ed ha proposto che, una volta rientrati, si apra con loro una discussione sui temi di maggiore attualità sociale ed economica ed essi, anche se relativamente pochi di numero, avranno un peso particolare nelle decisioni da prendere. Carta bianca da scrivere insieme: questa è la proposta. Ed ha incaricato Piero Fassino — uomo di particolare impegno e autorevolezza — di consultare uno per uno i dissidenti che hanno a loro volta formato piccoli gruppi politici avversari del Pd, nel quale avevano lungamente militato ma che con il suo arrivo, a loro avviso, era diventato politicamente invivibile.

Fassino ha cominciato con l’incontrare i presidenti delle due Camere e Grasso in particolare, il quale sta per essere eletto Capo dei dissidenti. Poi Fassino ha proseguito nel suo giro e ormai ha incontrato quasi tutti ma i soli che hanno in qualche modo aperto alla discussione sono Pisapia ed i suoi seguaci. Almeno per ora c’è una chiusura netta da parte di tutti gli altri. Pisapia a sua volta ha posto una condizione che, almeno a quanto abbiamo capito, consiste nella creazione da parte del Pd di una nuova carica il cui nome potrebbe essere quello di moderatore, o almeno qualche cosa di simile. Il compito del moderatore sarebbe quello di presiedere le discussioni tra Renzi da un lato e gli ex dissidenti rientrati nel partito dall’altro.

Il moderatore sarebbe dunque una figura di notevole importanza, necessaria secondo Pisapia per guidare la discussione, nella quale Renzi è una parte in causa e che quindi non può presiedere. Sono stati anche formulati i nomi dei possibili moderatori: Veltroni, Prodi, o addirittura Gentiloni con l’autorità che gli deriva dall’essere presidente del Consiglio di un governo in gran parte formato con ministri provenienti dal Pd. Resta da vedere se Renzi accetterà. La proposta di Pisapia, a nostro avviso, è decisamente accettabile e non intacca affatto la carica di segretario del partito cui Renzi fu eletto con le Primarie.

Debbo fare un’ultima osservazione che ritorna su quanto già scrissi domenica scorsa. Riguarda la permanenza dei presidenti del Senato e della Camera indicati anche come i nuovi leader dei gruppi della sinistra dissidente.

Il parere che ho espresso domenica scorsa è che le due cariche parlamentari sono incompatibili con la guida di movimenti politici molto combattivi nei confronti del partito di provenienza.
Questo mio parere è stato in parte preso in considerazione da Luciano Violante, il quale è un costituzionalista e un politico di grande esperienza. In un’intervista su Repubblica Violante ha detto che se quanto sta avvenendo si fosse verificato a metà legislatura, Grasso e Boldrini avrebbero certamente dovuto dimettersi, ma poiché è avvenuto a legislatura pressoché terminata, la loro posizione è accettabile.

Mi fa piacere che Violante abbia previsto la necessità di dimissioni se ci trovassimo a metà legislatura, ma a differenza di quello che lui sostiene, il finale legislatura avverrà tra sei mesi e forse anche tra sette, e le dimissioni sono ancora più necessarie. Gli ultimi sei mesi saranno di piena campagna elettorale e quindi l’incompatibilità tra le due cariche diventerà ancora maggiore. Mi auguro che queste dimissioni ci siano, in realtà avrebbero dovuto già averle date. Se le daranno avranno le felicitazioni di molte e molte persone alle quali mi permetterò di aggiungere anche le mie.

© Riproduzione riservata 19 novembre 2017

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