LA-U dell'OLIVO
Novembre 23, 2024, 03:01:32 pm *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 37 38 [39] 40 41 ... 47
  Stampa  
Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 317775 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #570 inserito:: Giugno 29, 2015, 05:52:32 pm »

Il dubbio di Amleto che dilania noi e l'Europa
L'Unione non c'è e la disaffezione dei cittadini nei Paesi membri aumenta. Il che rende ancora più spinoso il problema.
Per Renzi la sinistra coincide col cambiamento che si materializza con le sue riforme. Ma le cose non stanno così.

di EUGENIO SCALFARI
28 giugno 2015
   
IL MASSACRO in Tunisia, gli attentati in Francia, le stragi negli Emirati, l'atteggiamento sempre più ambiguo della Turchia, la lotta tra sunniti e sciiti, il Califfato che prospera sul terrorismo dilagante, locale o etero-diretto, rendono più che mai attuale il dubbio di Amleto: essere o non essere. Ma chi deve porsi questa domanda?

Certamente — e per prima — deve porsela l'Europa. Mai come ora è il continente più ambito, meta d'una umanità povera e disperata, i "senzaterra" come l'ha definita Papa Francesco, ma diviso e disunito in una società globale dove tutti gli Stati che contano hanno dimensioni continentali: gli Stati Uniti d'America, la Cina, l'India, l'Indonesia, il Brasile, la Russia.

Di fronte a queste potenze gli Stati membri dell'Unione europea navigano ciascuno per conto proprio in un mare sempre più tempestoso. Ricordano, quegli staterelli, le barche cariche di migranti che quasi sempre affondano con il loro carico umano. È questa l'Europa? Purtroppo sì, è questa e l'abbiamo più volte ripetuto, ma il terrorismo crescente ha reso il tema dell'unità europea ancor più attuale.

Il nostro è il continente più ricco di antica ricchezza, tecnologicamente il più avanzato, più popoloso degli Usa, della Russia, del Brasile, ma privo di forza politica e paradossalmente deciso a non volerla acquisire, incapace di risolvere i problemi dell'immigrazione, incapace di riportare alla legalità e alla pacificazione un Paese come la Libia che è la nostra frontiera mediterranea, incapace di darsi una "governance" federale, in grado di affrontare i problemi che la società globale ci porrà in misura sempre più crescente.

Essere o non essere? Amleto scelse di non essere e fece la fine che Shakespeare ci racconta, noi europei stiamo facendo altrettanto e se non vi poniamo al più presto riparo faremo la stessa fine. E se ci domandiamo il perché di questo volontario nichilismo, la risposta è molto semplice: i nostri Stati confederati non vogliono federarsi perché le loro classi dirigenti politiche non sono disposte a cedere la loro sovranità. Aggiungo: neppure la "governance" europea è disposta a costruire un quadro istituzionale diverso da quello esistente. Basta osservare ciò che è accaduto nelle ultime settimane e negli ultimi giorni in occasione delle trattative sull'immigrazione, sul caso greco, sul caso ucraino. Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione di Bruxelles, ha rimproverato il presidente del Consiglio dei capi di governo europei, il polacco Donald Tusk, che secondo lui era andato oltre le sue competenze. Il suddetto Tusk dal canto suo aveva appoggiato la tesi dei Paesi dell'Est europeo (tra i quali il suo paese, la Polonia) contro le quote sulla base delle quali ridistribuire l'immigrazione. Tusk sapeva che il tema delle quote stabilirebbe una equa ripartizione degli immigrati, ma il patriottismo di bandiera l'ha avuta vinta.

Questo episodio tuttavia dimostra che Tusk ha una carica priva di veri poteri presidenziali: è un polacco che si limita a presiedere il Consiglio dei capi dei governi e nulla più.

Quanto al caso greco, solo in queste ore le Autorità europee dimostrano fermezza che avrà come probabile soluzione il "default" di quel Paese. Se avessero potuto e voluto dimostrarlo tempestivamente, se la Grecia fosse stata come uno Stato americano nei confronti delle decisioni prese dalla Casa Bianca e dal Congresso, quello che sta accadendo non sarebbe accaduto. Anche la California è andata in fallimento ma è stato suo il problema di risanare le sue finanze che non incidono sul bilancio federale e sul debito sovrano degli Stati Uniti.

Insomma l'Europa non c'è e la disaffezione dei cittadini dei Paesi membri, i 28 dell'Ue e i 19 dell'eurozona, nei suoi confronti tende ad aumentare, il che rende ancora più spinoso il problema.

Se la Germania prendesse l'iniziativa, se le varie autorità europee si ponessero sulla stessa linea, se i governi nazionali accettassero il loro declassamento e la federazione con un suo regime necessariamente presidenziale, allora il finale shakespeariano sarebbe diverso. Ma temo che tutto ciò non accada. A meno che Draghi, usando i suoi strumenti economici, non ce la faccia.

***

Il dubbio amletico riguarda anche l'Italia? Anche noi, la nostra classe politica, ci dobbiamo porre la domanda del " To be, or not to be " in casa nostra?

Purtroppo sì. In Europa dovevamo essere i primi a volere e a proporre gli Stati Uniti federati, ma in Italia ci dovevamo porre un problema più che mai sovrastante su tutti gli altri: noi siamo un Paese particolarmente anomalo, siamo il solo in tutta Europa dove il maggior partito  -  pur se in forte declino nei sondaggi attuali  -  è il centro dello schieramento politico. Una destra decente non c'è, la sinistra non c'è più. Ci sono gruppuscoli animati da buone intenzioni ma velleitari.

Renzi sostiene che la sinistra coincide con il cambiamento, il quale si materializza con le riforme. Lui le riforme le sta facendo mentre tutti gli altri governi precedenti (dice lui) non le fecero, quindi il cambiamento è in moto e questa è la sinistra. Forse ne è convinto e anche il suo "cerchio magico" è dello stesso avviso, ma le cose non stanno così. Riforme e cambiamento possono essere di sinistra, ma possono anche essere di destra o senza alcun segno che dia loro un colore politico.

Il "Jobs Act" per esempio non è di destra ma tantomeno di sinistra. Dà una prospettiva al precariato, ma concede alle imprese il licenziamento collettivo senza reintegro. La riforma del Senato nel testo finora approvata dalla Camera, diminuisce le prerogative del potere legislativo e aumenta enormemente quelle dell'esecutivo. È una riforma di sinistra? Affatto.

La riforma elettorale con un premio di maggioranza per chi ottiene il 40 per cento dei voti espressi è una riforma di sinistra? Proprio no. Nessuno ha mai dato un premio a chi non abbia raggiunto la maggioranza assoluta e anche di quest'ultima c'è il solo caso della cosiddetta legge truffa varata da De Gasperi nel 1953.

L'abuso delle leggi delega che vengono ormai proposte su tutti i temi e abbassano drasticamente i poteri del Parlamento, sono una prassi di sinistra? L'uso e l'abuso dei maxi-emendamenti è di sinistra? Venerdì scorso Michele Ainis sul "Corriere della Sera" ha citato un maxi-emendamento di 25mila parole e un articolo che aveva centinaia di commi con rinvii ad altri commi di altre leggi vigenti. Trasparenza? Zero.

Qualche giorno fa l'attuale sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, lamentava l'assenza di un concetto serio di sinistra. La stessa affermazione ha fatto più volte Laura Boldrini, presidente della Camera.

Nel frattempo le astensioni ammontano al 52 per cento e il Partito democratico renziano è sceso dal 41 al 32 per cento. Sono sondaggi, fotografie dell'oggi. Possono cambiare se cambierà la congiuntura economica. Ma la sinistra non c'entra con la congiuntura se essa avesse come esito sociale un aumento delle disuguaglianze. La vera sinistra o se volete la sinistra moderna è liberal-democratica, vuole maggior benessere per tutti ma eguaglianza nelle posizioni di partenza, come tante volte sostenne ai suoi tempi Luigi Einaudi. Se il cambiamento non è questo, la sinistra continuerà a non esserci e noi resteremo l'unico Paese governato dal centro. Una assai sgradevole prospettiva. Ricordate le parole di papa Francesco: "Ama il prossimo tuo un po' più di te stesso" e fatene tesoro.

***

Sul caso De Luca, Renzi alla fine si è comportato come bisognava fare: ha sospeso De Luca prima ancora che si insediasse, nominasse la giunta e il suo vicepresidente. Insomma ha applicato il dettato della legge Severino. Molto bene. Vedremo adesso che cosa accadrà. Ci saranno ricorsi in quantità e alla fine spetterà al Tribunale di Napoli decidere. È probabile che si finisca con un commissario e nuove elezioni.

Il caso Marino è diverso ma in qualche modo analogo: Roma è diventata una città inguardabile e non può restare così. Il Pd renziano è largamente partecipe allo scandalo Mafia-Capitale. Il commissario del partito, Orfini, ha subìto minacce gravi da personaggi para-mafiosi ed è sotto scorta per tutelarlo. Fabrizio Barca e i suoi collaboratori volontari che hanno esaminato, su mandato della direzione del partito, l'attività dei circoli romani giudicandone alcuni buoni, altri mediocri ed altri pessimi, ricevono continuamente crescenti minacce dagli esponenti dei circoli che hanno ricevuto qualifica negativa e anziché correggersi manifestano desideri di vendetta.

Insomma resta la domanda: essere o non essere? Renzi fa quel che può ed è certamente bravo. Vende bene il suo prodotto. Ma se il prodotto non c'è o non è buono? In Italia e in Europa? Allora che faremo noi elettori quando le urne si apriranno e il popolo sovrano (?) dovrà scegliere?

© Riproduzione riservata
28 giugno 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/06/28/news/il_dubbio_di_amleto_che_dilania_noi_e_l_europa-117853094/?ref=HRER2-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #571 inserito:: Luglio 01, 2015, 05:37:26 pm »

Francesco, Papa profeta che incontra la modernità
Dall'Enciclica ai Valdesi, ecco chi è veramente Jorge Mario Bergoglio

Di EUGENIO SCALFARI
01 luglio 2015

Bisogna rileggere il "Cantico" di Francesco d'Assisi, che proprio per questa rilettura è stampato in questa pagina e che papa Bergoglio ha posto come titolo della sua prima Enciclica. Esso illumina tutto il documento del Papa, spiega perché Bergoglio ha preso il nome di Francesco che non era mai stato usato nei duemila anni di storia della Chiesa e soprattutto dà significato e risposta ad una domanda che molti, fedeli e non fedeli, si sono posti: perché mai papa Francesco dedica la sua prima Enciclica all'ecologia? Non ci sono altri problemi assai più pressanti e drammatici in questi tempi oscuri che stiamo attraversando? Certo che ci sono e papa Francesco li affronta uno dopo l'altro in tutta la loro plenitudine, cominciando da quello della povertà, dall'emigrazione di interi popoli ormai senza terra, dalle guerre che dilaniano il mondo, dall'imperante egoismo, dall'intollerabile diseguaglianza economica e sociale. Lui non si rivolge soltanto ai cristiani ma a tutti gli uomini che Dio ha creato con la terra affidando essi alla terra e la cura della terra a loro, cioè a noi.

Tutti i commentatori dell'Enciclica che in questi giorni ne hanno letto il testo, hanno concordemente sottolineato questi "passaggi" dandone ovviamente diverse interpretazioni. Perciò a me, che volontariamente non sono finora intervenuto su temi che mi hanno sempre interessato e che nei mesi scorsi ho più volte avuto l'occasione di discuterne direttamente con papa Francesco, non resterebbe che prendere atto sia dell'Enciclica sia della preparazione del Sinodo che avrà luogo nel prossimo ottobre sia degli interventi di Francesco avvenuti subito dopo la pubblicazione dell'Enciclica sia del suo incontro con i Valdesi a Torino e sia infine dei commenti che quest'immensa mole di lavoro religioso e pastorale ha provocato, per uscirne più ricco di conoscenza.

Certamente è così, ne esco arricchito e più informato della politica religiosa che Francesco porta avanti con ritmo sempre più serrato. Ma mi pongo due domande che meritano approfondimento e risposta: chi è veramente papa Francesco? E chi è veramente Jorge Mario Bergoglio?

Ogni Papa ha tratti salienti che configurano il ruolo che ha avuto nella storia del cristianesimo. Ma quel ruolo e gli effetti che ha provocato sulle società dell'epoca in cui quel Papa visse e operò derivano dalla personalità dell'uomo che a un certo punto della sua vita fu chiamato a sedersi sul trono di Pietro. Il carattere della persona determina la carica che ricopre, ma accade nello stesso tempo che la carica crea lineamenti nuovi in quella persona. Rispondere a quelle due domande che mi sono poste è ormai non solo possibile dopo due anni di pontificato, ma necessario per capire quanto sta accadendo nella Chiesa e quanto probabilmente accadrà fin quando sarà Francesco ad esercitare il suo magistero sulla cattedra di Pietro.
***
Francesco non è più soltanto un Papa, ma un Profeta, anzi soprattutto un Profeta e un Pastore. Ch'io sappia non era mai avvenuto prima di Lui, Papi pastori forse sì, qualcuno, pochi comunque. Abbondano nella storia della Chiesa Papi diplomatici o guerrieri o mistici o liturgici o legislatori o organizzatori. Profeti no, non ce n'è stato nessuno. Paolo di Tarso fu anche profetico oltre che legislatore e fondatore della religione cristiana; Agostino altrettanto e Girolamo e Bonaventura e Anselmo e Francesco d'Assisi e molti altri, ma non erano Papi, non erano vescovi di Roma. Francesco invece lo è. Dobbiamo dire che l'eccezione conferma la regola e che dopo di Lui non ci sarà alcun altro come Lui? Temo di sì, temo che resti un'eccezione, ma la spinta che sta dando all'"Ecclesia" avrà profondamente cambiato il concetto di religione e di divinità e questo resterà un cambiamento culturale difficilmente modificabile.

Ma perché dico Profeta? In che cosa consiste la sua profezia e il suo concetto di divinità? Dio è Uno in tutto il mondo e per tutte le genti. Naturalmente l'affermazione vale soltanto per chi ha fede in un aldilà e in un Creatore.

L'unicità del Dio creatore esclude ogni fondamentalismo, ogni guerra di religione, ogni divinità plurima. La stessa Trinità, mistero della fede cattolica, cambia natura e Francesco l'ha detto più volte e proprio nei giorni scorsi ancor più chiaramente a Torino quando ha risposto alle domande di tre giovani di fronte a migliaia di persone radunate per ascoltarlo.

Ha detto che lo Spirito Santo è lo Spirito di Dio che suscita nel cuore degli uomini la vocazione al bene e il Figlio è Dio che ama le sue creature e suscita l'amore umano in tutte le sue caste forme. Questa è la Trinità: non più il mistero della fede ma l'articolazione dell'unico Dio, misericordioso, amoroso, creatore e quindi Padre. La misericordia è infinita, il peccato fa parte delle contraddizioni insite nel Creato, necessaria ricchezza di ogni singola creatura che non è il clone delle altre. Le contraddizioni contengono amore, perdono, ma anche rabbia per i torti subiti e vergogna per quelli compiuti contro gli altri. Nelle contraddizioni c'è ricchezza e peccato insieme. La misericordia del Padre viene trasmessa anche alle sue creature e sono i Pastori a insegnarla e a praticarla, essi per primi.
Forse papa Francesco non ha ancora tratto una conseguenza teologica da questa sua visione profetica che sta portando avanti ogni giorno: Lui non è più il Vicario di Gesù Cristo in terra, ma è il Vicario di Dio perché Cristo non è che l'amore di Dio, non un Dio diverso che s'incarnò, visse 33 anni, cominciò la predicazione a 30 anni e fu crocifisso quando l'imperatore Tiberio era stato appena insediato dal Senato dopo la morte di Ottaviano Augusto.

I vangeli raccontano quella storia, ma gli evangelisti  -  tranne forse Giovanni  -  scrissero racconti di seconda mano e non conobbero mai il Gesù di cui descrivono la vita e la predicazione. Quanto a Paolo di Tarso, fondatore della religione che da Cristo prese il nome, egli non conobbe e non incontrò mai Gesù di Nazareth. Eppure fu proprio Paolo il fondatore. Fosse stato per Pietro, il cristianesimo sarebbe rimasto una setta ebraica, definita dai suoi seguaci "ebraico-cristiana" come all'epoca ce n'erano molte: i Farisei, gli Esseni, gli Zeloti ed altri ancora, con al vertice il Sinedrio che amministrava la Legge e il Tempio che ne era la sede.

Così era concepita la comunità ebraico-cristiana guidata da Pietro e da Giacomo, che Paolo costrinse ad uscire da Gerusalemme e ad aprire la nuova religione da lui fondata al mondo circostante, nel Medio Oriente, in Grecia, in Egitto, a Roma e di lì in tutti i territori dell'Impero cioè tutta l'Europa.

Il Gesù raccontato dai vangeli probabilmente è esistito, probabilmente ha predicato. La sua persona è stata teologizzata, le comunità cristiane hanno creato una dottrina, una liturgia, un diritto canonico. Nei testi derivanti da quella dottrina Dio viene anche definito come il Dio degli eserciti. Il senso di questa definizione è duplice: eserciti di fedeli o eserciti di guerrieri, combattenti nelle Crociate, nell'Inquisizione, nelle guerre delle potenze europee nelle quali la Chiesa in vario modo è intervenuta. Il potere temporale del Papa l'ha indotto a partecipare ad alleanze o a guerre con la Spagna, con la Francia, con l'Austria, con l'Impero, con Venezia.

Questo è stato il Papato fino al 1861 quando fu proclamato il Regno d'Italia. Non per questo il potere temporale dei Papi finì. Continuò e in parte continua tuttora e Francesco ha impegnato contro di esso la sua lotta. La sua visione è una Chiesa missionaria in cui la Chiesa istituzionale rappresenta soltanto l'intendenza, destinata a predisporre i servizi dei quali la Chiesa missionaria ha bisogno.

La vera politica di Francesco è quella di riunificare il cristianesimo, foglia dopo foglia, ramo dopo ramo. Nei giorni scorsi ha incontrato il rappresentante della Chiesa valdese. Non era mai avvenuto un incontro simile. I Valdesi erano catari, un movimento scismatico che arrivò in Italia dall'Europa centrale, attraversò tutta la pianura Padana, giunse a Marsiglia ostacolato e combattuto in tutti i modi e a Marsiglia fu massacrato dalle truppe francesi, incoraggiate e benedette dalla Chiesa di Roma che si assunse la responsabilità di quel massacro.

Pietro Valdo faceva parte di quella comunità ma, arrivato nelle valli piemontesi, decise di fermarsi. Subì anche lui assalti e vessazioni di ogni sorta. Non sono molti i valdesi ma religiosamente sono una comunità importante e rispettata.

Ebbene, papa Francesco li ha incontrati a Torino pochi giorni fa e a nome della Chiesa cattolica ha invocato il loro perdono; i Valdesi lo hanno ringraziato "dal profondo del cuore". Si rivedranno presto e apriranno un discorso più impegnativo. L'obiettivo di Francesco è di aprire la Chiesa a tutte le comunità protestanti e riunirle. Dio è unico e i cristiani debbono tornare ad essere un'unica religione, ma non basta. Non a caso Francesco è aperto anche con i musulmani perché il loro Dio è il medesimo dei cristiani.

Non è profetico questo pensiero? E non è profetico il titolo dell'Enciclica? Il Santo di Assisi ringrazia Dio per la morte corporale che è prevista dalla creazione. È un dono la morte. Ecco perché dico che Francesco è il Vicario di Dio, che lo Spirito Santo ha deciso di porre sul soglio di Pietro.
***
Ma Jorge Mario Bergoglio era così anche prima di diventare Papa? La carica che riveste ormai da due anni l'ha cambiato o è lui che ne ha cambiato il ruolo?

Ho incontrato papa Bergoglio quattro volte e ho scritto spesso su di lui. Mi permetto di dire che siamo diventati amici. Se Dio è unico in tutto il mondo anche la Chiesa non può che essere una e proprio perché è una dovunque non può e non deve occuparsi della politica. Libera Chiesa in libero Stato era il motto di Cavour ma direi che ora è anche il motto di Bergoglio. L'altro motto di cui è stato proprio Bergoglio a indicarmi in uno dei nostri incontri è: "Ama il prossimo tuo più di te stesso". Con quella frase si rivolge all'intera società del mondo e ai ricchi soprattutto perché sono loro che debbono donare e la ricompensa è soltanto nel donare senza nulla pretendere in cambio se non l'amore di Dio.

Bergoglio sa perfettamente che il mondo sta vivendo in una società globalizzata, sa che c'è un popolo di "senzaterra" di oltre sessanta milioni di persone che vagano per il mondo in cerca di dignità e di vita.

Infine Bergoglio si è anche proposto di cambiare la struttura della Chiesa che finora è stata verticale. Vuole affiancare a quella verticale anche una struttura orizzontale: i Sinodi dove convengono i Vescovi di tutto il mondo. Da questo punto di vista ha adottato l'idea centrale del cardinal Martini del quale era buon amico e che votò per lui nel Conclave dal quale uscì Papa il cardinale Ratzinger.

Una Chiesa verticale ed orizzontale: questa è la struttura che Francesco sta attuando e con essa un rilancio religioso delle Conferenze episcopali che debbono operare tutte in terra di missione poiché la Chiesa dev'essere ovunque missionaria.

Ho chiesto in uno dei nostri incontri a papa Francesco se non sia il caso di convocare un nuovo Concilio che prenda atto e dia il suo sigillo a tutte queste novità, ma Lui mi ha risposto: "Il Vaticano II pose come suo principale obiettivo quello di incontrarsi con il mondo moderno. Questa dichiarazione conciliare è importantissima ma da allora non ha mosso un solo passo avanti. Perciò non ho alcun bisogno di convocare un altro Concilio, debbo invece applicare concretamente il Vaticano II ed è questo che sto tentando di fare: l'incontro con la modernità".

Quest'incontro solleverà problemi enormi: la modernità occidentale è nata dall'illuminismo ed è approdata al relativismo, non c'è nulla di assoluto a cominciare dalla verità. Francesco naturalmente risponde a questi problemi sottolineando l'importanza della fede, ma non toglie che l'incontro con la modernità susciterà problematiche del tutto nuove che soltanto un Papa-profeta può intravedere e gestire. Gli auguro lunga vita, convinto come sono che è Lui la figura più rilevante del secolo in cui viviamo.
© Riproduzione riservata
01 luglio 2015

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2015/07/01/news/francesco_papa_profeta_che_incontra_la_modernita_-118048516/?ref=HRER2-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #572 inserito:: Luglio 05, 2015, 10:16:04 am »

Non navi d'alto mare ma scialuppe senza un futuro

Di EUGENIO SCALFARI
05 luglio 2015
   
SAPREMO questa sera il risultato del referendum greco, ma fin d'ora possiamo prefigurare quello che avverrà dopo e perché. Se ne è scritto molto nei giorni scorsi e tutti i protagonisti in Grecia e in Europa e i commentatori hanno manifestato diagnosi e suggerito terapie.

La grande maggioranza, direi anzi la totalità, concorda sull'esito finale: la Grecia non deve uscire dall'euro e dall'Unione europea. Non solo sarebbe uno smacco ma metterebbe in moto uno sfascio generale dell'Unione che nessuno vuole, neppure i greci e neppure il loro attuale governo. Con una sola eccezione tuttavia: la Lega di Salvini e il partito della Le Pen. Sono nazionalisti anti-europei, sono protezionisti in economia e si oppongono ad ogni forma di immigrazione.

I 5Stelle non arrivano fino a questo punto ma in parte lo condividono, almeno per quanto riguarda Grillo e Casaleggio; tra i parlamentari cinquestelle no, non sono né l'euro né l'Ue i loro bersagli.
Per capire l'essenza di quanto sta accadendo (e non da qualche mese ma da alcuni anni) bisogna distinguere tra Autorità europee, singoli Paesi membri dell'Unione, opinione pubblica.

Le Autorità europee, intese come Commissione, Eurogruppo, Bce, vogliono che l'attuale sistema dell'Unione resti in piedi e nella misura del possibile faccia passi avanti verso una crescente integrazione economica. I governi confederati si rassegnano ad una normale integrazione purché non metta in discussione la sovranità politica. Non vogliono essere federati, non vogliono gli Stati Uniti d'Europa che li declasserebbero.

Vogliono una politica di crescita economica ed una flessibilità da attuare attraverso una politica di "deficit spending" di carattere keynesiano, che ogni governo attuerebbe secondo le proprie necessità e capacità. Naturalmente questo keynesismo tardivo deve essere concordato tra tutti i 28 Paesi dell'Unione e soprattutto con i 19 che hanno la moneta comune.

Come possiamo definire questa politica? Direi: nazionalismo concordatario, la Confederazione non è assolutamente in discussione, è necessaria affinché la porta verso la Federazione sia sbarrata.
Quanto alla pubblica opinione, essa è disaffezionata all'Europa; il suo europeismo era di facciata ma non sentiva l'Europa come una patria. La vera patria è la propria nazione e soprattutto la città dove vive e lavora. Una definizione appropriata? Nazionalismo comunale europeo.

Questa è la diagnosi che credo esatta mentre il popolo greco sta votando. Ma a mio modesto parere la terapia non è affatto quella. La sola efficace è proprio la terapia che tutti escludono e cioè andare veloci verso la costruzione degli Stati Uniti d'Europa.

L'ho scritto e detto più volte. In una società sempre più globale, dove milioni e milioni di persone, i popoli senza terra, sono in incontrastabile movimento e dove gli Stati che contano hanno dimensioni continentali, un'Europa federata sarebbe ai primi posti nel mondo. Ma se questo non avverrà noi usciremo dalla storia; vivacchieremo ai margini, ci impoveriremo gradualmente ma rapidamente, saremo a rimorchio di Stati potenti, decadremo demograficamente. Non saremo navi d'alto mare, ma scialuppe di salvataggio che non salveranno il nostro futuro. Non avremo alcun futuro, i nostri giovani emigreranno.

Il caso greco rende questi ragionamenti assai attuali. Ho fatto più volte il caso della California ma lo ricordo ancora una volta: la California è fallita due volte. Ha dovuto rimettersi in piedi con le proprie forze e guidata dai suoi governatori ce l'ha fatta, ma lo Stato federale non è intervenuto perché il bilancio e il debito della California (grande come l'Italia) non incidono minimamente sul bilancio e sul debito sovrano degli Usa.

Questa è la differenza. Se l'amministrazione federale Usa vuole dare un aiuto alle sue Californie in difficoltà, lo può fare ma il bilancio federale è tutt'altra cosa.

Vedete? Se ci fossero già gli Stati Uniti d'Europa il caso greco non sarebbe esistito nelle modalità che ha ora e che ci lascia tutti  -  greci compresi  -  col fiato in gola. *** In Italia intanto  -  problema greco a parte  -  ci sono altri temi particolarmente incombenti, il principale dei quali è la riforma (o abolizione che dir si voglia) del Senato, strettamente connesso alla legge elettorale. La riforma costituzionale dovrebbe andare all'esame del Senato nell'autunno prossimo oppure l'8 agosto. Nei prossimi giorni comincerà il dibattito nella Commissione Affari costituzionali presieduta dalla Finocchiaro e sarà lei a indicare la trasmissione all'Assemblea. La ministra delle Riforme, Elena Boschi preme per l'8 agosto perché questo è anche il desiderio di Renzi e i due sono una vera e propria coppia (politica ovviamente) che agisce sempre in perfetta sintonia.

Nel frattempo 25 senatori del Pd, il nocciolo duro dell'opposizione interna, hanno firmato un documento che rappresenta una vera e propria piattaforma programmatica che parte dalla riforma del Senato ma, attraverso di essa, raffigura i lineamenti di una sorta di rifondazione del Pd come partito di sinistra. Una sinistra dai lineamenti nuovi e quindi un cambiamento che tuttavia non coincide affatto con il cambiamento sempre evocato dal Renzi rottamatore.

Il documento dei 25 reagisce al cambiamento renziano che viene considerato un cambiamento centrista che vorrebbe, certo, mantenere una presenza a sinistra, ma di fatto, per farla convergere verso il centro. Sembra una differenza più linguistica e bizantineggiante che discute sulle parole ma non sul concreto dei fatti; invece non è così e il cambiamento dei 25 (che probabilmente saranno 28 o 29 al momento del voto) lo dimostra assai chiaramente.

L'opposizione democratica non vuole soltanto un Senato direttamente eletto, accetta ovviamente che la fiducia al governo venga attribuita esclusivamente alla Camera, accetta anche la riduzione del Senato a cento senatori eletti, ma attribuisce ad essi un potere di controllo, di garanzia, e di efficienza del potere dell'esecutivo e ne specifica i temi ovviamente condivisi con la Camera. Riguardano appunto i poteri di controllo sull'esecutivo, un nuovo modo di eleggere il presidente della Repubblica prevedendo un ballottaggio tra i primi due votati dopo cinque votazioni andate a vuoto; la libertà religiosa, i diritti civili, le leggi sul lavoro, tutta la materia delle salvaguardie sociali, l'ascolto frequente delle organizzazioni sindacali e insomma una sinistra che risorga e ridiventi il nucleo essenziale del Pd, con particolare attenzione alla scuola e alla Rai che non può e non deve diventare una agenzia propagandista del potere esecutivo.

Alcune di queste proposte sono, a mio modo di vedere, sbagliate. Per esempio la riduzione del Senato a cento membri, più i senatori a vita. Questa riduzione ha un senso se accompagnata da analoga riduzione dei membri della Camera, altrimenti il peso dei senatori ogni volta che si riunisce il plenum del Parlamento diventerebbe minimo. Ma la sostanza di quel documento è largamente accettabile proprio per ridare al Pd quel carattere di partito progressista che ha largamente perduto.

Se Renzi si rendesse conto della sostanza del problema, avrebbe a mio avviso, una soluzione elegantemente efficace e praticabile. Dovrebbe stralciare dalla legge di riforma il tema della fiducia al governo da riservare unicamente alla Camera e abbandonare tutto il resto. Il bicameralismo non sarebbe più perfetto, ma tranne questa sostanziale innovazione, per il resto tutto resterebbe esattamente così com'è.

Ma se Renzi non vorrà correggere se stesso e proseguirà sulla strada tracciata dalla Boschi, allora questa volta rischia grosso. I 25 o 29 voti dei dissidenti, più quelli eventuali di Fitto e più le opposizioni, rischiano infatti di mettere Renzi in minoranza su un tema capitale. Si salverebbe soltanto riproponendo il patto con Berlusconi, ma se anche questo tentativo non riuscisse, dovrebbe almeno ottenere i voti di Verdini e quelli di Razzi (personaggio immortalato da Crozza). In questo caso si resterebbe sull'orlo di una vittoria o sconfitta dell'ordine di 5-6 voti e con essa una perdita di prestigio incommensurabile.
***
Sono rimasto alquanto stupito da un editoriale di ieri sul Corriere della Sera di Sabino Cassese. È un vecchio amico verso il quale ho sempre avuto grande stima ed è proprio quella nostra amicizia intellettuale che mi ha suscitato stupore per l'articolo in questione, il cui nucleo è il seguente: "La riforma costituzionale prevede una forte riduzione del bicameralismo e un modesto rafforzamento del governo. Il primo obiettivo è raggiunto svuotando di funzioni il Senato, riducendo il numero dei senatori e rendendone l'elezione indiretta. Il secondo obiettivo si ottiene affidando solo alla Camera il compito di dare la fiducia al governo e dando anche una corsia preferenziale alle sue proposte di legge. Non bisogna fare nessun passo indietro su questa riforma".

Questo, caro Sabino, è un regime potenzialmente autoritario. Oggi è impersonato da Renzi, ma in un domani potrebbe essere impersonato da Salvini o da Grillo e allora sarebbero guai molto seri per la democrazia italiana. Oppure pensi che Renzi governerà per i prossimi vent'anni? E che la visione autoritaria non si manifesterà anche in lui? Demos e kratos  -  lo sai bene anche tu  -  hanno significati assai contrastanti e quando prevale kratos , demos fa quasi sempre le valigie.

Post scriptum. Si capisce bene perché Grillo si trova ad Atene e fa il tifo per Tsipras e si capisce anche perché Salvini, pur non muovendosi da Milano, fa il tifo affinché nel referendum vinca il "no". Ma io non capisco affatto perché siano ad Atene anche Fassina e i suoi compagni della sinistra. Vogliono che l'Europa si arrenda al ricatto greco o che vada per aria?

Che l'ipotesi di un'Europa federale si allontani verso un tempo infinito? È questo ciò che vuole il pulviscolo di sinistra? Mi sembra un grave errore e un'assenza di "pensiero lungo" assai preoccupante per chi vorrebbe una sinistra seria e capace di governare.

© Riproduzione riservata
05 luglio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/07/05/news/non_navi_d_altomare_ma_scialuppe_senza_un_futuro-118370424/?ref=HRER2-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #573 inserito:: Luglio 12, 2015, 06:06:44 pm »

Se l'accordo non si fa l'Unione si spaccherà in 28 pezzi

Di EUGENIO SCALFARI
12 luglio 2015
   
TUTTA l'Europa, ma anche l'America, il Nord Africa, il vicino Oriente, la Russia e perfino la Cina si sono occupati del problema greco. Il referendum deciso da Tsipras, la scontata vittoria del "no" hanno riaperto le trattative il giorno dopo tra Tsipras e Bruxelles e l'accordo sembrerebbe finalmente raggiunto anche se nelle ultime ore la Germania è di nuovo incerta e il suo ministro delle Finanze vorrebbe ancora tenere la Grecia in punizione. Sarebbe un errore gravissimo che spaccherebbe l'Europa in due o tre tronconi. Speriamo che gli europei glielo facciano capire alla Merkel con le buone o se necessario con le cattive.

Un Paese di poco più di 11 milioni di abitanti e con un peso economicamente assai modesto è stato nell'ultimo mese al centro dell'attenzione globale. Come si spiega questo vero e proprio fenomeno? Tanto più in quanto l'altro protagonista, cioè l'Europa, non gode di alcuna attenzione da parte dei popoli che la compongono, disaffezionati verso le istituzioni del nostro continente e semmai ostili ad esse e agli uomini che le dirigono?

La ragione è facile da capire: il referendum greco e quello che ne è seguito subito dopo hanno riportato al centro dell'attenzione mondiale e soprattutto europea un tema che da molti anni era finito nelle cantine e nelle soffitte della politica; quello cioè della governance europea. Non solo economica, non solo sociale, non solo politica, ma direi all'attenzione della storia. Il tema è la creazione degli Stati Uniti d'Europa oppure, se non si arriverà a questo risultato, la fine dell'Unione e quella della sua moneta comune.

Personalmente predico questa soluzione da mesi, preceduto da una prestigiosa schiera di personalità italiane e straniere e da altre che si sono unite a noi dopo il referendum greco: Giorgio Napolitano, Romano Prodi, Laura Boldrini, Emma Bonino, Massimo Cacciari, Paolo Gentiloni, Sergio Cofferati, Gaetano Quagliariello. Ma fuori d'Italia Obama, Hollande, Habermas. Venerdì scorso, in un articolo da noi pubblicato, ho letto l'analisi secondo me più esauriente e più lucidamente esposta di Timothy Garton Ash, dal quale traggo qualche citazione decisamente esaustiva.

"La Grecia era uno Stato profondamente clientelare e non toccato dalla modernizzazione; perciò non sarebbe dovuta entrare a far parte di un gruppo di economie più avanzate. Il vecchio re Kohl sperava che, com'era più volte accaduto nell'Europa post 1945, l'integrazione economica avrebbe finito per catalizzare la necessaria integrazione politica. Ma finora non è andata così. La realtà della democrazia europea resta nazionale, la sfera pubblica europea non è cresciuta molto rispetto a 40 anni fa. La verità è molto amara e riguarda soprattutto i leader europei i quali rappresentano ciascuno una loro democrazia nazionale e spesso si scontrano tra loro. Subito dopo il no greco di domenica scorsa Tsipras ha celebrato "la vittoria della democrazia", le Termopili rivisitate e corrette in modello agit-prop. Ma, benché Angela Merkel non discenda direttamente da Pericle, è un leader in tutto e per tutto democratico quanto Tsipras ed egualmente soggetto ai limiti imposti dagli interessi e dalle emozioni nazionali".

E Garton Ash conclude così il suo articolo: "I 28 leader che si riuniscono a Bruxelles insieme ai vertici delle istituzioni europee non dovranno semplicemente superare le proprie posizioni, ma sormontare gli ostacoli strutturali creati dai loro predecessori, andando oltre l'ortodossia dei tecnocrati e negoziare un processo per conciliare i legittimi imperativi di 28 democrazie nazionali. Se falliranno, non solo la Grecia ma l'intero progetto europeo precipiteranno in una crisi ancora più grave. La crisi esistenziale finirà per essere colta come kairos cioè l'opportunità di un'azione decisiva? Da europeo lo spero, da analista ne dubito".

***

Ne dubito anch'io. Sono abbastanza speranzoso che l'accordo con la Grecia sarà approvato, ma ci si muoverà poco o niente del tutto per decidere la costruzione degli Stati Uniti d'Europa. Quantomeno limitatamente all'Eurozona, instaurando in questo modo due diversi livelli di integrazione con la possibilità per i Paesi che sono fuori dalla moneta comune di potervi entrare se e quando lo vorranno e ne avranno i requisiti richiesti.

Ci vorranno naturalmente numerose e importanti cessioni di sovranità economica e politica. Saranno disponibili i leader nazionali? E quali sono gli strumenti per indurli a questa diminuzione di sovranità e le procedure più opportune per arrivarvi? E quali gli avversari dell'intero progetto europeista?

A quest'ultima domanda è facile rispondere: gli avversari sono quei partiti o movimenti che esplicitamente spingono verso l'abbandono della moneta europea, la lotta contro le immigrazioni, il nazionalismo come fondamento della società. In Italia Salvini e la sua Lega, in Francia la Le Pen, in Spagna Podemos, eccetera. Grillo fa parte di questo gruppone ma solo per quanto riguarda l'uscita dalla moneta comune. Ma poi, sembra impossibile, ci sono anche alcuni personaggi di sinistra che, affascinati da Tsipras, vorrebbero quanto meno ricostruire una sorta di comunismo d'antan che abbia l'Europa come terreno seminativo e si proponga di combattere il capitalismo. Insomma risvegliare Marx mettendo le lancette della storia 170 anni indietro.

In realtà il vero ed anzi il solo strumento utilizzabile è quello economico da usare in modo duplice: per rilanciare una politica di crescita e per integrare sempre più strettamente le istituzioni economiche nazionali con quelle europee. Il protagonista di questa strategia è la Bce guidata da Mario Draghi.

La crescita si facilita superando del tutto il credit crunch, aumentando i prestiti delle banche alle imprese, favorendo con appositi incentivi la creazione di nuovi posti di lavoro (che è cosa diversa dai contratti a tempo indeterminato stipulato con lavoratori precari) aumentando in quantità sufficiente il tasso di inflazione e mantenendo al livello già raggiunto il tasso di cambio euro-dollaro.

Queste operazioni già in corso avanzato hanno tuttavia un carattere congiunturale. Importante, anzi importantissimo a livello sociale, se accompagnato da indispensabili misure di equità. Ma non hanno nulla a che vedere con la strategia necessaria per costruire l'Europa federata. Anche qui lo strumento monetario è fondamentale.

Gli obiettivi sono, tanto per cominciare, un bilancio unico dell'Unione europea, creato con la revisioni di alcuni trattati a cominciare da quello di Lisbona e con apposite entrate e relativi investimenti federali, cioè decisi dal Parlamento europeo di propria iniziativa o su proposta della Commissione. Al bilancio unico si deve affiancare la nomina del ministro del Tesoro europeo, che sia anche l'interlocutore politico della Bce, ferma restando l'autonomia di quella Banca presidiata dal suo statuto fondativo. Ovviamente all'unicità del bilancio corrisponde anche un debito sovrano, cioè l'emissione di titoli europei per finanziare le misure economiche e gli investimenti federali che Parlamento e Commissione attueranno attraverso apposite agenzie esecutive.

A tutto ciò si affianca l'Unione bancaria europea, la garanzia sui depositi, la vigilanza centralizzata già in corso d'opera. E sarà a quel punto che ci vorrà il salto politico e cioè la nuova Costituzione dell'Europa federale, elaborata da un'Assemblea costituente eletta dai cittadini dell'Unione sulla base di liste presentate dai partiti e movimenti europei, con un sistema di voto proporzionale come sempre avviene per tutte le Costituenti. In questo modo l'egemonia pro tempore sarà dei partiti vincenti e non degli Stati membri della Federazione.

***

Una parola sul viaggio del Papa nella sua America latina. Leggendo i quotidiani discorsi in Ecuador, in Bolivia e in Paraguay, non si può che confermare l'eccezionalità di Francesco e della Chiesa missionaria che ha in mente e che è già in corso con il suo incitamento e il rinnovamento del collegio vescovile, di quello cardinalizio e delle Conferenze episcopali. In Bolivia Francesco ha ricordato il martire ucciso 35 anni fa, Luis Espinal, un gesuita trucidato dalle squadre governative perché cercava di acculturare religiosamente e socialmente gli indios di quel Paese. Francesco ha ricordato quel personaggio che come il vescovo Romero sarà anche lui beatificato.

Voglio concludere con il discorso con cui Francesco ha chiuso il viaggio in Bolivia: "Diciamolo senza timore: noi vogliamo il cambiamento delle strutture. Questo sistema non regge più, non lo sopportano i contadini, i lavoratori, le comunità e i villaggi. Un cambiamento che tocchi tutto il mondo e metta l'economia al servizio dei popoli. L'equa distribuzione è un dovere morale, si tratta di restituire ai poveri e al popolo ciò che a loro appartiene". Naturalmente Francesco parla in nome della fede, come il Santo di Assisi di cui porta il nome; ma l'aspetto rivoluzionario è che parla in nome del Dio unico che non è cattolico né musulmano né ebreo né induista. È unico ed è Francesco che per primo lo configura, lo rappresenta e ne esprime il comandamento che si riassume così: "Ama il prossimo un po' più di te stesso".

A pensarci bene i destinatari sociali di questo discorso sono i ricchi e i potenti ma anche e soprattutto la borghesia e i ceti medi. Se lo si guarda con occhi politici e non necessariamente religiosi, sono questi i valori della sinistra che occorre costruire o ricostruire nell'Europa federata, sempre che si riesca a farla.

Post scriptum. Non ho motivo d'occuparmi delle intercettazioni che venerdì scorso sono state riferite da tutti i giornali e riguardano alcune conversazioni di Renzi con un alto ufficiale (molto impiccione) della Guardia di Finanza ed altri personaggi alquanto discutibili. Le suddette intercettazioni non hanno alcun rilievo penale, sono però molto sgradevoli, specie per Enrico Letta definito da Renzi come "totalmente incapace di governare". Letta ha risposto lapidariamente: "Sembra di assistere al serial televisivo House of Cards ". È esattamente così.

© Riproduzione riservata
12 luglio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/07/12/news/se_l_accordo_non_si_fa_l_europa_si_spacchera_in_28_pezzi-118896953/?ref=HRER2-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #574 inserito:: Luglio 19, 2015, 05:43:38 pm »

La Germania preferisce essere sola che male accompagnata
Da qualche tempo aleggia sull'Europa uno spirito anti-tedesco e c'è contemporaneamente uno spirito anti-europeo crescente nell'opinione pubblica in Germania. Ma il caso greco ha prodotto nella coscienza dei vari paesi una deflagrazione traumatica ed eserciterà inevitabili conseguenze nel futuro che si profila

Di EUGENIO SCALFARI
19 luglio 2015
   
Uno spirito decisamente anti-tedesco sta aleggiando da qualche tempo sull'Europa ed è aumentato dopo il caso della Grecia. Ci sono due componenti che alimentano l'antipatia e addirittura l'avversione contro la Germania della Merkel e di Schäuble: l'europeismo che si sente tradito e l'anti-europeismo che vede nella Germania il vero pilastro d'una Europa dittatoriale.

Ma c'è contemporaneamente uno spirito anti-europeo che domina da tempo e sempre di più l'opinione pubblica tedesca che auspica una Germania sola, autosufficiente e autoreferente, Uber Alles come diceva l'inno nazionale hitleriano.

L'anti-europeismo tedesco si spiega molto facilmente: deriva da un innato e storico disprezzo che i tedeschi nutrono da sempre presso le altre nazioni che convivono con loro nel medesimo continente. Con una sola eccezione: quella che un tempo si chiamava Inghilterra, potenza navale ed extra-continentale con la quale ci si poteva anche alleare ed alla quale alcune famiglie nobiliari tedesche offrirono anche dinastie sovrane. E la Francia, avversario storico per quasi un millennio.

Le altre nazioni erano ignote o oggetto di vassallaggio. Ma questa è storia. Al tempo di oggi la solitudine teutonica è ideologica: la Germania è efficiente, è moralmente integra, è laboriosa, è tecnologicamente all'avanguardia, culturalmente ha raggiunto le vette più alte nella scienza, nella filosofia, nella letteratura, nella musica. Geopoliticamente è al centro dell'Europa, ad eguale distanza dagli Urali e dalla Manica, dalla Scandinavia e dal Mediterraneo. Insomma: non è contro l'Europa ma è l'Europa.

E chi pensasse di insidiare questo ruolo combatterebbe contro la realtà fracassandosi la testa. Questa situazione — come abbiamo già detto — è antica quanto la storia, ma il caso greco ha prodotto nella coscienza dei vari paesi, Germania compresa, una deflagrazione traumatica che ha reso consapevoli tutti gli attori, gli spettatori, le vittime sacrificali e i carnefici potenziali, ed eserciterà inevitabili conseguenze nel futuro che si profila.

* * *

Angela Merkel, per quanto si può capire dal suo già lungo cancellierato, è europeista e perfino Schäuble lo è, ma lo sono a modo loro. Veri e propri Stati Uniti con un governo federale, questo no. Un nucleo di sette o otto nazioni che aderiscono alla moneta comune, accettano una governance economico-politica fortemente integrata, con numerose e importanti cessioni di sovranità ma con il potere ancora nelle mani dei capi di governo, questo sì. È una federazione? No, non c'è una Casa Bianca come in Usa, ma un'oligarchia. Moneta comune, fisco comune, investimenti e bond per finanziarli. L'Italia farebbe parte di questa oligarchia? Certamente sì, insieme alla Spagna, all'Olanda, all'Austria, al Portogallo, alla Slovenia.

Più o meno questo. Gli altri resterebbero nell'Unione con un euro di serie B, cioè non con un cambio fisso ma oscillabile all'interno di una forcella. Diciamo la Sme di sedici anni fa. Ma man mano che la loro economia pro+gresso in serie A e, dopo appositi controlli, essere accettati.

Quanto alla Bce, sarebbe una Banca centrale in piena regola, con competenza sia sulla serie A sia sulla B perché l'euro è pur sempre l'euro.

I paesi fuori dell'euro (Gran Bretagna, Polonia e insomma i 28 senza i 19) resterebbero nell'Unione così come ci stanno oggi, sempre che non cambino idea e dopo che i doverosi esami siano accettati.

Questo piano non è privo di aspetti positivi e perfino affascinanti. Richiama perfino la storia degli Usa, dove la Confederazione a maglie larghissime dopo la guerra d'indipendenza, restò anche dopo Lincoln perché la guerra di secessione integrò gli Stati ma solo su alcune questioni. Se pensate che le discriminazioni razziali erano ancora vigenti in molti stati dell'Unione ai tempi di Luther King (anche lui assassinato come Lincoln e come poi i due Kennedy) vi fate un'idea delle difficoltà di passare dalla libertà ai diritti d'eguaglianza. Tanto più in Europa dove sono nate le nazioni, gli imperi, sono diverse le lingue e le culture connesse.

Detto tutto ciò, personalmente credo che un percorso così lungo e accidentato non possa reggere il confronto con la società globale. L'Unione a tre stadi è troppo fragile. Una governance fondata su alcune nazioni egemonizzate ovviamente dalla Germania, e con fragili organi e poteri autonomi, non regge. Abbiamo a disposizione non più di dieci o al massimo quindici anni di tempo, altrimenti l'Europa sarà percorsa da forze centrifughe invece che centripete e non sarà più quello Stato federato auspicato dal manifesto di Ventotene, ma un insieme di scialuppe che non reggono l'alto mare ma bordeggiano vicino alla costa.

Bisogna battersi per quest'obiettivo se si vuole stare al passo con la storia del futuro. Noi che questo vorremmo, saremo sconfitti? È possibile e forse probabile, ma il futuro è aperto, bisogna sperare e battersi. Anche Mattarella ha questa speranza ed anche Napolitano e Ciampi.

Renzi no, non credo proprio. Far parte d'una oligarchia, nella serie A: immagino che questa ipotesi lo affascini e somigli molto alla sua visione politica che non è certo quella di Spinelli, di Adenauer e del Churchill del 1946; che nel suo discorso a Zurigo mise l'Inghilterra di fronte ad una scelta inevitabile: diventare un'altra stella nella bandiera a stelle e strisce degli Usa oppure costruire gli Stati Uniti d'Europa insieme agli altri paesi del continente.

Gli inglesi questa scelta non l'hanno ancora fatta e adesso contano assai meno di allora.
Quanto al nostro Renzi, ieri ha parlato per un'ora e mezza all'Assemblea del Pd. Ha esposto il suo programma di politica e di riforme istituzionali ed economiche. Ha detto che chi decide di uscire dal Pd avrà il suo rispetto ma tenterà di rappresentare una sinistra che non prende e non ha mai preso voti. Gli italiani quel tipo di sinistra non la vogliono. Ci vuole una sinistra diversa, quella da lui diretta, sui temi del fisco, dell'occupazione, dei contrasti con le imprese, la buona scuola, la televisione e la radio. Questa politica i voti li prende.

A guardar bene Renzi ha disegnato un centro, non una sinistra, e infatti è di centro la politica del Pd renziano, dove lui che ha carisma in abbondanza comanda da solo. Personalmente — e l'ho già detto e scritto più volte — io approvo le capacità e il carisma di Renzi, ma non apprezzo affatto la sua voluta solitudine nel comando. Non è né di sinistra né di destra né di centro chi comanda da solo. È lui e solo lui e le riforme che gli piacciono di più sono appunto quelle che gli consentono di comandare da solo, a cominciare dalla legge elettorale e dalla riforma (abolizione) del Senato.

Berlusconi quelle riforme non riuscì a farle. Se le avesse fatte oggi sarebbe ancora al governo del paese. Renzi è proprio su quelle che punta e travolgerà tutti quelli che, fuori o dentro il suo partito, si opporranno alla versione autocratica del potere esecutivo.

Il fatto strano e preoccupante è che una parte cospicua degli italiani di questi problemi non si interessa affatto, pensa soltanto a veder migliorare la propria vita, le proprie condizioni economiche e quelle dei propri figli. Se si deve pagare delegando il potere ad un ristretto gruppo e ad un Capo che lo guida, va bene così.

Questo non è un piccolo problema ed ha costellato la storia dell'Italia moderna. Ma il fatto strano è che anche Giorgio Napolitano si occupa di questa questione e condivide la visione di Renzi. Su un tema di questa importanza desidero dire ora qualche parola.

* * *

Il 15 luglio scorso Napolitano ha fatto un lungo intervento alla Commissione Affari costituzionali del Senato, presieduta da Anna Finocchiaro. Se c'è un punto che pienamente condivido è quello che riguarda l'uso e l'abuso dei decreti legge, leggi delega e maxiemendamenti che Napolitano ha denunciato più volte e che in questo intervento denuncia di nuovo come un'indebita spoliazione del potere legislativo del Parlamento oltreché della difficilissima leggibilità dei testi (la legge finanziaria del 2007 fu trasformata in un maxiemendamento di un solo articolo che conteneva tuttavia 1.300 commi).

Per superare questa prassi (adesso abbiamo avuto un maxiemendamento che ha superato i 2.000 commi, ciascuno dei quali rinvia ad altre leggi di cui si cita la data e il numero di protocollo ma non il contenuto) Napolitano propone una corsia preferenziale per i disegni di legge del governo, una data breve di pochi giorni entro la quale il provvedimento viene approvato o decade.

Tutto bene. Bene la denuncia e bene la soluzione proposta. Tuttavia questo sistema sarebbe perfetto se la Camera non fosse di fatto un'assemblea di "nominati" con un premio di maggioranza a chi raggiunge il 40 per cento dei voti espressi. Ma siccome le cose stanno proprio così, il nuovo sistema proposto della corsia preferenziale dovrebbe essere effettuato da una Camera non "nominata", senza di che è sempre e soltanto il potere esecutivo a comandare.

Ma questo non sembra suscitare le preoccupazioni di Napolitano. Il suo pensiero dominante è la stabilità del governo e la sua capacità d'immaginare le leggi, farle approvare e gestirne l'attuazione. Che siano giuste o sbagliate lo possono dire gli osservatori esterni o l'opposizione minoritaria. Di fatto, cioè, nessuno.

Napolitano chiede un esecutivo con poteri soverchianti: maggioranza assoluta, monocameralismo perfetto, capolista plurinominati (possono presentarsi in tre diversi collegi). Senato in pratica inesistente. Può partecipare ai plenum del Parlamento però non più con 300 senatori ma soltanto 100, mentre la Camera rimane ai suoi 630.

Purtroppo il nostro presidente emerito dimentica di ricordare come avvenne la caduta di Berlusconi, l'ultima, quella definitiva. Avvenne perché il Senato, dove non c'era la maggioranza assoluta della Camera, bocciò il consuntivo del bilancio. Su quella buccia di banana Berlusconi scivolò e alla fine si dimise temendo che al Senato non avrebbe più avuto la maggioranza. Da quelle dimissioni nacque il governo Monti.

Oggi, se non ci fosse stato il Senato, avremmo ancora Berlusconi al governo e sarebbero trent'anni. Questo ricordo dovrebbe insegnare a tutti qualche cosa.

© Riproduzione riservata
19 luglio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/07/19/news/la_germania_preferisce_essere_sola-119378017/?ref=HRER2-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #575 inserito:: Agosto 02, 2015, 04:17:50 pm »

L'autunno del premier tra sogni fiscali e papà Blair

Di EUGENIO SCALFARI
26 luglio 2015

Il tema di questa settimana ha il nome di Matteo Renzi. Di solito faccio il possibile per evitarlo o ridurlo a poche righe quando sono inevitabili, ma questa volta, per noi italiani, non è così perché il nostro capo del governo ha messo voce dappertutto, come italiano e come europeo, per esporre e se necessario combattere affinché il suo punto di vista sia non solo conosciuto ma eserciti la dovuta influenza sullo scacchiere interno e internazionale.

Comincerò con il Renzi statista, nel senso del suo ruolo nella politica estera. La qualifica di statista la si ottiene così, non trafficando nel politichese del giorno per giorno. Qualche mese fa il Nostro aveva già fatto visita al rais dell'Egitto esortandolo ad una politica conciliante verso Israele. È un problema costante di quel Paese dopo la sconfitta nella guerra dei "sei giorni" e al Sisi ha dato in proposito le prevedibili assicurazioni a Renzi il quale però, con un tempismo di cui gli va dato atto, ha ritenuto opportuno andare stavolta in Israele dove ha avuto un'ora di colloquio con Netanyahu e un'altra ora di visita al Knesset, il Parlamento israeliano, dove ha pronunciato un ampio e molto applaudito discorso. "Chi abbandona oggi la causa di Israele tradisce soprattutto se stesso", ha detto come prima frase ottenendo un'ovazione da stadio e così ha continuato fino alla fine, raccomandando tuttavia di instaurare buoni rapporti con i palestinesi e dissociare il bene dal male per quanto riguarda l'accordo Usa-Iran.

Su quest'ultimo punto la "standing ovation" non c'è stata, anzi i mormorii non erano incoraggianti.

Ma sulla Palestina no, anzi ci sono stati segni palesi di consenso purché, naturalmente, non si discutesse sulle "colonie" costruite in Cisgiordania e tanto meno degli Hezbollah libanesi.

Naturalmente poche ore dopo il Nostro ha incontrato Abu Mazen, al quale non ha detto che abbandonare la causa palestinese fosse un tradimento di se stesso, ma qualcosa di simile. Abu Mazen ha apprezzato ribadendo però la sua ferma opposizione a nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania.

Insomma bene, il Nostro è andato a vendere il suo prodotto e gli interlocutori lo hanno apprezzato. Che l'Italia nel Medio Oriente si senta amica di Israele e della Palestina, questo è un fatto che rende felici gli interlocutori, ai quali non si chiede nulla in cambio, altro che applausi e strette di mano e perfino qualche bacio (tre volte sulle guance). Che vogliamo di più?

* * *

In Italia la partita è un po' più difficile e in Europa difficilissima. Ma prima di affrontarla nei suoi giusti termini debbo dar conto d'un recentissimo discorso di Tony Blair, personaggio che non ha certo bisogno di presentazioni: ventuno anni fa diventò leader del Labour party inglese, ne cambiò i connotati e poco dopo fu primo ministro per due legislature di seguito. Da allora gira il mondo e fa ampi discorsi assai ben pagati da chi lo ospita, ottiene di tanto in tanto incarichi dall'Onu e insomma si guadagna assai bene la vita facendo anche in modo che non ci si dimentichi di lui.

Auspico per Renzi uno stesso ed egualmente felice futuro (ne ha tutti i numeri) dopo che avrà governato il nostro Paese fino al 2027 a meno che a quel punto non decida di concludere con un settennato al Quirinale. Peccato per me che allora non lo vedrò.

Dunque Tony Blair. Cito da un suo intervento pubblicato giovedì da Repubblica e pronunciato al "Think Tank Progress". L'occasione è stata determinata dal fatto che il Labour party è in questo momento affascinato da Jeremy Corbyn, un esponente della sinistra del partito, cosa che non piace affatto a Blair il quale così commenta: "Potrei parlarvi di come ottenere la vittoria: si vince al centro, si vince quando ci si rivolge ad una fascia d'opinione trasversale, si vince quando si sostengono le imprese quanto i sindacati. Non si vince da una tradizionale posizione di sinistra. La scelta riguarda i principi, riguarda che cosa significa sostenere i nostri valori nel mondo moderno... Oggi viviamo in una società che nel complesso crede al successo determinato dal merito e dal cambiamento. Abbiamo vinto le elezioni quando avevamo riformato i servizi pubblici e non ci siamo limitati a investire in essi, quando abbiamo capito che sono le imprese a creare posti di lavoro e non il governo. Abbiamo vinto quando siamo stati noi gli autori del cambiamento e non piccoli conservatori della sinistra".

Così Tony Blair. Non si può dire che abbia torto, ma soltanto che vede le cose dal suo punto di vista. E come potrebbe ragionare diversamente? Ciascuno di noi lo fa. Solo che un conto è parlare ad un "Think Tank Show" e un altro conto è agire da un vertice molto elevato. Mi viene in mente papa Francesco che guida la Chiesa affrontando anche lui il mondo moderno. Francesco ha come parola-chiave quella di "amare il prossimo più di se stessi". Tony Blair non la pensava così neppure quando era al vertice della Gran Bretagna. Vinse, certo. E la Gran Bretagna? Ad appena vent'anni di distanza non pare che sia un Paese cui guardare con invidia, ma Blair sì, ha avuto una vita felice anche se non ha amato il prossimo più di se stesso.

Quello di Tony è il programma, il comportamento, il carattere di Matteo? Penso proprio di sì. Va bene per gli italiani? Per alcuni sì, per altri no. E per l'Italia come nazione e Paese europeo? La risposta la daranno i fatti. Per quanto mi riguarda penso di no, ma questa è un'opinione strettamente personale.

* * *

Il tema dominante di questi giorni è quello delle tasse. Poi c'è Verdini, c'è la dissidenza crescente della sinistra del Pd (quella vecchia ma anche quella giovane), ci sono Regioni, Comuni in vario modo disastrati e prossimi comunque al voto. E ci sono ancora le riforme in discussione: legge elettorale, Senato, Rai, unioni civili, giustizia. E la legge economica di stabilità.

Insomma un gran minestrone da trangugiare entro i prossimi tre mesi. Stefano Folli nel suo articolo di ieri ha parlato di Stalingrado, la battaglia che decise l'esito dell'ultima guerra: chi la vincerà avrà vinto la guerra e infatti andò così. La nostra Stalingrado si combatterà entro l'autunno prossimo, ma le tasse sono il rombo del cannone.

Tre anni. Nel 2016 l'abolizione dell'Ici sulla prima casa, nel '17 diminuzione dell'Irap, nel '18 quella dell'Irpef. E attenti a non scaricare tutto sui Comuni e sulle Regioni.

Queste imposte, da abolire o tagliare, dovrebbero portare ad un sollievo fiscale di circa 25 miliardi senza calcolare altre possibili evenienze che potrebbero aumentare fino a 40 miliardi complessivi. Ma diciamo 25 per ragionare sul concreto delle coperture e dei riflessi sociali che ne deriveranno.

L'abolizione dell'Ici per tutti, ricchi e poveri che siano, dovrebbe essere coperta dalla "spending review" che prevede un taglio di spese di 10 miliardi. Quando? Ovviamente a babbo morto, come si dice, perché la "spending" non è come premere un bottone e vedere i soldi che escono come nelle macchinette del gioco-scommessa. La "spending" deve riorganizzare in modo giusto alcuni servizi, diminuire il numero degli ospedali, dei tribunali, delle prefetture, dei servizi pubblici. Lunga lena, un paio d'anni prima di incassare. Nel frattempo il ministro dell'Economia anticiperà i soldi con una mano mentre con l'altra taglierà le spese dei ministeri dopo lunghe battaglie all'interno del governo.

Andrà come andrà, ma certo il debito pubblico aumenterà. Per fortuna c'è Draghi e insieme a lui Ignazio Visco, con vaste operazioni sul mercato secondario dei titoli pubblici e con una svalutazione (già avvenuta da tempo) del cambio euro-dollaro.

Va notato a questo proposito che la Federal Reserve per la prima volta dopo dieci anni ha aumentato il tasso d'interesse rafforzando il dollaro rispetto all'euro, il che significa che la strada di Draghi non è priva di ostacoli, ma lui è abbastanza abile da ridurli al minimo.

Prima conclusione: aumenta il debito pubblico. È vero che ci sono beni pubblici in vendita, ma anche lì ci vuole tempo e pazienza. Perciò keynesismo di sostegno finché l'Europa lo consentirà.

L'anno dopo diminuzione dell'Irap. Di quanto? Questo non è chiaro, si vedrà col passar dei mesi, ma diciamo che non dovrebbe essere meno di 10 miliardi. Qui la pressione fiscale diminuisce di colpo e ovviamente le imprese ne sono felici e i salariati anche. Il salario netto resta invariato, il Tfr viene restituito e non gravato d'imposta. Tutto bene, con qualche cosa che somiglia vagamente al famoso bonus (elettoralistico) degli 80 euro mensili, con la differenza che quelli non servirono ad aumentare i consumi e questo invece (l'Irap) stimola le imprese a investire nei limiti dello sgravio ricevuto. Ripercussioni sui nuovi posti di lavoro: future ma non immediate perché gli impianti sono largamente sottoutilizzati, perciò ci vorrà tempo.

Ultimo anno: Irpef. Questa sì è una mezza rivoluzione: viene ridotta l'imposta sul reddito. Quanto non si sa, ma parecchio. Forse addirittura abolita. Sostituita da che cosa? Imposta generale sui consumi. La propose per primo Luigi Einaudi, una settantina di anni fa. Ma qui hai voglia a studiare, ad Elena Boschi verranno i capelli bianchi.

Vincenzo Visco ha proposto come copertura il recupero dell'evasione fiscale, valutata in tutto a 110 miliardi, basterebbe recuperarne un terzo, ma non so perché gli hanno riso in faccia.

Posso fare anch'io una proposta? Condivido quella di Visco, naturalmente, ma al posto delle (vaghe) proposte renziane direi di abolire totalmente il cuneo fiscale. Quindi tutti i contributi a carico della fiscalità generale, naturalmente progressiva. Questa sì, sarebbe un turbo-motore. Non lontano da 40 miliardi. Il recupero dell'evasione ne potrebbe essere l'intera copertura, ma con almeno tre anni di tempo. Il vantaggio sociale sarebbe duplice: l'evasione colpisce in gran parte i ceti possidenti; il turbo-motore spingerebbe le imprese a creare subito nuovi posti di lavoro con quel che ne segue economicamente e socialmente.

E l'Europa? Qui si gioca la Stalingrado. Ne abbiamo parlato domenica scorsa e ne parleremo ancora. Cessioni di sovranità urgono, economiche e politiche. Qui si vince o si perde, qui la sinistra italiana ed europea deve condurre la sua battaglia sapendo che gioca tutto. Tony Blair lasciamolo ai suoi discorsi, fanno sicuramente divertire.

© Riproduzione riservata
26 luglio 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/07/26/news/l_autunno_del_premier_tra_sogni_fiscali_e_papa_blair-119829437/?ref=HRER2-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #576 inserito:: Agosto 09, 2015, 10:33:15 am »

Quei birilli in movimento sul tavolo della nostra democrazia
Al centro del biliardo c'è Matteo Renzi, il castello dei birilli bianchi che lo attorniano, cioè i co-protagonisti del gioco, sono Berlusconi, Salvini, Grillo, Bersani. Ai bordi, alcuni personaggi che suggeriscono le mosse della partita.
Il più autorevole di tutti è Giorgio Napolitano

Di EUGENIO SCALFARI
09 agosto 2015

LA LETTURA dei giornali in questo inizio d'agosto è piena di fatti drammatici o comici, talvolta comici per la loro drammaticità, soprattutto quando toccano non più la cronaca ma la politica. "Hanno distrutto la Rai", ha detto Walter Veltroni dopo le nomine fatte dal governo e dai partiti. "Mi viene da ridere pensando alla Rai", ha detto Renzo Arbore che cinquant'anni fa la rinnovò da capo a fondo. A leggere queste cose ti viene da pensare.

Ma ancora di più il turbamento aumenta su temi che riguardano la struttura di fondo del paese: il Mezzogiorno, l'occupazione, le tasse. Tre ferite aperte e purulente che concorrono alla mancata crescita del paese, antiche quasi come l'unità d'Italia. La nostra storia nazionale ha avuto anche aspetti positivi, altri pessimi, ma Mezzogiorno, occupazione e fisco sono state tre zavorre permanenti che hanno ostacolato il nostro cammino verso la modernità facendo aumentare la corruzione, le mafie, la tendenza verso regimi autocratici e addirittura dittatoriali.

Cristo si è fermato ad Eboli? Purtroppo no, se con la parola Cristo intendiamo il bene pubblico; si è fermato molto prima, a Cuneo, come disse alcuni anni fa il sindaco di quella città, oppure a Verona, a Bergamo, a Bologna, ma non più oltre. E adesso stiamo attraversando un guado assai rischioso. L'ha scritto Roberto Saviano su questo giornale a proposito di mafie e di corruzione, l'ha detto Ezio Mauro valutando la fragilità della nostra democrazia, l'hanno raccontato Michele Ainis e Angelo Panebianco sul "Corriere della Sera": siamo ad una svolta, ad un passaggio cruciale.

Ed è forse una delle rare occasioni che la maggioranza dei cittadini ne è consapevole, sia pure da posizioni diverse ed anche opposte.
***
Il birillo rosso al centro del biliardo è Matteo Renzi, il castello dei birilli bianchi che lo attorniano, cioè i co-protagonisti del gioco, sono Berlusconi, Salvini, Grillo, Bersani. Ai bordi del biliardo ci sino alcuni personaggi che suggeriscono le mosse della partita. Il più autorevole di tutti è Giorgio Napolitano. Mi sono spesso domandato - fuor di metafora -  perché lo fa e me lo chiedo ancora una volta dopo aver letto la lettera da lui inviata qualche giorno fa al "Corriere della sera". Il tema  -  di capitale importanza - è la legge costituzionale di riforma del Senato che arriverà in terza lettura ai primi di settembre a palazzo Madama. Sarà, così sembra, la battaglia decisiva che vede quasi tutte le opposizioni ed anche i dissidenti del partito democratico contrari, con un Berlusconi in posizione di attesa, decisiva ai fini del risultato.

La tesi di Napolitano è radicale: la legge deve essere approvata così com'è, nel testo già approvato da Camera e Senato nelle prime due letture: il Senato trasformato in una Autorità di controllo e di rappresentanza territoriale senza più alcun potere legislativo nazionale, ridotto a cento componenti. Questo suggerisce il Presidente emerito e per lui non è certo un'improvvisazione: è su questa posizione da molti anni ed ora gli preme più che mai vederla portata a buon fine da Renzi che di un appoggio così autorevole ha certo molto bisogno.

Personalmente ho grande stima e amicizia per Napolitano. Ma su questo tema sono in totale disaccordo. L'ho già scritto in numerose occasioni perché si tratta di un tema che domina da mesi la politica italiana insieme alla riforma elettorale che vi è strettamente connessa. Purtroppo debbo ripetermi perché la lettera di Napolitano ripropone l'argomento e riapre il dibattito.

È senz'altro opportuno che il Senato sia privato del potere di votare la fiducia al governo, ma tutti gli altri poteri legislativi debbono restare integri. La nostra è una Repubblica parlamentare e la linea politica è indicata dal Parlamento mentre al potere esecutivo spetta  -  come dice il nome  -  il mandato di tradurre in atti esecutivi coerenti con la linea indicata dal Parlamento, che rappresenta il popolo sovrano. In Parlamento si approvano le leggi che attuano la linea indicata dalla maggioranza che il Parlamento esprime; sicché il sistema elettorale deve essere analogo in entrambe le Camere. Analogo ma non identico, a cominciare dall'età dei componenti e da altre accettabili difformità.

Naturalmente è anche possibile che il Senato scompaia e si attui un sistema monocamerale; in gran parte d'Europa è così. In tal caso però le elezioni alla Camera debbono essere totalmente libere e rappresentare fedelmente il popolo sovrano. Il sistema monocamerale previsto dall'"Italicum" di Renzi è in larga misura un monocamerale di "nominati" dal governo in carica; la conseguenza è evidente: il potere legislativo è declassato e subordinato all'esecutivo, il presidente del Consiglio diventa così il personaggio che "comanda da solo" esattamente il contrario della democrazia parlamentare.

Mi pare molto singolare che Napolitano non veda questo risvolto della abolizione di fatto del Senato. Un monocamerale in gran parte "nominato" dall'esecutivo ci avvia inevitabilmente all'autocrazia. E questo che si vuole? Non sono in grado ovviamente di conoscere in proposito il parere del presidente Mattarella, ma supponiamo per pura ipotesi che egli ravvisi un'illegalità in questa soluzione e rinvii la legge costituzionale alle Camere. La posizione di Napolitano sarebbe in quel caso estremamente imbarazzante e sarebbe come se il papa emerito Benedetto XVI facesse pubblicamente affermazioni teologiche diverse da quelle di papa Francesco. Vi sembra possibile una situazione simile?
***
Naturalmente la dissidenza del Pd si rende ben conto che la posizione critica che ha deciso di assumere di fronte alla legge del governo può portare ad uno strappo e addirittura ad una scissione del partito. Perché lo fa? Perché non si limita ad astenersi dal voto o a non presentare emendamenti profondamente diversi dal testo della legge in discussione?

Se il motivo fosse soltanto quello connesso alla legge sul Senato, la dissidenza del Pd potrebbe ancora una volta chiuder gli occhi ed accettare l'amaro boccone che Renzi ha deciso di farle trangugiare, ma in realtà ci sono due altri motivi: la vocazione autocratica che si esprime attraverso le due leggi elettorale e costituzionale e lo spostamento in corso del Pd da partito di centrosinistra a partito di centro. Non a caso Renzi ha come punto di riferimento storico Tony Blair, che trasformò il partito laburista inglese e proseguì portandola a compimento la politica di Margaret Thatcher.

Quello spostamento consentì a Blair di governare per due legislature di seguito e ancora ne mena vanto sostenendo che i voti in una società moderna si prendono al centro e non a sinistra. Sarà pur vero, ma quella che allora si chiamava Inghilterra non sembra abbia fatto passi da gigante dopo i lunghi anni di governo di Tony Blair; è rimasta un ex impero coloniale senza più colonie, ai margini dell'Europa e ormai diviso in una federazione dove l'Inghilterra convive con le sovranità della Scozia, del Galles e dell'Irlanda. Tony Blair ha un bel passato personale ma storicamente è stato una foglia al vento e il suo Paese conta ben poco nell'Europa di oggi; nella società globale, conta niente del tutto. Ha scritto a questo proposito Angelo Panebianco: "Il partito della Nazione ha bisogno di sostituire il mancato radicamento sociale con la crescita di potere  dell'esecutivo. Per questo la riforma del Senato è oggi così importante e per questo la minoranza intende fare di tutto per batterlo e garantire la propria sopravvivenza. Sa che Renzi è uno che non fa prigionieri".

Tutto comprensibile. Ma che fine farà la democrazia parlamentare? Che fine farà la sinistra? E soprattutto che fine farà un Paese che sembra ricordarsi dell'Europa solo per ottenere libertà di "deficit spending"? Il "deficit spending" è importante, ma gli Stati Uniti d'Europa lo sono ancora di più. Quel tema però interessa assai poco. Gli immigrati interessano molto di più, ma sul quel tema non è stato compiuto nessun passo avanti e l'altro ieri sono morte in mare altre centinaia di persone. Sono questi i risultati?

***

© Riproduzione riservata
09 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/09/news/quei_birilli_in_movimento_sul_tavolo_della_nostra_democrazia-120673089/?ref=HRER2-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #577 inserito:: Agosto 09, 2015, 11:18:54 am »

L'Europa di Mattarella e di Berlino e l'Italia di Matteo

Di EUGENIO SCALFARI
02 agosto 2015
   
ARGOMENTI da trattare ce ne sono molti questa settimana, europei e italiani. Viene da pensare che siamo ad un punto di svolta, ad un mutamento strutturale economico, sociale, politico in tutto il mondo che ci circonda. Difficile disporli in ordine di importanza, ma per me ce n'è uno che merita l'apertura di quest'articolo ed è la pagina di Roberto Saviano sul nostro giornale di ieri che sotto forma di lettera aperta al presidente del Consiglio parla della terribile crisi che da anni con un inarrestabile crescendo sta devastando il Mezzogiorno del nostro paese.

La Svimez ha fornito le cifre di questa devastazione, la più significativa delle quali riguarda la crescita del reddito. Quella del Sud italiano è la metà della crescita greca e basterebbe questo dato per misurarne la gravità, ma Saviano ne fornisce altri che segnalano perfino la drastica diminuzione delle nascite e paradossalmente un fenomeno del tutto inatteso: le varie mafie del Sud spediscono al Nord e addirittura all'estero i soldi estorti con i sequestri di persona, il racket d'ogni genere, il contrabbando di droga. È al Nord d'Italia e d'Europa che le mafie del Sud inviano i loro denari sporchi, li fanno diventare puliti e li reinvestono in nuovi racket e in nuove corruzioni.

Saviano, come è nel suo stile, ha fatto dei dati Svimez un martello contundente contro il disinteresse del governo, un racconto, un dramma, un fenomeno non solo etico ma estetico, insomma una sorta di tragedia della Grecia classica, che nelle nostre terre del Sud esportò la sua civiltà, la sua arte e la sua politica. Ed anche il suo dramma. Il nostro Mezzogiorno rappresenta la scatola nera dell'Italia e dell'Europa e la scarsa attenzione che il governo Renzi gli ha fin qui riservato è un fatto inspiegabile che Saviano denuncia con estrema e ben meritata durezza. Speriamo che una risposta ci sia, e non sia un'irricevibile smentita ma l'impegno che finora è mancato nella generale indifferenza, salvo analoghe denunce, anch'esse cadute nel vuoto, di Giorgio Napolitano.

* * *

Ed ora l'Europa, la crisi greca e, ovviamente, la Germania poiché "tout se tient". Tsipras ha condotto con estrema abilità il suo rapporto con l'Europa; ha bluffato fino all'ultimo giorno valendosi della maggioranza politica che aveva alle spalle dopo il referendum; poi ha accettato le condizioni dell'Europa, dettate di fatto dalla Germania; ha silurato Varoufakis, ha ottenuto una nuova maggioranza parlamentare, ha negoziato qualche miglioramento in sede europea. Aggiungo che — a sua insaputa — ha reso all'Europa un grandissimo servigio: quello di risvegliare il nostro vecchio continente a imboccare la via che porterà da una Confederazione di 28 Stati sovrani ad una Federazione che faccia nascere gli Stati Uniti d'Europa.

Non so se Tsipras si proponesse questo scopo, ma so che questo è accaduto. Un evento che ha preso in contropiede gli antieuropeisti alla Salvini, alla Grillo, alla Le Pen, a Podemos. E in casa nostra perfino ad una certa sinistra che era andata addirittura ad Atene per festeggiare il referendum voluto da Syriza (l'ultimo e ben calibrato bluff di Tsipras). Il tema vero non è — come pensa perfino Zagrebelsky — quello di dare diritto di dissenso alla Grecia, ma piuttosto quello di cessioni di sovranità di tutti i paesi membri dell'Unione al Parlamento dell'Ue e trasformarla in uno Stato continentale che sia in grado di competere e di collaborare con pari forza con gli Stati già operanti nella società globale in cui viviamo e sempre più vivremo se ne saremo all'altezza.

Da questo punto di vista va segnalata la mossa di Schaeuble d'accordo con la Merkel e con Hollande: un bilancio europeo molto più consistente di quello attuale e un ministro del Tesoro europeo che lo gestisca e sia l'interlocutore unico nei confronti della Banca centrale europea. La proposta sarà attentamente studiata e discussa poi dal Parlamento, dalla Commissione e dai governi dei 28 paesi, ma appare difficile che sia rifiutata posto che sono d'accordo su di essa la Germania e la Francia. Segnalo a questo proposito un articolo da noi pubblicato di uno dei maggiori dirigenti della politica finanziaria francese, Harlem Désir, che sostiene appunto questa svolta strutturale del nostro continente e segnalo altresì che sia Draghi sia il nostro ministro dell'Economia sono da tempo su questa stessa lunghezza d'onda.

Ma un punto va aggiunto e chiarito: il nuovo bilancio europeo e il ministro del Tesoro che lo gestirà non debbono soltanto avere lo scopo di aiutare i paesi membri in difficoltà, ma debbono anche, anzi soprattutto, effettuare investimenti propri e quindi avere un debito sovrano oltre che un bilancio sovrano ed emettere buoni del Tesoro europeo. Questa è la strada che porta all'Unione politica oltre che economica e fa della moneta comune non già uno strumento di scambi ma anche il nucleo dell'unità politica del continente.

La vera e duplice battaglia sulla quale il governo italiano è impegnato è dunque questa: l'Europa sovrana, il Sud d'Italia riscattato. Matteo Renzi imboccherà questa duplice strada o continuerà a comandar da solo, che è il traguardo che finora lo ha interamente assorbito? E la sinistra del Pd sceglierà di dar voce a una nuova sinistra europea che finora è di fatto scomparsa?

* * *

Il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il tema dell'unità europea l'ha affrontato con forza e chiarezza nel discorso fatto agli ambasciatori italiani. Quell'unità, quello Stato federale con dimensioni continentali, lui lo auspica ed esorta i governi nazionali, a cominciare dal nostro, ad impegnarsi per realizzarlo. Ma non ha detto soltanto questo. Due giorni fa, durante la cerimonia del ventaglio, il Presidente ha affrontato un altro delicatissimo tema: quello di comandare da soli. In una democrazia parlamentare di cui la nostra Costituzione descrive i vari snodi entro i quali si articola, comandare da soli è peggio di un errore, contrasta con l'essenza stessa della democrazia fondata sul "demos", cioè sul popolo sovrano che non cessa d'esser tale ad elezioni avvenute, ma tale rimane attraverso i suoi diretti rappresentanti che non sono i partiti ma il Parlamento degli elettori.

Per completare il ragionamento del nostro Presidente ogni potere dello Stato nazionale ha il proprio campo di competenza e le prerogative che quella competenza gli consente di esercitare. Le sue sono quelle di assicurarsi che ogni potere costituzionale eserciti il suo mandato correttamente e senza sconfinamenti in territori altrui e così anche le leggi che il Parlamento approva. I poteri solitari ed assoluti sono fuori dalla Costituzione e obbligherebbero il Capo dello Stato a rinviare alle Camere le leggi che andassero contro questa concezione della democrazia.

Questa corretta visione ha come propria fonte storica lo Stato di diritto elaborato da Montesquieu. Si tratta della premessa di ogni democrazia. La legge elettorale e la riforma del Senato sono direttamente coinvolte da questa visione dello Stato di diritto. Se ne parlerà in autunno ma non c'è dubbio che anche la legge sulla riforma della Rai comporta possibili, anzi probabili sconfinamenti che possono indebolire il nostro "demos" portando verso una pericolosa estromissione democratica. Questo non va affatto bene ed occorre impedirlo.

* * *

All'ultimo posto di questo mio sermone domenicale, come alcuni miei amici lo chiamano, restano un paio di quisquilie (ma sono veramente tali?). Una riguarda il voto sull'arresto del senatore Azzollini, richiesto dalla Procura di Trani e respinto da una maggioranza di senatori di cui gran parte del Pd. L'arresto o i "domiciliari" deve essere convalidato o respinto dalla Camera di appartenenza e la motivazione verte sull'esistenza o meno di un "fumus boni iuris". Cioè se il magistrato che lo chiede ne abbia diritto sulla base di indizi probatori in suo possesso oppure tali indizi non vi siano o non siano probanti.

Nel caso di specie molti senatori hanno ritenuto, dopo aver controllato le carte trasmesse dal Gip di Trani, che il "fumus" non ci fosse e quindi l'hanno respinto. La maggioranza li ha seguiti e l'arresto di Azzollini è stato respinto salvo il processo che avrà luogo e deciderà. Tutto regolare salvo un punto che qui merita di essere ricordato: i senatori che hanno votato sì all'arresto anziché no hanno esercitato una delle loro prerogative sancite da un articolo della Costituzione che stabilisce: "Il membro del Parlamento rappresenta la nazione senza vincolo di mandato". Se appartiene ad un partito, quel partito può punirlo e perfino espellerlo (dal partito) ma restano ferme le sue prerogative parlamentari che può liberalmente esercitare "senza vincolo di mandato".

Un'altra quisquilia è la riforma della Rai, la quale è di proprietà del Tesoro che nomina un suo rappresentante come futuro direttore generale con vasti poteri esecutivi autonomi rispetto al consiglio di amministrazione entro limiti finanziari prestabiliti. Quanto ai membri del consiglio, sono nominati con metodo proporzionale dai vari gruppi parlamentari. La riforma Renzi accresce i poteri del direttore generale (o amministratore delegato) e avvia un cambiamento del metodo di elezione del consiglio diminuendone il numero da 9 a 7 membri. Su un emendamento il governo è andato in minoranza al Senato e quindi ha adottato la vecchia legge Gasparri per evitare che il consiglio attuale sia ulteriormente prorogato.

Di fatto il metodo Gasparri consente al governo di avere la maggioranza in consiglio salvo i poteri di controllo del consiglio di sorveglianza che Renzi vorrebbe addirittura abolire o limitarne ulteriormente i poteri. La battaglia è in corso ma, salvo la nomina dell'amministratore e del consiglio che avverranno nei prossimi giorni, il resto verrà dopo. Il rischio vero è che la Rai non dipenda più dai partiti (che è comunque un male) ma dal governo (che è un male ancora più grosso).

Ultimo tema da segnalare: tra maggio e giugno l'occupazione è diminuita di 22mila unità e la disoccupazione giovanile è aumentata del 2 per cento. Mi sembra che anche nelle quisquilie il "demos" stia scomparendo del tutto e questo — l'ho già scritto ma lo ripeto — non va assolutamente bene.

Da - © Riproduzione riservata
02 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/02/news/l_europa_di_mattarella_e_di_berlino_e_l_italia_di_matteo-120268734/?ref=HRER2-1

Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #578 inserito:: Agosto 16, 2015, 04:38:07 pm »

La Resistenza è nata l'8 settembre e tutti la ricordino

Di EUGENIO SCALFARI
15 agosto 2015
   
SPESSO mi vengono in mente strane associazioni di idee. Immagino che capiti a molti ed io di solito me le tengo per me, ma quelle di oggi desidero invece dirle: ho letto sui giornali che i lavori del Senato riprenderanno dopo la pausa estiva, l'8 settembre, sul tema — assai contrastato — della riforma costituzionale. Altro nessuno dice. Ebbene, sarà un caso, ma quella dell'8 settembre è una data fatidica nella storia moderna del nostro paese. Era il 1943 e il governo presieduto da Pietro Badoglio dette l'annuncio d'aver firmato l'armistizio con l'America e l'Inghilterra, aggiungendo che l'Italia si sarebbe opposta a chiunque si fosse schierato contro quella decisione. Di fatto (e di diritto) cambiavamo fronte, con un governo legittimo che controllava in quel momento soltanto i territori del Mezzogiorno dagli Abruzzi in giù; tutto il resto era nelle mani del governo di Salò presieduto da Mussolini e presidiato dall'Armata tedesca, dalle Ss naziste e dai fascisti.

In questa situazione accaddero due fatti rilevanti: l'esercito italiano si dissolse come neve al sole, lo Stato si sfasciò, la Patria con la P maiuscola si frantumò (per una trentina d'anni nessuno scrisse più la parola patria). In quegli stessi giorni cominciò la Resistenza nei territori occupati dai nazi-fascisti. Uno sfascio e una nascita. Questo doppio evento ha avuto un grande significato nella storia del nostro paese e venne annualmente celebrato al Quirinale, in Parlamento, all'Altare della Patria e alle Fosse Ardeatine. Ma anche quest'anno sarà così? Me lo auguro e per quanto riguarda il Quirinale ne sono più che sicuro.

Penso anche che ne parlerà la presidentessa della Camera (ancora chiusa) Laura Boldrini. Ma al Senato l'ordine del giorno prevede l'inizio della discussione d'un tema assai controverso che vede un solco profondo tra le varie forze politiche e all'interno del Pd. È probabile che il presidente Grasso ricordi l'8 settembre del '43 ma l'assemblea sarà comunque in tutt'altre faccende affaccendata. Non so se il regolamento parlamentare glielo consenta, ma auspico che Grasso dia la parola ai senatori che vorranno ricordare quell'avvenimento storico che è sempre estremamente attuale e poi tolga la seduta. Sarebbe un gesto estremamente apprezzabile anche se in palese contrasto con chi ha stabilito di cominciare proprio in quel giorno una querelle che dividerà profondamente gli animi anziché unificarli come il significato storico della Resistenza vorrebbe.
***
Gli altri temi di grande rilievo, alcuni di carattere internazionale, altri di carattere interno, sono: la Cina e la svalutazione della sua moneta, la Grecia e le decisioni finali dell'Eurogruppo convocato ieri a Bruxelles, la prospettiva sempre più urgente della nascita di un'autorità europea con una nuova governance, ampie cessioni di sovranità nazionali in economia e in politica. Per quanto riguarda i problemi interni campeggia quello del Mezzogiorno, del fisco e dell'occupazione ai quali altri se ne sono aggiunti: quello della Rai, quello della scuola, quelli della giustizia civile. Li ricordo perché è bene che siano tenuti presente, ma ovviamente cercherò di coglierne il significato con la massima brevità.

Il caso cinese non meritava l'allarme che per dieci giorni ha sconvolto i mercati di tutto il mondo. Più volte governi e Banche centrali dell'Asia, del Giappone, dell'Occidente avevano auspicato una svalutazione dello yuan che, per decisione del governo di Pechino, era stato fissato allo stesso tasso di cambio del dollaro. Un tasso artificiale e politico. Perché? Per incoraggiare gli investitori esteri a scegliere la Cina come loro mercato di espansione. A loro volta le esportazioni cinesi continuavano ad essere incoraggiate dai bassissimi costi di produzione e la moneta cinese comprava titoli pubblici americani in una misura addirittura preoccupante: con quelle riserve, quando l'avesse voluto, la Cina poteva comprare mezza America e mezza metà del mondo (come in parte ha fatto).

Ma ora svaluta la sua moneta. Perché? Perché le esportazioni sono fortemente diminuite, molte imprese private cinesi hanno ridotto il loro lavoro e l'occupazione. Di conseguenza i consumi ristagnano. Questa è la ragione della svalutazione dello yuan, oltre al desiderio di internazionalizzare la sua moneta negli organismi mondiali. Non ci sono dunque motivi di allarme. Tutto può accadere ma non è nelle previsioni.

Della Grecia c'è poco da dire. La trattativa si è alla fine chiusa positivamente anche se la Merkel ha alzato la voce: la Germania va al voto tra due anni e Angela deve fare la faccia feroce per mantenere il consenso della sua pubblica opinione. Gli altri lo sanno, a cominciare da Draghi, e questa è la partita la cui fine positiva è evidente.

Quanto all'Europa, il caso greco è stato provvidenziale per dimostrare la necessità di fare passi avanti verso lo Stato federale. Tra i più autorevoli sostenitori di questa tesi in Italia ci sono Romano Prodi e Guido Rossi. La Boldrini lo scrive esplicitamente sui giornali e ha l'intenzione di convocare i presidenti delle Camere di tutta Europa per una posizione comune. Sarebbe importante se ci riuscisse.
***
Dei tre temi che dominano la situazione italiana c'è da dire che non si stanno facendo grandi progressi. Sono entrati nell'agenda del governo è questo è già un apprezzabile risultato, ma non si è andati molto più in là. Le procedure sono lunghe, la semplificazione della pubblica amministrazione comporta anch'essa una procedura assai complessa; Aldo Moro ai tempi suoi sosteneva che fosse necessaria almeno una generazione per rifondare lo Stato, perché di questo in realtà si tratta. In tempi di avanzata tecnologia diciamo pure che ci vorranno tre anni. Il resto, le novità che annuncia il ministro Madia, sono giocattolini da mettere sotto l'albero di Natale.

Questo per quanto riguarda il Mezzogiorno. Il punto che realmente bisognerebbe portare avanti è quello di far nascere ed educare una nuova classe dirigente e politica. I partiti nel Sud sono riserve di caccia, emirati, lobby, "ascari" come Salvemini chiamava i sostenitori di Giolitti. Dopo più d'un secolo i tempi non sono affatto cambiati. La gente onesta e consapevole del Sud è sempre più tentata dall'astensione. Oppure dal votare per gli "sceriffi" e gli "sceicchi"; ma non sarà un bel risultato. Il resto, l'occupazione, il sostegno dei poveri, gli investimenti, l'andamento del reddito, sono, questi sì, obiettivi dove il governo è concretamente impegnato e gode anche del sostegno di Mario Draghi.

Qualche miglioramento c'è ma ancora impercettibile. Le cifre del Pil aumentano in maniera marginale, quelle dell'occupazione non sono ancora positive e i consumi non riescono a ripartire.
Questa è la situazione. In parte dipende dal governo ma anche dall'Europa. Speriamo che consenta quella famosa flessibilità che finora però è parola ma non fatto.

Della riforma costituzionale del Senato non ho alcuna intenzione di parlare. Quello che penso l'ho già detto nelle lettere che ci siamo scambiati recentemente con Giorgio Napolitano e, per quanto mi riguarda, non ho altro da aggiungere. La partita è in mano a Renzi e ai dissenzienti del Pd. Ma una cosa è certa: il premierato, come il nostro presidente del Consiglio lo intende, non è compatibile con la democrazia parlamentare. Che ognuno si regoli come meglio crede.

© Riproduzione riservata
15 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/15/news/la_resistenza_e_nata_l_8_settembre_e_tutti_la_ricordino-120997453/?ref=HRER2-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #579 inserito:: Agosto 24, 2015, 05:30:02 pm »

Quando un Papa cita Ulisse e si oppone al potere temporale

Di EUGENIO SCALFARI
23 agosto 2015
   
AL DI LÀ delle numerose occasioni che papa Francesco offre a tutto il mondo dei cattolici, dei cristiani, dei fedeli di altre religioni ed anche ai non credenti, l'ultima va colta per alcune importanti novità della sua predicazione: è il messaggio da lui inviato al meeting di Comunione e Liberazione il giorno dell'apertura a Rimini, per il tramite del vescovo di quella diocesi.

Francesco siede sul soglio di Pietro ormai da due anni e la sua attività è enormemente aumentata. Vorrei dire il suo lavoro, le sue iniziative, la sua fatica. Eppure non sembra. Viaggia, scrive, parla, prega, incontra e soprattutto pensa e combatte. È un uomo come noi, la sua vecchiaia avanza e sta sfiorando gli ottant'anni, ma sembra miracolato. Forse è la fede ad imprimergli un'energia incommensurabile. Ho scritto più volte che un uomo così la Chiesa non lo vedeva al suo vertice da millesettecento anni. Ma non per sapienza teologica né per scaltrezza politica e neppure per inclinazioni mistiche. Francesco ha dentro di sé un'energia rivoluzionaria e un dono profetico, queste sono le sue eccezionalità.

Qualche settimana fa, nel corso di un lungo colloquio telefonico dopo vari incontri, gli domandai se avesse preso in considerazione l'ipotesi d'un nuovo Concilio, un Vaticano terzo che discutesse e sancisse le novità rivoluzionarie che sta introducendo nella struttura della Chiesa. Mi ha risposto di no aggiungendo che il compito che sta cercando di condurre a termine è il mandato ricevuto dal Vaticano II laddove indica come finalità l'incontro della Chiesa con il mondo moderno. Sono passati cinquant'anni da allora e tre Pontefici si sono susseguiti: Paolo VI, Giovanni Paolo II, Benedetto XVI senza contare papa Luciani che durò poco più di un mese e papa Giovanni XXIII che di quel Concilio fu il promotore. Alcuni obiettivi previsti dal Vaticano II furono realizzati, ma l'incontro con la modernità no, non è stato affrontato e questo è il compito che Francesco si prefigge. Solleverà, non c'è dubbio, una selva di problemi ma lui ha tutte le qualità e tutta l'energia per portarli a termine. O almeno così sperano quelli che gli sono amici per la tempra, l'umanità e la bontà che gli sono innate.

***

"È una ricerca, quella che dobbiamo intraprendere, che si esprime in domande sul significato della vita e della morte, sull'amore, sul lavoro, sulla giustizia e sulla felicità. Le esperienze più frequenti che si accumulano nell'animo umano provengono dalla gioia d'un nuovo incontro, dalle delusioni, dalla solitudine, dalla compassione per il dolore altrui, dall'insicurezza del futuro, dalla preoccupazione per una persona cara". E più oltre: "Perché dobbiamo soffrire e alla fine morire? Ha ancora un senso amare, lavorare, fare sacrifici e impegnarsi? Che cosa stiamo a fare nel mondo?" E infine: "Il mito di Ulisse ci parla del "nostos algos", la nostalgia, che può provare soddisfazione solo in una realtà infinita".

Il testo del messaggio inviato al meeting di Rimini è molto più lungo e si conclude con il sostegno che proviene dal Dio creatore e misericordioso e dall'amore di Cristo verso gli uomini suoi fratelli, ma il tema che sta al centro di questo documento papale è racchiuso secondo me nelle frasi che ho qui citato. Esse colgono i problemi, le domande, la sofferenza e le speranze che gli uomini si sono posti in tutte le epoche e che oggi più che mai la modernità scatena nei cuori dei giovani e degli anziani, degli uomini e delle donne, dei credenti e dei non credenti. Rispondere a quelle domande realizza l'incontro della Chiesa con la modernità, ci fa sentire tutti simili e, anche se le singole risposte sono differenti, risulterà sempre più chiaro che la radice della nostra specie è comunque la stessa: libertà, dignità, fratellanza. Francesco lo dice esplicitamente nel messaggio ma consentirà ad un amico quale io mi sento di ricordare che quei tre valori, con l'aggiunta dell'eguaglianza che anche Francesco più volte evoca, sono quelli che dominarono il pensiero liberale e illuminista inaugurando l'Europa moderna.

Non a caso nel messaggio si parla perfino di Ulisse, della sua nostalgia del ritorno ai valori tradizionali della famiglia e della patria, ma insieme al suo inestinguibile desiderio di "realtà infinita".
Che io sappia nessun Papa aveva evocato il mito odisseico, l'eroe moderno per eccellenza che Dante, pur collocandolo all'Inferno, eleva alle vette più alte del pensiero: "Considerate la vostra semenza / fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza". "Una scintilla di divinità c'è in tutti noi" mi disse il Papa in uno dei nostri incontri. Lui a questo crede: in tutti, di qualunque nazione, etnia, condizione sociale, male e bene, fede o miscredenza, peccato e perdono. La scintilla di divinità c'è in tutti e il Dio in cui Lui crede è unico in tutto il mondo. Un solo Dio che nessuno può sostituire con un Dio proprio da opporre agli altri. Il fondamentalismo è l'errore più terribile e porta con sé guerre, stragi, terrore.

La Chiesa predica da duemila anni la fede e l'amore del prossimo e una larga parte di essa mise in pratica quei valori. Ma contemporaneamente quella stessa Chiesa patrocinò guerre, stragi, inquisizioni, crociate, in nome del proprio Dio contro quello degli altri. E quando cessò di far questo, continuò a praticare in varie forme e misura il potere temporale. Contro il potere temporale, questa è la battaglia che Francesco sta conducendo e che incontra opposizioni numerose e potenti dentro la Chiesa. E questo è anche il significato del pensiero moderno che divide la politica dalla religione. Rappresentano entrambe il bene comune, la politica quello del benessere, la religione quello dell'anima. Ho detto più volte a papa Francesco nei nostri incontri che Lui concepisce una libera Chiesa in un libero Stato, esattamente come diceva il conte Camillo Benso di Cavour. Benso e Bergoglio uniti insieme: per un liberale come me non ci potrebbe essere un sodalizio ideale migliore di questo. E chi l'avrebbe mai detto: un miscredente e un gesuita che prende il nome di Francesco d'Assisi? La vita è faticosa, ma a volte ti dà anche soddisfazioni e felicità e per me questo è un caso felice.

***

C'è stata finora una sola voce della sinistra che ha chiarito e difeso il segretario della Conferenza episcopale italiana, il vescovo Nunzio Galantino, indicato come traditore del nostro Paese e perfino della Chiesa da gran parte della forze politiche ed è lui che voglio citare per introdurre un tema che coinvolge ancora una volta, sia pure indirettamente, papa Francesco e la politica. Si tratta di Enrico Rossi, governatore della Toscana e comunista come lui ama definirsi nell'intervista rilasciata ieri a Repubblica . "Basta leggere la "lectio" di Monsignor Galantino su De Gasperi per capire che non ce l'ha affatto con la politica ma con il politichese ridotto alla ricerca del consenso e del marketing. Proprio riconoscendo il ruolo cruciale della politica nella società, Galantino l'ha invitata a ritrovare una forte dimensione ideale ed etica. È una sfida lanciata a tutti, nessuno escluso, non a un governo e ad una parte politica. La destra ha risposto in modo sguaiato ma anche dal Pd sono venute repliche segnate dal risentimento. Dobbiamo invece riconoscere che Galantino ha ragione, la politica non ha più una propensione ideale e pensa solo a difendere se stessa. Se la sinistra italiana non si misurerà con questo tema proprio nel senso indicato dalla Chiesa di papa Francesco e di Galantino, è destinata a somigliare sempre più alla destra e quindi a scomparire".

Ho letto anch'io nella sua integralità la lectio di Galantino su De Gasperi e vi ho trovato una visione sociale e politica che va molto al di là del personaggio, certamente rilevante, che guidò la Dc e la politica italiana dal 1945 al '54, nel periodo che vide la ricostruzione del Paese dalle macerie lasciate dalla guerra. Quella visione degasperiana è una democrazia governante sulla base di un'alleanza tra la classe operaia e il ceto medio; un obiettivo la cui realizzazione costò a De Gasperi "come una traversata del deserto", dice Galantino; alla fine De Gasperi riuscì a trasformare l'Italia da un Paese sconfitto in una repubblica democratica che puntò su un'Europa unita, insieme alla Germania di Adenauer e alla Francia della sinistra e degli intellettuali. Naturalmente Galantino ricorda il De Gasperi della legge "maggioritaria" del 1952 ma soprattutto il suo scontro con papa Pio XII, che per le elezioni del 1953 puntava su un'alleanza della Dc con i fascisti del Msi e con i monarchici. De Gasperi rifiutò e il Papa affidò alla rivista Civiltà cattolica il compito di stroncarlo partendo dalla notizia che il Papa non condivideva la linea politica degasperiana e ritirava il suo appoggio alla Dc.

È contro quel tipo di Chiesa pacelliana e temporalistica che ancora esiste e combatte duramente contro Francesco per la propria sopravvivenza, che Galantino ricorda i passaggi fondamentali della politica di De Gasperi e chiama in campo personaggi più recenti, cattolici che sia pur nelle mutate condizioni politiche hanno proseguito quella visione del bene comune cattolico-liberale e cattolico-democratica. Cita Pietro Scoppola, un anti-pacelliano molto acuto; cita Romano Prodi che un anno fa a Trento disse che "la risposta ai problemi del Paese non va cercata in un solo individuo ma nella forza delle idee". Cita addirittura Rosmini che un secolo prima e in tutt'altra situazione storica delineò una Chiesa che fu respinta e scomunicata dal Vaticano di allora. E ancora il De Gasperi del congresso Dc del 1954, quando disse che "il credente opera come cittadino nello spirito e nella lettera della Costituzione, e impegna se stesso, la sua classe, il suo partito ma non la Chiesa". Naturalmente Pio XII non fu d'accordo e lo disse pubblicamente. Ad un certo punto improvvisamente nel documento che stiamo esaminando l'autore cita un pensiero di Pascal che è sorprendente; due righe che dicono cosi: "Gesù Cristo senza ricchezze e nessuna ostentazione esterna di scienza, sta nel proprio ordine di santità. Non ha fatto invenzioni, non ha regnato, ma è stato umile, paziente, santo di Dio, terribile per i demoni, senza alcun peccato ".

Dico sorprendente perché Pascal, citato senza commenti da Galantino, descrive Gesù non come un Dio ma come un uomo, "santo di Dio, ma terribile con i demoni e senza peccato ". Un uomo con qualità ammirevoli proprio perché uomo. Così lo concepiscono i non credenti che proprio perché uomo lo ammirano. Così lo considera ormai gran parte dell'Occidente moderno e secolarizzato. Fa parte di quell'incontro con la modernità che Francesco si propone di realizzare. Ed ora il finale di Galantino: "De Gasperi ha avuto il dono di comprendere che nella società contemporanea la politica deve ispirarsi a valori universali, a cominciare dalla carità. La politica non è quella che vediamo oggi, forze che disputano all'interno di un piccolo harem di cooptati e di furbi. Noi vescovi italiani dobbiamo pensare al destino del nostro Paese a cui siamo non solo fedeli ma servitori". L'altroieri, parlando brevemente al meeting di Rimini, Galantino ha concluso dicendo: "Non va bene la politica guidata da interessi e fini immediati, etichettati spesso dalla ricerca dell'utile e meno da un progetto consapevole. Ma anche la Chiesa è destinata a rinnovarsi ".

Caro papa Francesco, ti faccio gli auguri più affettuosi e mi permetto di abbracciarti. Hai ancora lunga strada da percorrere ma credo e spero che arriverai fino in fondo.

© Riproduzione riservata
23 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/23/news/quando_un_papa_cita_ulisse_e_si_oppone_al_potere_temporale-121448559/?ref=HRER2-1
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #580 inserito:: Settembre 01, 2015, 04:55:52 pm »

Il Papa, i migranti, e l'aiuto degli angeli custodi
Francesco negli Usa invocherà la libertà per i profughi nei loro Paesi d'origine.
"Ama il prossimo tuo" è il motto del Pontefice, ma anche della sinistra

Di EUGENIO SCALFARI
30 agosto 2015

NELLE prossime settimane papa Francesco andrà a Cuba, poi a Filadelfia e infine a Washington dove incontrerà Obama e parlerà al Congresso degli Stati Uniti e a New York dove parlerà all'Assemblea dell'Onu e alle grandi potenze del Consiglio di sicurezza. Sappiamo già quale sarà - al Congresso Usa e all'Assemblea Onu - il tema fondamentale di Francesco: quello dei migranti. Lui li chiama così ed è perfettamente corretto dal suo punto di vista; per alcuni Paesi sono persone che vogliono emigrare e lo fanno a prezzo della vita; per altri Paesi sono immigranti che vengono in certi casi accolti, in altri respinti per mancanza dei requisiti richiesti. Ma per Francesco la parola giusta è quella che Lui usa sempre più spesso: migranti. Sono popoli che per una quantità di ragioni si trasferiscono da un continente all'altro, quasi sempre in condizioni di schiavitù imposte da trafficanti di persone. Popoli che, solo pensando all'Africa sub-sahariana dal Ciad alla Somalia, dalla Nigeria al Sudan, ammontano a cinque milioni per il 2015-16, ma a 50 milioni entro i prossimi trent'anni. Ma non è solo in Africa che avviene questo fenomeno: sta sconvolgendo tutto il Medio Oriente, i Balcani, la Turchia, la Siria, gran parte dell'Indonesia e delle Filippine. Insomma mezzo mondo è in movimento, individui, comunità e interi popoli. Le migrazioni non sono un fenomeno nuovo ma nella società globale il fenomeno coinvolge masse imponenti come non era mai accaduto prima.

Venerdì scorso ho avuto un lungo colloquio telefonico con papa Francesco, che ha toccato vari temi, ma soprattutto quello delle migrazioni. Non starò a raccontare ciò che ci siamo detti su altri argomenti ma su questo sì, penso e desidero farlo perché è dominante nella coscienza del Papa e perché comunque sarà tra pochi giorni direttamente affrontato in due sedi della massima importanza. Francesco sa benissimo che le immigrazioni dirette verso continenti di antica opulenza e di antico colonialismo, anche se riconoscono alcuni diritti di asilo con più ampia tolleranza di quanto finora non sia avvenuto, saranno comunque limitate. Ma il suo appello al Congresso americano e a tutte le potenze che rappresentano il cardine dell'Onu e quindi del mondo intero, verterà necessariamente su un altro aspetto fondamentale delle migrazioni: una conquista di libertà dei migranti che avviene, per cominciare, nei luoghi stessi dove ancora risiedono e dai quali vorrebbero fuggire. È lì, proprio in quei luoghi, che il diritto di libertà va riconosciuto, oppure nelle loro adiacenze, creando se necessario libere comunità da installare in aggregati che esse stesse avranno costruito e amministreranno con l'aiuto di centinaia o migliaia di volontari che le assisteranno con una serie di servizi e con un'educazione allo stesso tempo civica e professionale. Questo è il progetto che papa Francesco sta coltivando e che ovviamente ha bisogno del sostegno delle grandi potenze indipendentemente dalla loro civiltà, storia, religione.

La Chiesa missionaria di Francesco sarà naturalmente presente in tutti i luoghi dove le sarà possibile, ma i volontari da mobilitare non saranno ovviamente tutti cristiani. Saranno però soprattutto i giovani ai quali fare appello. I giovani d'oggi hanno una gran voglia di fare che a volte si identifica addirittura alla violenza e al terrorismo. Ma non è il male la radice più naturale. Francesco crede e spera che la radice più diffusa sia quella del fare e dell'aiutare il bene degli altri. Per questo prega e questo pensa e di questo parlerà nel prossimo viaggio. Riuscirà ad ottenere la sponsorizzazione dei Grandi del mondo? Riuscirà a mobilitare al massimo le Chiese missionarie cattoliche e cristiane in un'impresa di questa levatura? Collaboreranno nei loro modi anche le altre grandi religioni del mondo, non inquinate da germi fondamentalisti che portano al terrorismo e alla strage? Una cosa è certa, almeno per me ma credo per immense moltitudini di persone: non c'è che papa Francesco che sia in grado di tentare una simile iniziativa. Ascoltando il suo linguaggio direi che chieda il soccorso di migliaia e migliaia di angeli custodi, in tutte le parti del mondo, ispirati dal Dio che è uno soltanto, quali che siano le forme, le liturgie e le scritture con le quali è venerato.

***

Il tema che ora desidero trattare è del tutto diverso: è politico, è italiano ed europeo. Ma qualche attinenza con quanto fin qui ho scritto c'è. Il tema è quello della sinistra e la domanda è questa: la sinistra può vincere oppure è destinata a perdere perché, almeno in Occidente ma non soltanto, il tempo della sinistra è tramontato per sua stessa insipienza ed è solo al centro che, almeno in Italia e in Europa, si riesce a raccogliere il massimo dei consensi? Per dare una risposta a chi pone questa domanda vorrei come premessa ricordare una massima creata da papa Francesco a proposito dell'etico-politico che è una fondamentale categoria dello spirito pensante: "Ama il prossimo un po' più di te stesso". Si rivolge soprattutto ai ricchi, ai benestanti, ai potenti, e li esorta in favore dei poveri, dei poco abbienti, degli esclusi. Questo è il motto di Francesco ma questa è anche da secoli la bandiera della sinistra, quella cattolico-democratica ma soprattutto quella che fu comunista, azionista, liberaldemocratica. La sinistra moderna insomma, che ha alle spalle la storia di quasi due secoli. Questa è la premessa del tema. "Ora ascoltate com'egli è svolto" (I Pagliacci).

Paolo Mieli sul "Corriere della Sera" di giovedì 27 agosto ha scritto che in Italia (ma fa anche alcuni esempi europei) la sinistra novecentesca fino all'oggi contemporaneo, non è mai riuscita a vincere per propria incapacità congenita e quindi per propria colpa. Le pochissime volte che ci riuscì pose essa stessa le premesse per perdere al più presto i consensi che aveva per eccezionali circostanze guadagnato. Per cui  -  Tony Blair insegni  -  per vincere la sinistra deve spostarsi al centro e produrre cambiamenti che sono di sinistra non per il contenuto ma per il fatto stesso che innovano e l'innovazione è comunque (per Mieli) un elemento di sinistra. Il giorno dopo, sempre sul "Corsera", Angelo Panebianco ha citato Mieli concordando sulla sua tesi ma dando al tema un'ulteriore e più tecnica dimostrazione. La riassumo in breve: la sinistra non è in grado di realizzare una politica fiscale innovativa e capace  -  sia nel prelievo sia nella spesa e nella ricerca delle risorse  -  di incentivare gli investimenti pubblici e soprattutto quelli privati, di creare nuovi posti di lavoro e insomma sviluppo, crescita e maggior benessere.

La sola cosa che la sinistra (immobilista per antonomasia) è in grado di fare è di trasferire il peso delle tasse dalle spalle di alcune categorie sulle spalle di altre. Insomma, una redistribuzione del carico fiscale che lascia totalmente invariata e immobile l'economica nazionale.

***

Risposta a Mieli. Anzitutto: lo Stato italiano non fu fatto soltanto da Cavour e dai patrioti del suo conio liberale e laico. Fu fatto dalla predicazione di Mazzini, dalla sua "Giovane Italia" e soprattutto dal mazziniano ma assai più carismatico Giuseppe Garibaldi. Se non ci fosse stata l'impresa dei Mille e le due grandi battaglie vinte, quella di Calatafimi all'inizio ("Qui si fa l'Italia o si muore") e quella del Volturno, la guerra franco-piemontese contro l'Austria del 1859 si sarebbe conclusa con l'annessione al Piemonte della Lombardia. Cavour del resto  -  anche per riuscire ad allearsi con Napoleone III  -  aveva dovuto fare il "connubio" con la sinistra di Rattazzi. Tirando le somme: senza la sinistra il Risorgimento non ci sarebbe stato e il Regno d'Italia già molto tardivo a nascere nel 1861, avrebbe probabilmente tardato un altro mezzo secolo.

Ma Mieli lamenta altre cose. Per esempio la fralezza dei socialisti, anarchici all'inizio, massimalisti poi e infine l'impotenza dei comunisti stalinisti. Soltanto Berlinguer ruppe quel vincolo, ma la sua collaborazione con la Dc durò lo spazio di un mattino. Dopo ricominciò una sistematica opposizione che adesso è scaduta a bersaniani, a Gotor, a gruppettari come Fassina e insomma solo adottando la politica di Blair e prendendo molti voti al centro si vince. Ebbene, in alcune cose Mieli ha ragione, ma altre le sbaglia.

All'inizio del secolo XX furono i socialisti di Treves e di Turati a spingere Giolitti su posizioni riformiste. E fu il Partito socialista a battersi contro la guerra del 1915. Infine il grande partito della ricostruzione del Paese e della massiccia emigrazione dei giovani dal Sud al Nord, vide la presenza determinante del Pci, di Togliatti, Ingrao, Amendola, Scoccimarro, Alicata, Longo, Reichlin, Napolitano, Chiaromonte e di molti altri ancora che si dedicarono all'educazione delle "plebi" insieme a sindacalisti della personalità di Di Vittorio, di Trentin e di Lama. Senza una classe dirigente di questo livello la classe operaia non ci sarebbe stata e l'Italia sarebbe affondata nel medio ceto burocratico e nella vecchia cultura contadina. È vero, quella sinistra non governò, ma contribuì all'evoluzione politica e culturale del Paese come e di più di chi governava. Ciriaco De Mita fu tra i pochi a capirlo nella Dc. Ma, tranne rare eccezioni tra le quali De Gasperi, la massa dorotea della Dc fu immersa nel politichese anzi ne fu quella che lo inventò.

A Panebianco ho poco da dire se non questo: tra cambiamento e innovazione c'è una profonda differenza. Innovazione rinnova, lo dice la parola stessa; il cambiamento può essere innovativo oppure regressivo e reazionario. Tanto per fare un esempio (non fiscale ma storico): il principe di Metternich promosse dopo la battaglia di Lipsia il Congresso di Vienna che ebbe termine dopo Waterloo. Cambiò L'Europa? Certamente. Come? Riportando sui troni d'Europa i monarchi assoluti che la Rivoluzione e Napoleone avevano abolito.

Il fisco attraverso il quale si crea il reddito a favore delle classi meno abbienti non è affatto immobilista. Panebianco dovrebbe dirci se sia stato meglio dare 80 euro mensili al medio ceto come mancia elettorale permanente, oppure se non sarebbe stato molto meglio ridurre il cuneo fiscale con quei 10 miliardi.

E se sarebbe privo di effetti innovativi l'abolizione del cuneo fiscale che tutti gli altri provvedimenti, a cominciare dal Jobs Act, che non hanno ancora prodotto neppure l'ombra di un nuovo posto di lavoro.

Mi contenterei di questa risposta. Grazie.

© Riproduzione riservata
30 agosto 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/08/30/news/il_papa_i_migranti_e_l_aiuto_degli_angeli_custodi-121867346/?ref=HRER2-1
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #581 inserito:: Settembre 06, 2015, 05:38:56 pm »

Un fiume vivo può liberare i migranti dai ghetti

Di EUGENIO SCALFARI
06 settembre 2015
   
IL TEMA dei migranti ha di fatto spostato profondamente tutte le priorità finora dominanti. Restano certamente del massimo rilievo i problemi della crescita economica, la crisi di tutti i Paesi emergenti a cominciare dalla Cina e dal Brasile, gli interventi delle Banche centrali per sostenere l'assetto sistemico delle forze produttive, dei debiti sovrani, del credito bancario. Queste realtà richiedono, anzi impongono attenzione e concreti interventi ma, nonostante la loro rilevanza, passano in seconda linea di fronte al tema dei migranti.

Le realtà sistemiche riguardano interessi generali ma non valori etico-politici; il tema delle migrazioni di massa investe invece direttamente e drammaticamente i valori, che non sono ideali astratti, ma incidono anche sugli interessi collettivi e individuali; chiamano in causa il destino e la vita delle persone, delle famiglie, delle comunità, dei popoli.

Interi popoli sono in movimento in tutto il pianeta e in modo particolare in Africa, nel vicino Oriente, nell'Asia centrale e nell'Asia del Pacifico. Fuggono da guerre, stragi, povertà; hanno come destinazione i Paesi e i continenti di antica opulenza, suscitando rari sentimenti di accoglienza e molto più frequentemente reazioni di chiusura e respingimento.

Questo tema ha ripercussioni sociali, economiche, demografiche, politiche; durerà non meno di mezzo secolo, cambierà il pianeta, sconvolgerà le etnie vigenti, accrescerà ovunque le contraddizioni che sono il tratto distintivo della nostra specie; tenderà ad avvicinare le diverse religioni ma contemporaneamente ecciterà i fondamentalismi e i terrorismi che ne derivano.

Esalterà le libertà individuali e le mortificherà con nuove e diffuse forme di schiavismo e traffico di persone; configurerà nuovi diritti e cancellerà i vecchi che ne costituiscono la base.

Ieri sul nostro giornale il direttore Ezio Mauro ha descritto con eccezionale efficacia la storia di quegli individui che vengono ridotti a nudi corpi, marcati sulla pelle da numeri per distinguerli e perseguitarli con maggiore determinazione. Quelle operazioni di massa avvengono al centro dell'Europa, in nazioni che sessant'anni fa giacevano ancora in una servitù etnica e politica e si ribellarono proprio per recuperare quella libertà che oggi conculcano per difendersi dai migranti.


Così facendo - scrive Mauro - quei popoli non si rendono conto di ridurre essi stessi a nudi corpi privi di valori; creano ghetti dove rinchiudere i nuovi arrivati, ma quel che resta a loro è un altro ghetto dove si auto-rinchiudono di propria iniziativa. Dove andranno i polacchi, gli ungheresi, gli slovacchi, se l'Occidente li isola per loro stessa scelta? Andranno verso la Russia? Escluso, è la storia che glielo impedisce. Ecco perché anche i loro Paesi rischiano di diventare nient'altro che ghetti. Ma spesso le contraddizioni sono anche positive. Questa, descritta da Mauro, porta con sé la riscoperta dei valori europei ed è stata la Germania della Merkel a farsene promotrice avendo con sé il grosso dell'opinione pubblica del suo Paese e del resto d'Europa: società civili, istituzioni, forze produttive, club sportivi, studenti, intellettuali.

Nella conferenza di due giorni fa a Francoforte sulla situazione monetaria europea, un giornalista ha chiesto a Mario Draghi una parola che definisse che cosa pensava degli avvenimenti nell'Est europeo contro gli immigrati. La risposta è stata la parola " orripilato" scandita e ripetuta due volte.

Così lo siamo tutti, con tre eccezioni, due delle quali sono purtroppo italiane: Salvini, Grillo, Le Pen. Ma è lecito prevedere che una parte dei loro attuali consensi populisti li abbandoneranno al momento del voto.

***

L'aspetto positivo dello sconquasso in corso è il risveglio dell'Europa e dell'Occidente, non soltanto dei valori dei quali abbiamo già detto ma del suo massimo rafforzamento in termini di governo. L'Unione politica ed economica fin qui ha fatto passi avanti, limitatamente, per quanto riguarda l'economia, ma assai pochi nelle cessioni di sovranità politiche.

Già il terrorismo dell'Is aveva sottolineato questa necessità, ma dopo un'esaltazione transitoria quel risveglio si è nuovamente appisolato. Ora però si tratta di migranti, di centinaia di migliaia di persone che dal Sud e dall'Est bussano alla porta d'Europa e i membri dell'Ue - in certi casi perfino dell'eurogruppo - che si chiudono nel loro ghetto senza vie di uscita.

Si aggiunga a questa insensata diffidenza l'atteggiamento quasi analogo della Danimarca e quello decisamente inaccettabile della Gran Bretagna. Il premier inglese Cameron aveva promesso un conservatorismo moderato; invece sul tema delle immigrazioni è andato molto al di là. Di fatto ha chiuso la porta in faccia alla Germania, ha ribadito l'intangibilità del trattato di Dublino, ha ricordato che la Gran Bretagna accoglie più immigrati di qualunque altro Paese europeo e forse mondiale.

Quella affermazione è vera e non è vera. Gran parte di quelli che oggi Cameron definisce immigrati sono cittadini britannici da quando sono nati nei loro Paesi di origine che non erano più colonie ma membri dei Commonwealth con tutti i diritti che quello " status" gli aveva concesso, tra i quali la cittadinanza. Alla fine del colonialismo molti di quelli (indiani soprattutto) si trasferirono in Gran Bretagna. Sono immigrati? No, non lo sono.

Cameron in realtà si sta staccando dall'Unione mentre era sembrato che volesse semmai stringere di più i vincoli d'appartenenza europea. Sarebbe interessante sentire in proposito che cosa ne pensa Tony Blair. I voti, dice lui, si prendono al centro e anche a destra. Con questi bei risultati?

Resta comunque il tema dei popoli migranti, che va molto al di là perfino della buona volontà della Merkel. Non si tratta purtroppo del milione di migranti in fuga dalla Siria, dalle coste greche e libiche, dalla Turchia, dalla Somalia, dal Sudan. E neppure si tratta di quei cinque milioni che già preparano la fuga dall'Africa subsahariana.

In realtà, soltanto in quell'Africa, i potenziali migranti sono un popolo di cinquanta milioni e si va ben oltre se si aggiungono le popolazioni addensate in Pakistan, in Indonesia, nell'India meridionale, nelle Filippine.

Le regole che l'Europa dovrà approvare nello stato attuale delle nostre istituzioni riguardano sostanzialmente l'emergenza. Ma quest'emergenza, anche se continuiamo a chiamarla così, durerà a dir poco mezzo secolo e se l'Europa non accelera il mutamento della sua governance, affonderà in un pantano.

Prendo un esempio italiano. Il nostro presidente del Consiglio è pienamente d'accordo con la Merkel e con Hollande per quanto riguarda gli immigrati in fuga da paesi di guerra e di strage e sta facendo allestire in Italia presto e bene capacità di accoglienza anche maggiori di quelle attuali. Contemporaneamente però manda più o meno a quel paese la Commissione europea per quanto riguarda la politica fiscale italiana che la Commissione gli rimprovera (con molta moderazione). La cosa preoccupante è che anche il nostro ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, è in questo caso d'accordo con lui. In più si attende maggiore flessibilità dalla Commissione per attuare una politica di " deficit spending".

Può darsi che quella politica sia ciò che è ora necessario. Personalmente ne dubito. La sola vera politica per rilanciare gli investimenti sarebbe nel concentrare tutte le risorse sul cuneo fiscale: una decontribuzione di massa, questa è la soluzione, non di abolire l'imposta sulla prima casa.

Ma il punto vero è questo: dove si discute questo problema ed altri analoghi? In uno Stato federale? Allora non sarebbero né Renzi né Hollande né la Merkel a discutere, ma un Parlamento europeo, una Presidenza europea e un governo europeo, cioè la Commissione eletta dal Parlamento.

Per l'intanto ci vogliono leggi che diano slancio agli investimenti pubblici e interventi di incentivo a quelli privati. Draghi il suo " bazooka" sulla liquidità, l'acquisto di titoli di Stato, le facilitazioni ai privati, li sta spingendo al massimo. Una parte cospicua del famoso tesoretto che fa diminuire il nostro deficit tra Pil e debito viene dagli interventi di Draghi ed anche il ministro dell'Economia lo ammette. Ma solo l'abbassamento del cuneo fiscale procurerebbe la creazione di nuovi posti di lavoro. Il resto sono chiacchiere.

***

Quanto ai migranti, le voci che sono in grado di parlare al mondo sono due soltanto: quella del presidente Usa, che a questo punto è il capo della sola, unica potenza mondiale. Dunque Barack Obama. L'altro, perfino più di lui, è papa Francesco.

Il solo modo non di abolire ma di moderare le migrazioni di interi popoli è di educarli civilmente e professionalmente sulle terre dalle quali vogliono andarsene. Bonificare eticamente quelle terre. Trasformare le loro plebi in popoli.

Domenica scorsa scrissi che il mondo aveva bisogno di migliaia e migliaia di angeli custodi, cioè d'un volontariato capace di svolgere quella funzione educativa, protetto dalla sponsorizzazione delle grandi potenze. Il plurale è d'obbligo ma è metaforico: la grande potenza è una sola. Unita a quella d'un Papa come l'attuale, quegli angeli custodi sarebbero l'aiuto del quale il mondo ha bisogno in questo fine d'epoca che stiamo vivendo.

In un messaggio inviato ieri alla Chiesa argentina, Francesco ha parlato d'un fiume di acqua viva che nel suo scorrere irrora uomini, terre, natura e vita. Eraclito aveva scritto " Tutto scorre". E questa è l'immagine con la quale chiudiamo queste considerazioni.

© Riproduzione riservata
06 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/06/news/un_fiume_vivo_puo_liberare_i_migranti_dai_ghetti-122303887/?ref=HRER2-1
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #582 inserito:: Settembre 15, 2015, 05:03:38 pm »

Sui migranti il premier c'è, ma non sogna un'Europa federale

Di EUGENIO SCALFARI
13 settembre 2015

RENZI ieri mattina ha disdetto tutti gli impegni che aveva preso nel fine settimana ed è partito per New York per assistere alla finale degli Us Open di tennis tra le due italiane Flavia Pennetta e Roberta Vinci che il giorno prima avevano sgominato le due giocatrici più forti del mondo. Non era mai accaduto che due italiane si contendessero la finale e il presidente del Consiglio ha voluto esser presente a questo confronto eccezionale che corona a suo modo la ripresa economica e politica del nostro Paese dopo anni di triboli e di recessione.

Un fatto analogo era accaduto molti anni fa quando, in occasione della finalissima dei mondiali di calcio in Spagna, Sandro Pertini, allora presidente della Repubblica, era andato a Madrid accolto dal re Juan Carlos ed era poi tornato ospitando nel suo aereo la squadra vittoriosa e giocando a carte con i giocatori. Del resto, in questi stessi giorni, Berlusconi è andato in Crimea ospite di Putin, ha deposto un mazzo di fiori davanti alla stele che ricorda i caduti italiani nella guerra di Crimea del 1853 in cui entrò Cavour per dare al regno di Piemonte un livello europeo e facilitare l'alleanza con Napoleone III nella guerra del 1859. Berlusconi, dopo questo improvviso sfoggio culturale, ha consigliato a Putin di battersi per sconfiggere in Siria i terroristi del Califfato. Dunque quando l'ex Cavaliere di Arcore dice che Renzi è il suo "figlio buono" non sbaglia: Renzi conosce benissimo il modo per sottolineare un evento che nulla ha a che vedere con la politica e con l'economia ma soltanto con il consenso popolare.

Un figlio buono, anzi buonissimo e non lo dico con ironia ma faccio una semplice constatazione. Una constatazione analoga ed anche più notevole debbo farla per la lunga lettera aperta da lui inviata al direttore del nostro giornale e da noi pubblicata venerdì scorso. È un documento che rivendica il ruolo dell'Italia sul tema degli immigranti dal Sud e dall'Est del mondo, la nostra presenza nel salvataggio di centinaia di migliaia di vite, nella pressione esercitata a Bruxelles affinché quel tema, quel riconoscimento dei valori e dei diritti dei quali gli immigranti sono portatori, diventassero l'impegno principale che l'Europa doveva assumere.

In un certo senso il nostro presidente del Consiglio ha preceduto la Merkel ed ora l'Italia è il Paese più vicino alla Germania e ovviamente il più lontano dai populismi antieuropei alla Salvini nonché alla "politica dei muri" dei quattro Paesi dell'Est europeo, della Danimarca e dei conservatori inglesi. Sono segnali  -  quelli di Renzi nella lettera a noi diretta  -  che finalmente, almeno sul tema dell'immigrazione, mettono in atto concretamente una politica nuova, moderna, positiva, che accomuna i partiti moderati e quelli di una sinistra riformatrice, dando voce all'Europa come noi la vorremmo e la vogliamo. Perciò: bene Renzi se continua così.

***

In quello stesso numero di venerdì scorso del nostro giornale c'è anche un'intervista del collega Andrea Tarquini con Lech Walesa, storico fondatore del sindacato Solidarnosc che fu un sindacato cattolico e rivoluzionario della Polonia dominata dall'Urss, della quale era allora arcivescovo Wojtyla, che poi fu eletto papa col nome di Giovanni Paolo II. Walesa accetta in pieno la politica aperta ai migranti seguendo in questo la predicazione e l'insegnamento di papa Francesco, ma pone anche un altro problema: quello dell'Europa unita e federale senza la quale gli Stati nazionali del nostro continente affonderanno. Conviene citarlo per capire fino in fondo il suo pensiero: "L'Europa sta perdendo i suoi valori solidali. Abbiamo coltivato i nostri valori solo nel giardinetto dei piccoli Stati nazionali. L'Europa deve saper dire addio agli Stati nazionali e farsi struttura globale, aperta, democratica, moderna. Lo Stato nazionale di oggi ben presto apparirà anacronistico folclore. Oggi servono su tutti i temi e problemi soluzioni europee e valori globali. Il passo finale di questa politica deve essere la Costituzione, la carta fondamentale che ancora manca all'Europa. L'America fece questo, oltre ad aprirsi ai migranti di tutte le provenienze ed oggi, non a caso, è il Paese numero uno del mondo intero".

Così dice Walesa, fondatore di quella Solidarnosc che rivoluzionò la Polonia e inferse la prima ferita alla dominazione dei sovietici in quegli anni ormai lontani. E così dice anche la nostra presidente della Camera, Laura Boldrini, che ha mobilitato su questo stesso tema i presidenti delle Camere di Francia, Germania e Lussemburgo che comunicheranno lunedì prossimo al presidente Mattarella questa loro risoluzione.

Renzi concorda con l'obiettivo qui delineato? Temo proprio di no. Gli piace l'Europa degli Stati nazionali confederati; ambisce di essere uno dei leader di quella Confederazione della quale l'Italia fu uno dei fondatori nel lontano 1957; ma non accetterà un declassamento degli Stati nazionali a membri d'uno Stato federale. Questo è un handicap molto grave. Purtroppo condiviso da gran parte dei capi di governo dell'Ue. Se la Germania si muovesse in questa direzione, se la sinistra europea facesse altrettanto, allora forse la Federazione europea diventerebbe possibile. Su questo punto Renzi non risponde e non ne parla. Ha fatto benissimo a volare a New York, meriterebbe d'essere accolto al ritorno da quella canzone cantata splendidamente da Frank Sinatra, ma il problema dell'Europa federale è alquanto più importante e da lui la risposta finora non è venuta.

***

È questa dell'Europa federata la sola carenza di Matteo Renzi di fronte alle esigenze d'una moderna democrazia e d'una moderna sinistra? Risponde con una frase molto chiara Piero Ignazi in un articolo di ieri sul nostro giornale: "La spada di Brenno appartiene ai barbari, l'"agorà" all'alba della civiltà. Se c'è una sfida da vincere, questa riguarda il profilo della leadership di Renzi perché una vera leadership si afferma per capacità di convinzione, non di coercizione. Questo è il tema e il problema e anche per questo un Senato potrebbe servire". Così conclude Ignazi e questa, a mio avviso, è la realtà dello scontro. L'arbitro della verifica è il presidente del Senato il quale deve giudicare ammissibile il voto del Senato sul contestato articolo 2 della legge di riforma costituzionale. Questo dispone la Costituzione, come Gianluigi Pellegrino ha dimostrato venerdì su "Repubblica". Grasso non ha in materia alcun margine di discrezionalità: quell'articolo dev'essere ridiscusso, quale che ne sarà il risultato. Qualora accadesse, quando si arriverà al voto, che il governo fosse battuto dalle opposizioni e dalla minoranza interna al Pd, dovrebbe dimettersi? L'obbligo in Costituzione non è previsto a meno che il governo non ponga la fiducia, il che su una legge di riforma costituzionale è del tutto improprio anche se esistono alcuni precedenti in proposito.

Comunque, ove mai il governo si dimettesse (cosa che mi sembra improbabile ed anche non auspicabile) il presidente della Repubblica ha fatto sapere, sia pure in forma non ufficiale, che non ha alcun motivo per sciogliere le Camere, il che del resto è evidente. Il problema riguarda soprattutto l'opposizione interna al Pd la quale, su una legge costituzionale, non ha alcun vincolo di mandato politico. Un Renzi battuto ma non dimissionario avrebbe probabilmente pieno appoggio dalla sua minoranza nelle leggi sul lavoro, sulla crescita e sull'equità sociale. Sarebbe, da tutti i punti di vista, un auspicabile risultato.

P. S. Alcuni giorni fa, in uno suo articolo editoriale in prima pagina del Corriere della Sera, Paolo Mieli ha segnalato un mio supposto errore con le seguenti parole: "Giova ricordare ad Eugenio Scalfari che l'estate scorsa ha sollevato dubbi circa l'opportunità di alcune prese di posizione di Giorgio Napolitano a favore del completamento dell'iter di riforma costituzionale, che nel 2006 a capo della campagna abrogazionista si pose l'ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e poté farlo senza che in alcun modo il suo successore Carlo Azeglio Ciampi se ne dicesse turbato. Mieli è lui che sbaglia. Scalfaro si era messo a capo di una campagna referendaria e Ciampi non obiettò perché era un fatto del tutto lecito. I miei rilievi riguardano invece l'iter parlamentare di una legge di riforma che ancora non è stata approvata e neppure discussa fino in fondo. Questo mi sembra irregolare. Non guidare una campagna referendaria a legge già approvata dal Parlamento.

© Riproduzione riservata
13 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/13/news/sui_migranti_il_premier_c_e_ma_non_sogna_un_europa_federale-122767231/?ref=fbpr
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #583 inserito:: Settembre 22, 2015, 06:41:44 pm »

Il labirinto dell'Europa sui migranti e dell'Italia sul Senato
Per uscire dal dedalo della riforma ci vuole il filo di Arianna ma alla fine i suoi due capi resteranno in mano a Renzi. Sui flussi migratori, si pensi a che cosa sarebbe accaduto se fossero esistiti gli Stati Uniti europei con norme federali

20 settembre 2015
Eugenio Scalfari

I migranti e l'Europa. Lo spettacolo di alcuni Paesi membri dell'Unione europea di fronte alle ondate di decine di migliaia di persone provenienti dall'Africa subequatoriale, dalla Siria, dalla Libia, dal Kurdistan. I valori sui quali è nata l'Unione europea messi sotto i piedi dall'Ungheria, dalla Polonia, dalla Slovacchia, dalla Repubblica Ceca, dalla Croazia. Questo è accaduto e continua non solo ad accadere ma a coinvolgere la simpatia anche di altri membri dell'Unione come i Baltici. È una situazione intollerabile e come tale giudicata da tutti gli altri componenti dell'Unione a cominciare dalla Germania, dall'Italia, dalla Francia. Ma, nonostante questa inaccettabilità più volte affermata vigorosamente, non si è andati oltre, alle parole non sono seguiti i fatti, sia perché si cerca piuttosto un compromesso che uno scontro aspro e duro in una fase di difficoltà economiche notevoli e non ancora superate e sia perché l'Ue è una confederazione di Stati nazionali ognuno dei quali è padrone in casa propria salvo alcune modeste cessioni di sovranità che riguardano più l'economia che la politica.

Questa constatazione mi ha fatto pensare che cosa sarebbe accaduto se esistessero gli Stati Uniti d'Europa e come sono in grado di comportarsi gli Stati Uniti d'America quando hanno dovuto affrontare problemi consimili ai nostri di discriminazioni, xenofobie, immigrazioni. L'immigrazione è regolata da norme federali: se uno straniero è in regola con quelle norme e può varcare i cancelli di ingresso, circola liberamente in tutto il Paese.

La discriminazione fu abolita da Lincoln con la guerra di secessione: la vittoria contro i sudisti ebbe come risultato costituzionale l'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge. Quanto alla xenofobia, tutte le associazioni razziste, a cominciare dal Ku Klux Klan, furono soppresse e la loro ricostituzione vietata. Provvedimenti come quelli di erigere muri e sbarrare i confini da parte di singoli Stati dell'Unione sarebbero immediatamente e concretamente vietati, la polizia locale sostituita da quella federale alla quale ove si dimostrasse necessario si affiancherebbero anche reparti dell'esercito degli Stati Uniti.

Quanto sta accadendo è la vergogna d'Europa, non solo per gli Stati xenofobi e dittatoriali, ma per tutti, che dopo settant'anni dal manifesto di Ventotene non sono ancora riusciti a dar vita ad una Federazione europea. Vergogna.

***

La riforma costituzionale del Senato della Repubblica italiana è un tipico labirinto per uscire dal quale ci vuole il filo di Arianna. Il mito racconta che due personaggi tengono quel filo: Arianna e Teseo. Tutti e due si salvano e si mettono provvisoriamente al sicuro ma, arrivati all'isola di Nasso, Teseo abbandona Arianna; lei viene violentata dal dio Dioniso che poi la trasforma in una costellazione. Il filo resta per terra in quell'isola sperduta senza più nessuno che lo tenga in mano.

I lettori forse si domanderanno che cosa c'entra il mito del labirinto con la riforma del Senato. C'entra, eccome. Nel labirinto dell'articolo 2 della legge di riforma Teseo è Renzi e Arianna è Bersani. Se l'accordo che si profila tra la maggioranza renziana e la minoranza andrà a buon fine, il Pd uscirà dal labirinto ma alla fine Renzi (Teseo) abbandonerà Bersani (Arianna) che finirà in cielo, cioè fuori dalla vera partita politica. Il filo però non sarà abbandonato per terra ma i suoi due capi resteranno in mano a Renzi.

Personalmente la vedo così. Può darsi che sia un bene per il Paese, Renzi resta il capo indiscusso e unico, la minoranza è fuori gioco ma onorata e luccicante come le stelle. Il guaio è che il labirinto resta in piedi. Chi ci sta dentro? Non certo la minoranza che riposa nell'alto dei cieli. Dentro ci sta di nuovo Renzi alle prese con l'Europa e soprattutto con quelli che l'Europa la vorrebbero federata. Il nostro presidente del Consiglio no, vuole mantenere i poteri deliberanti in mano agli Stati nazionali.

Del resto non è il solo: quasi tutti i capi di governi nazionali non vogliono essere declassati. A volere l'Europa federata sono rimasti in pochi: uomini di pensiero, vecchi ma anche molti giovani che detestano frontiere e localizzazioni; Draghi con la sua Banca centrale; molti presidenti delle Camere europee, a cominciare dalla nostra Laura Boldrini; forse Angela Merkel, consapevole che anche la Germania in una società sempre più globale finirebbe col trasformarsi da nave d'alto mare in un barcone sballottato dai flutti.

Tutto è dunque appeso al filo di Arianna perché se è vero che l'Italia è un labirinto, molto più labirintica è l'Europa. Un capo del filo per uscire dal labirinto europeo è in mano alla Germania, l'altro capo dovrebbe essere il popolo europeo a tenerlo, il quale però non dimostra alcun interesse a questa vicenda. Ci vorrebbero all'opera partiti europeisti e questo avrebbe dovuto essere il compito anche del Partito democratico italiano.

Questo scenario è affascinante ma anche assai fantomatico. Storicamente somiglia al Risorgimento italiano: chi avrebbe mai pensato nel 1848, che il Piemonte di Cavour da un lato e Giuseppe Garibaldi dall'altro avrebbero fondato lo Stato unitario italiano? Nessuno l'avrebbe pensato in un Paese diviso in sette o otto staterelli, con un popolo fatto di plebi contadine e d'una borghesia appena nascente e interessata più a progetti economici che sociali e politici? Invece accadde, in tredici anni. Chissà che il miracolo non avvenga anche nell'Europa di domani. Tredici anni sono un lampo anche se sarebbe meglio farlo prima.

***

Ancora qualche parola sulla diatriba riguardante la riforma del Senato. L'archivio storico della Camera dei deputati è molto solerte nello studio dei documenti in sue mani e non rifiuta, se richiesta, di darne notizia al richiedente. Personalmente avevo un vago ricordo di un documento che rimonta ai tempi del governo Dini. Il nostro giornale ne aveva dato notizia a quell'epoca. Comunque adesso ho potuto rileggerlo e merita che i nostri lettori ne conoscano la parte essenziale. Si tratta di una proposta di legge il cui contenuto è rappresentato da queste parole: "La democrazia maggioritaria deve dispiegarsi appieno per quanto riguarda le scelte di governo, ma deve trovare un limite invalicabile nel rispetto dei principi costituzionali, delle regole democratiche, dei diritti e delle libertà dei cittadini: principi, regole, diritti che non sono e non possono essere rimessi alle discrezionali decisioni della maggioranza 'pro tempore'". La proposta fu firmata da una settantina di parlamentari, tra i quali Napolitano, Mattarella, Leopoldo Elia, Piero Fassino, Walter Veltroni e Rosy Bindi. La data è del 28 febbraio 1995.

Questa proposta non fu trasformata in legge e dopo alcuni mesi Dini si dimise, ma il suo valore resta. E se fosse ripresentata oggi? Chi la firmerebbe? E la riforma del Senato che non si limita a puntare sull'elezione indiretta dei componenti ma ne riduce il numero rendendolo insignificante nei "plenum" dove la Camera conta su 630 rappresentanti e ne riduce soprattutto le attribuzioni legislative ben oltre la questione della fiducia al governo riservata alla sola Camera? Reggerebbe questa riforma di fronte ad una legge come quella proposta nel 1995?

Quanto alla legge elettorale che prevede il premio alla lista che avrà il quaranta per cento dei voti espressi, è la prima volta che questo accade; fu solo la legge (fascista) di Acerbo del 1923 ad accordare il premio di maggioranza ad un partito ben lontano dall'avere ottenuto la maggioranza assoluta. Non è anche questa  - anzi soprattutto questa  -  una stortura istituzionale su un sistema monocamerale con gran parte dei suoi componenti nominati dal governo?

Siamo in presenza d'una politica che sta smantellando il potere legislativo a favore d'un esecutivo dove il gruppo di comando si compone di non più d'una decina di persone. Non è una oligarchia ma un cerchio magico di infausta berlusconiana e bossiana memoria.

Arianna sta tra le stelle e le nuvole del cielo, forse era meglio che non si fosse messa in viaggio e tenesse ancora un capo di quel filo.

© Riproduzione riservata
20 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/politica/2015/09/20/news/il_labirinto_dell_europa_sui_migranti_e_dell_italia_sul_senato-123262129/?ref=fbpr
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.763


Mostra profilo
« Risposta #584 inserito:: Settembre 23, 2015, 10:28:30 am »

Eugenio Scalfari, lo zibaldone per un altro futuro
 
Esce oggi il nuovo libro del fondatore di "Repubblica". "L'allegria, il pianto, la vita" è una raccolta di riflessioni, ricordi, citazioni e poesie.
Dopo i saggi e i romanzi per la prima volta la scrittura è in forma di diario per registrare non gli eventi, "ma i mutamenti interiori generati dalla realtà"

Di SIMONETTA FIORI
22 settembre 2015

Il futuro compare fin dal principio, in un verso della poesia dedicata al fiume della vita. E la parola ricorre nelle pagine, declinata con l'attesa e l'inquietudine, curiosità del futuro o paura per il futuro, comunque passione per il mondo, anche per quello ignoto che verrà. In un diario scritto da chi si sente "vicino alla fine del viaggio" ci si aspetterebbe ripiegamento, nostalgia, malinconica resa all'ultimo traguardo. Il tempo trascorso, non quello che sarà. E invece Eugenio Scalfari continua a sorprenderci con un nuovo importante libro - per la prima volta in forma di diario - che è sì un confronto aperto con la " Signora nerovestita" ma con il cuore e la testa rivolti alle generazioni prossime.

Memorie personali e riflessioni filosofiche per chi continua il viaggio. L'allegria, il pianto, la vita (Einaudi) può essere letto anche come una sorta di lascito intellettuale e politico d'un testimone di un'epoca già conclusa che però non rinunzia a intercettarne una nuova. Senza accenti apocalittici, anzi con la speranza che la trasmissione della memoria possa un giorno essere riattivata dai quei giovani "audaci, volitivi, creativi" che oggi "immaginano il futuro senza avere il supporto del passato" e un domani forse potranno farvi ricorso. Come in fondo è già successo nella storia.

Ma per immaginare il futuro bisogna avere il coraggio di penetrare la realtà, esercizio coltivato da Scalfari nelle sue molteplici vesti di fondatore di giornali, scrittore, pensatore, saggista di storia, ora anche poeta. E ne è una prova anche questo inedito zibaldone che attinge a depositi di memoria privata e intellettuale in continuo movimento ("il passato non è un cimitero") per rispondere alle grandi domande sul senso della vita e della Storia. Amore e potere. Guerra e pace. Quale dei due sentimenti - amore e potere - è quello che fa più girare la ruota dell'esistenza? La natura dell'uomo tende alla guerra o alla pace? Domande di carattere universale che sembrerebbero scaturire - specie la prima - anche da un vissuto esistenziale che però resta fuori dalla pagina.

Amore e potere sono stati i sentimenti prevalenti nella sua vita pubblica e privata, talvolta illuminandosi vicendevolmente nelle distinte sfere, soprattutto nel mestiere di direttore di

giornale (che in altre pagine del diario associa al ruolo dei registi e dei direttori d'orchestra, "fanno lo stesso mestiere che per tanti anni ho fatto anch'io, quello di dirigere il lavoro degli altri e realizzare se stessi attraverso gli altri. Sono soprattutto curatori quando non addirittura possessori di anime"). Ma in questa sua nuova passeggiata filosofica Scalfari sembra dimenticare l'autobiografia, concentrandosi su un potere totalmente sprovvisto di amore se non per se stesso. Ed è in questo potere che individua il regolatore supremo della vita associata. Nel potere e nella guerra per ottenerlo. Ma se il potere e la guerra sono le passioni predominanti, la Storia non è più progresso e libertà, non è più razionalità, ma solo caso a vantaggio dei più forti (lo storicismo crociano definitivamente sepolto). E perfino Eros, il Signore dei desideri nume tutelare del suo personalissimo Olimpo, incrudelisce con le parole di Saffo in "dolce amaro indomabile serpente". Metafora della nostra "contrastata vita".

Non c'è una trama lineare e prevedibile, né nella vita né nella storia. Alla verità ci si avvicina per frammenti, perché di " scintille" e " schegge" sono fatti gli uomini, "scintille di divino, di desiderio del potere, di poesia, di amorosità, di concupiscenza, anche di anarchia". Sì, anche di libertà anarchica, ripete l'autore che recupera le sue letture giovanili di Bakunin, elevando la disobbedienza a capacità di sognare, di aspirare al bene comune. Scalfari sembra voler disobbedire soprattutto al presente, all'attuale assetto politico - italiano ed europeo - , alla inadeguatezza delle classi dirigenti e del popolo che le ha scelte. In un confronto con i classici del pensiero politico, da Machiavelli a Mazzini, s'interroga sulla natura del popolo italiano e sui fallimenti delle é lite nazionali: le plebi sottomesse si sono mai elevate alla condizione del popolo sovrano? La moltitudine di contadini, " anime morte", masse inconsapevoli che costituivano la massima parte della società italiana all'epoca dell'unificazione è mai diventata una comunità civile, partecipe della vita pubblica, capace di influenzarne il corso? Solo in parte, risponde Scalfari. Ed è questa incompiutezza che vede deflagrare nella società globale di oggi, nella "plebe incantata dal carisma dei Dulcamara", "pronta a innamorarsi del Narciso altrui e ad avvalersi di quella libera servitù per far trionfare a livelli più bassi il Narciso proprio". Uno spettacolo disperante per chi si è dedicato con intensità politica e culturale alla costruzione dell'assetto democratico e all'educazione civile di quelle masse.

Un'analisi senza possibilità di redenzione? Non proprio. Scalfari resta un protagonista del Novecento che ha eletto la politica - e l'etica - a bussola per l'avvenire. Per quanto sconsolato appaia lo sguardo sulla natura umana, non cede al pozzo profondo della malinconia. Anche questo suo zibaldone è una testimonianza di fiducia nella scrittura e nella sua funzione civile, dunque ancora una volta gesto politico. Allegria e pianto, evoca il titolo. Ma su tutto sembra prevalere il terzo elemento della titolazione, un istinto vitale capace di trasformare la fine in un nuovo inizio, lo sconforto in progetto, la nostalgia in speranza di futuro. È nelle pagine sui dolori privati - tra le più belle e coinvolgenti - che si trova la chiave di questa sua vocazione. Nei lutti famigliari - il padre, la madre, la moglie Simonetta - morte e rinascita come parte di sé. Negli strappi sentimentali poi felicemente ricomposti: Serena, sua compagna da quarant'anni. E soprattutto nei lutti che riguardano la sua vita pubblica. Rivelatore il pianto per la morte di Pannunzio, il padre politico e culturale da cui aveva preso le distanze sempre per ragioni di natura ideale. Una rottura "senza sofferenza né risentimenti", almeno fino alla malattia del fondatore del Mondo : lì accade qualcosa che lo tocca nelle corde più intime, "volevo vederlo e riabbracciarlo prima che il peggio avvenisse". Per la prima volta Scalfari che ha fatto del paterno il suo destino ci mostra il dramma umano di lui figlio che viene tenuto lontano dal capezzale, costretto a osservare il corpo malato del padre attraverso uno spiraglio della porta, le sue spalle scosse da un respiro affannato, "un rantolo che mi penetrò a tal punto da scatenare un rantolo mentale". Escluso dalla sua morte, escluso anche dai funerali: "ero stato disconosciuto senza che lui sapesse che esisteva un orfano". Il pianto è per l'uomo ma soprattutto per il capostipite d'una famiglia, quella dei liberali di sinistra, a cui Scalfari continua a restare fedele. E il coccodrillo del padre diventa storia politica, proposito, legame tra passato e futuro. "Lo scrissi senza sentire che lo stavo scrivendo. L'autore di quel ricordo da me firmato non ero io, avevo scritto meccanicamente. L'autore era la storia della cultura politica, era lei ad averlo scritto".

Guardare in avanti, sempre. Anche la fotografia in copertina lo ritrae mentre passeggia con il suo labrador in campagna: in movimento, sicuro di aver fatto la sua parte, di continuare a farla. Mai lasciarsi scoraggiare dalla fine, perché "è legge che tutto ciò che nasce debba morire". Nessuna illusione su Dio, "meravigliosa invenzione degli uomini" per consolarsi della loro finitezza. Entrare nel futuro insieme, possibilmente sulle note di I'm in the Mood for Love suonata da Louis Armstrong. Solo così il viaggio non finisce.

© Riproduzione riservata
22 settembre 2015

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2015/09/22/news/titolo_non_esportato_da_hermes_-_id_articolo_1316697-123397932/?ref=HRER2-2
Registrato
Pagine: 1 ... 37 38 [39] 40 41 ... 47
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!