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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 319173 volte)
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« Risposta #435 inserito:: Giugno 16, 2013, 09:10:15 am »

Lunga la strada, stretta la via

Ma la marcia è cominciata


di EUGENIO SCALFARI


FABRIZIO Saccomanni non è semplicemente un banchiere che conosce a menadito le tecniche della politica monetaria. È anche dotato di fiuto politico, rafforzato da una lunga esperienza di contatti con uomini di governo e istituzioni internazionali come le altre Banche centrali, il Fondo monetario internazionale, la Banca dei regolamenti, la Banca europea degli investimenti, la Commissione di Bruxelles e soprattutto la Bce guidata da Mario Draghi, di cui la Banca d'Italia è una costola.

Chi lo conosce sa o è in grado di prevedere quali sono i suoi comportamenti di fronte alla crisi recessiva che attanaglia l'Europa e l'Italia.
In questa fase ha due problemi da risolvere: come gestire la questione dell'Imu e dell'Iva nell'ambito degli impegni europei e come ottenere dall'Europa (e dalla Germania) la maggiore flessibilità compatibile per attuare una concreta crescita in Italia e nel continente e un aumento della base occupazionale e giovanile.

Ha un ottimo punto di riferimento nel suo presidente del Consiglio, Enrico Letta, che a sua volta, può contare sull'appoggio sistematico di Giorgio Napolitano.

La strada che il nostro governo - e Saccomanni in particolare - stanno percorrendo è la seguente: rinviare l'aumento dell'Iva per tre-sei mesi; rinviare di altrettanto le rate di pagamento dell'Imu. Questi due rinvii hanno un costo, ma non molto elevato, tre o quattro miliardi che possono esser coperti almeno in parte con operazioni di tesoreria.

Ad ottobre l'Imu sarà interamente abolita e sostituita con un'imposta immobiliare comprensiva dell'imposta sui rifiuti ed altre minori, su basi nettamente progressive. Altrettanto avverrà per l'Iva che non riguarda soltanto le aliquote ma soprattutto i settori merceologici ai quali si applica, movimentando le aliquote al rialzo e al ribasso, anche qui su basi progressive in modo da gravare di più su settori di più alto reddito (o rendite) e meno sui consumi e i servizi primari.

C'è un gioco politico per guadagnare questi mesi e il tandem Letta-Saccomanni lo sta conducendo con consumata abilità. L'importante per ora è di gravare il meno possibile sulle scarse risorse esistenti.

***

Nel frattempo bisogna intervenire sulla crescita e sul lavoro. Il decreto del "fare" è stato approvato dal Consiglio dei ministri e prevede investimenti in infrastrutture locali (in gran parte già predisposti da Fabrizio Barca quando era ministro della Coesione territoriale nel precedente governo), incentivi alle piccole imprese per l'acquisto di macchinari produttivi, pagamenti della pubblica amministrazione ai Comuni e alle imprese, semplificazioni e liberalizzazioni che tagliano inutili lungaggini burocratiche.

Le risorse sono in parte già disponibili, in parte anticipate dalla Cassa depositi e prestiti, in parte fornite dal sistema bancario sotto forma di anticipazioni su fatture autocertificate e "mini bond" emessi dalle imprese. A occhio il complesso di questi interventi ammonta a 8-10 miliardi. Le coperture previste sono all'esame della Ragioneria e della Banca d'Italia. Un primo sollievo per il sistema che si avrà entro un paio di settimane.
Ma il secondo terreno di gioco - anch'esso già in corso - riguarda la politica economica europea. L'Italia non accetterà compromessi sul tema dell'unione bancaria. L'incontro a quattro di venerdì scorso è andato bene, il fronte comune dei quattro più importanti Stati dell'Eurozona (Germania, Francia, Italia, Spagna) sosterrà negli incontri imminenti europei il criterio della crescita e della flessibilità, fermo restando il mantenimento del "fiscal compact" e del controllo sul deficit. Perfino il ministro tedesco Schäuble è d'accordo su questa linea che, da parte italiana, prevede misure europee per l'occupazione giovanile. Non saranno immediate, ma l'importante è che siano approvate e messe in calendario per il 2014.

È tuttavia chiaro che tutto questo non basta. L'Italia chiederà di poter avviare investimenti pubblici e incentivare quelli privati anticipando l'uso dei fondi europei, attivando la Bei a mobilitare una leva di 60 miliardi per investimenti e ottenendo che le risorse italiane necessarie siano tenute fuori dal patto di stabilità.
Questi obiettivi non sono chimerici, esistono concrete probabilità che siano raggiunti. Ma esiste tuttavia un'incognita che già esercita una forte tensione sui mercati: l'incognita viene dal processo già in corso da mercoledì scorso della Corte costituzionale di Karlsruhe che dovrà sentenziare sulla politica economica tedesca rispetto al patto di stabilità di Maastricht e se la Bce da parte sua non sia andata al di là di quanto il suo statuto e le norme europee prevedono. Questo procedimento apre una fase nuova nei rapporti della Germania con le istituzioni europee. Maggiore crescita e maggiore flessibilità europea nonché il mantenimento della politica di liquidità della Banca centrale sono evidentemente condizionati da quanto sarà sentenziato a Karlsruhe nei prossimi mesi.

Una cosa è certa e la si ricava dall'articolo 3 del trattato di Lisbona: le direttive europee per quanto riguarda la politica economica e in particolare quella monetaria non possono essere condizionate o modificate da uno degli Stati membri o da istituzioni nazionali; soltanto gli statuti delle istituzioni europee configurano le norme di comportamento; la loro interpretazione in caso di dubbi di legalità spetta unicamente alla Corte di giustizia di Strasburgo. Le sentenze di Corti di giustizia nazionale, qualora intervenissero su queste materie, sarebbero invalide e addirittura censurabili.

Come si vede, il terreno di gioco è accidentato ma la posizione sostenuta dall'Italia, dalla Francia e dalla Spagna è incomparabilmente la più favorita nell'eventuale partita che dovesse aprirsi.

Sarebbe opportuno che i governi nazionali dell'Eurozona cominciassero fin d'ora a prender posizione sulla base del trattato di Lisbona e stimolassero la Corte di Strasburgo a pronunciarsi anche preventivamente rispetto al Karlsruhe. Quanto alla cancelliera Angela Merkel, sembrerebbe più solidale con la Bce che con la Corte del proprio paese. Forse -ce lo auguriamo - è più attratta dall'obiettivo di un'Europa federale che si muova col peso d'un continente nell'economia globale, piuttosto che da una Germania isolata di fronte agli altri paesi europei e soprattutto di fronte ai paesi emergenti del pianeta.

***

Il nostro governo, che è più esatto chiamare di necessità anche se si autodefinisce di "larghe intese" per evidenti ragioni di opportunità, si sta muovendo nel modo migliore tra questi scogli della crisi economica e delle incertezze europee. Immaginare che la necessità venga meno tra pochi mesi è del tutto illusorio. Altrettanto illusorio, anzi assai pericoloso, è supporre che una nuova maggioranza di cui il Pd sia il perno e la dissidenza dei 5Stelle il nuovo alleato, significa sognare ad occhi aperti. Pd più dissidenza grillina possono essere un governo adatto quando la crisi economica sarà superata, non prima. La sola eventualità che questo avvenga potrebbe sconvolgere i mercati, quello italiano e di riflesso quelli europei.

Vendola non si rende conto di questa realtà? Renzi capisce quello che ho fin qui scritto con informata coscienza? Preparare il campo di gioco per una futura competizione e rinnovare nel frattempo la sinistra italiana è un compito degno d'esser portato avanti, ma pensare che quel futuro sia dietro l'angolo oppure operare addirittura per affrettarlo con le proprie querimonie sarebbe un caso grave di irresponsabilità.

Il Movimento 5Stelle sta vivendo una fase di ricerca di libertà. Non sappiamo quanto sia estesa tra i cittadini entrati in Parlamento. È comunque giusto dire che Grillo e il suo iniziale successo sono stati utili al risveglio della democrazia italiana così come è utile oggi che gli eletti delle 5Stelle rivendichino la loro dignità di teste pensanti e scoprano la politica.

La politica - lo dice la parola stessa - è una visione del bene comune, la visione di una società al cui servizio la politica si pone. Attenzione: il "demos" cioè il popolo, esprime una società, cioè un insieme di comportamenti che spesso non collimano con la visione del bene comune di una parte politica. Questa distinzione non va dimenticata da quanti riflettono su ciò che avviene intorno a loro.

Tra il "demos" e le diverse parti politiche che competono c'è sempre un rapporto interrelazionale: il "demos" modifica le parti politiche e queste a loro volta modificano il "demos", ciascuna a proprio modo. Questa è l'etica della politica: quella di Aristotele, non quella di Platone. Il resto è futile chiacchiera o esperta demagogia.

***

Un campo molto agitato si è aperto anche nel centrodestra. Lì non c'è alcuna visione del bene comune. Ci sono interessi coalizzati attorno ad un proprietario che è l'asso dei venditori e c'è un "demos" emotivo e dominato dall'imbonitore. Impaurito dai comunisti (pensa un po'!), impaurito dal fisco (qualche ragione ce l'ha), impaurito dagli immigrati, impaurito dai gay, impaurito dallo Stato, ostile all'euro, ostile all'Europa.

Alle elezioni amministrative il Pdl è letteralmente crollato. Scomparso. Come i grillini. Molti elettori si sono astenuti, alcuni per indifferenza, altri come atto politico, per incidere sui partiti e scuoterli dal loro abbattimento. L'astensione in Italia in queste dimensioni è un fatto nuovo ma non chiudiamo gli occhi di fronte alla realtà: nella Russia di Putin vota circa il 90 per cento degli elettori, ma in Usa e nelle democrazie di Francia, Gran Bretagna e Germania votano dal 40 al 55 per cento degli aventi diritto.

Comunque, da noi è un fatto nuovo e auguriamoci che il Pd operi su se stesso come si conviene. Quanto a Berlusconi, sta pensando a una nuova Forza Italia, guidata ovviamente da lui, con Alfano segretario e imprenditori famosi e facoltosi come quadri regionali. Gli piacerebbero Montezemolo, Marchini, Malagò, Marcegaglia e perfino Totti; insomma personalità di spicco dallo sport all'industria alle finanze. Purtroppo per lui, gli hanno tutti chiuso la porta in faccia.

Comunque finirà quella partita, un'altra ce n'è che preoccupa un po' tutti: che cosa farà il Cavaliere quando, tra pochissimi giorni, si aprirà il Festiva delle sentenze a cominciare da quella attesa per il prossimo 19 della Corte  costituzionale sul legittimo impedimento? Manderà per aria il governo? Chiederà le elezioni anticipate? Con le conseguenze che è facile immaginare?

Personalmente penso che non accadrà nulla di tutto questo. Ci sarà naturalmente un gran fracasso e il circuito mediatico - come è inevitabile - lo amplificherà. Santanché sarà in primo piano ma, con maggior "aplomb" anche Alfano e Schifani. Ma altro non accadrà.

Elezioni adesso con un partito a pezzi? Impensabile. Scioglimento delle Camere? Dovrebbe scioglierle Napolitano. Pensate che lo faccia? Con un "Porcellum" ancora in piedi? E allora, che cos'altro può accadere?
Non accadrà nulla. Sentenze definitive ancora non ci sono e la più vicina è tra un anno, prescrizione permettendo. Pensiamo dunque a cose più serie: lavoro, investimenti, Europa, riforma del Senato, lotta all'evasione, riforma elettorale, magari provvisoria.
Buona domenica e buona fortuna.

Post scriputm.
Ho visto e ascoltato a "Otto e mezzo" Dario Fo che parlava di Grillo. Con tutto il rispetto: ma è mai possibile? Un attore con una degna storia di teatro alle spalle e anche di pensiero. È mai possibile? Ah, Narciso! Quanti guai combini nella vita delle persone.
 

(16 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/06/16/news/lunga_la_strada_stretta_la_via_ma_la_marcia_cominciata-61185470/?ref=HREA-1
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« Risposta #436 inserito:: Giugno 23, 2013, 11:57:05 pm »

Quando Renzi vincerà, il gran ballo comincerà

di EUGENIO SCALFARI


CI SAREBBERO oggi molti temi da passare al vaglio; riguardano i mercati, la liquidità, l'accoppiata Iva-Imu, il lavoro, la corruzione. Ma il numero uno dal quale partire riguarda una persona ed un nome. Strano a dirsi: non è Berlusconi, è Matteo Renzi, sindaco di Firenze e probabile candidato alla segreteria del Pd e alla leadership di quel partito. Scioglierà la riserva il primo luglio prossimo ma dall'aria che tira la sua decisione sembra affermativa. E se dirà sì, vincerà perché non ha veri avversari capaci di sbarrargli la strada.

Renzi propone un partito con "vocazione maggioritaria". Queste due parole significano un partito che combatta da solo per un riformismo radicale con forti venature di liberismo, ma attento anche a non perdere voti a sinistra; sensibile quindi ai temi del lavoro, ad un nuovo "welfare", a incentivi alle imprese, alla diminuzione del cuneo fiscale, ad un ribasso dell'Irpef, al taglio di ogni finanziamento pubblico ai partiti.

Cercherà di recuperare voti dal grillismo in decadenza e dagli elettori che hanno abbandonato Berlusconi rifugiandosi nell'astensione ma che non voterebbero mai un partito con connotati socialdemocratici. E infine un partito che non metta le dita negli occhi a Berlusconi (Renzi ha dichiarato che voterà contro la sua ineleggibilità perché vuole sconfiggerlo politicamente e non per via giudiziaria).

Una legge elettorale con premio a chi prenda consensi almeno del 40 per cento dei votanti. Questa
è la "vocazione maggioritaria".

La definizione non l'ha inventata Renzi, la coniò e ne fece la sua bandiera nelle elezioni del 2008 Walter Veltroni. Incassò il 34 per cento dei voti e fu giudicata dall'allora nomenclatura di quel partito (nato pochi mesi prima) una sconfitta, mentre a guardar bene le cose era una vittoria avendo raggiunto la cifra massima che il Pci di Berlinguer aveva toccato a metà degli anni Settanta.

Veltroni, in pura teoria, dovrebbe dunque essere lui il candidato che incarni la vocazione maggioritaria ma - vedi caso - si è autorottamato sotto la spinta di Matteo e quindi è fuori concorso.

Dunque Renzi. Tutto bene? Tutti contenti? Parrebbe di sì, con qualche eccezione, ma non stiamo a cincischiare e ad asciugare gli scogli, Renzi vincerà e Berlusconi con i processi e le sentenze se la vedrà per conto proprio. Se decidesse di andarsene in pensione ad Antigua o in qualche altro sito ameno, Matteo gli farà certamente un regalino, un dolcetto, un ricamo, insomma una gentilezza.

Ma Letta e il suo governo? Questo è il punto. Non pensate male: Matteo ha stima di Letta. Lo lascerà lavorare fino a quando avrà realizzato lo scopo per il quale il governo è stato nominato ed è sostenuto dalla strana maggioranza che conosciamo.

Lo scopo, ecco il punto. Su questo Matteo ha idee chiarissime: deve fare quelle tre o quattro cose che la gente si aspetta in tempi di vacche magre: un po' più di lavoro ai giovani, un po' di soldi agli esodati, un po' di cantieri per opere pubbliche locali, l'abolizione del patto di stabilità per i Comuni virtuosi, Senato federale senza poteri di fiducia. E poi a casa. Quando? Mica subito. Diciamo che le elezioni si faranno a primavera del 2014. Letta può lavorare tranquillo fino a Natale prossimo, poi a marzo campagna elettorale e Renzi premier nel prossimo maggio. Questo è quanto.

C'è un punto però: dal prossimo primo luglio, cioè tra una settimana, quando Renzi scioglierà la riserva, tutti gli interessati in Italia e in Europa (e anche in America) sapranno quello che accadrà poi. E comincerà il ballo: sullo "spread", sui tassi di interesse, sulla speculazione contro il nostro debito sovrano, sull'evasione fiscale, sul rigorismo tedesco e via enumerando. Un ballo che durerà almeno un anno, per cui quelle "tre o quattro cose" che Letta dovrebbe fare entro il prossimo marzo finiranno nel pallone. Il fatto che il congresso riguardi soltanto la carica di segretario del partito non cambia le cose perché se Renzi lo diventerà avrà la guida di una gamba del tavolo parlamentare, e che gamba!

Dunque niente Renzi? A me era antipatico, poi a Firenze, nel corso della nostra "Repubblica delle Idee" l'ho conosciuto e mi è parso simpatico; ma le cose stanno esattamente come ho fin qui esposto. Se si presenta vince, se vince comincia il ballo (al quale anche Berlusconi parteciperà).
Allora gli scogli bisognerà asciugarli e francamente non vedo nessuno che ci possa riuscire.

***

Ma i mercati - mi si obietterà - sono agitati anche adesso, da qualche giorno le Borse perdono colpi in Europa, ma anche a Tokyo e anche a New York; lo "spread" italiano (e quello spagnolo) hanno perso terreno, il nostro veleggiava verso i 240 punti e adesso è di poco sotto ai 300; il dollaro è debole rispetto all'euro, la Fed fa intravedere che tra sei mesi potrebbe cessare l'acquisto di titoli di Stato e aumentare il tasso di sconto. Draghi dal canto suo è alle prese con i falchi della Bundesbank, dietro ai quali, secondo i sondaggi, c'è il 48 per cento degli elettori che vorrebbe l'uscita della Germania dall'euro.

Ebbene sì, i mercati sono allarmati per tutti questi "rumors" ai quali bisogna aggiungere anche la crisi di governo in Grecia, ipotesi tutt'altro che incoraggiante. Ma sono cosucce, pinzellacchere come avrebbe detto Totò. Ci fanno misurare che cosa accadrebbe quando il gran ballo ripartisse avendo l'Italia come epicentro.
Intanto noi dobbiamo risolvere, entro la settimana che comincia domani, il problema del rinvio dell'Iva per almeno sei mesi, che porta con sé l'abolizione dell'Imu (il problema del rimborso è di fatto archiviato). Per fare queste operazioni ci vogliono, secondo una stima attendibile, otto miliardi che non ci sono. Letta e Alfano hanno deciso di attendere Saccomanni il quale venerdì aveva incassato l'uscita formale dell'Italia dalla procedura di infrazione per eccesso di deficit. Gli effetti concreti di quell'uscita - che valgono una disponibilità di risorse per mezzo punto di Pil, pari a una decina di miliardi - si produrranno a gennaio 2014, ma il tema dell'Iva è invece immediato ed è richiesto con forza dal Pdl, dal Pd, dai commercianti e dagli industriali. Scrivendone domenica scorsa dissi che Saccomanni avrebbe trovato la soluzione. La conosceremo domani o al massimo martedì, ma mi sento di confermare quanto scrissi la settimana scorsa: il ministro del Tesoro, d'intesa con Letta, proporrà il solo rinvio dell'Iva e delle rate Imu all'autunno (ottobre-novembre). Per l'Imu l'imposta sarà abolita e sostituita con un'imposta sugli immobili quale esiste in tutti i paesi dell'Occidente, nel quadro d'una riforma generale del fisco. Per l'Iva si manovreranno le aliquote per scelte merceologiche secondo criteri di equità. Nel frattempo, entro le prossime quarantott'ore, ci vogliono dai 3 ai 4 miliardi per rinviare l'Iva di sei mesi e indennizzare i Comuni per il rinvio dell'Imu. Non avendo "tesoretti" da mettere sul tavolo, ci vorranno nuove imposte o tagli equivalenti. Una soluzione sarebbe di colpire le rendite, un'altra di alienare o cartolarizzare beni pubblici di facile spendibilità: sarebbe un taglio "una tantum" ma anche il rinvio Iva è un "una tantum".

Credo che sarà questa la strada. Si tratta di una scelta di forza maggiore e anche Alfano - dopo aver schiarito l'ugola con qualche colpo di tosse - dovrà rassegnarsi e digerire il rospetto. È molto piccolo rispetto a quanto può arrivare.

***

Aggiungo, per chiuderla qui, che se le politiche economiche hanno un senso, all'eventualità di una politica meno espansiva della Federal di Bernanke (o del suo successore) la Bce dovrebbe agire in senso opposto. Se Bernanke chiude il rubinetto perché spera che l'America stia superando la crisi, Draghi deve mantenerlo aperto affinché i mercati non sentano la stretta. E se il cambio euro-dollaro vedesse un indebolimento controllato della moneta europea, per esempio attorno a 1.20 dollari per un euro, sarebbe un fenomeno positivo per le nostre esportazioni e una politica anticiclica come è compito della Banca centrale.

Ci vuole una ferma e prestigiosa pressione di Letta e di Hollande (con l'appoggio di Obama e di Cameron) nei confronti di Merkel e di Schäuble, e della Corte di Lussemburgo nei confronti di quella di Karlsruhe. Insomma un'azione politica di lungo raggio che è la condizione permanente per consentire a Letta di fare quelle "tre o quattro cosucce" delle quali c'è estremo bisogno.

Post scriptum. La notizia sulla quale richiamo l'attenzione dei lettori è la decisione di Mediobanca di metter fine alla politica dei patti di sindacato che, per oltre mezzo secolo, hanno ingessato il capitalismo italiano in una situazione di oligopolio finanziario e industriale.

Mediobanca uscirà gradualmente ma senza ripensamenti da quasi tutti i patti di sindacato o alleggerirà molto la sua presenza. I sindacati dei quali si tratta sono la Telecom (Telco), la Rizzoli, la Pirelli, l'Italmobiliare. Nelle Generali scenderà del 3 per cento restando azionista col 10.

Si tratta d'una novità assai importante che aumenterà la concorrenza e attirerà fondi di investimento e investitori istituzionali esteri. Dopo mezzo secolo Mediobanca toglie le bende a un sistema che era ormai mummificato, si tratta di un evento positivo che come tale va valutato.

(23 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/06/23/news/quando_renzi_vincer_il_gran_ballo_comincer-61676144/?ref=HRER1-1
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« Risposta #437 inserito:: Giugno 30, 2013, 05:00:40 pm »


Quel piatto di lenticchie per un'Italia affamata

RITORNA vincitore? Molti sostengono di sì e fanno l'elenco delle vittorie ottenute da Letta al vertice di Bruxelles: un miliardo e mezzo per l'occupazione dei giovani, l'attivazione di prestiti per le piccole imprese da parte della Bei, l'approvazione definitiva dell'uscita dall'Italia dal procedimento d'infrazione del deficit, i complimenti della Merkel per i compiti a casa scrupolosamente portati a termine. Ma molti altri sostengono invece che si tratta d'un pugno di mosche o d'un piatto di lenticchie.

Che il tesoretto sia quantitativamente modesto è certamente vero, ma che a Bruxelles sia avvenuta una svolta positiva nella politica economica europea (e tedesca) è incontestabile, soprattutto se si esaminano i progressi dell'Unione bancaria voluta da Francia, Italia e Spagna e soprattutto dalla Bce. C'è ancora molto da fare sul tema delle garanzie dei depositi, ma il principio è stato ribadito e questo è un fatto di grande importanza che mette i debiti sovrani al riparo da eventuali dissesti bancari.

Nel frattempo, mentre Bernanke si propone di metter fine all'espansione della liquidità e di rialzare sopra lo zero attuale il tasso di interesse, Draghi non lo seguirà né sull'una né sull'altra di queste decisioni. Questo è il vero aspetto positivo del vertice di Bruxelles di cui l'Italia è stata uno dei protagonisti.

Non si poteva sperare di più; anche se la svolta è appena agli inizi.

Ma - obiettano i critici - la strana coalizione che sostiene il governo è sempre più rissosa. Berlusconi al mattino promette appoggio pieno e leale a Letta, nel pomeriggio spara contro la politica del governo, alla sera minaccia elezioni a breve scadenza e prepara un nuovo partito d'assalto che sarà il motore d'una vasta coalizione.

Il tormentone non ha tregua e il governo delle larghe intese non potrà reggere a lungo. Sarà un miracolo se arriverà alla fine dell'anno. È così?

In realtà non è così perché questo non è mai stato e non si è mai proposto di essere un governo di larghe intese, di pacificazione e di definitiva concordia. Questo, al di là delle opportune ipocrisie che fanno parte del cerimoniale, è stato fin dall'inizio un governo di necessità e di scopo. Si è concentrato - come il presidente del Consiglio non cessa di ripetere - sulle politiche concrete, sui temi che interessano la gente, i giovani, i lavoratori, le imprese, i consumatori, il Mezzogiorno. Le politiche, al plurale, non la visione politica globale che semmai tocca ai partiti e ai movimenti di elaborare.

Questo è un governo a termine, lo sappiamo tutti. Tra un anno avremo le elezioni europee la cui importanza non può sfuggire a nessuno. Poco dopo, nel luglio 2014, avrà inizio il semestre di presidenza europea spettante all'Italia e sarà Letta a presiederlo. Con ogni probabilità all'inizio del 2015 il governo sarà dimissionario e la legislatura avrà termine.

A quella data, Berlusconi avrà quasi ottant'anni. Quali che siano state nel frattempo le sue vicende giudiziarie, il suo percorso politico si chiuderà. La strana alleanza, non essendo più necessaria, cederà il posto al normale scontro politico tra conservatori e riformisti o se volete tra destra e sinistra, tra chi mette l'accento sulla libertà senza ignorare l'esigenza dell'equità sociale e chi lo mette invece sull'eguaglianza purché conviva con la libertà e i doveri con i diritti. Cioè la normale dialettica di ogni democrazia. Sempre che l'Europa stia uscendo dalla crisi che ormai da tre anni ci tormenta ed abbia imboccato la strada di uno Stato federale.

Questo percorso non ha alternative. Abbiamo più volte scritto che l'uscita dell'Italia dall'euro, vista come un modo per superare il divario di produttività rispetto agli altri Paesi del continente, è una solenne sciocchezza. Il ritorno alla liretta equivarrebbe ad un vero e proprio "default" che ci farebbe precipitare al di sotto di tutti i Paesi mediterranei abbandonandoci nelle braccia della speculazione. Capisco che Grillo indulga a quest'ipotesi, spesso adombrata anche da Berlusconi: puntano tutti e due a prender voti dai tanti allocchi che attribuiscono all'euro gli antichi e nuovi mali dei quali soffriamo. Capisco assai meno che analoghe tesi siano sostenute da un finanziere come Caltagirone che non ha ambizioni politiche e dovrebbe avere qualche nozione di finanza e di economia.

***

Accanto alle "politiche" il governo Letta ha anche lo scopo di avviare un pacchetto di riforme costituzionali. Qui, a nostro avviso, è stato commesso un errore: si sono escluse riforme che tocchino la prima parte della Costituzione, quella che riguarda i principi, lasciando invece libero il campo a riforme che il Parlamento dovrà avviare senza stabilire esplicitamente quali.

Siamo per fortuna ancora in tempo poiché la legge costituzionale è ancora allo studio e sarà poi trasmessa al Parlamento seguendo la procedura immaginata di affidarne la redazione alla Commissione bicamerale competente e poi, per la decisione definitiva, alle due Camere secondo il dettato dell'articolo 138 rinforzato da vari referendum finali sui singoli beni.

E bene, i temi in realtà sono soltanto tre e sarebbe opportuno precisarli per evitare sortite spesso inconsulte: la riforma del Senato e del bicameralismo perfetto, che non esiste in un nessun Paese dell'Occidente; l'abolizione delle Province; il taglio nel numero dei parlamentari e dei senatori.

Queste sono le riforme da portare a termine. L'abolizione del finanziamento dei partiti è già stata oggetto di una legge del governo della quale urge l'inizio della discussione parlamentare. La riforma della giustizia civile è già parzialmente iniziata e va rapidamente condotta a termine. La legge elettorale, che è stata infilata (non si capisce perché) nella legge costituzionale affidata all'apposita commissione dei 40 va a nostro avviso rimessa a disposizione del Parlamento. Non si può infatti correre il rischio che un improbabile ma possibile ritiro della fiducia al governo da parte di un partito della strana maggioranza avvenga senza che l'abolizione del "Porcellum" sia avvenuta.

Non dico che la nuova legge elettorale debba esser fatta subito; dico soltanto che non deve essere ingabbiata e condizionata dalle riforme costituzionali. Si tratta di una legge ordinaria ma fondamentale e non può essere sottratta alla libera disponibilità del Parlamento.

***

Ci sarebbero molti altri argomenti da esaminare: i tagli di spesa per procurare risorse aggiuntive, la riforma del fisco che farà parte della legge di stabilità del prossimo autunno. E poi il congresso del Partito democratico.
Sui temi della spesa e del fisco segnalo due importanti e chiarificatrici interviste di venerdì scorso: quella del ministro Giovannini su Repubblica e quella di Fabrizio Saccomanni sul Corriere della Sera.

Una parola sul congresso del Pd. Che il dibattito, come sempre dovrebbe avvenire, abbia inizio nelle istanze di base locali, sezioni o circoli che siano, mi sembra ovvio. Qual è il tema per un partito che sembra aver smarrito la sua identità? Appunto quello, la visione della società come la concepiscono i militanti che dal basso la trasmettano alle istanze regionali e nazionali. Alfredo Reichlin ha ben interpretato questo percorso affidando un suo documento alla lettura online nel sito del partito. Altrettanto faranno Renzi, Cuperlo, Fassina, Civati, che siano candidati oppure no alla segreteria del partito.

Questo è il dibattito sull'identità, il quale culminerà poi con le primarie nazionali come è sempre avvenuto da quando esiste il Pd.

Altra cosa è l'elezione del candidato alla presidenza del Consiglio. Le elezioni politiche non sono imminenti e comunque non si elegge un candidato a guidare il governo nel momento in cui un governo c'è ed è guidato da un'eminente personalità del Pd. L'incongruenza sarebbe talmente evidente che non sembra neppure il caso di discuterne.

Post Scriptum. È di ieri la notizia che John Elkann, presidente della Fiat, ha telefonato al Capo dello Stato per informarlo che la sua società è diventata l'azionista di maggioranza relativa del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera.

È stato un atto di apprezzabile gentilezza, ma la notizia contiene una realtà alquanto preoccupante. Con una posizione di maggioranza relativa che diventerebbe quasi assoluta nel patto di sindacato azionario, la Fiat avrà la proprietà di tre quotidiani nazionali: il Corriere della Sera, La Stampa, La Gazzetta dello Sport, più una società di libri, molti periodici, molti siti sulla rete, una società unica di pubblicità. Aggiungo che tra gli altri azionisti di Rcs ci sarà anche la Banca Intesa che sottoscriverà gran parte delle azioni inoptate. Forse Elkann avrebbe fatto bene a sottoporre preventivamente l'operazione alla Commissione antitrust visto che si avvia ad assumere nel mercato mediatico una posizione dominante.

La concorrenza su quel mercato c'è, è molto vivace e presumibilmente aumenterà. Non è dunque questo il dato preoccupante, ma lo è il fatto che un gruppo industriale come la Fiat abbia il controllo d'un gruppo mediatico di quelle dimensioni. Il peso dei suoi interessi sullo Stato e sulle regioni diventerebbe schiacciante, con conseguenze preoccupanti sulla politica economica e sociale del Paese.


(30 giugno 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/06/30/news/piatto_lenticchie_italia_affamata-62114016/?ref=HRER1-1
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« Risposta #438 inserito:: Luglio 15, 2013, 06:15:06 pm »

Opinioni

Modello Midas per il congresso Pd

di Eugenio Scalfari

Nel 1976 Craxi divenne il capo del Psi grazie ai giochi di potere tra le correnti: invece di durare un anno restò fino al 1992.

Chi credeva di usarlo per far fuori gli altri fu fatto fuori da lui. Anche i democratici di oggi sono frantumati...

(25 giugno 2013)

Dovrei oggi occuparmi della situazione del Partito democratico dopo la strana sconfitta delle elezioni politiche nel febbraio scorso e la strana vittoria alle amministrative di maggio. Due stranezze, e ora un congresso alle viste nel prossimo novembre e un partito accucciato in una crisi di identità e frantumato in una decina di correnti, correntine e spifferi. Dovrei occuparmene, ma non ne ho molta voglia, non ho voglia di prender posizione per questo o quello, vecchi leader consunti dal tempo o giovane guardia divisa in cento rivoli. Del resto questa rubrica si chiama "Vetro soffiato" e vuol dire che debbo parlare lateralmente dei temi che ci propone l'attualità. Ed è proprio questo che farò: vi racconterò che cosa accadde all'Hotel Midas a Roma nel luglio del 1976, dove si riunì il comitato centrale del Partito socialista italiano per eleggere il suo segretario.

A quell'epoca i segretari in tutti i partiti venivano eletti non dal congresso ma dal comitato centrale, una sorta di elezione di secondo grado. Bene. Il segretario del Psi era all'epoca Francesco De Martino, il presidente ormai ottantenne Pietro Nenni. Si stimavano e reciprocamente si sopportavano. Anche De Martino era vecchio ma di qualche anno meno di Nenni il quale diceva spesso ai suoi, quando lo pregavano di intervenire per ridare slancio al partito: «Oh, se avessi i miei settant'anni!». Portava le bretelle e la cintura dei pantaloni gli arrivava al petto ma la testa era vigilissima. Con lui si identificava la corrente autonomista guidata da Giacomo Mancini, che aveva inaugurato il centrosinistra 14 anni prima.

Il centrosinistra del '76 era sfiancato, il Psi frazionato anch'esso in correnti, correntine e spifferi. De Martino non voleva nemici a sinistra, ma del partito si occupava poco anche lui. Era il capo della corrente di maggioranza che rappresentava il 40 per cento dei militanti. Gli autonomisti registravano sì e no il 15; la sinistra di Lombardi, De Michelis e Signorile il 35. A questi ultimi due piacevano molto le donne e naturalmente non erano i soli: Bacco e Venere erano allora le divinità più frequentate dai dirigenti giovani del Psi, Manca e poi Craxi non eccettuati. Giolitti aveva un posto a sé, era rispettato da tutti e proprio per questo di scarsa efficacia operativa. De Martino tornava a Napoli appena poteva; in realtà pendolava tra le due città. Voleva sempre "equilibri politici più avanzati" ma ogni tentativo in quel senso finiva sempre con equilibri più arretrati. L'avevo intervistato nel primo numero di "Repubblica" nella sua bella casa al Vomero con vista sul mare, in una stanza ariosa che conteneva 40 gabbie di canarini. Per ottenere il silenzio durante l'intervista lui aveva coperto ogni gabbia con salviette di tela bianche predisposte per la bisogna.

Nel comitato centrale di luglio Manca aveva predisposto il "parricidio": era stufo d'essere il vice. Ma il parricidio gli ripugnava. Andò da Mancini, gli propose che si sarebbe ufficialmente astenuto ma che almeno metà dei suoi voti si sarebbero spostati su Mancini il quale però non voleva agire per conto terzi. La decisione fu la scelta di Craxi come killer di De Martino. A quell'epoca era ancora una specie di "nessuno", sarebbe stato un segretario di transito. Decise così le cose, Craxi risultò eletto di stretta misura con l'opposizione della sinistra. Nel discorso di insediamento il neo eletto disse che sarebbe stato il segretario di tutti.

Le tappe seguenti avvennero così: Craxi fece alleanza con Manca, gli promise che avrebbe tenuto quel posto per un anno e non di più. Poi, come primo provvedimento, d'accordo con Manca liquidò Mancini che l'aveva fatto eleggere. Successivamente, sempre d'accordo con Manca, staccò De Michelis da Lombardi con la neutralità di Signorile. Sapeva come prenderli tutti e due. A quel punto i seguaci di Manca erano ridotti al 20 per cento e si allinearono anche loro.

Craxi governò il Partito e il sottogoverno (e poi anche il governo per tre anni e mezzo) dal '76 al '92. A quel punto il Psi aveva già cambiato la sua natura antropologica e quando due anni dopo Berlusconi fondò Forza Italia, i socialisti salvo pochissime eccezioni finirono tutti con Berlusconi dove tuttora (sempre salvo pochissime eccezioni) ancora stanno. Che c'entra tutto questo con la situazione del Pd di oggi? C'entra molto e se ci riflettete ne capirete il perché.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/modello-midas-per-il-congresso-pd/2209777/18
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« Risposta #439 inserito:: Luglio 19, 2013, 11:54:07 am »


Quel ministro non può restare al suo posto

di EUGENIO SCALFARI


ANGELINO Alfano non si dimetterà da ministro dell'Interno e da vicepresidente del Consiglio nonostante l'immane pasticcio di cui è responsabile per l'espulsione di Alma Shalabayeva e di sua figlia Alua e la sua consegna al regime dittatoriale del Kazakistan. Non si dimetterà perché Berlusconi lo incoraggia a restare al suo posto, Enrico Letta cerca di evitare la crisi di governo che avverrebbe qualora il premier sconfessasse il suo vice e il Pd ha dal canto suo le medesime preoccupazioni.

Il partito democratico è pressoché unanime nel considerare Alfano responsabile di quanto è avvenuto, sia che ne fosse al corrente, sia che (come lui afferma) fosse stato tenuto all'oscuro dai suoi più intimi collaboratori; ma il gruppo dirigente ha invece deciso, sia pure turandosi il naso, di non votare la sfiducia ad Alfano per evitare una crisi di governo con conseguenze nefaste sull'economia, sui mercati, sulla credibilità italiana in Europa che il pasticcio kazako ha comunque fortemente indebolito.

La conseguenza di questi fatti, che messi insieme determinano un vero e proprio evento politico, sarà comunque una crisi profonda del governo e del Pd, la cui base è in gran parte profondamente scontenta di quanto è accaduto e soprattutto di quanto non è accaduto, con tutte le conseguenze che questo scontento provocherà.

Il nostro giornale ha dato ampio conto dei fatti di questi giorni e la nostra posizione è stata nettamente manifestata dall'intervento di Ezio Mauro lunedì scorso e nei giorni successivi dai nostri principali editorialisti. Noi siamo per le dimissioni di Alfano e per un voto conforme da parte del Pd, anche se ci rendiamo perfettamente conto delle conseguenze negative d'una crisi di governo. Vorremmo cioè che il governo Letta continuasse nell'opera intrapresa che riteniamo positiva nonostante le difficoltà che deve superare. Non vorremmo affatto una crisi di governo ma giudichiamo che in ogni caso il rischio vada affrontato perché un cedimento costerebbe l'implosione a breve scadenza di quel partito e quindi del perno della sinistra democratica italiana.

Personalmente  -  oltre a condividere pienamente queste valutazioni  -  penso che non sia nell'interesse politico di Berlusconi la prova di forza sul caso Alfano.

Conosco Berlusconi da quarant'anni. Siamo stati concorrenti quando era semplicemente un imprenditore televisivo. Amici mai, già allora troppe cose ci dividevano, interessi e valori; ma conoscenti sì, fino alla sua entrata in politica. Da allora non ci siamo mai più né visti né parlati. Ma ora, in quest'occasione, ritengo opportuno fargli presente che i suoi interessi (non parlo di quelli generali sui quali abbiamo opposte valutazioni) dovrebbero consigliargli di far ritirare Alfano dal governo e sostituirlo con altra persona di sua fiducia e più adatta a ricoprire gli incarichi governativi che gli spettano.

A Berlusconi, qualunque sia il vero giudizio che dà dell'attuale segretario del suo partito, di Alfano non importa nulla. Gli è servito e gli serve anche se i contrasti tra loro non sono mancati. Ma gli serve assai di più che il governo Letta resti in carica per tutto il tempo non certo breve necessario a portare il paese fuori dalla recessione. E gli serve, affinché questo avvenga, che il Pd non diventi ingestibile, come la presenza al governo di Alfano lo renderà.

L'attuale ministro dell'Interno riaffermi pure la sua "innocenza" nel caso kazako; Letta dia per certa questa tesi e Berlusconi ancora di più, ma suggerisca al suo rappresentante di ritirarsi per ragioni di opportunità. Avvenne già in Italia un caso analogo quando il ministro per la Difesa, Vito Lattanzio, fu indotto dall'allora presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, a dimettersi per la fuga del massacratore nazista Kappler dal carcere in cui stava scontando la pena inflittagli da una sentenza definitiva. Il ministro era all'oscuro della trama che aveva reso possibile quella fuga, ma Andreotti, su consiglio di Ugo La Malfa, lo invitò pressantemente a dimettersi per evitare che il governo fosse messo in crisi da un suo importante alleato.

Questo dovrebbe fare oggi Berlusconi. Se lo facesse, una volta tanto i suoi interessi coinciderebbero con quelli del paese.

(19 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/19/news/quel_ministro_non_pu_restare_al_suo_posto-63278056/?ref=HREA-1
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« Risposta #440 inserito:: Luglio 21, 2013, 10:03:11 am »


Il solo modo per salvare un governo ammaccato

di EUGENIO SCALFARI


LA MOZIONE di sfiducia individuale contro il ministro dell’Interno (e vicepresidente del Consiglio) Angelino Alfano è stata respinta con il voto pressoché compatto dei tre partiti della “strana maggioranza”. Nel Pd ci sono stati tre astenuti e tre assenti nei confronti dei quali (voglio sperare) non ci sarà alcuna censura. Si tratta infatti di un tipico caso di obiezione di coscienza motivato dal fatto che sia Enrico Letta, sia il segretario Epifani e sia il presidente della Repubblica avevano definito il caso kazako come incredibile e intollerabile al punto da rivolere indietro madre e figlia incautamente e inopportunamente estradate in Kazakhstan.

Resta tuttavia in piedi la questione della permanenza al governo di Alfano, sanata solo parzialmente dalla non del tutto provata sua ignoranza dei maneggi dei suoi più intimi collaboratori, in parte già sostituiti nei ruoli che avevano. Enrico Letta ha assunto su di sé la certificazione di quella ignoranza-innocenza, ma resta comunque aperta la questione della responsabilità politica che rappresenta uno dei cardini della pubblica amministrazione. L’ha ricordato ieri su questo giornale Stefano Rodotà, ma – mi piace qui ricordarlo – si tratta di un principio che ha contraddistinto la storia costituzionale italiana fin dai suoi albori, da quando la affermò Marco Minghetti e con lui Ruggero Bonghi e Zanardelli e da quando Silvio Spaventa creò la sezione giurisdizionale del Consiglio di Stato proprio per difendere i cittadini dai possibili arbitrii della pubblica amministrazione.

Nel caso specifico, la responsabilità politica di Alfano risulta tanto più piena e ineludibile in quanto il ministro era perfettamente al corrente delle richieste dell’ambasciatore kazako al quale, qualora le due estradate non dovessero esserci al più presto restituite, il nostro ministero degli Esteri dovrebbe togliere il gradimento e rispedirlo in patria.

Del resto il Senato e in particolare il Pd, come risulta dalla dichiarazione di voto del capogruppo Luigi Zanda, ha votato contro la mozione di sfiducia dando al proprio voto il significato di un voto di fiducia a Letta e al governo da lui presieduto. Lo stesso Zanda ha rilevato che Alfano ha troppi incarichi per poterli adempiere con la dovuta diligenza, una constatazione che lo stesso Alfano, avendo ormai ottenuto il riconoscimento della sua ignorante innocenza ma non certo l’esenzione dalla responsabilità politica che incombe su di lui come un macigno, dovrebbe riconoscere e al più presto dimettersi lasciando al suo partito il diritto di mettere un altro al suo posto.
Questo dovrebbe avvenire, questo ho suggerito venerdì scorso a Berlusconi e questo – penso io – sarebbe gradito anche al Quirinale perché rafforzerebbe il governo nel momento in cui ne ha il maggior bisogno.

Non dovrebbe esser dimenticato da alcuno che dei tre partiti favorevoli al governo il Pd è quello che dispone della maggioranza
assoluta alla Camera e della maggioranza relativa al Senato. È vero che all’attuale formula di governo non ci sono alternative politiche, ma possono esserci alternative numeriche; sicché, qualora le condizioni politiche cambiassero, un’alternativa potrebbe configurarsi sempre che abbia come perno, numericamente e politicamente indispensabile, il Pd. Fino quando durerà questa legislatura senza di loro nulla si può fare. Questo punto è bene sia tenuto presente da tutti, a cominciare dallo stesso Pd che a volte sembra dimenticarsene sia a livello degli organi dirigenti sia a quello dei militanti e degli elettori. *** Non mi pare ci siano altre considerazioni da aggiungere sulla stretta attualità politica e tantomeno sulla sentenza definitiva che riguarda il processo Mediaset alla quale mancano esattamente dieci giorni. Si tratta, come lo stesso interessato-imputato ha più volte riconosciuto, di un evento molto importante per lui ma del tutto distinto dalla vita del governo.

Nessun salvacondotto è disponibile e neppure pensabile, fermo restando che la sentenza può confermare la condanna o decidere di una parziale o totale invalidazione nei limiti dei poteri che l’ordinamento assegna alla Corte di Cassazione. Le sentenze, proclamate a nome del popolo italiano, possono essere tecnicamente discusse, ma accettate con rispetto nella loro sostanza. Ripercussioni politiche squalificherebbero chi le mettesse in atto e non penso sarebbero gradite dai cittadini elettori, quali che siano le loro personali convinzioni.

***
Desidero invece riprendere brevemente un tema sviluppato qualche giorno fa sul nostro giornale da Michele Serra, del quale sono amico ed estimatore di quanto pensa e scrive; ma sul suo ultimo intervento intitolato “Dire qualcosa di Sinistra” sento di dovergli sottoporre qualche osservazione.

Serra sostiene che, a partire dalla Rivoluzione francese dell’Ottantanove, ebbe inizio un cambiamento politico che con fasi diverse ed anche alterne è arrivato fino ai nostri giorni e ancora durerà, sempre opponendo la destra alla sinistra, la prima incline a conservare l’esistente e la seconda a cambiarlo.

La parola che distingue la sinistra è dunque cambiamento, che può andare dal più spicciolo riformismo fino alla vera e propria rivoluzione che tutto abbatta e tutto ricostruisca. Certe volte è preferibile l’uno e altre volte l’altra purché di cambiamenti si tratti visto che questa evoluzione è il destino della nostra specie. C’è chi frena e anche il freno è talvolta necessario purché ceda infine all’acceleratore cioè appunto al cambiamento. Spero di aver fedelmente ricapitolato.

La descrizione di Serra è giusta ma estremamente semplificata. Manca un elemento fondamentale che si chiama realtà, ed un altro ancor più determinante che si chiama “resto del mondo”. Sia la realtà sia il resto del mondo debbono esser tenuti presenti quando
si parla di cambiamento e dei due pedali che lo regolano, cioè il freno e l’acceleratore.

La rivoluzione dell’Ottantanove richiamata da Serra era in realtà cominciata due secoli prima con Colombo e la scoperta del Nuovo Mondo, poi con Galileo e Copernico nella scoperta della nuova scienza e con Montaigne nella cultura e nel pensiero; infine con l’Il-luminismo e l’Enciclopedia.

Di lì comincia un’epoca che si chiamò la modernità e i suoi cambiamenti, i primi dei quali, nella politica propriamente detta, ebbero inizio nientemeno con il regno di Luigi XVI che fu un sovrano riformista anche se alla fine ci rimise la testa insieme alla sua famiglia. Infatti chiamò al governo i fisiocratici e Turgot, indisse dopo circa due secoli la riunione degli Stati Generali e ne accettò la trasformazione in Assemblea costituente, anche per combattere una recessione che stava impoverendo le campagne; infine accettò la Costituzione del 1791 e l’Assemblea legislativa che ne fu il risultato.

Qui si ferma il cambiamento democratico che, avendo perso di vista l’elemento della realtà, si trasformò rapidamente nella dittatura di Robespierre ispirata dai giacobini e dalla Comune di Parigi e culminata nel terrore. Danton cercò di impedire quella deriva e di deviarla nella difesa patriottica contro gli eserciti delle monarchie europee, ma ci rimise la pelle anche lui, insieme ai repubblicani democratici della Gironda. Poi Robespierre fu rovesciato e cominciò il terrore del Direttorio; poi Napoleone e vent’anni di guerre, poi la restaurazione borbonica, poi il regno parzialmente liberale di Filippo d’Orleans, poi la seconda rivoluzione del Quarantotto che coinvolse tutta l’Europa cui seguirono i prussiani da un lato e Napoleone III dall’altro con l’annessa “cuccagna” del primo capitalismo corrotto fin nelle midolla, poi Sedan, poi la Comune e infine la repubblica parlamentare.

Insomma dall’Ottantanove alla fine dell’Ottocento tre anni di cambiamenti progressisti e un secolo di dittature, terrore, stragi, guerre. Seguirono trent’anni di Belle Époque e poi di nuovo terrore, stragi e guerre dal 1914 al 1945. Finalmente una destra e una sinistra accettabili e un capitalismo di tonalità democratica. Nel frattempo però la modernità è terminata. Siamo agli albori di un’epoca nuova, socialmente “liquida”, globale, tecnologica, nella quale il linguaggio è radicalmente cambiato e quindi anche il pensiero che lo articola e ne è articolato.

Questa, caro Michele Serra, è la situazione nella quale dire qualcosa di sinistra, come tu chiedi, è certamente necessario, ma dove la parola che continua a significare cambiamento sta vedendo la fine di un’epoca mentre l’epoca nuova non è ancora cominciata. Per questo siamo liquidi, acqua priva di forma e assenza di contenitori.

Il cambiamento spetterà farlo ai giovani. Tu ed io, caro amico mio, abbiamo vissuto il nostro tempo. Chi vuole il cambiamento e si rivolge a noi può solo essere aiutato a non dimenticare l’esperienza passata ma non ad immaginare il futuro. Sarebbe come aver chiesto a Boezio i rudimenti della civiltà medievale mentre lui aveva in mente ancora la romanità e perciò non era adatto.

(21 luglio 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/07/21/news/il_solo_modo_per_salvare_un_governo_ammaccato-63392738/?ref=HRER1-1
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« Risposta #441 inserito:: Luglio 28, 2013, 10:39:22 am »

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Evviva l'improvvisazione

di Eugenio Scalfari

L'azienda è una jam session, spiegano Fresu e Salvemini. Hanno ragione.Dall'auto ai giornali, occorre cogliere i cambiamenti del mercato. Ci vuole estro, ma anche organizzazione. Guai ad adagiarsi sulla routine

(06 giugno 2013)

La prefazione di un libro di Frank J. Barrett che ha un titolo insolito e affascinante ( "Disordine armonico. Leadership e jazz") è intitolata: "L'azienda è una jam session". Intrigante. Perché che cosa c'entra un Marchionne - tanto per fare un nome - o un Diego Della Valle con Duke Ellington o Thelonious Monk o Louis Armstrong?
Invece c'entrano ed ecco perché. In una "jam session" si parte da un ritmo e da una melodia molto scarna, non più di sette-otto note. Il solista, tromba o clarino o sassofono che sia, imposta melodia e ritmo; attorno a lui ci sono altri strumenti ad archi o a fiati o a percussione, tra i quali quelli indispensabili sono il contrabbasso, il pianoforte e la batteria i quali, sul ritmo e su quelle poche note di melodia, impostano una molteplicità di variazioni. Suonano per ore e non è mai la stessa musica a uscire da quegli strumenti né c'è qualcuno che diriga un inesistente spartito anche perché a sua volta il solista, che ha dato il ritmo e lo scheletro melodico, è quello che ancor più degli altri si sbizzarrisce nelle variazioni.

Gli autori della prefazione sono un musicista, Paolo Fresu, e un economista, Severino Salvemini. Il loro testo comincia così: «Bisogna rifuggire dal potere seduttivo della routine e assumersi i giusti rischi per sfidare lo "status quo". Bisogna dunque disegnare una struttura minima perché solo questa aiuta a non ingessare il prodotto stimolando gli individui alla massima autonomia. Per improvvisare bisogna però rispettare poche regole. La struttura è sostenuta da una dinamica di gruppo dove, dietro leader e individualità svettanti, si staglia un collettivo che dà forza e coesione all'intera organizzazione. Altro requisito fondamentale è il dialogo, dove ogni affermazione trova una replica».

Le cose avvengono proprio così in una "jam session" di artisti che suonano musica jazz. Molti suonano fino a notte in locali d'intrattenimento ma poi, invece di andarsi a riposare, si ritrovano in qualche cortile disabitato e fanno mattina per loro divertimento improvvisando nel modo descritto con le parole dei due autori (anche Salvemini è un musicista oltre che economista).

Ma in un'azienda? Che cosa avviene o può avvenire in un'azienda alle prese con le varie fasi dell'invenzione del prodotto, dei modi di produrlo, della confezione con cui presentarlo al pubblico e del marketing per conoscere i destinatari? Noi che facciamo giornali o editori e autori di libri vediamo che spesso anche il nostro fare somiglia a una "jam session". Penso per personale e ormai semi-secolare esperienza alle riunioni mattinali di redazione che debbono produrre il giornale identificando i fatti rilevanti del giorno da mettere in primo piano, come impaginarli, come titolarli, a chi affidarne la scrittura e quale spazio concedergli. Ma il tutto deve avvenire accordando le pagine con la struttura sociale e culturale del pubblico di appartenenza e queste informazioni non te le fornisce solo il marketing con sondaggi sulla diffusione, ma anche i giornalisti che conoscono i lettori e ne ricevono consenso o dissenso sugli articoli pubblicati.

Chi dirige deve tener conto di tutte queste risposte al prodotto messo in vendita, conoscerne i risultati giorno per giorno e tenerne conto per il prodotto successivo senza tuttavia seguire passivamente le preferenze manifestate dai lettori-consumatori. C'è un'interdipendenza tra i lettori di libri e giornali e chi confeziona quei prodotti, gli uni influiscono sugli altri reciprocamente. Non c'è quindi uno spartito e una routine ma un'improvvisazione continua conservando però la linea scelta del ritmo e della melodia.
Ho fatto l'esempio degli autori e degli editori di giornali e di libri. Ma vale anche per un produttore di scarpe o di automobili o di manufatti d'ogni tipo e genere? La risposta di questo libro è affermativa: vale per ogni tipo di azienda. L'industria dell'automobile sforna di continuo nuovi modelli, a volte e per certi mercati punta sulle utilitarie, in altri su berline o limousine o Suv, o jeep con traino a quattro ruote o a volte sull'auto coupé. E non parliamo della confezione del cibo o di una partita di calcio. In questo caso l'obiettivo è sempre quello di subire meno reti possibili e di farne il più possibile ma i modi, lo schieramento e gli allenamenti e la scelta dei giocatori variano di continuo.

Insomma: schema sobrio, leadership chiaramente stabilita, personalità svettanti, collettivo intonato a fungere da sottofondo e improvvisazione. Vale perfino per i partiti politici: se si arroccano su apparati rigidi che ripetono la stessa routine, affondano in pochi mesi.

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da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/evviva-limprovvisazione/2208574/18
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« Risposta #442 inserito:: Luglio 28, 2013, 10:40:06 am »

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Modello Midas per il congresso Pd

di Eugenio Scalfari

Nel 1976 Craxi divenne il capo del Psi grazie ai giochi di potere tra le correnti: invece di durare un anno restò fino al 1992. Chi credeva di usarlo per far fuori gli altri fu fatto fuori da lui. Anche i democratici di oggi sono frantumati...

(25 giugno 2013)

Dovrei oggi occuparmi della situazione del Partito democratico dopo la strana sconfitta delle elezioni politiche nel febbraio scorso e la strana vittoria alle amministrative di maggio. Due stranezze, e ora un congresso alle viste nel prossimo novembre e un partito accucciato in una crisi di identità e frantumato in una decina di correnti, correntine e spifferi. Dovrei occuparmene, ma non ne ho molta voglia, non ho voglia di prender posizione per questo o quello, vecchi leader consunti dal tempo o giovane guardia divisa in cento rivoli. Del resto questa rubrica si chiama "Vetro soffiato" e vuol dire che debbo parlare lateralmente dei temi che ci propone l'attualità. Ed è proprio questo che farò: vi racconterò che cosa accadde all'Hotel Midas a Roma nel luglio del 1976, dove si riunì il comitato centrale del Partito socialista italiano per eleggere il suo segretario.

A quell'epoca i segretari in tutti i partiti venivano eletti non dal congresso ma dal comitato centrale, una sorta di elezione di secondo grado. Bene. Il segretario del Psi era all'epoca Francesco De Martino, il presidente ormai ottantenne Pietro Nenni. Si stimavano e reciprocamente si sopportavano. Anche De Martino era vecchio ma di qualche anno meno di Nenni il quale diceva spesso ai suoi, quando lo pregavano di intervenire per ridare slancio al partito: «Oh, se avessi i miei settant'anni!». Portava le bretelle e la cintura dei pantaloni gli arrivava al petto ma la testa era vigilissima. Con lui si identificava la corrente autonomista guidata da Giacomo Mancini, che aveva inaugurato il centrosinistra 14 anni prima.

Il centrosinistra del '76 era sfiancato, il Psi frazionato anch'esso in correnti, correntine e spifferi. De Martino non voleva nemici a sinistra, ma del partito si occupava poco anche lui. Era il capo della corrente di maggioranza che rappresentava il 40 per cento dei militanti. Gli autonomisti registravano sì e no il 15; la sinistra di Lombardi, De Michelis e Signorile il 35. A questi ultimi due piacevano molto le donne e naturalmente non erano i soli: Bacco e Venere erano allora le divinità più frequentate dai dirigenti giovani del Psi, Manca e poi Craxi non eccettuati. Giolitti aveva un posto a sé, era rispettato da tutti e proprio per questo di scarsa efficacia operativa. De Martino tornava a Napoli appena poteva; in realtà pendolava tra le due città. Voleva sempre "equilibri politici più avanzati" ma ogni tentativo in quel senso finiva sempre con equilibri più arretrati. L'avevo intervistato nel primo numero di "Repubblica" nella sua bella casa al Vomero con vista sul mare, in una stanza ariosa che conteneva 40 gabbie di canarini. Per ottenere il silenzio durante l'intervista lui aveva coperto ogni gabbia con salviette di tela bianche predisposte per la bisogna.

Nel comitato centrale di luglio Manca aveva predisposto il "parricidio": era stufo d'essere il vice. Ma il parricidio gli ripugnava. Andò da Mancini, gli propose che si sarebbe ufficialmente astenuto ma che almeno metà dei suoi voti si sarebbero spostati su Mancini il quale però non voleva agire per conto terzi. La decisione fu la scelta di Craxi come killer di De Martino. A quell'epoca era ancora una specie di "nessuno", sarebbe stato un segretario di transito. Decise così le cose, Craxi risultò eletto di stretta misura con l'opposizione della sinistra. Nel discorso di insediamento il neo eletto disse che sarebbe stato il segretario di tutti.

Le tappe seguenti avvennero così: Craxi fece alleanza con Manca, gli promise che avrebbe tenuto quel posto per un anno e non di più. Poi, come primo provvedimento, d'accordo con Manca liquidò Mancini che l'aveva fatto eleggere. Successivamente, sempre d'accordo con Manca, staccò De Michelis da Lombardi con la neutralità di Signorile. Sapeva come prenderli tutti e due. A quel punto i seguaci di Manca erano ridotti al 20 per cento e si allinearono anche loro.

Craxi governò il Partito e il sottogoverno (e poi anche il governo per tre anni e mezzo) dal '76 al '92. A quel punto il Psi aveva già cambiato la sua natura antropologica e quando due anni dopo Berlusconi fondò Forza Italia, i socialisti salvo pochissime eccezioni finirono tutti con Berlusconi dove tuttora (sempre salvo pochissime eccezioni) ancora stanno. Che c'entra tutto questo con la situazione del Pd di oggi? C'entra molto e se ci riflettete ne capirete il perché.

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« Risposta #443 inserito:: Luglio 28, 2013, 10:40:52 am »

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Un pianoforte chiamato cervello

di Eugenio Scalfari

La mente nasce dalla materia. Come la musica dallo strumento. Una scoperta che sconvolge sempre. Anche se è vecchia come il pensiero

(05 luglio 2013)

Il 5 luglio quelli che leggeranno queste mie righe sappiano che avrà inizio a Barolo un Festival letterario dal titolo "Collisioni". Durerà cinque giorni e sarà aperto dallo scrittore inglese Ian McEwan. Scrittore di romanzi ma attentissimo alle ricerche scientifiche e filosofiche sulla mente umana.

Poiché sono anche io molto interessato a quelle ricerche, leggerò con attenzione la relazione di McEwan ma intanto voglio ragionare su quanto il romanziere inglese ha già scritto e detto in varie occasioni sull'argomento. Lo riassumo così: la mente umana nasce in modo materialistico, da una materia grigia situata nella cavità del cranio, alimentata dall'afflusso del sangue e composta da miliardi di cellule e di collegamenti neuronali organizzati in mappe ciascuna delle quali è sede di funzioni che mettono in moto il corpo attraverso fasci nervosi. In quel luogo ancora in larga misura misterioso, nasce la mente e con essa la coscienza. Questo è il fatto sconvolgente: la coscienza nasce dal funzionamento dei neuroni e delle cellule cerebrali che essi collegano. E' possibile dopo una notizia di questo genere non essere profondamente turbati se non addirittura sconvolti?

Questo, in sintesi, è ciò che pensa McEwan che ne ha fatto il nucleo portante di molti suoi romanzi e su questo presumibilmente si aprirà il dibattito con gli altri scrittori e artisti che interverranno al Festival.

La sorpresa "sconvolgente" di McEwan sull'origine materialistica della coscienza non è una novità: gli scienziati che studiano il cervello ci sono arrivati da tempo e da tempo hanno reso noto i risultati delle loro ricerche. Del resto lo stesso Freud partì dalla cultura-psicofisica per costruire la ricerca analitica come metodo di diagnosi e di terapia di alcuni disturbi mentali e per individuare le figure psichiche dell'Es, dell'Io e del Super-Io attraverso le quali cercò di spiegare le varie fasi che partendo dagli istinti li trasformano in sentimenti e pulsioni che il cervello percepisce e alle quali risponde. Ma se vogliamo risalire ancora più indietro, questo tema è stato in realtà il nocciolo di tutto il pensiero, l'arte, e gli accadimenti reali e quelli immaginati.

Pensate a  Shakespeare, a Cervantes, a Rabelais, ad Ariosto, a Dante e su su a Platone, ai sofisti, a Socrate e ai presocratici, per limitarci alla cultura occidentale. La cultura dei sogni, delle profezie e, insieme con essi, della ragione e della scienza. Noi siamo un animale pensante che la storia della nostra specie ha definito ?€“ non a caso ?€“ «homo sapiens»: animale ma sapiente, con desideri istintivi ma consapevoli e una mente capace di riflettere su se stessa. Insomma una scimmia pensante che si vede agire e pensare; questa noi chiamiamo coscienza, anzi auto-coscienza che è una parola ancor più precisa per descrivere questa situazione.
Ho utilizzato più volte, in alcuni dei miei libri dedicati a questi argomenti, un'immagine che può aiutare alla comprensione di questi complessi problemi conoscitivi; l'immagine riguarda il rapporto tra uno strumento musicale come il pianoforte (o qualsiasi altro) e la musica.

Il pianoforte è un oggetto materiale composto di legno, corde di metallo, pedali, tasti d'avorio, martelletti, viti e altri ingredienti. Lo strumento è pronto, nella stanza d'una casa o sul palcoscenico di un teatro. Finché qualcuno o qualcosa non tocchi i suoi tasti, resta muto; quando però viene usato ne scaturisce un suono che chiamiamo musica, rumore organizzato con un suo ritmo, una sua armonia, una sua melodia.

E dunque il pianoforte è un oggetto materiale, la musica è prodotta da quell'oggetto ma è immateriale, composta da onde sonore che i nostri sensi non possono né toccare né vedere ma soltanto ascoltare.

Un rapporto analogo passa tra il cervello e la mente, le cellule cerebrali e i neuroni che le collegano producono immagini e pensieri, concreti o astratti e associazioni di pensieri o idee che mantengono lo strumento cerebrale in continua attività. Un'attività che si attenua ma non scompare quando il corpo cade in sonno.

Il sonno attenua ma non spegne l'attività del corpo, il sangue continua a circolare, il cuore a pulsare, i polmoni a respirare e il cervello a produrre sogni.
La musica dei sogni è assai meno organizzata della mente ragionante ma per certi aspetti più rappresentativa degli istinti che emergono da un "sé" recondito che influisce direttamente sui sogni e che infatti Freud e Jung usarono come strumento di analisi per tentar di decifrare i misteri dell' "Es".

Come vedete, McEwan vede giusto quando dice che la coscienza è un fenomeno materialistico che si manifesta però attraverso immagini, pensieri, volontà, concetti, figure archetipe immateriali. Amleto e Don Chisciotte potrebbero essere utilmente ricordati nel convegno di Barolo e aiuterebbero i convenuti ad approfondire la presenza di questi temi nelle arti e nella letteratura.


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« Risposta #444 inserito:: Luglio 28, 2013, 10:47:08 am »


Per salvare l'Italia il catalogo è questo

di EUGENIO SCALFARI


CI SONO molte iniziative che in queste settimane di luglio si sono addensate e che riguardano in parte il governo e in parte il parlamento, producendo addirittura un ingorgo che metterà a dura prova di calendario le Camere costringendole ad un lavoro molto intenso. Alcuni pensavano che Enrico Letta eccedesse in annunci e rinvii. Si sbagliavano di grosso. Letta e i suoi ministri preparavano i percorsi appropriati. Ci hanno messo pochi giorni e adesso sono tutte o quasi tutte ai nastri di partenza, ma si scontrano, come era prevedibile, con ostacoli e diverso sentire della maggioranza ed un'opposizione di sistema. Questa è la difficoltà o altrimenti detto i nodi che arrivano al pettine.

Il governo delle larghe intese non è mai esistito e non poteva esistere anche se l'ipocrisia che è un elemento della politica l'ha battezzato in quel modo. Abbiamo più volte detto (e l'ha detto esplicitamente anche Letta) che è un governo di necessità e di scopo. Lo scopo è di portare l'Italia e l'Europa fuori dalla recessione. Non è una "cosetta", è un obiettivo che coinvolge ciascun governo dell'Unione e l'Unione nel suo complesso e Letta a questo obiettivo sta lavorando con il nostro parlamento, con i partiti della maggioranza, con l'Unione europea, con la Bce, con i governi dei paesi di maggior peso politico ed economico. Qualche risultato si intravede ma i frutti più consistenti cominceranno ad arrivare nel prossimo ottobre e poi nel 2014.

Lo sbocco è previsto nel 2015 se non interverranno gelate o grandinate che in un'economia globale possono arrivare da qualunque parte del pianeta.

La mitologia greca  -  sembra una divagazione ma invece è pertinente alla situazione che stiamo vivendo  -  diceva che il mondo è dominato da una forza che si chiama "Ananke" che significa necessità e fatalità, alla quale fa fronte un'altra forza che si chiama "Metis" che significa astuzia e fluidità. Spesso Metis riesce a raggirare Ananke. Aggiungo per maggior chiarezza che Metis è la madre di Atena, dea dell'intelligenza e della "polis" cioè della città, della convivenza e della politica. Noi speriamo che Metis e sua figlia Atena prevalgano su Ananke. Il mondo globale è quanto mai liquido e solo Metis può dargli una forma accettabile.

***

Breve elenco delle iniziative da portare a termine. La prima è la riforma della legge elettorale. La vogliono tutti a parole, pochissimi nei fatti. Tra i pochissimi c'è il presidente Napolitano, c'è Letta, c'è Epifani e buona parte del Pd. Per quel tanto che vale c'è anche questo nostro giornale. Non una legge di semplice garanzia ma una riforma vera e propria che abolisca la "porcata" vigente e la sostituisca con una legge che dia al tempo stesso possibilità ai cittadini di scegliere i loro rappresentanti, un'equa rappresentanza alle forze politiche e una sufficiente governabilità.

Gli studi in proposito sono già molto avanzati. Il Pd prenda dunque l'iniziativa di proporla e chi ci starà ci starà, dentro o fuori della maggioranza. La legge elettorale non ha carattere costituzionale e non mette in discussione il governo. Potrebbe essere discussa e approvata dal parlamento già per ottobre e anche prima.
Poi viene il resto e non è da poco. La legge sul finanziamento dei partiti. Leggo su alcuni giornali che quella presentata dal governo non abolisce il finanziamento pubblico. È falso, lo abolisce con un approccio graduale di due anni salvo alcune facilitazioni sulle tariffe postali della spedizione del materiale di propaganda. Naturalmente i "tesorieri" dei partiti  -  tranne i 5 Stelle  -  vorrebbero conservare un po' di sostegno pubblico ma Letta ha imboccato una strada diversa con la quale noi concordiamo totalmente. Perciò, se necessario, ponga la fiducia.

La legge sull'omofobia. L'ostruzionismo dei grillini contro il disegno di legge sulle riforme costituzionali ha sconvolto il calendario, ma l'omofobia non può e non deve aspettare. Se necessario si restringano al minimo le vacanze parlamentari ma la si voti subito.

A settembre arriverà il momento di discutere e votare la riforma costituzionale preparata dalla Commissione costituzionale delle due Camere in sede referente e non deliberante. Mi permetto di raccomandare che siano quelle strettamente necessarie e cioè l'abolizione delle Province (che Letta ha già svuotato dei poteri) il taglio del numero dei parlamentari e il Senato federale senza più il bicameralismo perfetto che non esiste in nessun Paese europeo (e del mondo).

Ingroia, con Vendola e Grillo, parla di soppressione dell'articolo 138 e di conseguenza di vero e proprio golpe costituzionale. Ma non mi pare che esista nulla di tutto questo. Nel progetto di legge l'articolo 138 è scrupolosamente rispettato e c'è addirittura un'estensione del referendum confermativo anche per le riforme che avessero ottenuto alle Camere la maggioranza qualificata che esclude l'obbligo referendario. Mi sembra che sia un rafforzamento e non l'abolizione del 138.
Il catalogo è questo. Il tempo necessario arriva fino al semestre di presidenza europea assegnato all'Italia e quindi a Enrico Letta con scadenza al 31 dicembre del 2014. Poi, nei primi mesi del 2015 il governo si dimetterà e chi avrà tessuto di più ne raccoglierà i frutti.

Nel frattempo però si pone la questione non marginale del congresso del Partito democratico.

***

Il Pd è ancora accartocciato su se stesso. Non ci sono leader, così leggo in quasi tutti i giornali, salvo Matteo Renzi. A me non sembra che Renzi sia il solo, anche se ha carisma e una sua corrente ormai numerosa.

Epifani è un buon segretario e può aspirare ad essere eletto dal congresso. Cuperlo anche. Civati è un oppositore consapevole. Ma poi ci sono persone come Chiamparino, Fassino, Barca, Bindi, Rossi, ma anche Veltroni, anche Bersani, anche D'Alema.

Si dirà: è la vecchia nomenclatura. In parte sì ma in parte no. Non Renzi, non Cuperlo, non Civati, non Barca. Molti sono stati rottamati o si sono autorottamati ma se decidessero di candidarsi e piacessero agli elettori non esistono che io sappia impedimenti alla loro elezione. Dico queste cose solo per segnalare che tra vecchi e nuovi la classe dirigente del Pd è ricca di nomi nessuno dei quali ha l'età di Matusalemme.

Le regole. Le primarie finora sono sempre state aperte. Io personalmente non sono mai stato iscritto al Pd ma ho partecipato a tutte le primarie votando Veltroni, Franceschini, Bersani. Nessuno di loro è stato presidente del Consiglio. Alle primarie di coalizione ho sempre votato Romano Prodi e lo voterei ancora.

Penso che si voti il segretario e non il candidato premier. Primarie aperte per il segretario. Quando si dovrà scegliere a fine legislatura il candidato per la premiership sarà il segretario a decidere se vuole presentarsi anche in quella occasione oppure no. Spetta solo a lui una decisione che lo vedrà sfidarsi con gli altri contendenti.

***

Quando leggerete questo note mancheranno due giorni alla sentenza della Cassazione sul processo Mediaset. La precedente sentenza ha condannato in appello l'imputato Berlusconi a quattro anni di carcere (tre condonati per indulto) e a cinque anni di decadenza dai pubblici uffici.

È opportuno non fare previsioni sulla sentenza, salvo che essa non può che riguardare questioni di diritto e non un nuovo approfondimento dei fatti che restano in ogni caso quelli accertati dalla Corte di appello.

Se sarà un sentenza di conferma, la Camera di appartenenza (in questo caso il Senato) dovrà ratificare la sentenza per renderla applicabile. Normalmente si tratta di una pura formalità poiché la commissione del Senato non può mettere in discussione le decisioni di un giudice ordinario. Ma qualora i senatori del Pdl perdessero la testa, la maggioranza ci sarebbe comunque perché è da immaginare che i senatori di tutti gli altri gruppi ratificherebbero il pronunciamento della Cassazione.

Il governo subirà contraccolpi? Berlusconi lo ha più volte escluso. Per quanto mi riguarda lo prendo in parola. E Alfano?

Il tema della sua responsabilità politica sul caso Shelabayeva è ancora in piedi e lui lo sa. Sarebbe opportuno che ne traesse le conseguenze. Personalmente sono quasi convinto che non sapesse dell'estradizione ma sono altrettanto convinto che un ministro dell'Interno, preventivamente informato dei precedenti, avrebbe dovuto esser lui a chiedere notizie sul seguito di quella pratica. Non è dunque soltanto politicamente responsabile di quanto è avvenuto, ma anche tecnicamente inadeguato a ricoprire quel ruolo. Perciò in punta dei piedi se ne deve andare e sarà un bene soprattutto per lui oltreché per il governo.

(28 luglio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #445 inserito:: Agosto 02, 2013, 11:22:51 am »

Quando il ronzio si fa monumento

di Eugenio Scalfari

Secondo Walter Siti nelle opere di Montaigne e dei suoi discepoli manca la struttura. E così la frammentazione del pensiero diventa rumore diffuso. Invece l'organicità è spesso data proprio dalla molteplicità

(18 luglio 2013)

Non ho letto finora i romanzi di Walter Siti, ma quello che ha vinto lo Strega l'ho già comprato e lo leggerò durante le mie imminenti vacanze. Leggo invece i suoi articoli su "Repubblica" che trovo sempre interessanti e che spesso condivido, ma non sono affatto d'accordo con l'ultimo, intitolato "Il nuovo protagonismo dei figli di Montaigne". Il sottotitolo è decisamente impietoso e recita: "Spesso la superficialità sostituisce struttura e disciplina. Il rischio che corrono molte opere è la carenza meditativa".

Accidenti! poiché mi considero uno dei molti figli dell'autore degli "Essais" son corso a leggere la scomunica di Siti che riassumo così: l'autore degli "Essais" si oppone al pensiero dogmatico e salta di palo in frasca. Non è detto naturalmente che il dilettantismo sia sempre superficialità, ma talvolta può diventarlo quando rifiuta la struttura meditativa rischiando di diventare "bricolage". L'ambivalenza del mondo, che la si rappresenti in un saggio o in un romanzo, è nutriente solo se la si affronta con una devozione maniacale alla precisione della struttura. Il nuovo stile che sta nascendo dal ronzio ha bisogno di nuovi monumenti, non di schiuma.
Spero d'aver reso fedelmente il pensiero di Siti. Debbo dire che ho tratto un respiro di sollievo, dal titolo temevo il peggio non tanto per Montaigne quanto per i suoi figli. Alcuni immagini di Siti mi sono anche piaciute ma debbo dire che non ho capito bene il suo pensiero.

Ho capito che per lui la struttura è indispensabile e richiede una «attenzione maniacale». Ho capito che sta nascendo un nuovo stile, ma quale? Quali opere lo rappresentano nella saggistica e nella narrativa? In Italia e fuori d'Italia? Siti aggiunge che finora il nuovo stile ha dato luogo soltanto a un ronzio (quest'immagine è assai efficace) ma ora ci vuole un monumento. Certo, ma qual è il ronzio?

Personalmente un'idea sul ronzio io ce l'ho, ma forse non è la stessa di Siti. Per me il ronzio è esattamente la modalità o se volete il "format" che Montaigne adottò negli "Essais", La Rochefoucauld nel "Maxims", Pascal nei "Pensées ", Baudelaire nei "Fleurs du mal" e Nietzsche in tutta la sua opera da "Zarathrusta" a "Gaia Scienza", a "Umano, troppo umano", a "Ecce Homo". Cioè - vedi caso - la voluta mancanza di struttura, la frammentazione del pensiero in aforismi, citazioni, brevi storie, riflessioni profonde ma apparentemente scollegate, voci parlanti, autore direttamente presente nel testo e/o attraverso un suo doppio.

Il romanzo, che è un'opera necessariamente corale, è in crisi per questo e da tempo. Si salva soltanto dove c'è ancora una coralità che ormai è sempre più rara. Il vero grande romanzo moderno sono i "I quaderni di Malte Laurids Brigge " di Rilke. Siti vuole un monumento? E' quello, ma ha già cent'anni. Dopo quello, solo ronzio in Europa. In altre parti del mondo no perché la coralità c'è ancora.

Il discorso sarebbe lungo e lo spazio è tiranno, ma a Siti non mancheranno certo gli argomenti. Vorrei però aggiungere un aspetto alla questione. La struttura si è frantumata, questo è certo, ma perché?

Io credo che la causa stia nel fatto che le contraddizioni interne all'animale pensante che noi siamo sono esplose ed è impossibile rimontarne l'architettura. Non c'è più un'architettura, non c'è più un sistema filosofico, non è più possibile scrivere un trattato. Dopo Hegel e Schopenhauer non esistono più trattati e sistemi. Hegel del resto l'aveva previsto e scritto più volte.

Il pensiero, quello c'è sempre, è un connotato della specie, ma si esprime senza organicità. O meglio, l'organicità interiore a quel pensiero è appunto la sua molteplicità, la sua pluralità e addirittura la sua polverizzazione.

Lo sguardo di "Palomar" fisso sulla sabbia del mare dell'ultimo Calvino: quella è l'organicità e se questo vuol dire Siti quando parla di ronzio, allora ha ragione ma in quel caso è il ronzio a essere il monumento di sé.

 
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« Risposta #446 inserito:: Agosto 04, 2013, 11:46:16 am »


Il governo è un'istituzione ed è bene ricordarselo

di EUGENIO SCALFARI


Qualche settimana fa, già in vista della sentenza che la Cassazione ha emesso giovedì scorso, il direttore di questo giornale, Ezio Mauro, aveva usato la parola "dismisura" per definire l'influsso improprio che Silvio Berlusconi ha esercitato per vent'anni sulla fragile democrazia di questo paese.

La parola dismisura mi colpì molto per la sua efficace rappresentatività. Un uomo posseduto da un'egolatria straripante, con capacità di imbonire non solo una parte rilevante di popolo ma addirittura di deformare il funzionamento di istituzioni da tempo asservite ai partiti politici dominanti, guidava il paese con una ricchezza di assai dubbia provenienza, un impero mediatico di proporzioni inusitate, una spregiudicatezza politica senza limiti.

Del resto l'allarme di Repubblica nei confronti di quel personaggio così anomalo ad ogni principio democratico era scattato da tempo, quando Silvio Berlusconi non aveva ancora fatto il suo ingresso in politica ma già aveva con i politici contatti e rapporti di complicità e addirittura di compravendita. La nostra campagna era cominciata fin dagli ultimi anni Ottanta ed è del '92 l'articolo da me pubblicato con il titolo "Mackie Messer ha un coltello ma vedere non lo fa" in cui il padrone della televisione commerciale italiana era paragonato al gangster protagonista dell'Opera da tre soldi di Bertolt Brecht. Mackie Messer è stato finalmente condannato con sentenza definitiva in uno dei tanti processi intentati da 19 anni nei suoi confronti.

Non già per sentimenti persecutori della magistratura inquirente e giudicante, ma per la quantità di reati da lui commessi e da lui abilmente ostacolati, rallentati, bloccati, muovendo le leve politiche delle quali disponeva, rallentandoli con l'uso e l'abuso del legittimo impedimento, con l'accorciamento mirato della prescrizione, con l'immunità delle cariche da lui rivestite e addirittura con la corruzione di magistrati e giudici.

Inusitatamente - è il caso di dirlo - il processo sui diritti cinematografici di Mediaset è riuscito a farsi largo in questa selva di ostacoli e arrivare con poche settimane di anticipo sull'imminente prescrizione, alla sentenza definitiva. Ora l'imputato è un condannato ad una pena carceraria e ad una pena accessoria d'interdizione dai pubblici uffici. Nel frattempo altri processi incalzano per reati altrettanto gravi e forse più, presso i Tribunali e le Corti di Milano, Roma, Napoli, Bari.

Gli uomini del partito da lui fondato, e del quale è il leader e il proprietario nel senso tecnico del termine, lo sanno. I suoi elettori in parte l'hanno capito e l'hanno abbandonato, in parte sono ancora dominati dalla sua demagogia o da interessi da lui concessi e tutelati.

Su questa massa consistente di ministri del governo in carica, di parlamentari, di elettori ancora imboniti, Mackie Messer ha lanciato la sua campagna e vorrebbe annullare la sentenza con il ricatto di far saltare il governo e provocare lo sfascio d'una economia già fortemente in crisi.

Mackie Messer questa volta il coltello non solo non lo nasconde ma lo mostra apertamente agitandolo minacciosamente dalle sue televisioni ed anche dagli schermi della Rai che, non si capisce il perché, danno ripetutamente a reti unificate la parola di un pregiudicato e condannato per gravi reati comuni. Non accadrebbe in nessun altro paese anche perché l'uomo politico - in democrazie notevolmente più mature della nostra - si sarebbe da tempo dimesso dalle cariche ricoperte affrontando i processi e subendone le eventuali conseguenze.

Fatta questa premessa, che ricorda fatti peraltro ben noti ai nostri lettori, ma che è bene comunque ricordare per completezza d'informazione, parliamo ora del tema principale che oggi domina lo scenario politico ma non solo: oltre che politico anche economico, anche sociale, anche internazionale e infine istituzionale.

Non allarmatevi dei tanti aspetti di questa situazione: sono fortemente intrecciati tra loro e costituiscono un unico nodo ed è quel nodo che in un modo o nell'altro va sciolto nei prossimi giorni, anzi direi nelle prossime ore.

* * *

I sudditi (come altro chiamarli?) del condannato hanno inscenato una farsa da lui guidata, si sono dimessi nelle sue mani da ministri e da parlamentari e una loro deputazione vorrebbe incontrare Napolitano per ottenere la grazia per il loro padrone e signore. È probabile che Napolitano non li riceva ma è comunque certo che la grazia non la darà poiché non ne ricorrono gli estremi né morali né tecnici.

La minaccia, anzi il ricatto, è di mettere in crisi il governo e andare a votare in ottobre, ma Napolitano ha già più volte chiarito che non si parla di scioglimento anticipato delle Camere con questa legge elettorale palesemente incostituzionale. Bisogna dunque riformarla e il governo ha già fissato la data di discussione dei vari progetti allo studio il prossimo ottobre. Ammesso e non concesso che la si approvi entro ottobre, c'è nel frattempo l'obbligo di discutere e approvare la legge di stabilità finanziaria e il bilancio e si arriva così alla fine dell'anno. Qualora a quel punto Napolitano sciogliesse le Camere, si voterebbe alla fine di febbraio o a marzo ma nel frattempo - sempre che i sudditi del signore e padrone avessero dato le dimissioni - il governo sarebbe ancora in carica per l'ordinaria amministrazione. Quindi privo di qualunque autorevolezza anche in Europa, anzi soprattutto in Europa.

Non è da escludere che il signore e padrone di Arcore, divenuto a quel punto la sua comoda prigione dalla quale però non può incontrare nessuno se non i propri figli, abbia fermato le dimissioni e gli Aventini minacciati e così pure le elezioni anticipate. Ma non è soprattutto da escludere che Napolitano abbia accettato le dimissioni di Letta ed abbia nominato un "Letta bis" impostato sul Pd che ha la maggioranza assoluta alla Camera e quella relativa al Senato che diventerebbe assoluta con il voto di Scelta civica, Vendola e dei 5 Stelle, che probabilmente a quel punto arriverebbero.

Questi sono i vari scenari, l'ultimo dei quali è, a mio avviso, il più auspicabile perché significa che il governo Letta prosegue fino al semestre europeo di presidenza italiana con l'uscita di scena nel gennaio 2015.

Questo richiede lo "scopo" per il quale Letta fu insediato a Palazzo Chigi. Lo scopo è di combattere la recessione in Italia e avviare una politica europea basata sulla crescita e sull'Europa proiettata verso uno Stato federale.

Queste considerazioni sono presenti esplicitamente nelle dichiarazioni non solo di Letta ma anche del segretario del Pd Guglielmo Epifani e del presidente del gruppo del Senato del Pd Luigi Zanda nell'intervista pubblicata ieri su questo giornale.

L'impegno del Pd nel sostenere questo progetto è fondamentale e coincide con le finalità di un partito riformatore di sinistra democratica. Poi - a suo tempo - bisognerà votare per un nuovo Capo dello Stato quando Napolitano deciderà scaduto il suo tempo. Quest'uomo, tra i tanti pregi e qualità che ha mostrato nel suo pluri-mandato presidenziale, ha dato prova di una fermezza di carattere molto rara e di una visione istituzionale, già anticipata a suo tempo da Carlo Azeglio Ciampi, inconsueta in questo paese di fragile democrazia: il governo è un'istituzione, titolare del potere esecutivo. I partiti possono fornirgli alcuni loro uomini che però, una volta nominati, cessano di essere uomini di partito e diventano membri d'un potere costituzionale dello Stato di diritto.

Nel nostro paese questi principi vengono spesso dimenticati. Voglio qui ricordare che furono sostenuti a spada tratta da Bruno Visentini, Ugo La Malfa, Enrico Berlinguer, Aldo Moro e da questo giornale. I partiti servono a raccogliere il consenso, non ad occupare le istituzioni, governo e Parlamento compresi. Chi dimentica che la democrazia ha come fondamento la separazione dei poteri compie un grave errore e rischia di procurare danni al paese e ai cittadini, che non sono più soltanto italiani ma anche, e speriamo sempre di più, europei.


(04 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #447 inserito:: Agosto 07, 2013, 05:24:08 pm »


Le domande di un non credente al papa gesuita chiamato Francesco

Il pontefice argentino è lo scandalo benefico della Chiesa di Roma. Ma cosa risponderebbe agli interrogativi di un illuminista?

di EUGENIO SCALFARI


PAPA Francesco è stato eletto al soglio petrino da pochissimi mesi ma continua a dare scandalo ogni giorno. Per come veste, per dove abita, per quello che dice, per quello che decide. Scandalo, ma benefico, tonificante, innovativo.

Con i giornalisti parla poco, anzi non parla affatto, il circo mediatico non fa per lui, non è nei suoi gusti, ma il suo dialogo con la gente è continuo, collettivo e individuale, ascolta, domanda, risponde, arriva nei luoghi più disparati ed ha sempre un testo da leggere tra le mani ma subito lo butta via. Improvvisa senza sforzo alcuno a cielo aperto o in una chiesa, in una capanna di pescatori o sulla spiaggia di Copacabana, nel salone delle udienze o dalla “papamobile” che fende dolcemente la folla dei fedeli.

È buono come Papa Giovanni, affascina la gente come Wojtyla, è cresciuto tra i gesuiti, ha scelto di chiamarsi Francesco perché vuole la Chiesa del poverello di Assisi. Infine: è candido come una colomba ma furbo come una volpe. Tutti ne scrivono, tutti lo guardano ammirati e tutti, presbiteri e laici, uomini e donne, giovani e vecchi, credenti e non credenti aspettano di vedere che cosa farà il giorno dopo.
Di politica non si occupa, non l’ha mai fatto né in Argentina da vescovo né dal Vaticano da papa. Criticò Videla sistematicamente, ma non per l’orribile dittatura da lui instaurata ma perché non provvedeva ad aiutare i poveri, i deboli, i bisognosi. Alla fine il governo, per liberarsi di quella voce fastidiosa, mise a sua disposizione una struttura assistenziale fino a quel momento inerte e lui abbandonò la
sua diocesi ad un vicario e cominciò a battere tutto il paese come un missionario, ma non per convertire bensì per aiutare, educare, infondere speranza e carità.

Due mesi fa ha pubblicato un’enciclica sulla fede, un testo già scritto dal suo predecessore con il quale convive senza alcun imbarazzo a poche centinaia di metri di distanza. Ha ritoccato in pochi punti quel testo e l’ha firmato e reso pubblico.

L’enciclica è alquanto innovativa rispetto ad altre sullo stesso tema emesse dai suoi predecessori. La novità sta nel fatto che non si occupa del rapporto tra fede e ragione. Non esclude affatto che quel rapporto ci sia, ma a lui (e a Benedetto XVI) interessa la grazia che promana dal Signore e scende sui fedeli. La grazia coincide con la fede e la fede con la carità, l’amore per il prossimo, che è il solo modo – attenzione: il solo modo – di amare il Signore. Si sente il profumo intellettuale di Agostino. Più di Agostino che di Paolo. Ma qui andiamo già nel difficile. Si dovrebbe pensare che siano tre i Santi di riferimento per l’attuale Vescovo di Roma (che insiste molto su questa qualifica che accompagna e addirittura precede il titolo pontificale): Agostino, Ignazio, Francesco.

Ma è quest’ultimo che dà al Papa che ne ha preso il nome il connotato più evidente e da lui sottolineato in ogni occasione. Vuole una Chiesa povera che predichi il valore della povertà; una Chiesa militante e missionaria, una Chiesa pastorale, una Chiesa costruita a somiglianza di un Dio misericordioso, che non giudica ma perdona, che cerchi la pecora smarrita, che accolga il figliol prodigo.

Certo, la Chiesa cattolica è anche un’istituzione, ma l’istituzione, come la vede Francesco, è una struttura di servizio, come l’intendenza di un esercito rispetto alle truppe combattenti. L’intendenza segue, non precede. E così siano l’istituzione, la Curia, la Segreteria di Stato, la Banca, il Governatorato del Vaticano, le Congregazioni, i Nunzi e i Tribunali, tutta l’immensa e immensamente complessa architettura che tiene in piedi da duemila anni la Chiesa, Sposa di Cristo.

Questo, finora, è stato il volto della Chiesa. La pastoralità? Certo, un bene prezioso. La Chiesa predicante? La Chiesa missionaria? La Chiesa povera? Certo, la vera sostanza che l’istituzione contiene come un gioiello prezioso dentro una scatola d’acciaio.

Ma attenzione: per duemila anni la Chiesa ha parlato, ha deciso, ha agito come istituzione. Non c’è mai stato un papa che abbia inalberato il vessillo della povertà, non c’è mai stato un papa che non abbia gestito il potere, che non abbia difeso, rafforzato, amato il potere, non c’è mai stato un papa che abbia sentito come proprio il pensiero e il comportamento del poverello di Assisi. E non c’è mai stata, se non nei casi di debolezza e di agitazione, una Chiesa orizzontale invece che verticale. In duemila anni di storia la chiesa cattolica ha indetto 21 Concili ecumenici, per lo più addensati tra il III e il V secolo dell’era cristiana e tra il IX e il XIII. Dal Concilio di Trento passarono più di trecent’anni fino al Vaticano I preceduto dal Sillabo e poi ne passarono ottanta fino al Vaticano II.

I Sinodi sono stati ovviamente molto più numerosi, ma tutti indetti e guidati dalla Curia e dal Papa.

Il cardinale Martini (vedi caso anch’egli gesuita) voleva accanto al magistero del Papa la struttura orizzontale dei Concili e dei Sinodi dei vescovi, delle Conferenze episcopali e della pastoralità. Non fu amato a Roma, come Bergoglio nel conclave che terminò con l’elezione di Ratzinger.

Bergoglio ama anche lui la struttura orizzontale. La sua missione contiene insomma due scandalose novità: la Chiesa povera di Francesco, la Chiesa orizzontale di Martini. E una terza: un Dio che non giudica ma perdona. Non c’è dannazione, non c’è Inferno. Forse Purgatorio? Sicuramente pentimento come condizione per il perdono. «Chi sono io per giudicare i gay o i divorziati che cercano Dio?» così Bergoglio.
* * *
Vorrei però a questo punto porgli qualche domanda. Non credo risponderà, ma qui ed oggi non sono un giornalista, sono un non credente che è da molti anni interessato e affascinato dalla predicazione di Gesù di Nazareth, figlio di Maria e di Giuseppe, ebreo della stirpe di David. Ho una cultura illuminista e non cerco Dio. Penso che Dio sia un’invenzione consolatoria e affascinate della mente degli uomini.
Ebbene, è in questa veste che mi permetto di porre a Papa Francesco qualche domanda e di aggiungere qualche mia riflessione.
Prima domanda: se una persona non ha fede né la cerca, ma commette quello che per la Chiesa è un peccato, sarà perdonato dal Dio cristiano?

Seconda domanda: il credente crede nella verità rivelata, il non credente pensa che non esista alcun assoluto e quindi neppure una verità assoluta, ma una serie di verità relative e soggettive. Questo modo di pensare per la Chiesa è un errore o un peccato?

Terza domanda: Papa Francesco ha detto durante il suo viaggio in Brasile che anche la nostra specie perirà come tutte le cose che hanno un inizio e una fine. Anch’io penso allo stesso modo, ma penso anche che con la scomparsa della nostra specie scomparirà anche il pensiero capace di pensare Dio e che quindi, quando la nostra specie scomparirà, allora scomparirà anche Dio perché nessuno sarà più in grado di pensarlo. Il Papa ha certamente una sua risposta a questo tema e a me piacerebbe molto conoscerla.

Ed ora una riflessione. Credo che il Papa, che predica la Chiesa povera, sia un miracolo che fa bene al mondo. Ma credo anche che non ci sarà un Francesco II. Una Chiesa povera, che bandisca il potere e smantelli gli strumenti di potere, diventerebbe irrilevante. È accaduto con Lutero ed oggi le sette luterane sono migliaia e continuano a moltiplicarsi. Non hanno impedito la laicizzazione anzi ne hanno favorito l’espansione. La Chiesa cattolica, piena di difetti e di peccati, ha resistito ed è anzi forte perché non ha rinunciato al potere. Ai non credenti come me Francesco piace molto, anzi moltissimo, come pure Francesco d’Assisi e Gesù di Nazareth. Ma non credo che Gesù sarebbe diventato Cristo senza un San Paolo.

Lunga vita a Papa Francesco.

(07 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #448 inserito:: Agosto 09, 2013, 04:46:19 pm »

Machiavelli non fu machiavellico

di Eugenio Scalfari

L'autore del Principe non teorizzò la conquista del potere con qualsiasi mezzo. Coltivò invece il sogno di un'Italia unita

(01 agosto 2013)

Lo pensiamo e lo scriviamo tutti che il pensiero politico moderno sia cominciato in Italia con Machiavelli e con Guicciardini. In modi alquanto diversi l'uno dall'altro ma cogliendo entrambi gli stessi nodi che avvincono e dividono l'etica dalla politica.

Machiavelli e Guicciardini . Più tardi Vico e un secolo dopo De Sanctis. Non so se Machiavelli ebbe un influsso sul pensiero europeo: la questione è controversa e resa più complicata dal fatto che Caterina dei Medici, andata sposa a Enrico II di Valois, portò alla corte di Francia molti italiani e anche il pensiero e le opere di molti artisti e pensatori medicei. La parola "machiavellismo" comparve allora per definire una doppiezza di comportamenti, la pratica sistematica del complotto e del tradimento e infine un amore per il potere che superava i limiti della normalità e sconfinava nella cupidigia che giustifica qualunque crimine.

Il machiavellismo così interpretato raffigura il vero pensiero dell'autore del "Principe" o lo deturpa infangandolo con i delitti più obbrobriosi che Machiavelli avrebbe legittimato?

Ai miei tempi (parlo della fine degli anni Trenta del secolo scorso) il "Principe" si leggeva e il suo autore veniva studiato nel secondo anno del liceo classico e poi di nuovo ripreso a approfondito nei corsi di scienze politiche dell'omonima facoltà universitaria. E poiché la libertà di insegnamento continuò a esistere, sia pure con molti limiti, anche durante il fascismo, molto dipendeva dalla qualità culturale degli insegnanti oltre che dalle letture e dal discernimento degli studenti.

Il mio ricordo e il bagaglio culturale che personalmente ne ho ricavato sono quelli di una netta contrapposizione tra Machiavelli e il machiavellismo. Il pensiero di quell'autore (e il suo pregio) non è affatto quello di aver legittimato la cupidigia del potere e i crimini che quel sentimento può comportare, bensì d'aver dato un fondamento teorico all'autonomia della politica e dell'etica che fornisce a quell'autonomia un punto di riferimento senza il quale la politica diverrebbe un'attività abietta di sopraffazione e di arbitrio.

La prima distinzione che Machiavelli introdusse nei suoi scritti politici (dei quali il "Principe" è certamente il più affascinante ma non il più importante) è quello tra i fini e i mezzi: i fini configurano una visione del bene comune, i mezzi debbono essere appropriati a realizzarli ma senza mai prenderne il posto. Quando i mezzi diventano essi stessi altrettanti fini, la cupidigia del potere non ha più come obiettivo la visione del bene comune ma semplicemente il mantenimento e il rafforzamento del potere, che è cosa completamente diversa e immorale.
Machiavelli aveva direttamente vissuto la democrazia comunale della sua città con la carica di segretario, che non era il vertice della gerarchia comunale fiorentina ma tuttavia abbastanza importante. Le lotte di fazione, la supremazia delle Arti, il malcontento popolare ma soprattutto le clientele e i mezzi finanziari nelle mani di alcune famiglie del notabilato fiorentino, gli avevano dato la misura d'una decadenza ormai insostenibile: una città sia pure importante come Firenze non era più in grado di affidarsi a una democrazia popolare limitata al territorio d'un tratto della valle dell'Arno; le Signorie, i Capitani di ventura, le potenze straniere e soprattutto la Chiesa e il suo potere temporale incombevano.

Machiavelli aveva ben chiaro che il sogno d'una confederazione italiana diventava sempre più necessario ma vedeva altrettanto chiaramente che era il potere temporale del Papa a renderlo impossibile. E fu allora che puntò sul Borgia. Il figlio del Papa ambiva a costruire uno Stato che fosse guidato da lui e non dalla Chiesa, puntando sulle Romagne e sulle Marche e poi Pisa e poi Napoli e poi Milano e naturalmente Firenze. Il Papa - forse - come autorità religiosa benedicente, ma la famiglia Borgia come autorità governante quello Stato, cioè una prima parvenza di Italia.

Questo fu il sogno di Machiavelli: una speranza, anzi un'illusione, ancorata però a una consapevole necessità che anche l'Italia, come già gran parte delle altre potenze europee, unificasse le sue genti e non restasse in balia di piccole e volatili tirannie che presto sarebbero franate dinanzi agli eserciti invasori, come difatti avvenne.

Ricordo ancora quella pagina della "Storia della letteratura italiana" di Francesco De Sanctis in cui, mentre sta esaminando alcune delle Canzoni del Leopardi, cambia improvvisamente tono e argomento e scrive: «In questo momento mi giunge notizia che reparti dell'esercito italiano sono entrati a Roma e la città è stata proclamata dal Parlamento capitale d'Italia». E prosegue ricordando il sogno presago di Machiavelli tre secoli prima.

Il machiavellismo è tutt'altra cosa. E' uno dei mali della politica, purtroppo ormai diffuso dovunque ma in Italia soprattutto. Quando la politica e l'etica della politica sono deboli è l'intera società a disfarsi. Arriva allora il momento del cinismo e dell'utopia, due mali che dimostrano soltanto l'assenza letargica della politica.

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/machiavelli-non-fu-machiavellico/2212355/18/1

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« Risposta #449 inserito:: Agosto 11, 2013, 04:46:26 pm »

   
Il 25 luglio è arrivato, il Cavaliere si rassegni

di EUGENIO SCALFARI


HO già ricordato qualche giorno fa quanto accadde a Roma il 25 luglio del 1943 di cui ricorre quest'anno il 70° anniversario. Mi sembrava attuale: la liquidazione di Mussolini votata con larga maggioranza dal Gran Consiglio del Fascismo, il supremo organo del regime, ben più importante d'un Parlamento che da tempo era di fatto inesistente. Nello Ajello ha ripercorso quella vicenda con dovizia di particolari e di riflessioni politiche e psicologiche, descrivendo un Duce ormai diventato consapevole d'una sconfitta storica e della rovina che incombeva tragicamente sul paese che per vent'anni aveva ipnotizzato e magato col carisma della sua egolatria e la religione del Capo inviato dalla Provvidenza a riportare l'Impero sui colli fatali di Roma.

Nel frattempo è arrivata la sentenza della corte di Cassazione che condanna definitivamente il "boss" di Arcore a quattro anni di reclusione e alla pena aggiuntiva dell'interdizione dai pubblici uffici; il tema del 25 luglio è così diventato ancora più attuale.
Berlusconi ha ancora cinque processi che incombono sulle sue vicende pubbliche e private, uno più gravoso dell'altro. Le possibilità di scamparla sono inesistenti, i salvacondotti immaginati privi d'ogni consistenza. Ai suoi seguaci non resta che separare la sua sorte personale da quella d'un partito che da vent'anni ha riscosso il consenso di milioni di italiani, conservatori o liberali, moderati o estremisti.

Erano tutti stregati dall'ennesimo uomo della Provvidenza capace di creare ricchezza, gloria, prestigio internazionale, pari opportunità per tutti, solo che lo amassero e riponessero in lui la massima fiducia votandolo di conseguenza.

Il 25 luglio del '43 restituì al Re i poteri che il fascismo gli aveva confiscato. I suoi promotori speravano che la monarchia  -  restaurata da quel voto  -  affidasse a loro il compito di riportare l'Italia sulla giusta via costituzionale e alla fine d'una guerra ormai perduta. Non sapevano che il Re aveva già incaricato Badoglio e con lui l'esercito di accudire al compito disperato della resa e del cambiamento del fronte di guerra.

Ma qui ed ora tutto sarebbe molto più facile. Il capo dello Stato è nel pieno esercizio delle sue prerogative repubblicane, un governo legittimo è in carica con la partecipazione anche del partito fondato da Berlusconi, le sorti di quel governo e il programma ad esso affidato è ampiamente gradito a tutte le potenze occidentali a cominciare dall'Unione europea della quale siamo uno dei principali paesi costitutivi e costituenti.

C'è soltanto da superare il generale discredito riguardante il carismatico buffone che ancora farnetica della sua indispensabilità.
Ma nessuno tra i "berluscones" pensa al ravvedimento. L'ipnosi ancora continua e condurrà al peggio se non sarà interrotta. Il tempo è quasi scaduto, venti giorni per decidere di sgombrare il campo dal gangster che ancora lo occupa o la rissa civile che accrescerà i guai della crisi anziché rafforzare i primi segnali di ripresa che cominciano finalmente a manifestarsi.

Napolitano è deciso, Letta è deciso, Epifani è deciso e con lui maggior parte del Partito democratico. Occorre risolvere difficoltà non lievi ma tutt'altro che insuperabili, con quelli di loro disposti ad un operoso ravvedimento o senza di loro. È da loro che dipende l'alternativa.

L'incontro di due giorni fa a Castel Porziano tra Napolitano e i rappresentanti del Pd ne ha chiarito le premesse e le fasi di svolgimento. Non si naviga al buio ma con una rotta definita e timonieri capaci.

* * *
I segnali congiunturali  -  l'abbiamo già detto  -  tendono finalmente al meglio. L'Europa nel suo complesso è di nuovo al segno positivo per quanto riguarda il Pil, la produzione di beni e servizi, gli ordinativi delle imprese e le riserve. Gli Usa sono ancor più avanti, anche le cifre dell'occupazione registrano una costante ripresa. Qualche rallentamento si manifesta in Cina e in Brasile ma del tutto fisiologico e governabile.

In Italia fenomeni analoghi si manifestano ma con molta timidità, tuttavia dimostrano una continuità che non conoscevamo da molto tempo. Non ancora sul livello del reddito e dei consumi di massa, e tanto meno sull'occupazione, ma sicuramente nella produzione industriale, negli ordinativi e nelle esportazioni.

La pubblica amministrazione ha finalmente erogato 16 miliardi alle imprese creditrici, altri 20 saranno pagati entro la fine dell'anno; per un sistema strozzato dalla sua dipendenza dal credito questa liquidità è preziosa.

Tanto più lo sarà l'ingresso della Cassa depositi e prestiti sul mercato dei crediti a tassi accettabili e sul finanziamento di nuove infrastrutture con una disponibilità aggiuntiva di 97 miliardi, una cifra che può avere un effetto determinante sul mercato non solo della crescita ma del lavoro.

Infine il collocamento dei nostri titoli di Stato e delle emissioni obbligazionarie delle imprese. Il Bpt a medio termine va molto bene, il termometro dello "spread" è sceso a quota 250, con i risparmi che ciò comporta sugli oneri del Tesoro.

Insomma i segnali non mancano e le aspettative neppure; gli investitori esteri affluiscono, il turismo invece è ancora fiacco e quello è un punto che chiama soprattutto in causa le autorità territoriali. Incontri proficui avverranno questa settimana fra il Tesoro e i rappresentati dei sindaci. Per quel che si sa le prospettive di un accordo sono positive.

Sarebbe molto urgente una vera semplificazione burocratica. La legge sul "fare" è stata finalmente approvata ma è soggetta ad un'ampia serie di provvedimenti attuativi. Uno degli obiettivi è appunto la semplificazione, giustamente richiesta da economisti e operatori. Mi permetto solo di ricordare che l'economia Usa annovera una quantità di adempimenti burocratici diversi e moltiplicati dalla struttura federale che non ha riscontro in nessun paese del mondo; eppure la sua efficienza operativa è fuori discussione.

Il nostro vero problema (in questo giornale l'abbiamo segnalato da anni) sta soprattutto nella pluralità delle anime (uso volutamente questa parola per alludere alla molteplicità delle intenzioni) annidate nel Consiglio di Stato. Quello è il vero problema sul quale bisognerebbe intervenire rafforzando l'anima giurisdizionale di quel consesso e riducendo o addirittura annullando tutte le altre.

Quello che con brutta parola viene chiamato cronoprogramma di questo governo è comunque uscito rafforzato dall'incontro di Letta con i suoi più stretti collaboratori e di Napolitano con i rappresentanti del Pd.

L'Imu sarà abolita ma sostituita da una nuova imposta che avrà anche la casa come elemento ingrediente. L'aumento dell'Iva è praticamente scongiurato. Se non interverranno improvvisi tsunami Letta presiederà il semestre europeo di spettanza italiana e probabilmente nel 2015 il governo di scopo, o meglio il governo-istituzione, vedrà il suo termine.

Nel frattempo, in questo prossimo ottobre dovrebbe essere approvata la nuova legge elettorale con la maggioranza del "chi ci sta ci sta". Quanto alla riforma costituzionale, premono la riforma del Senato, il taglio nel numero dei parlamentari, l'abolizione delle Provincie. Entro quest'anno si deve anche approvare l'abolizione del finanziamento dei partiti, la legge sull'omofobia e il lavoro giovanile con il concorso finanziario europeo.

La presidenza semestrale italiana sarà essenziale per proiettare l'Unione europea verso un percorso federale e l'Unione bancaria.
Queste sono le "cosucce" che attendono Letta e scusate se è poco.

* * *
Non mi viene molto da dire sul congresso del Pd. La data è stata praticamente fissata, la partecipazione alle primarie sul nuovo segretario sarà aperta, ma si vota per il segretario e non per il candidato premier. Questa carica è palesemente inopportuna mentre l'attuale presidente del Consiglio proviene dal Pd ed ha un impegno che  -  salvo sorprese  -  durerà due anni, strettamente abbinato con l'Autorità che ha il compito di nominare i presidenti del Consiglio e i ministri nonché quello dello scioglimento anticipato delle Camere quando ne ricorrano le condizioni e solo in quei casi.

I candidati alla carica di segretario sono numerosi, ciascuno con pregi e difetti come sempre e dovunque accade. La scelta è libera e il numero di possibili concorrenti è ampio. Quando saremo vicini al voto nei gazebo sceglieremo. Personalmente non sono tra quelli che considerano un logoro e inservibile "arnese" il Partito democratico e la sua classe dirigente.

Certo va risvegliata, rinnovata, svecchiata. Ma attenzione: non è l'anagrafe che comanda, è la capacità, la probità intellettuale ed anche l'esperienza. A me non piacciono molto gli uccelli canterini ma di più i seminatori e i coltivatori. Ognuno ha i suoi gusti.

(11 agosto 2013) © Riproduzione riservata

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