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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318438 volte)
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« Risposta #165 inserito:: Ottobre 25, 2009, 04:10:52 pm »

IL COMMENTO

L'aria torbida di fine regno

di EUGENIO SCALFARI


L'ARIA che si respira in questi giorni è di fine della seconda Repubblica. Non è detto che sia anche la fine di Berlusconi perché le due cose non sono necessariamente coincidenti. Può darsi che la fine della seconda Repubblica porti con sé e travolga chi su di essa ha regnato; ma può darsi anche che sia proprio lui ad affossarla sostituendola con una Repubblica autoritaria, senza organi di garanzia capaci di preservare lo Stato di diritto e l'equilibrio tra i vari poteri costituzionali.

Il Partito democratico ha presentato in Parlamento il 22 ottobre, con la firma di Anna Finocchiaro, Luigi Zanda e Nicola Latorre, una mozione che fotografa con efficacia questa situazione. Se ne è parlato poco sui giornali, ma è l'atto parlamentare più drammaticamente documentato del bivio cui il paese è arrivato, mentre la crisi economica mondiale è ancora ben lontana dall'aver ceduto il posto ad una ripresa.
I sintomi di questa "fin du règne" sono molteplici. Ne elenco i principali: l'attacco martellante e continuativo del presidente del Consiglio contro la Corte costituzionale e la magistratura; la definitiva presa di distanza del medesimo nei confronti del Capo dello Stato; il disagio crescente di Gianfranco Fini verso la linea del Pdl e in particolare verso le candidature dei governatori in alcune regioni e in particolare il Veneto, il Piemonte, la Campania; l'irrigidimento della Lega su Veneto e Piemonte da lei rivendicate.

E poi il dissenso sempre più profondo tra una parte del Pdl (Scajola, Verdini, Baldassarri, Fitto, Gelmini) e Tremonti e la difficoltà di Berlusconi a ricomporre questo scontro che sta spaccando in due il centrodestra; la rivolta degli artigiani del Nordest contro la politica economica del governo; l'analoga rivolta di molti imprenditori lombardi; i casi giudiziari della famiglia Mastella; i casi giudiziari di un gruppo di imprenditori collegati a Formigoni; il caso Marrazzo e le sue possibili conseguenze politiche ed elettorali; gli attacchi dei giornali berlusconiani contro Tremonti e la sua minaccia di dimettersi. Infine la preoccupazione del presidente della Repubblica che aumenta ogni giorno di più e si manifesta in ripetuti e pressanti richiami a mandare avanti le riforme in un clima di condivisione.

L'elenco è lungo e sicuramente incompleto, ma ampiamente sufficiente ad alimentare la percezione di un processo di "disossamento" del paese, d'una guerra di tutti contro tutti, di un'azione di governo basata su frenetici annunci ai quali non segue alcun fatto. Si procede alla cieca. Siamo addirittura ad una sorta di fuga del premier che si è andato a nascondere nella duma personale di Putin e lì sta ancora mentre scriviamo (trattenuto a quanto si dice da una furiosa tempesta di neve della quale peraltro non c'è traccia nel bollettino meteorologico) dopo aver disertato la visita di Stato del re e della regina di Giordania ed aver rinviato a data da destinare il Consiglio dei ministri che era stato convocato per venerdì mattina. Forse per sfuggire al chiarimento con Tremonti?
Di sicuro si sa soltanto che il nostro premier è con il dittatore russo da tre giorni durante i quali hanno parlato "anche" di affari. Insomma, tira un'aria brutta, anzi mefitica.

* * *

Per non correr dietro alle voci sussurrate o gridate, stiamo ai fatti e soprattutto a quelli economici che maggiormente interessano i cittadini, cominciando con l'annuncio (ancora un annuncio) fatto dal premier prima di partire per San Pietroburgo, di voler dare inizio ad un graduale ribasso dell'imposta Irap.
L'annuncio fu lanciato la prima volta nel 2001 e poi rinnovato nel 2005, ma seguiti concreti non ce ne furono. Questa è dunque la terza volta; ma mentre dieci anni fa nessuno si oppose all'interno del centrodestra, questa volta c'è un "no" secco del ministro dell'Economia per mancanza di copertura.
Oltre al suo, c'è anche un "no" della Cgil e delle Regioni, a fronte di un completo appoggio da parte della Confindustria.

Si discute di un'imposta voluta a suo tempo da Vincenzo Visco, che unificò nell'Irap sette imposte precedenti, destinandone il gettito al finanziamento del Servizio sanitario nazionale. Il gettito attuale dell'imposta rende 37 miliardi l'anno. Grava sulle imprese ed anche sui lavoratori così come vi gravavano le sette imposte precedenti. Il graduale ribasso annunciato da Berlusconi non è stato ancora definito nella sua concretezza, visto che spetterebbe a Tremonti di farlo ma è proprio lui che vi si rifiuta. I consiglieri del premier pensano ad una riduzione dell'imposta tra i tre e i quattro miliardi a vantaggio delle imprese, soprattutto di quelle di piccole dimensioni. I medesimi consiglieri suggeriscono di trovare la copertura utilizzando i fondi accantonati per il Mezzogiorno o quelli derivanti dallo scudo fiscale. Tremonti - l'abbiamo già detto - ha risposto con la minaccia di immediate dimissioni.

* * *

Nel frattempo ha fatto il giro di tutti i giornali un documento anonimo ma proveniente da alcuni "colonnelli" del Pdl, che avanzava una serie di critiche alla linea rigorista del ministro dell'Economia. Non si dovrebbe dar peso ai documenti anonimi senonché proprio ieri è stato presentato un documento con tanto di egregia firma da parte del presidente della commissione Finanze e Tesoro del Senato, Baldassarri. In esso la linea rigorista del ministro viene completamente smontata dal vice ministro, il quale propone tagli di spesa e diminuzione di imposte da riversare a vantaggio dei consumatori, dei lavoratori e delle imprese per un totale della rispettabile cifra di 37 miliardi.

Le dimensioni di questa manovra di fronte alla legge finanziaria del 2010 ancora in discussione in Parlamento, è imponente: 37 miliardi per modificare una Finanziaria che ammonta a un miliardo e mezzo. È evidente che in questo caso non ci saranno compromessi possibili: o viene smentito Baldassarri o se ne va Tremonti.

Ma non è tutto nel campo della politica economica. C'è la questione della Banca del Sud, che sta molto a cuore a Tremonti ed è stata già approvata nell'ultimo Consiglio dei ministri.

Si tratta anche in questo caso di un semplice annuncio sotto forma di un disegno di legge che configura per ora uno scatolone vuoto, del quale non si conoscono neppure i proprietari, cioè gli azionisti. Uno scatolone consimile fu battezzato anche dal medesimo Tremonti nel 2003, ma dopo un paio di mesi la gestazione fu interrotta per procurato aborto: la proposta infatti fu ritirata. Accadrà così anche questa volta?
La proposta (e sembra paradossale ma non lo è) incontra l'opposizione dei ministri meridionali, delle regioni meridionali, e dell'opposizione. Il perché è facile da capire: si tratta d'una banca autorizzata a raccogliere fondi sul mercato usandoli per finanziare imprese nel Sud a tassi particolarmente allettanti per i debitori. Lo Stato si accollerebbe la differenza. Si creerebbe così un circuito creditizio virtuoso per chi riceverà quei prestiti, ma un circuito perverso per le imprese già operanti con tassi tre volte più alti dei clienti della Banca. Clienti è la parola giusta perché si tratterà di una vera e propria clientela facente capo al ministro dell'Economia, fondatore e protettore della Banca in questione.

Va detto che l'agevolazione sui prestiti dovrà preliminarmente ottenere l'ok della Commissione Europea e infine quella della Banca d'Italia, la quale non sembra entusiasta d'una Banca così concepita.
Accenno a qualche altro problema più che mai aperto nella politica economica. Ho parlato prima di una rivolta degli artigiani del Nordest e del disagio tra le molte imprese che operano in Brianza. Si tratta di elettori in gran parte del centrodestra, molti dei quali finora hanno spesso intonato con convinzione il ritornello "meno male che Silvio c'è". Non pare che siano ora così entusiasti. Lamentano soprattutto due cose: la mancanza d'una riduzione fiscale tante volte promessa e mai avvenuta e il tempo maledettamente lungo impiegato dalle pubbliche amministrazioni locali e centrali per pagare i debiti contratti con quelle imprese. Una volta si trattava di 30 giorni, poi di 60; adesso ne passano mediamente 130, cinque mesi, prima di incassare qualche spicciolo.

Per rimediare a questo tardivo spicciolame, cresce
vertiginosamente il numero di piccole imprese che imboccano la via del concordato.

Si parla di concordato quando un'azienda si trovi in una situazione di pre-fallimento. Invece di fallire propone un concordato ai creditori. Un tempo il concordato si faceva intorno al 50 per cento dei crediti. Coi tempi che corrono è sceso vertiginosamente: siamo in media intorno al 20 con punte al ribasso che arrivano fino al 7 per cento. I creditori, anziché perder tutto, accettano e l'impresa può riprendere il suo cammino con un vantaggio notevole rispetto ai concorrenti. Proprio per questa ragione sta aumentando il ritmo dei concordati e non è un bel vedere perché scarica sui creditori il peso dell'insolvenza debitoria. I creditori sono in gran parte banche e questo spiega perché il credito bancario si sta progressivamente restringendo e ancor più si restringerà.

Cito un episodio che tutti i giornali hanno pubblicato ma sul quale forse l'opinione pubblica non ha riflettuto abbastanza. Il governo ha concesso notevoli incentivi all'industria automobilistica, soprattutto per quanto riguarda la rottamazione di vecchi modelli e la fabbricazione di auto non inquinanti. L'industria dell'auto ne ha avuto un discreto sollievo ma Marchionne, amministratore delegato della Fiat, ha rivelato che finora (ed è passato quasi un anno) non ha ancora ricevuto un soldo ed ha provveduto finanziando a se stesso (cioè alla Fiat) gli incentivi e scrivendo sul bilancio un credito verso l'erario. Cioè: la Fiat ha chiesto alle banche di finanziarle un credito che lo Stato non ha ancora onorato. Vedete un po' a che punto siamo.

* * *

Ci vorrebbe un programma di "exit strategy" ma ci pensano in pochi sia in Italia sia in Europa. Trichet, presidente della Banca centrale europea, ci pensa e ne parla. Draghi ci pensa e ne parla. Monti ci pensa e ne parla. Bernanke, presidente della Fed americana, ci pensa e ne parla. E basta. Cioè: ci pensano e ne parlano le autorità monetarie e alcuni esperti informati in materia. I politici di governo annaspano.
La discussione verte su due modelli: un'uscita dalla crisi a forma di L oppure a forma di W. La prima ipotesi è che si fermi la caduta ma la ripresa sia molto lenta e si dilunghi tre o quattro anni. Il secondo modello è invece che vi sia una ripresa consistente ma di breve durata, cui seguirebbe una forte ricaduta e poi una nuova ripresa. La durata di questo secondo modello è di sei o sette anni.

L'economia italiana, che procede a bassa produttività, sarebbe in entrambi i casi tra le più sfavorite e lente a dispetto di quanto i due amici-nemici Berlusconi e Tremonti vanno predicando da anni e cioè che noi usciremo dalla crisi meglio di tutti gli altri.
Le politiche necessarie per accelerare senza ricadute la ripresa economica sono diverse tra gli Usa e l'Europa. Senza entrare in troppi dettagli, per l'Europa si consiglia una robusta detrazione fiscale in favore dei consumatori-lavoratori per rilanciare la domanda interna e, insieme, una serie di provvedimenti da trasformare in legge con esecutività postergata per ribassare in misura consistente il debito pubblico. In alternativa un'imposta pro tempore sui patrimoni al di sopra di un limite, con applicazione per due-tre anni al massimo. Oppure un contenimento della spesa corrente che negli ultimi due anni non c'è stato affatto facendola lievitare di ben 35 miliardi.

Questo sì, è un dibattito serio. Il resto sono chiacchiere e annunci sgangherati, sempre più percepiti come bubbole per guadagnar tempo prima di far le valigie e andarsene.

* * *

Non posso chiudere questo mio "domenicale" senza ricordare che mentre leggete questo giornale si stanno svolgendo le primarie del Partito democratico per l'elezione del segretario nazionale e dell'Assemblea.
L'appuntamento è importante e interessa non solo il Pd ma tutta l'opposizione. Seguirò anzi il suggerimento datoci ieri da Andrea Manzella, di scrivere Opposizione, con la maiuscola perché la prova di forza dell'affluenza può anzi dovrebbe interessare l'Opposizione nella sua totalità e non soltanto gli iscritti a quel partito.

Le primarie del Pd offrono infatti all'Opposizione una piattaforma organizzativa. Sento parlare di sondaggi di un milione e mezzo o due milioni di votanti. Secondo me non sono sufficienti. Ce ne vogliono almeno tre milioni e questa sì, sarebbe una prova di forza ben riuscita.
Oggi l'Opposizione si può materializzare con tutta la forza che possiede purché superi indifferenza e scetticismo. Mi auguro che ciò avvenga per la salute della democrazia italiana.

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« Risposta #166 inserito:: Novembre 01, 2009, 10:29:31 am »

L'EDITORIALE

La preghiera del cardinale e quella di un laico

di EUGENIO SCALFARI



Sento viva gratitudine per il cardinale Carlo Maria Martini, per i suoi pensieri, per l'esempio che dà ed anche per l'amicizia che mi ha dimostrato. Infine per l'ultimo suo libro, "Meditazioni sulla preghiera" che tra pochi giorni sarà nelle librerie e di cui l'editore Mondadori ci ha autorizzato a pubblicare un'anticipazione, uscita ieri sul nostro giornale.
Stavo cercando un argomento del quale scrivere per i miei lettori della domenica e i pensieri mi si arruffavano mentre mi cresceva dentro un forte disagio. Il caso Marrazzo? L'omicidio dello sventurato Stefano Cucchi, ucciso a bastonate mentre era affidato ai carabinieri e alla polizia penitenziaria? Lo spettro della disoccupazione che avanza in Europa e nel mondo? La possibilità che D'Alema sia nominato ministro degli Esteri dell'Unione europea e Tremonti presidente dell'Eurogruppo oppure che entrambi restino dove sono? Infine lo stato miserevole della seconda Repubblica, avviata ormai verso un'agonia dalla quale difficilmente potrà salvarsi?

Mi sentivo stanco di visitare e rivisitare problemi importanti ma ripetitivi, che per di più dimostrano un tale stato di degradazione da esser diventati ripugnanti per ragioni estetiche prima che ancora morali e politiche. Sicché mi sono assai confortato leggendo la prosa del cardinale. Ho pensato di cogliere l'occasione che il suo scritto mi offriva e intervenire anch'io sullo stesso argomento.
Penso che i miei lettori ne saranno contenti.

Il tema del cardinale riguarda la preghiera dei vecchi. Detto in altro modo - e lui stesso ne fa menzione - si tratta d'una meditazione sulla morte da parte di chi, pur in buona salute, la vede approssimarsi incalzata dal calendario.

Martini è profondamente religioso, ad un punto tale da potere e volere colloquiare anche con i non credenti e mettere in comune esperienze così disparate. Io sono per l'appunto uno di quelli e meditare assieme a lui mi ha dato grandissima pace tutte le volte che tra noi è accaduto. Gli anni continuano a passare e l'esperienza di quei pensieri aumenta. Ci si sente come sentinelle avanzate su un terreno incognito. Si assiste, sempre più dolenti e partecipi, alla scomparsa di tanti amici. Ci si allontana dal mondo e lo si vede più distintamente: la vista migliora con la lontananza; lo diceva Goethe e lo disse prima di lui Montaigne.
Perciò può essere utile a noi stessi e a tutte le persone consapevoli meditare insieme su un tema così presente alla coscienza. La morte, diceva Montaigne con il suo sobrio linguaggio, è il fatto più rimarchevole della nostra vita. Bisogna pregare. Bisogna pensare.

Il cardinale cita Qoelet in uno splendido suo passo pieno di sapienza e di bellezza poetica. Io citerò ancora l'autore degli "Essais" quando diceva che bisogna portare il pensiero della morte come i signori dell'epoca sua portavano il falcone sulla spalla per abituare se stessi e l'uccello cacciatore a vivere insieme e prender dimestichezza l'uno dell'altro.
Chi non crede in un altro mondo sa che in quel certo momento tutto si concluderà; non teme l'inferno e non spera in un paradiso. Non si aspetta premi né castighi. La preghiera non saprebbe a chi rivolgerla. Può solo augurarsi d'esser ricordato da chi lo ha amato: una sopravvivenza breve, che avrà se se lo sarà meritato.
Sa anche, chi non crede, che la vita è priva di senso se il senso consiste nell'avere un fine che sorpassa il nostro transito terreno. E dunque: una vita che non ha ulteriore sopravvivenza e naturalmente senza senso alcuno perché capricciosamente finisce lasciando una traccia che si cancellerà nel giro di pochi mesi o di qualche anno in memorie altrimenti affaccendate: ebbene una vita così desertificata di infinità dovrebbe essere disperata nel veder avanzare la Donna oscura che verrà a prendersela.
Può esser serena, pacificata, confortata, una vita priva di fede? Avrà avuto un senso? Quale?

* * *

"Laudato sì mi Signore / per sora nostra Morte corporale" scrisse Francesco nel suo Cantico. Socrate, mentre sentiva che il gelo della cicuta gli stava salendo dalle gambe al cuore, disse ai suoi allievi di sacrificare un gallo ad Esculapio perché così voleva il rito, e si coprì la testa con un lembo del mantello. Pascal morì sognando d'essere in comune con i poveri e i derelitti. Rilke, in una pagina terribilmente splendida dei suoi "Quaderni" racconta la morte di suo nonno, il Ciambellano. La Morte gridò per otto settimane dentro quel corpo, ma non era lui che gridava, era la Morte finché non uscì fuori da lui. Benedetto Croce morì leggendo e leggeva sapendo che Lei stava arrivando.

Si può anche esser disperati con la fede nel cuore e non esserlo senza alcuna fede, con il falcone sulla spalla che ti è diventato amico.

* * *

Io sento da tempo che noi, come tutte le specie e gli individui viventi che le compongono, siamo forme che la natura incessantemente crea e disfa per far posto ad altre. Senza alcun disegno che non sia la vita.
È legge di ogni forma di realizzare al massimo le capacità di cui dispone. Le forme viventi non sono mai statiche ma dinamiche e ciò è vero perfino nelle forme apparentemente non viventi, è vero per gli atomi e per le particelle elementari della meccanica quantistica. È vero per ogni energia perché ogni energia è dinamica.
Non si tratta di fede ma di scienza sperimentale.
Il senso sta in questo, sta in un eterno divenire. Ogni forma ha la propria legge e diviene secondo quella legge. Noi, nella nostra forma umana, siamo animati dal sentimento dell'amore, dal desiderio del potere e dalla coscienza morale. Le nostre vite individuali combinano come possono e sanno questi elementi e questo è il senso del nostro vissuto, queste sono le stelle che orientano il nostro viaggio. Non dico viaggio terreno ma soltanto viaggio perché non ne conosciamo altri. Possiamo certamente immaginarli se ci consola immaginarli.

* * *

La vecchiaia restringe la nostra vitalità, limita le capacità del corpo e concentra quelle delle mente.
In alcuni il desiderio del potere soverchia gli altri. È patetico vedere come alcuni vecchi restino aggrappati al potere, la loro zattera di salvataggio che non li porterà ad alcuna salvezza, la loro rabbia nel vederselo strappato brano a brano, la solitudine del loro io denudato giorno per giorno dagli orpelli dei quali l'avevano rivestito.

Altri si effondono nell'amore. Non dico nell'erotismo, dico amore. Amore per gli altri e per quelli a loro più prossimi, quelli dai quali hanno ricevuto amore e ai quali l'hanno restituito.
Quando questo avviene, l'io non è solo, non è denudato, non è disperato, anzi è più ampio e più ricco. Non ha nessun bisogno di chiamarsi e di sentirsi io ma si sente noi e quella è la sua ricchezza.
Oggi è il giorno di tutti i santi, ma non ci sono santi laici, ci sono soltanto anime amorose che lasciano lungo la strada il pomposo mantello dell'egoismo e indossano quello della compassione con il quale ricoprono sé e gli altri.

Lei, carissimo cardinale Martini, ha un amplissimo mantello di compassione, di passione per gli altri. Col suo mantello ricopre anche me talvolta come il mio può ricoprire anche lei. Per questo la Nera Signora non ci spaventa. È per questo sia lei che io sentiamo nel cuore il messaggio che incita all'amore del prossimo. A lei lo invia il suo Dio e il Cristo che si è incarnato; a me lo manda Gesù, nato a Nazareth o non importa dove, uomo tra gli uomini, nel quale l'amore prevalse sul potere.

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« Risposta #167 inserito:: Novembre 04, 2009, 11:14:15 am »

L'indisponibile

di Eugenio Scalfari


Il cardinale Bagnasco, presidente della Cei, pretende che nella scuola pubblica venga insegnata solo la religione cattolica  Il cardinale BagnascoDomenica 18 ottobre il cardinale Angelo Bagnasco ha rilasciato un'intervista al 'Corriere della Sera'. Ampia. Mite. Ecumenica (nel senso che apre le braccia a tutti). Zuccherosa (nel senso che a tutti vuol bene). Del resto la Chiesa cattolica ha sempre voluto apparire così; anche se non lo è stata quasi mai. Ha sempre desiderato effondere odori di giglio. Di camomilla. Di valeriana, di tisane alla verbena. I grandi Papi no: parlavano come parlano i sovrani e sa Dio se lo erano, signori dello spirito e dei corpi, inalberando lo stemma delle chiavi che aprono le porte del Cielo e quelle della terra.

Era questo il tono del loro linguaggio. Incenerivano gli avversari, scomunicavano i nemici, capitanavano crociate, combattevano guerre e non soltanto di religione ma di potere. Così furono i Papi che la storia ricorda, da Gregorio Magno a Ildebrando di Soana (Gregorio VII), da Bonifacio VIII a tre Innocenzi (I, II e III) e poi il papa Borgia, il papa della Rovere, i due papi Medici, il papa della famiglia Borghese, il papa Farnese, il papa Barberini e via via lungo i secoli e attraverso gli scismi, le eresie, le guerre di religione, i roghi dell'Inquisizione.

Certo la Chiesa non è stata soltanto questo. La Chiesa cattolica è stata ed è un deposito millenario di valori morali, di slanci mistici, di ascesi, di fede, di esempi altissimi di fratellanza, di carità e di educazione. Ma questo deposito di valori religiosi è penetrato di rado nella cerchia della Gerarchia. I testimoni della fede e della carità sono sempre stati minoranza, spesso usata per riscattare e nascondere la vocazione temporalistica della Gerarchia e ancor più spesso tollerata con fastidio o addirittura repressa. La storia di Francesco di Assisi è molto eloquente da questo punto di vista e altrettanto lo è quella di
Gioacchino da Fiore e quella di Valdo, a finire in tempi nostri con la repressione dei modernisti e la loro scacciata dalle Università e dalle scuole, auspice il governo fascista che chiedeva in cambio la legittimazione del Vaticano.

Mi domando se l'educazione religiosa che viene impartita nelle scuole pubbliche dagli insegnanti indicati dalle diocesi contempli anche la storia della Chiesa, ma la mia è una domanda retorica: la storia della religione non c'è nell'ora di religione, ma non c'è neppure, se non per accenni, nell'insegnamento della storia. I diplomati delle scuole superiori ignorano che lo Stato pontificio ha avuto fino al 1870 la pena di morte ed ha rappresentato per secoli uno degli ostacoli maggiori alla creazione dello Stato unitario in Italia.

Ricordo queste verità per sottolineare che il popolo di Dio è una cosa, i ministri del culto e delle anime un'altra e i membri della Gerarchia un'altra ancora. I Papi poi rappresentano un fenomeno a se stante. Ce ne sono stati di grandissimi, di mediocri, di viziosi, di esemplari. Direi che gli ultimi esemplari sono stati Giovanni XXIII, Paolo VI, Papa Wojtyla. Quello attuale è un modesto teologo che fa rimpiangere i suoi predecessori.

Il cardinal Bagnasco riflette purtroppo l'aura untuosa che si respira nella Chiesa italiana, nelle sue gerarchie diocesane e in quelle curiali. Riflette anche le lotte di potere in corso in vista di future collocazioni. Sono tanti i temi sui quali la Gerarchia e la Curia sono diverse e se ne ha l'esempio più recente nella proposta lanciata pochi giorni fa da un esponente del governo dell'area vicina a Gianfranco Fini sull'istituzione di un'ora di religione islamica. Le reazioni della Chiesa vanno da chi ha accolto la proposta con grande favore, a chi l'ha dichiarata possibile soltanto in un lontano futuro, a chi - come appunto Bagnasco - l'ha giudicata inaccettabile.

Ma le stesse diversità si sono avute su problemi ancora più avvertiti dalla nostra sensibilità di cittadini italiani. Per esempio nella vasta zona dei problemi bioetici, sulla fecondazione assistita, sul testamento biologico.

Bagnasco sostiene che la Chiesa desidera soltanto di aver libertà di parola ma non vuole imporre niente a nessuno. Forse non ricorda che la Gerarchia ed anche la Conferenza episcopale da lui ora presieduta, lanciano veri e propri 'ukase' verso i parlamentari cattolici ingiungendo di comportarsi così come i vescovi e la Curia vogliono e dichiarando alcune di quelle materie 'indisponibili'. Converrà il cardinal Bagnasco che l'indisponibilità di una materia equivale e reclama un'obbedienza che si definisce 'perinde ac cadaver' e che va molto al di là della presenza della religione nello spazio pubblico. Ma un altro esempio di incoerenza sta nella pretesa che nella scuola pubblica venga insegnata soltanto la religione cattolica. La Chiesa considera la libertà religiosa come un principio basilare della convivenza civile. I laici, in tutto il mondo, la pensano allo stesso modo; pensano addirittura che la libertà religiosa sia la madre di tutte le libertà. Ma si dà il caso che la libertà religiosa valga in tutto l'Occidente salvo che in Italia, giardino del Papa.

Dovrei porre al cardinal Bagnasco la domanda del perché di questa profonda diversità. Lo chiesi tempo fa al cardinal Martini, ma lui, come Bagnasco sa, la pensa in modo radicalmente diverso da ciò che pensa la Gerarchia. Rappresenta quella Chiesa che la Gerarchia tollera con fastidio. Esiste infatti un'insuperabile discrasia tra la guida di un'organizzazione di potere e chi si preoccupa soltanto della cura delle anime. Questa discrasia non potrà mai essere risolta e la storia e la predicazione di Gesù di Nazareth ne danno ampia dimostrazione.

(22 ottobre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #168 inserito:: Novembre 08, 2009, 05:32:29 pm »

La caduta del muro nell'Italia di Berlusconi


di EUGENIO SCALFARI

RICORRE domani l'anniversario della caduta del Muro di Berlino. La fine della guerra fredda. Sono passati vent'anni e sembra un secolo. È cambiata l'Europa, è cambiato il mondo ed è cambiata l'Italia. Forse è proprio l'Italia ad aver registrato un cambiamento maggiore che non gli altri paesi.

Spesso ci sorprendiamo a dire che, al di là delle apparenze, i problemi che affliggono il nostro paese sono sempre gli stessi. Ed è vero, ma è altrettanto vero che la società del nostro paese è profondamente diversa da quella del 1989. Il suo rapporto con le istituzioni, il suo rapporto con se stessa, la percezione che gli individui hanno della propria felicità.

Su questo aspetto è necessario riflettere perché coinvolge i modi di pensare, i comportamenti, il rapporto dei padri con i figli, l'assetto delle famiglie, la politica, la democrazia. Vent'anni fa il potere si identificava con la Dc di Giulio Andreotti e il contropotere antagonista con il Partito comunista italiano. Oggi il potere è Silvio Berlusconi, e il contropotere è disperso, cerca di ricompattarsi ma non ci riesce. Ha scritto ieri Gustavo Zagrebelsky che la difficoltà va ricercata nella società civile perché sia il potere sia il contropotere emanano dal fondo del paese; non sono fenomeni che galleggiano nel vuoto, effetti privi di cause. Non si manterrebbero neppure un mese se la società esprimesse il proprio dissenso e il proprio malcontento. Se ciò non avviene, è dunque nella società civile che bisogna fissare lo sguardo.
Chiedersi che cosa è accaduto dalla caduta del Muro in poi, fino ad arrivare ai giorni nostri.

Il fatto più rilevante prodotto dalla caduta del Muro è stato la fine delle ideologie. Tutti si rallegrarono, sembrò qualcosa di simile alla rottura di un cordone ombelicale, un'immensa svolta di libertà, il passaggio dalla società dell'infanzia sottoposta a ferrea tutela ad una fase finalmente adulta di consapevolezza e di responsabilità.

Era questo il mutamento? Così fu festeggiato, non soltanto dai berlinesi e dalla Germania finalmente unificata, ma dal mondo intero.

In Italia vi fu un'analoga percezione. Dopo una lunga fase di politica ingessata con le bende dell'ideologia, si era finalmente liberi di decidere con la propria testa facendo saltare i castelli di carta, le "caste", i luoghi comuni degli spot e degli slogan. Contenuti invece di propaganda, problemi e programmi concreti invece di fittizie barriere e sterili contrapposizioni.

Il potere si spaventò: si liquefaceva il cemento che aveva tenuto insieme sensibilità e interessi contrastanti. Il contropotere ebbe analoga percezione: il crollo del Muro aveva sancito la sconfitta definitiva del comunismo e l'implosione del sistema imperiale dell'Urss. Achille Occhetto, allora segretario del Pci, proclamò la fine del Partito comunista e l'approdo sulla sponda democratica concludendo così la lunga e decennale marcia di avvicinamento iniziata da Enrico Berlinguer.

Niente più ideologie e finalmente una democrazia compiuta. Nel resto d'Europa non vi furono, almeno in apparenza, fatti così traumatici. Quasi in nessuna delle grandi democrazie esistevano partiti comunisti di massa. In alcuni non ce ne era neanche l'ombra. Al di là delle apparenze tuttavia, i mutamenti furono altrettanto profondi. Per tutta la seconda metà del XX secolo infatti la politica aveva adottato sistemi di liberaldemocrazia sociale e mercati economici liberi ma regolati da norme, meccanismi di redistribuzione del reddito in favore dei ceti più deboli, interventi pubblici nella sanità e nella previdenza. Fu una grande stagione di liberal-socialismo, seguita ad una guerra rovinosa cui subentrò un sentimento di pacifismo largamente diffuso.

La caduta del Muro sancì la sconfitta storica del comunismo e liberò energie insofferenti di ogni regola, anche di quelle che presidiavano lo Stato sociale. L'implosione del comunismo produsse effetti anche sui partiti socialisti e socialdemocratici. Il pendolo non si arrestò a mezza strada. Non ci furono traumi, ma una graduale erosione della sinistra europea che durò a lungo ed è infine esplosa in tutta Europa.

* * *

In Italia il trauma della caduta del Muro ebbe come suo primo effetto una ribellione della società civile contro la corruttela che nel corso degli anni Ottanta era diventata sistema di governo decaduto al rango di comitato d'affari della partitocrazia. L'inchiesta giudiziaria che fu poi denominata "Mani Pulite" contro la "Tangentopoli" della casta al potere era stata preceduta da una sorta di furore che mobilitò per la prima volta non solo la sinistra ma gran parte dei ceti medi. Non era mai accaduto, il vincolo della guerra fredda imponeva che gli steccati ideologici venissero scavalcati e che si formasse una sola opinione pubblica.

Senza questo vero e proprio trauma, l'inchiesta giudiziaria del 1992 non sarebbe avvenuta e comunque non avrebbe avuto l'appoggio trascinante che si verificò. Sbaglia chi oggi sostiene che le forze politiche di governo furono decapitate dai magistrati "rossi": Borrelli era un liberale, Di Pietro e Davigo più di destra che di sinistra; gli altri membri del "pool" si identificavano soprattutto con il loro ruolo di magistrati e non hanno mai smentito con i fatti questa loro lodevole identificazione.

Il furore popolare durò fino al '93, poi sbollì con la stessa rapidità con la quale si era manifestato. E rifluì.
Il grande e sempre più indistinto ceto medio di vocazione moderata era stato il vero protagonista della distruzione dei partiti di governo. Aspirava ad una rappresentanza politica e ad una partecipazione diretta. La classe operaia si era sfaldata, un ceto di artigiani, piccoli e piccolissimi imprenditori-lavoratori aveva popolato di officine e capannoni la larga fascia che da Brescia si irradia verso Treviso da un lato e la Romagna e le Marche dall'altro.

Milioni di persone non avevano altro desiderio che di abbattere i famosi "lacci e laccioli", cioè le regole che presidiavano il corretto funzionamento del mercato, e di poter correre, anzi galoppare in una sterminata prateria dove mettere alla prova le loro capacità di iniziativa e di laboriosità. Magari aiutandosi anche con il lavoro nero e con l'evasione fiscale contro le dissipazioni di "Roma ladrona".

La Lega lavorò su questo tessuto sociale. Berlusconi lo amplificò su scala nazionale. Tutti e due ci misero dentro una robusta dose di paura per la sicurezza personale e fu questo il cocktail micidiale che fece oscillare il pendolo politico dal furore moralistico dei primi anni Novanta verso la destra. Ma quale destra?
Non starò qui a ricordare le caratteristiche di questo movimento che vide in Berlusconi l'Uomo della Provvidenza. Dico soltanto che nel frattempo la percezione della felicità era profondamente cambiata: si vive attimo per attimo e in ogni istante si può e si deve spremere il succo di una felicità da godere qui e subito. La trasmissione della memoria si è bloccata. Il futuro è sulle ginocchia di un Dio, dovunque si trovi e ammesso che ci sia. Si confida comunque nei miracoli e meno male che Silvio c'è.

Fino a poco fa eravamo a questo punto.

* * *

Nel frattempo il vecchio Partito comunista aveva buttato alle ortiche il suo nome ma non si era sciolto per rifondarsi eventualmente su nuove basi ideali e sociali. Aveva cercato di preservare le proprie strutture, la propria classe dirigente, i propri insediamenti organizzativi. Perdendo per strada la parte ancora fortemente ideologizzata che non aveva digerito il contraccolpo della Bolognina. Guidato da D'Alema, poi da Veltroni, poi da Fassino. E fu proprio Fassino a mettere la parola fine, quella veramente definitiva, fondando il Partito democratico insieme ai cattolici e ai liberaldemocratici della Margherita.

Questa è stata la novità prodotta dall'Italia non berlusconiana. In mezzo a molti errori e a deplorevoli rivalità, la nascita di un partito democratico e riformista è stato il principale strumento d'una possibile ripresa quando il grosso della società civile deciderà che la strada del berlusconismo sta per sboccare in una rischiosissima avventura.

* * *

"Di fronte al fantasma che si aggira per l'Italia in queste ultime settimane, cioè alla proposta di un'elezione popolare diretta del Primo Ministro o del Capo dello Stato, non mi spavento ma mantengo tutte le gravi obiezioni che ho già altre volte espresso nei confronti di ogni forma di presidenzialismo. Non è certo un modo comprensibile alla gente, il parlare, un giorno dopo l'altro, in forme confuse e contorte, di vari presidenzialismi più o meno importati, dei quali anche coloro che le propugnano non hanno manifestamente conoscenza adeguata e meditata.

Credo inoltre che far ruotare per intere settimane una crisi politica intorno a problemi costituzionali sia pure urgenti, equivalga ad una contorsione violenta della soluzione politica di problemi attualissimi e preliminari. Essi sono: l'avvio più deciso del risanamento delle finanze pubbliche, la crescente emergenza disoccupazionale, soprattutto giovanile, la soluzione dei nodi vitali del Meridione, le regole per una disciplina antitrust e quelle per un'informazione pubblica oggettiva e paritaria.

Questo 'urgente più urgente' sembra essere ignoto o comunque del tutto posposto dai principali protagonisti di questa crisi politica che sembrano altrettante maschere tragiche di questa assurda vicenda".

Questo testo non è mio né è stato scritto oggi. L'autore è Giuseppe Dossetti e la data è il 2 febbraio 1996, vigilia d'una campagna elettorale che portò il centrosinistra di Romano Prodi alla guida del Paese. Il berlusconismo non era ancora nella sua pienezza tant'è che fu sconfitto, ma aveva già conquistato una parte notevole della società italiana come si vide pochi anni dopo quando Prodi fu abbattuto anzitempo da "fuoco amico".

Richiamo l'attenzione di chi mi legge sulle parole di Dossetti. Il presidenzialismo può essere uno dei modi della democrazia se rispetta ed anzi rafforza i poteri di controllo, i poteri di garanzia, i poteri neutri e insomma lo Stato di diritto; ma può esserne la tomba se si propone come unico potere autoritario e plebiscitario.

A questo sta mirando il presidente del Consiglio, che comincerà tra breve con una riforma della giustizia con due obiettivi: bloccare i processi che lo riguardano e smantellare il Consiglio superiore della magistratura. Intanto prosegue lo smantellamento di ogni pluralismo nella Televisione pubblica.

Seguirà il tentativo di cambiare la composizione della Corte Costituzionale per renderla più arrendevole al potere politico. Sarà infine la volta di un mutamento radicale della Costituzione con l'elezione diretta del Capo dell'Esecutivo, quando già i poteri di controllo e di garanzia saranno stati resi evanescenti.

Questa è la situazione in cui ci troviamo vent'anni dopo la caduta del Muro e delle ideologie. Sono cadute tutte ma una ne è rimasta ed è molto più ingigantita: è l'ideologia del potere per il potere, il potere intoccabile e incontrastato, una sorta di Leviatano del XXI secolo che ha nelle sue mani le tecnologie del XXI secolo: un altro cocktail micidiale. Perciò è l'ora di serrare i ranghi e non sparpagliarsi. Ed è ora che la società civile prenda coscienza di quanto accade e assuma su di sé la responsabilità di metter fine a questa sciagurata avventura.


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« Risposta #169 inserito:: Novembre 09, 2009, 03:08:24 pm »

Quel filo che lega il nord al sud

di Eugenio Scalfari


I piemontesi uccisero migliaia di giovani in Sicilia, Calabria, Campania e Basilicata.
Ma la conquista militare fu portatrice anche di un ideale di nazione e di riscatto sociale
 
Per l'ennesima volta si è riaperta la discussione, ma vorrei dire la diatriba, sull'unità d'Italia, cioè sull'annessione (militare) del Sud al Nord, insomma sul Risorgimento. Antica diatriba. Alimentata dall'antica ostilità della cultura cattolica dell'epoca del temporalismo religioso, poi superata dal costituzionalismo di Dossetti e dal liberalismo cattolico di De Gasperi, dall'antica dissidenza del comunismo gramsciano, poi superata dalla mitologia dell'alleanza classista tra operai del Nord e contadini del Sud. Dal leghismo di Bossi, non superato e anzi rinforzato dal nordismo berlusconiano. Dal revisionismo antigaribaldino e antimazziniano dei neoconservatori che hanno teorizzato e mitizzato la storia dei vinti.

Con questi precedenti e in presenza delle varie e tutte riduttrici e negazioniste interpretazioni del Risorgimento, si è riaperta la diatriba, resa attuale dall'imminente celebrazione dei 150 anni dell'Unità, patrocinata dal Quirinale da un lato e dai neo-federalisti della Lega dall'opposta sponda.
Questi ultimi hanno rimesso sul tavolo l'accusa della conquista miliare e delle migliaia di giovani uccisi dalle truppe piemontesi in Sicilia, in Calabria, in Basilicata e in Puglia per il solo motivo di cospirare e insorgere contro lo Stato nato da annessioni plebiscitarie e quindi democraticamente sospettabile.

Negare i fatti è impossibile: quelle esecuzioni sommarie ci furono. Il loro numero è controverso, ma ci furono e furono molte. Opporre ad esse le esecuzioni ancor più sommarie e raccapriccianti effettuate dalle bande contadine ribelli, serve a poco perché diversa è l'irresponsabilità dei ribelli di fronte a stragi di Stato eseguite per ordini superiori. In effetti non si trattò d'una semplice operazione di polizia ma d'una vera guerra civile che durò quasi dieci anni e insanguinò tutto il
Mezzogiorno. Ufficialmente le fu dato il nome di guerra contro il brigantaggio e tale fu perché i briganti ne furono il motore propulsivo, ma in quelle bande c'era anche l'ispirazione e la militanza sanfedista e l'omertà contadina che temeva e odiava il latifondo dei signori e il loro diritto di "bassa giustizia" legalmente esercitato e ampiamente tollerato dall'amministrazione del nuovo Stato unitario.

Questi i dati di fatto, ai quali però occorre aggiungere un paio di premesse prima di passare al merito, cioè al nucleo politico e sociale della discussione. La prima osservazione riguarda l'atteggiamento delle plebi urbane e specialmente napoletane, che emerse sempre allo stesso modo e con gli stessi connotati in quel lungo arco di anni che va dal 1798 al 1867, settant'anni di cronaca e di storia.

Abbiamo detto plebi perché di plebi, di 'lazzari' si trattava; senza alcuna sensibilità politica e civile, senza alcun addestramento professionale e culturale. Seguivano di volta in volta i demagoghi che scaturivano dal ventre profondo della ribellione contro l'ordine costituito (quale che fosse la sua natura e la sua legittimazione); seguivano il loro desiderio di saccheggio, di vendetta per le numerose umiliazioni subite, la loro rabbia contro la sbirraglia, le voglie di regolare i conti privati nel tumulto delle sommosse.

Queste erano le plebi urbane. Furono con i francesi nel '97, contro di loro nel '98, contro il re quando era in fuga, contro i giacobini quando tornò la flotta di Nelson. In tre anni cambiarono fronte tre volte insanguinando la città e mettendola a sacco. E così continuarono dopo il ritorno della monarchia, convertendosi al garibaldinismo nei pochi mesi del suo trionfo.
Le plebi urbane erano lo specchio ingrandito delle plebi contadine dei paesi e dei villaggi. E i signori che le vessavano in modi inumani erano della stessa infima qualità. Sicché prosperava il brigantaggio, il sanfedismo, il trombone, il pugnale, l'usura e la prima semente di mafia e camorra.

Il Mezzogiorno era tutto così e soltanto così? No. Minoranze di alto livello e punti di eccellenza, come oggi si direbbe, non mancarono. Ma erano, appunto, minoranze senza collegamenti tra loro, scuole private, piccole cerchie costrette alla cospirazione e spesso imprigionate e condannate a pene durissime. Oppure emigrate a Torino, in Svizzera, a Londra.

Questa era la situazione del Mezzogiorno. Ci fu una possibilità o meglio un'ipotesi di sbocco politico con Murat, prima e immediatamente dopo il naufragio dell'impero napoleonico. Un'altra - quanto mai effimera - nel '48. Un'altra ancora nel '60 e fu l'unica che ebbe uno sbocco politico. Purtroppo l'inadeguatezza garibaldina rese impossibile una soluzione democratica della crisi e aprì la strada alla conquista militare con tutto ciò che derivò da essa.

Tuttavia - e qui siamo al nocciolo della questione - la conquista militare fu portatrice anche di un ideale di nazione e di riscatto sociale. Se vogliamo un confronto storico - con tutte le riserve che esso richiede, ma utile comunque alla miglior comprensione dei fatti e della loro dinamica - pensiamo alla guerra di secessione americana, alle stragi che comportò, all'affarismo e alle vendette private che l'accompagnarono e infine al solco che segnò tra gli Stati del Sud e l'Unione. Il razzismo ne fu una delle conseguenze più drammatiche. Ma è anche vero che da quella guerra ebbe inizio l'esistenza degli Stati Uniti d'America come soggetto di politica interna ed internazionale. Certo in America non esisteva il problema del potere temporale della Chiesa, aggravante tutt'altro che marginale della situazione italiana.

Il risorgimento non è stato e non deve essere un'agiografia e tantomeno una olografia. Ma il legno storto con il quale l'Italia fu costruita era pur sempre la sola materia prima disponibile. Del resto usare il legno storto è stata storia comune di tutta l'umanità socievole e sociale. Il perfezionismo coincide con l'utopia; può servire come modello di riferimento e aspirazione purché sia chiaro che non si raddrizzano le zampe dei cani e non si accorciano i colli delle giraffe.

(05 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #170 inserito:: Novembre 15, 2009, 10:38:34 am »

POLITICA

       
Silvio c'è, ma lavora solo per sé, non per voi


di EUGENIO SCALFARI

Domenica scorsa, cogliendo l'occasione offerta dalla celebrazione della caduta del Muro di Berlino, mi sono chiesto se nei vent'anni successivi fosse cambiata la percezione della felicità, individuale e collettiva. Ed ho risposto che sì, la percezione della felicità è da allora molto cambiata. Non abbraccia più il futuro; si è ristretta al presente e dunque è molto più effimera di prima perché il presente è un punto estremamente fuggitivo, non è una linea che si proietti in avanti verso le generazioni successive alla nostra. Il concetto di felicità ha perso la sua dinamica. Questo mutamento ha prodotto effetti rilevanti nella politica e nell'economia. Gran parte della crisi mondiale si deve a questi effetti. In Italia è stato avvertito con maggiore intensità che altrove.

Il fenomeno Berlusconi si spiega anche come conseguenza del nuovo modo di concepire la felicità. Nello stesso senso si spiegano le difficoltà del presidente Obama sul tema della sanità: gran parte degli americani teme che quella riforma comporti pesanti gravami fiscali e si rifiuta di sopportarli; non vuole pagare oggi il costo d'una riforma che darà maggiore assistenza in futuro.

Esiste un nesso molto stretto tra la nuova legge "ad personam" che salverà il nostro presidente del Consiglio dai processi pendenti nei suoi confronti e la sua popolarità. Quella legge è percepita da una parte rilevante dell'opinione pubblica come un'evidente violazione del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

La prova di quanto sia diffusa questa percezione sta nella immediata, straordinaria adesione popolare all'appello lanciato ieri su Repubblica da Roberto Saviano, che chiede al presidente del Consiglio di ritirare quella "norma del privilegio". E che sia tale, del resto, i sostenitori di quel provvedimento non ne fanno mistero. Lo stesso Berlusconi lo riconosce ed infatti esso è approdato in Parlamento come sostitutivo della legge Alfano che stabiliva la non processabilità del presidente del Consiglio.
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Gli italiani sono dunque consapevoli del privilegio - ingiusto come tutti i privilegi - che il premier otterrà dalla sua docile maggioranza parlamentare, ma gran parte di essi sembra comunque disposta a tollerare che quel salvacondotto divenga legge dello Stato. Si attende però una contropartita, si attende cioè di poter beneficiare del clima di lassismo morale che quel privilegio e la legge che lo sancisce estenderà a tutte le furberie, le elusioni, l'indebolimento delle regole o addirittura la loro eliminazione che contrassegnano il carattere nazionale. I condoni scaricano il peso sulle future generazioni ma alleviano chi vive nel presente. La legge che estingue i processi del premier e quelli similari al suo è una sorta di condono, una parziale amnistia e come tale è gradita.

Gli effetti moralmente perversi e le deformazioni che ne derivano riguardano il futuro, ma il futuro ha perso interesse di fronte ad un presente più facile, a regole sempre più esangui, a reati sordidi degradati al rango di peccati veniali.

Il presidente del Consiglio è intelligente, specie quando si tratta di tutelare i propri interessi. Se la legge che estingue i suoi processi gli procurasse un calo vistoso di popolarità, probabilmente non ne reclamerebbe l'approvazione. Probabilmente affronterebbe i processi sperando nell'abilità dei suoi avvocati. Ma pensa che lo smottamento della sua popolarità non ci sarà oppure sarà di modeste proporzioni e quindi va avanti, disposto se necessario ad appellarsi al popolo e voglioso di trasformare lo Stato repubblicano in un regime autoritario senza più ostacoli né controlli che tarpino le ali ai suoi desideri.

La potenza mediatica concentrata nelle sue mani gli consente inoltre di raccontare a proprio vantaggio una inesistente realtà, cancellando tutto ciò che possa ostacolare il processo di beatificazione della sua immagine. "Meno male che Silvio c'è" intonano i devoti.
Senza di lui - così raccontano i nove decimi dei mezzi di comunicazione - le catastrofi si accumulerebbero. Quelle che avvengono e che sono innegabili derivano da fattori esterni o dall'odio delle opposizioni che gli impediscono di lavorare.

Nonostante tali ostacoli tuttavia, il governo ed il suo Capo lavorano e sostengono una situazione che senza di loro diventerebbe disperata. E qui comincia l'elenco dei risultati miracolosi già realizzati e quelli ancor più mirabili che stanno per avvenire. Volete bloccare tutto ciò? Tutti questi fatti mirabili che vi consoleranno nei prossimi mesi delle vostre attuali afflizioni?

* * *

Questa è dunque la partita in corso tra il premier e chi gli si oppone. Non sto a ripetere le caratteristiche che rendono inaccettabile l'ennesima legge "ad personam", l'inverecondo salvacondotto che il potente imputato reclama. Ne accennerò soltanto alcuni.

Primo: le leggi che cambiano le procedure giudiziarie non sono mai retroattive, riguardano i nuovi processi e non quelli in corso. Quando le loro disposizioni sono più favorevoli per gli imputati, quelli dei processi in corso possono chiederne l'applicazione che viene decisa dal giudice. Nel nostro caso invece la retroattività è disposta dalla legge.

Secondo: l'elenco dei reati esclusi dal processo breve contiene casi incongrui e stridenti rispetto all'ordinamento. Si include nel processo breve la corruzione e la concussione, ma si esclude invece il furto e il reato di clandestinità per il quale la pena edittale prevede una semplice contravvenzione. Sono soltanto due esempi, ma molti altri ce ne sono e certamente emergeranno durante l'iter parlamentare.
Terzo: cadranno in prescrizione decine di migliaia di processi alcuni dei quali molto gravi, lasciando senza giustizia le parti offese e "graziando" fior di mascalzoni.
Quarto: il processo breve è riservato agli imputati in primo grado di giurisdizione e non riguarda per ora quelli del secondo e del terzo grado.

Esistono insomma ragioni plurime di discriminazione e altrettanto plurimi motivi di incostituzionalità. Vedrà il presidente della Repubblica se - a legge approvata - quei motivi risulteranno manifestamente fondati oppure saranno rimessi al vaglio della Corte costituzionale. Ricordo soltanto che la legge Alfano è stata cancellata dalla Corte perché discriminava. Quali che siano stati gli artifici dell'avvocato Ghedini, questa legge è altrettanto discriminatoria e "personale", con la differenza aggravante di recare vistosi danni all'ordinamento che invece non era toccato dalla legge Alfano. Insomma una pezza a colore che rende il buco ancor più evidente.

* * *

Veniamo ai supposti benefici che questo governo avrebbe procurato al Paese e ai cittadini che lo abitano.

I rifiuti sgombrati da Napoli. È vero. Purtroppo altrettanti rifiuti stanno sommergendo Palermo ma di questi si parla pochissimo perché il Capo non gradisce.
Le case ricostruite a L'Aquila e in Abruzzo. È parzialmente vero. Le casette pagate dalla Croce Rossa e dalla Provincia di Trento sono in avanzata messa in luogo.

Tardano gli altri manufatti e tarda la ricostruzione del centro storico.

L'inverno è cominciato e sono ancora migliaia i terremotati ospitati nelle tende con gravi disagi.
La sicurezza dei cittadini non è affatto migliorata. Forse era stata percepita al di sopra delle realtà, ma questa iperpercezione sta ora confrontandosi con una situazione concreta che non è particolarmente tranquillizzante. Alcuni reati sono in diminuzione, altri ancor più odiosi sono in aumento. Tra questi la caccia agli omosessuali e gli stupri stanno creando serissimi problemi.

Il flop delle ronde civiche è sotto gli occhi di tutti.
Altrettanto lo è la situazione miserevole della polizia di Stato, scarsa di mezzi e di personale.

La politica del Mezzogiorno è a dir poco latitante. Un terzo del paese è abbandonato a se stesso. Le differenze di reddito con il Nord sono aumentate. Le forze della camorra e della 'ndrangheta non danno segni di indebolirsi malgrado arresti e retate delle Forze dell'ordine perché ad ogni arrestato ci sono altre nuove reclute e nuovi capi.

Il federalismo è ancora un guscio vuoto del quale si ignorano i costi e i benefici.

I treni dei pendolari continuano ad essere uno scandalo nazionale.

La messa in sicurezza di paesi e città costruiti a ridosso di colline e monti franosi non fa un solo passo avanti: gli enti locali e la Protezione civile si palleggiano competenze e responsabilità ma non ci sono fondi per gli interventi o sono destinati ad altri usi. Perciò si continua a morire di morte annunciata.
Egualmente di morte annunciata si continua a morire per incidenti sul lavoro.

Egualmente non si fanno passi avanti nella sicurezza delle scuole, delle quali un'altissima percentuale è stata dichiarata insufficiente, inadatta o addirittura pericolante.

Il precariato sta già esplodendo e più esploderà nei prossimi mesi. La stessa sorte incombe sulle piccole e piccolissime imprese, tanto al Sud quanto al Nord e al Centro. Ma qui siamo sul terreno dell'economia che merita un discorso a parte.

* * *

Il "dominus" responsabile della politica economica è Giulio Tremonti, ma il Capo del governo che sta sopra di lui gli indica gli obiettivi che a lui più interessano. Bisogna dunque considerarli insieme nella concordia discorde nella quale hanno fin qui operato.
Tremonti sostiene di essersi accorto per primo della crisi internazionale incombente. Tuttavia le sue prime mosse furono del tutto incongrue rispetto alla crisi in arrivo.

Soprattutto lo fu l'abolizione dell'Ici, ma qui la responsabilità non è sua: giustizia vuole che la si addossi al premier. Aveva promesso in campagna elettorale quell'abolizione e impose a Tremonti di adempiervi.

Gli impose altresì di "non mettere le mani nelle tasche degli italiani", altro vincolo poco compatibile con la tempesta in arrivo. Il vincolo è stato in apparenza rispettato, ma la pressione fiscale e contributiva è aumentata ed ha segnato in questi mesi il suo massimo storico. Non è previsto che scenda nel prossimo futuro ed è lo stesso Dpef (documento ufficiale del ministero del Tesoro) a certificarlo. Questo aumento della pressione fiscale è in contrasto con il vincolo di "non mettere le mani" eccetera. In parte si può spiegare con la diminuzione del reddito dovuta alla crisi, in altra parte con imposte pagate da soggetti nuovi entrati da poco nella platea dei contribuenti.
Vantaggi da questa parte, zero.

È stato più volte dichiarato da parte del Tesoro che i conti pubblici sono stati messi in sicurezza. È falso. Il deficit rispetto al Pil ha superato il 5 per cento e l'Europa ci ha imposto il rientro sotto al 3 per cento entro il 2012. L'avanzo netto è stato azzerato. Lo stock di debito pubblico è di nuovo ai massimi e salirà ancora nel 2010 (Dpef). Quindi la finanza pubblica non è stata affatto risanata, Bruxelles ce lo fa presente una volta al mese.

Nel frattempo è cresciuta la spesa. Molto cresciuta. Ma non è riuscita a rilanciare i consumi che stanno pericolosamente diminuendo. I commercianti sono infatti in allarme rosso.

Nei giorni scorsi si diffuse una grande euforia dal governo, dal premier, dalle associazioni industriali, perché sembrò che in agosto ci fosse stata un'impennata improvvisa della produzione industriale. Non era in realtà un'impennata ma un modesto recupero del 6 per cento rispetto al crollo registrato nel 2009 sul 2008. I media presidenziali lanciarono al cielo grida di giubilo e chi raccomandava prudenza nei giudizi fu insultato come Cassandra antitaliana. Bene. In settembre c'è stato di nuovo una cifra pesantemente negativa nella produzione industriale e in ottobre altrettanto. Ora siamo addirittura sotto il crollo dell'anno precedente. Ma questo sarebbe ancora poco.

Aumenta la disoccupazione e aumenterà ancora di più nei prossimi mesi e nei prossimi anni perché quand'anche cominci una sia pur timida ripresa, essa non sarà foriera di nuova occupazione. Questo fenomeno è mondiale e non soltanto italiano, perciò ineluttabile. Sono stati presi provvedimenti per far fronte ad una situazione di questa gravità? Nessuno. Non è neppur vero che tutti i disoccupati siano assistiti, manca un sistema efficace e integrale di ammortizzatori sociali e non è alle viste nessun provvedimento in materia.

Di riforme sociali neppur l'ombra. Di liberalizzazioni idem. Sono invece alle viste alcuni nuovi carrozzoni pubblici tra i quali si distingue la famosa Banca del Sud, che saranno fonte di sprechi e di clientele all'assalto.

Nel frattempo l'Italia ha perso peso in Europa e sullo scenario mondiale.

Dei vantaggi procurati al Paese non c'è dunque traccia alcuna. Al contrario.

Poiché quanto è stato fin qui detto si basa su dati ufficiali di agenzie internazionali e dello stesso governo, è falso che questa sia una fantasiosa ricostruzione della realtà. La fantasiosa ricostruzione è invece quella del governo che, a dispetto dei dati dallo stesso diffusi, magnifica risultati che le sue stesse cifre smentiscono. Si tratta di improntitudine, o faccia di bronzo che dir si voglia.

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« Risposta #171 inserito:: Novembre 22, 2009, 05:23:17 pm »

Il mondo degli uomini senza qualità

di EUGENIO SCALFARI


IL PIU' bello, il più intenso, pieno di significati che vanno al di là dell'epoca in cui fu scritto è il dialogo di Diderot che si intitola "Le Neveu de Rameau".
Il protagonista è un tipo umano che l'autore delinea in tutte le sue sfumature facendolo parlare di sé per 150 pagine. Non è neppure un dialogo perché l'interlocutore che formula le domande e che è lo stesso Diderot si limita a sollecitare le risposte. Il protagonista non si fa pregare, è perfettamente consapevole di sé, del suo modo di vivere, dei suoi vizi, della sua intelligenza, della sua disumanità. Anzi: della sua amoralità. Non è immorale ma appunto amorale. Ha perso ogni cognizione della morale, ha cancellato il bene ed il male dal suo orizzonte mentale. I suoi vizi li usa quando sono utili al proprio interesse, altrimenti li tiene a guinzaglio, li reprime.
Si maschera. Si presenta al mondo che lo circonda così come il mondo lo vuole. La dominante del suo carattere è l'utile, l'utile per sé.

Questo tipo umano, l'ho già detto, va molto al di là dell'epoca sua. Infatti è stato più volte raffigurato, con qualche differenza rispetto al prototipo che deriva dalle diversità di scrittura degli autori che sono rimasti affascinati da quel tipo umano che ha fatto della disumanità la sua divisa.

Dostoevskij fece qualche cosa di simile scrivendo "Memorie del sottosuolo", dove il personaggio appare ancor più simile al prototipo, ma con un tratto di malvagità in più rispetto all'originale.

Infine se ne occupò anche Rilke nei suoi "Quaderni di Malte Laurids Brigge", dove racconta che l'uomo dispone di molti visi. Esiste da qualche parte un deposito di visi. Quando una persona ha consunto il suo viso e desidera indossarne uno nuovo e diverso, va in quel deposito e ne trova uno che meglio si adatti ai suoi desideri e ai suoi bisogni. Alcuni ne cambiano molti nel corso della loro vita; altri ne consumano meno. Altri ancora, ma sono pochi, restano fino alla morte col proprio viso. Non è detto che siano i più fortunati.

Nessuno degli autori di questo genere di letteratura ha però raggiunto l'eleganza letteraria e la profondità filosofica di Diderot e la ragione credo sia questa: Diderot sapeva che la morale non è scolpita una volta per tutte ma è un prodotto dell'epoca e quindi relativa. Sapeva anche che l'uomo ha scoperto il bene e il male nel momento stesso in cui ha perso l'innocenza in cui vivono tutti gli altri esseri viventi.

Il "Nipote di Rameau", così l'uomo del sottosuolo, si disumanizzano e in questo modo riacquistano l'innocenza nel senso che perdono la cognizione del bene e del male. Non resta loro che l'istinto della sopravvivenza ed è questo soltanto che guida i loro comportamenti.

Diderot aveva chiarissimi questi elementi conoscitivi ed è questa la ragione per cui il suo dialogo è un pezzo letterario di ineguagliabile potenza espressiva.

* * *

I miei lettori si domanderanno perché ho citato ancora una volta il "Neveu de Rameau" (m'è accaduto di farlo in altre occasioni) e quale pertinenza esso abbia con l'attualità della quale dovrei occuparmi.

A parte il fatto che la nostra attualità è da qualche tempo trita e ritrita e non presenta eccezionali novità, sta di fatto che il tipo umano (disumano) delineato da Diderot sta diventando al giorno d'oggi sempre più numeroso. È un settore della società in crescita esponenziale. Nella classe dirigente, ma anche nei ceti sottostanti. Del resto l'uomo del sottosuolo non fa parte della classe dirigente se non in funzione servile.

Servile, ma essenziale: ne riecheggia i desideri, ne soddisfa i bisogni, si incarica di condurre a termine le operazioni abiette, è la controfigura dei potenti quando si tratti di questioni troppo delicate e rischiose. Funge anche da buffone di corte; per divertire il suo signore e ricordargli qualche spiacevole verità. Rigoletto è un altro tipico uomo del sottosuolo che però, se offeso nel profondo, riscopre la sua dignità e sa anche vendicarsi. Perciò servirsi senza il senso della misura di personaggi di tal fatta comporta anche qualche pericolo.

Bisognerebbe chiedersi la ragione per cui la popolazione di quel tipo umano (disumano) sia tanto in crescita. La risposta è già stata data molte volte: insicurezza, paura del futuro, ripiegamento sul presente, percezione rachitica della felicità scandita sull'attimo d'un presente fuggitivo senza proiezioni verso l'avvenire, indifferenza diffusa verso la sorte degli altri, gelosia verso le fortune altrui, sopravvalutazione dei meriti propri. Furbizia nell'elusione delle regole. Cortigianeria. Crollo (apparente) delle ideologie in favore d'un pragmatismo diventato a sua volta ideologico.

Vi basta? Molti di questi elementi psicologici fanno parte da gran tempo dei connotati italici. Ma in certi segmenti della nostra storia diventano dominanti e questo è uno di quei momenti. Ecco perché quel tipo umano (disumano) è diventato moltitudine. Con qualche picco rappresentativo.

* * *

Voi pensate a Silvio Berlusconi, ma vi sbagliate di grosso. Berlusconi non è un uomo del sottosuolo, al contrario. Ha un senso pronunciatissimo della propria personalità.
Non è affatto appiattito sulla felicità presente, anzi ha costruito un impero e una delle sue maggiori preoccupazioni è quella di conservarlo, accrescerlo e capire a chi dovrà lasciarne il controllo dopo di lui.

È vero che ama travestirsi per ottenere il pubblico favore, ma questo è proprio di tutti quelli che fanno politica, anche i migliori. Figuriamoci lui.

Non so neppure se abbia letto il "Nipote di Rameau" ma una cosa è certa: Berlusconi ha fatto e fa di tutto per far crescere quella genia, l'ha chiamata in servizio, la usa, la riempie di benefici, se ne serve come d'una massa gelatinosa che lo ripara dagli urti esterni, arrotonda gli angoli, devia i colpi e soprattutto fa mostra di credere sempre e dovunque al verbo che emana dalle sue labbra.

Non sto parlando di chi crede veramente in lui. Ce ne sono, avendo bisogno d'una fede profana l'hanno trovata e se la tengono stretta. Ma sto parlando della sua truppa, della coorte palatina che lo circonda, lo protegge, esegue i suoi ordini e anticipa i suoi desideri. In quella coorte non c'è nessuno che crede alle sue parole, ai suoi disegni, alle sue strategie. Sanno che è il più bravo dei comunicatori. Sanno che la loro felicità dipende da lui. Sanno che lui funziona a meraviglia in situazioni di emergenza. Perciò fanno in modo che l'emergenza ci sia e duri il più possibile. Quando non ci sarà più, saranno tempi duri per lui ma soprattutto per loro.

Vi pare che in un paese normale uno come Schifani diventerebbe presidente del Senato, seconda carica dello Stato? Uno come Gasparri ministro prima e capogruppo dei senatori poi? Uno come Bondi ministro e coordinatore del partito? Con le poesie che scrive? Uno come Minzolini direttore del Tg1? Uno come Tarantini, amico di casa? E uno come Cosentino membro del governo?

Di gente così ce n'è in tutti i partiti ed anche nel mondo degli affari, ma una concentrazione di talenti analoghi a quelli descritti da Diderot c'è soltanto
attorno al Cavaliere.

Quelli del suo giro che non hanno analoga caratura non vanno bene per lui. Fini non va bene. Casini non va bene. Tremonti non va bene. Scajola così così. Ma il suo ideale è Belpietro, un alano da riporto. Non so se ne esistono in natura, ma lui lo è ed è prezioso.

* * *

Qualche giorno fa Pierluigi Battista ha scritto un succoso pezzo sul Corriere della Sera dove si domandava: quando Berlusconi non ci sarà più (politicamente s'intende) che faranno tutti quei giornalisti e uomini politici abituati a vivere parlando male di lui a getto continuo? Per loro saranno guai. Riciclarsi non sarà facile. Dovranno adattarsi ad una difficile vecchiaia quando l'indignazione moralistica non avrà più corso.

La tesi di Battista non è peregrina. Qualche rischio c'è, ma è minore di quanto egli pensi. Non so per i politici, ma per i giornalisti. Li conosco meglio e so che molti di loro erano bravi assai prima dell'era berlusconiana. Vorrei però porre anch'io una domanda a Battista: che faranno, quando Berlusconi scomparirà, quei giornalisti e politici che si sono specializzati nell'agitare flabelli al suo passaggio, a inventare false notizie, a deformare quelle vere e soprattutto ad omettere, omettere e ancora una volta omettere? Che faranno i revisionisti di mestiere, gli specializzati a sostenere che il problema è un altro, che le questioni serie sono altre e chi parla male di lui peste lo colga?

E i terzisti, caro Battista? I terzisti avranno ancora qualcosa da scrivere? Vorrei esser tranquillizzato su questo punto. Comunque un posto a tavola non si nega a nessuno che abbia una buona scrittura; c'è sempre la rubrica di "Come eravamo" che può essere un dignitosissimo "pied-à-terre" per i terzisti in disarmo.


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« Risposta #172 inserito:: Novembre 26, 2009, 04:00:52 pm »

L'ideologia è costituzionale

di Eugenio Scalfari


Tutte le Costituzioni sono ideologiche: mettono insieme principi, tradotti in norme. La nostra lascia libertà di opinione ma non di agire contro di essi 
Si è aperta un paio di settimane fa sul 'Corriere della Sera' una discussione sull'insegnamento della Costituzione nelle scuole superiori. Quella discussione fu definita fin dall'inizio 'provocatoria'. In realtà non era neppure provocatoria ma semplicemente inutile e infatti, dopo un tentativo di tenerla in piedi, si è spenta per mancanza di interlocutori.

La tesi sulla quale si fondava era questa: qualunque Costituzione in qualsiasi paese e con qualsiasi contenuto contiene un alto tasso di ideologia; per conseguenza l'insegnamento della Costituzione nelle scuole che abbia come compito di educare gli studenti a rispettarne lo spirito e la lettera rischia di rimettere in piedi una sorta di Stato etico di hegeliana e fascistica memoria, che è quanto di più repellente per spiriti realmente liberali. Ma è proprio così? Gli spiriti liberali sono altrettante sentinelle chiamate a vigilare contro il manifestarsi d'una qualunque ideologia?

Il tema che qui mi interessa discutere non è dunque quello relativo all'insegnamento della Costituzione repubblicana in funzione educativa, bensì quello delle ideologie. Ce ne siamo definitivamente liberati con la caduta del Muro di Berlino, cioè con la caduta del comunismo?

Dico subito che le ideologie non sono state affatto cancellate dal nostro orizzonte mentale per la semplice ragione che la nostra mente lavora creando ideologie, cioè schemi di ragionamento che incasellano fatti, situazioni, persone, linguaggi, entro concetti astratti e rappresentativi di altrettanti 'insiemi' ricavati da una media di fatti concreti, persone concrete, situazioni concrete.

Il pensiero astratto è una delle caratteristiche della nostra specie e la distingue dalle altre specie viventi. Gli animali, anche quelli 'superiori' perché biologicamente più vicini alla specie umana, non sono in grado di formulare pensieri astratti. Noi siamo addirittura capaci di pensare il pensiero che pensa il pensiero, che è il massimo dell'astrazione possibile. La nostra
attività cognitiva non si esaurisce con la percezione del mondo esterno; percepiamo perfino i nostri sentimenti e li nominiamo, cioè diamo un nome a ciascun sentimento. Noi mescoliamo una serie di elementi semplici, di gocce di essenza, che affiorano dai miliardi di cellule che compongono il nostro organismo. Il mescolatore è la materia grigia contenuta nel nostro cranio; gli impulsi percettivi che essa riceve danno luogo a immagini simboliche, a concetti astratti, a idee. Il cane, il serpente, la mela. Ma anche l'insiemità. Anche la gloria, il coraggio, la paura, Dio, la morte, il mito, la storia, l'anima, il valore, la viltà.

Potremmo riempire un volume anzi un'intera biblioteca con l'elenco dei concetti e delle idee. Ebbene, l'ideologia non è altro che una serie di idee unite tra loro da un rapporto sistemico. L'ideologia comunista mette insieme la proprietà collettiva dei mezzi di produzione, l'abolizione della lotta tra le classi, l'abolizione dello sfruttamento, la scomparsa dello Stato, la piena libertà dell'individuo. La dittatura del proletariato quale necessario momento di passaggio alla seconda fase, nella quale l'ideale del comunismo e della libertà sia pienamente raggiunto. L'esperienza ha dimostrato che quest'ideologia, nei modi con cui fu realizzata, aveva dato risultati opposti alle finalità che aveva promesso.

Ma il liberismo è anch'esso un'ideologia. Postula che la libertà di mercato sia il solo sistema capace di allocare in modo ottimale la produzione dei beni e la loro distribuzione tra tutte le persone, impedendo che si formino monopoli e rendite. In tal modo una siffatta società vedrà gradualmente scomparire i privilegi e le diseguaglianze, agirà in piena libertà instaurando il migliore di tutti i modi possibili. L'esperienza ha però dimostrato che anche quest'ideologia è sbagliata ed ha causato mali non inferiori a quelli generati dall'ideologia comunista.

Potremmo elencare un gran numero di ideologie. La radice lessicale di questa parola mette insieme idea e logos, l'immagine e il pensiero. La mente umana compie questo miracolo e crea ideologie a getto continuo. Aggiungo che per fare a meno di ideologie gli uomini dovrebbero compiere un costante sforzo di volontà che impedisca alla loro mente di compiere gran parte del suo lavoro. Non dico che non si possa vivere senza ideologie, ma dico che per realizzare questo risultato occorre voler regredire ad uno stadio animale.

Si obietterà che ci sono state e potranno ancora esserci ideologie che hanno gettato l'uomo nella condizione d'una bestia ed è purtroppo verissimo, ma è altrettanto vero che ci sono state e ci saranno ideologie che l'hanno innalzato verso una condizione angelica e altre ancora che hanno realizzato un pieno umanesimo. Non è dunque l'ideologia che deturpa la condizione umana, ma sono i contenuti di quella specifica ideologia che migliorano coloro che con essa si identificano o ne devastano la coscienza morale.

Le Costituzioni mettono insieme una serie di principi tradotti in norme. Sono pertanto tutte ideologiche. La nostra Costituzione repubblicana del 1947 ha messo insieme il concetto di pluralismo, di libertà, di eguaglianza, di solidarietà e ne ha ricavato norme. È ideologica? Certamente sì, come lo era lo Statuto albertino in vigore fino al 1947. La Costituzione del '47 presenta ai nostri occhi un aspetto sommamente positivo in questa fase storica: consente un diritto di pubblica presenza a tutte le opinioni, perfino a quelle che non condividono i principi che l'hanno ispirata. Diritto di opinione, ma non anche diritto di agire contro di essi. E questa è l'educazione che la scuola può e deve dare: spiegare quei principi e le norme nelle quali sono stati articolati.

Qualcuno sostiene che sarebbe meglio non parlarne affatto. Ricordo che Mario Ferrara, un vecchio liberale che fu uno dei collaboratori del 'Mondo' di Mario Pannunzio, scrisse in uno dei suoi godibilissimi interventi un suo progetto di Costituzione che si componeva di due articoli: "Articolo 1: non c'è più niente da fare. Articolo 2: nessuno è incaricato di eseguire la presente legge". Voleva esprimere lo stato miserando in cui a suo giudizio versava il Paese. Era il 1949. Mi domando che cosa scriverebbe oggi se fosse ancora vivo.

(20 novembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #173 inserito:: Dicembre 09, 2009, 04:43:14 pm »

IL COMMENTO

La principessa e il rospo da baciare


di EUGENIO SCALFARI

TRA domenica e lunedì scorso nel circuito mediatico è accaduto un fatto strano: i principali giornali stranieri, televisivi e stampati, hanno dato notevole rilievo alla deposizione del pentito mafioso Spatuzza che chiamava in correità Berlusconi e Dell'Utri; i principali giornali e "talk show" televisivi italiani titolavano la cronaca di quell'argomento ma avevano come obiettivo politico Pier Luigi Bersani, accusato di irresolutezza e d'incapacità a risolvere i tanti guai che affliggono il nostro paese. Sembrava si fossero dati un vero e proprio appuntamento Giuliano Ferrara sul "Foglio", Ernesto Galli della Loggia sul "Corriere della Sera", Luca Ricolfi sulla "Stampa", per non parlare che dei maggiori.

Stonava soltanto l'"Avvenire", il giornale dei vescovi italiani, che titolava insolitamente a tutte colonne sulla tardiva e insufficiente retromarcia di Vittorio Feltri sul caso Boffo: dopo averlo linciato fino a provocarne le dimissioni, Feltri ammetteva che i documenti da lui portati come prova di omosessualità del direttore del giornale cattolico erano falsi. Se ne dispiaceva. Del resto il risultato ormai era stato ottenuto e Boffo era stato sbalzato di sella.

Segnalo questa difformità dell'"Avvenire", contemporanea alla campagna virulenta della "Padania" contro l'arcivescovo di Milano, Dionigi Tettamanzi, reo agli occhi dei leghisti d'aver rimarcato che a Milano c'è poca carità cristiana e d'avere ancora una volta raccomandato umanità nei confronti degli immigrati.

Ma torniamo al tema più propriamente politico che ha avuto le sue premesse nella deposizione di Spatuzza e nel corteo dei giovani "viola" di sabato scorso. Di qui il "pressing" sul segretario del Pd: si decidesse a dialogare con la maggioranza sulle riforme, a cominciare dalla giustizia, e i problemi italiani sparirebbero d'incanto. Ma lui non si decide. Forse vorrebbe ma non può. Perché non può?

È evidente: non può perché una minoranza di arrabbiati glielo impedisce. Gli arrabbiati sono vecchi comunisti impenitenti, abituati a dir sempre no, a vedere tutto il male solo da una parte, a ritenersi moralmente superiori; ma non solo comunisti, anche vecchi azionisti, anticlericali incalliti, antiamericani, antifascisti a 24 carati. Gente che conta niente, complottardi, moralisti. Perennemente indignati.
Naturalmente c'è chi mantiene alto il livello di indignazione per professione: giornali faziosi che utilizzano la faziosità per guadagnare copie, giornali che hanno in testa soltanto Berlusconi, giornalisti per i quali Berlusconi è una droga eccitante, un elemento allucinogeno che essi assumono e diffondono a getto continuo tra i loro lettori. Dal caso di Noemi Letizia in poi, passando per Patrizia D'Addario e approdando infine a Spatuzza e alla marcia dei "viola". Antitaliani. Giustizialisti. Raccontano ogni giorno un paese che non c'è. Bloccano l'opinione pubblica - nazionale e internazionale - sul "gossip" d'un leader che ha il solo difetto d'essere esuberante e innumerevoli pregi al servizio del paese. Purtroppo non lo fanno lavorare. Dunque sono loro i veri, gli unici colpevoli. Bisogna isolarli.

Il ragionamento, come si vede, ha un suo sviluppo: giornali faziosi eccitano una minoranza di arrabbiati; questa minoranza è in grado di frenare il leader del Pd; questi vorrebbe dialogare ma ne è impedito; in mancanza di quel dialogo il premier non può governare perché un gruppo di magistrati faziosi glielo impedisce; per conseguenza il governo è bloccato. In sostanza un granello di sabbia ha immobilizzato la macchina della politica.

Questo racconto della situazione italiana è affascinante. Sembra una favola, ce ne sono tutti gli elementi: un principe operoso, il filtro d'un folletto o d'una strega che lo trasforma in un rospo, un lupo cattivo che vuole mangiare la nonna. La parte assegnata a Bersani è quella d'una bella fanciulla che dovrebbe baciare il rospo per dissipare il sortilegio.
Caro Pier Luigi, mi spiace per te ma la tua parte nella favola è proprio quella, la bella fanciulla che bacia il rospo. Certo ci vuole stomaco per baciare un rospo schifoso, ma tu lo stomaco ce l'hai e dunque fallo, per il bene di questo paese che il principe operoso e capace di governarlo l'ha trovato. Tu solo puoi interrompere il sortilegio e assicurare il lieto fine.

* * *

Ho la vaga sensazione che a noi di "Repubblica" sia assegnata la parte del lupo cattivo. Giuliano Ferrara mi tira in ballo personalmente e mi domanda come sia stato possibile che, dopo aver organizzato cinquant'anni fa i convegni degli "Amici del Mondo" insieme a Mario Pannunzio e a Ernesto Rossi, sia finito nella compagnia del bordello.

Di solito Ferrara con me è gentile, questa volta è stato ruvido, segno che il richiamo all'ordine è stato perentorio. Rispondo così: il bordello non è a "Repubblica" ma a Palazzo Grazioli. "Repubblica" non si è occupata del bordello ma delle bugie del premier. La denuncia del bordello è stata fatta dalla Fondazione "Farefuturo" (patrocinata da Gianfranco Fini) e dalla signora Veronica Lario, comproprietaria del giornale diretto da Ferrara.

Può mentire spudoratamente un presidente del Consiglio che si rivolge al paese dalla televisione pubblica? Può reiterare le menzogne? Può indicare alla gogna i giornali che gli pongono domande più che legittime? Può insultare e incitare a non leggere quei giornali e a boicottarli pubblicitariamente? Può denunciarli al magistrato per aver fatto quelle domande?

Quanto ai "pedigree", per quanto mi riguarda io sono appunto partito dal "Mondo" e arrivato a "Repubblica" passando dall'"Espresso"; come percorso non mi sembra male. Ferrara è partito da Giorgio Amendola ed è arrivato a Berlusconi passando per Craxi. Non giudico, non ne ho alcun titolo. Dico soltanto "Unicuique suum", che vale per lui quanto per me.

* * *

Il ragionamento di Galli della Loggia è diverso ma in sintonia. C'è sempre di mezzo il lupo cattivo, che certo dev'essere un diavolaccio di lupo se riesce da solo a combinare tanti guai. Ma il problema da risolvere è Bersani. "Il rinnegato Bersani". Rinnegato dal milione di giovani vestiti di viola che si domandavano: perché Bersani non è qui? A loro quell'assenza dispiaceva. A della Loggia invece ha fatto molto piacere. Perché? Risposta: perché lo slogan del corteo era: "Berlusconi dimettiti". Bersani non è andato per non marciare sotto quello striscione. Bravo Bersani. Berlusconi infatti deve governare.

Bene. Penso anch'io che debba governare. Il guaio è che non governa. Non governa da quando si è insediato a Palazzo Chigi nel maggio 2008. Ma non aveva governato neppure nei cinque anni 2001-2006. Infatti i problemi stanno ancora tutti lì, anzi sono peggiorati. Dobbiamo rifarne l'elenco? Rifacciamolo: il debito pubblico non solo non è diminuito ma è aumentato; la pressione fiscale idem; l'entità della spesa corrente idem; il deficit idem; le infrastrutture sono sempre al palo, parliamo ancora di quelle del famoso contratto con gli italiani stipulato a "Porta a Porta" nella campagna elettorale del 2001. Sono ancora tutti lì, inaugurazioni e tagli di nastri a bizzeffe, opere compiute neanche mezza.

Poi c'è il bordello della Sanità, il bordello della Scuola, il bordello dei Beni culturali. Quanti bordelli, caro Ferrara, e tutti dalle vostre parti. E questa sarebbe la politica del fare? Infine le riforme istituzionali e quella della giustizia.

Io sono amico di Bersani. Ha molte qualità. Tra le quali ci metto anche quella di non essere gladiatorio. E non ha la lingua biforcuta, che adesso va invece molto di moda. Ci sono fior di politici che cambiano versione a seconda del giornale che li intervista, anche a distanza di ventiquattr'ore. Ma lui no.

Sulla giustizia ha detto questo: pronto a discutere tutti i miglioramenti necessari affinché il servizio pubblico migliori, a cominciare dalla lunghezza intollerabile dei processi. Ma niente leggi "ad personam", niente "processo breve", niente Lodo Alfano, insomma niente salvacondotti.

Tra i pregi e i difetti del rinnegato Bersani c'è anche la testardaggine. Per me è un pregio. Salvacondotti non ne darà. Quanto al dialogo, ha più volte chiarito che si fa in Parlamento. E dove dovrebbe farsi? Il guaio è che Berlusconi non ci sta. A tutti gli emendamenti dell'opposizione il governo ha sempre detto no. Quanto alle riforme istituzionali, ha detto "nì" alla famosa bozza Violante (diminuzione dei parlamentari, creazione del Senato federale). Ha detto "nì" ma con un'aggiunta: vuole passare dalla Repubblica parlamentare a quella autoritaria.

Il testardo Bersani non ci sta, ma il fatto è che quel cambiamento non è previsto nella Costituzione. Proprio così: non è previsto, cioè non si può fare. Della Loggia dovrebbe saperlo. Per cui baciare il rospo non servirebbe a niente, resterebbe rospo.
Ricolfi sulla "Stampa" sostiene invece una bizzarra tesi. Secondo lui l'errore lo fece Veltroni quando disse che bisognava trattare sulle regole istituzionali e combattere invece sulla politica del giorno per giorno. Secondo Ricolfi bisognava invece fare l'opposto.
Bizzarro. Le regole vanno condivise, infatti proprio per questo sono previste maggioranze qualificate per approvarle. La politica invece non va necessariamente condivisa e l'opposizione esiste proprio per questo. Così la pensa anche il presidente Napolitano. Sbaglia anche lui?

* * *

Due righe di chiusura. All'epoca del governo Prodi i giornali sapienti che giocano alle buone fatine e non al lupo cattivo, se la prendevano col governo e lo invitavano a venire incontro all'opposizione (cioè a Berlusconi) che nel frattempo trafficava per comprarsi quei pochi voti che sostenevano il governo. Adesso le buone fatine se la prendono con l'opposizione di centrosinistra. Terzisti? Non sembra proprio, stanno sempre dalla stessa parte.

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« Risposta #174 inserito:: Dicembre 09, 2009, 04:44:09 pm »

Il vero mondo

di Eugenio Scalfari


Alcune riflessioni sulla celebrazione a Milano di Mario Pannunzio, fondatore del settimanale, da parte di chi è stato al suo fianco 


Si è tenuta nei giorni scorsi a Milano, per iniziativa del 'Corriere della Sera' e di altre fondazioni non meglio identificabili, una celebrazione dedicata a Mario Pannunzio e al settimanale 'Il Mondo' da lui fondato nel lontano 1949 e diretto fino alla sua fine nel 1965. 'Il Mondo' poi riprese sotto altra veste le pubblicazioni, infine si trasformò completamente diventando un settimanale finanziario. Quello di Pannunzio è rimasto un 'unicum', perciò se ne parla assai frequentemente tutte le volte che un'occasione lo suggerisca ed ora l'occasione non manca: Mario nacque nel 1910, tra pochi mesi avrebbe compiuto cent'anni.

Proprio utilizzando il calendario e forse con qualche anticipo di troppo, nella scorsa primavera la Provincia di Lucca - sua città natale - volle prender l'iniziativa e invitò me ad esserne il relatore. E poiché nella stessa città e nello stesso anno era nato anche Arrigo Benedetti fondatore dell''Europeo' prima e dell''Espresso' dopo; poiché Benedetti e Pannunzio furono grandi e intimissimi amici; poiché i settimanali da essi creati ebbero una funzione analoga nella storia del giornalismo italiano, ma non soltanto: anche nella storia delle idee; per tutte queste ragioni parve giusto abbinare quei due nomi e trattare insieme l'opera cui dettero vita.

Il centenario celebrato dal 'Corriere della Sera' nei giorni scorsi non ha seguito l'iniziativa della Provincia di Lucca e non ha dato alcun cenno dell''Espresso' di Benedetti. Nulla da obiettare, ciascuno ha i suoi criteri. Per di più 'Il Mondo' è morto da tempo, 'L'Espresso' invece è più vivo che mai, sicché celebrarlo potrebbe riflettere un alone di simpatia sui successori di Benedetti, perciò meglio guardarsene e il 'Corriere' infatti se ne è guardato. Non toglie che il dibattito promosso dalla Fondazione di via Solferino è stato interessante e ricco di partecipanti. Non ero presente, ma ho letto i resoconti e ho seguito le discussioni. Qualche cosa da dire ce l'ho e perciò la dico.

Anzitutto una breve osservazione preliminare (i preliminari sono di solito i più gustosi). 'Il Mondo' durò sedici anni, Pannunzio aveva già diretto il 'Risorgimento liberale' dal 1944 al '47. Oggi si fanno convegni su di lui e sui suoi giornali, si scrivono libri, si discutono tesi di laurea. Il numero degli estimatori è in aumento esponenziale. Ho detto una volta che accadde a Pannunzio ciò che avvenne per i Mille di Garibaldi: alla partenza non superavano i 700, ai giorni nostri i garibaldini che presero il mare a Quarto sarebbero molte migliaia perché molte migliaia sostennero d'esser partiti per Calatafimi. Non so se sia buono o cattivo segno.

Sta di fatto comunque che il 'Corriere della Sera' dell'epoca, nei vent'anni di attività giornalistica di Pannunzio, non citò quasi mai - forse mai - le campagne del 'Mondo', i convegni degli 'Amici del Mondo' e le iniziative culturali e politiche di Pannunzio, sebbene alcuni dei collaboratori di Mario lo fossero anche del 'Corriere', a cominciare da Mario Ferrara e da Panfilo Gentile. Quel silenzio meriterebbe qualche spiegazione ma non risulta che nel 'meeting' dei giorni scorsi sia stata data.

Io la spiegazione ce l'ho ed è la seguente. Il Pannunzio del 'Mondo' non era più il liberale ortodosso di via Frattina (sede del Pli di quegli anni). Era sì, un liberale, ma non più allo stato puro. Si era volontariamente contaminato. Si era messo insieme a persone che puzzavano di eresia. Gran brava gente, spesso con un passato eroico alle spalle, ma eretici, questo è sicuro. Imbarazzanti. Scomodi. Uno per tutti? Ernesto Rossi. Ma sì, proprio lui, quello del 'non mollare'. E non era il solo. S'era messo insieme, Pannunzio, ad un gruppo di ex azionisti della peggiore specie dal punto di vista politico, tra i quali perfino Ferruccio Parri.

Vi pare che il 'Corriere' di allora li avrebbe incoraggiati? Li avrebbe 'pompati' come fa adesso per un paio di giornaletti in circolazione nelle mazzette redazionali? I grandi giornali hanno un loro 'aplomb' e lo rispettano. Perciò bisogna essere morti come Pannunzio e come 'Il Mondo' per aver diritto ad un convegno che ne riscaldi la memoria. Da vivi, ognuno se la veda come può.

Ho letto anche che Pannunzio sostenne la terza forza con accanita tenacia ancorché senza successo. Dunque era un terzista 'ante litteram'. È vero. Essendogli stato vicino in quegli anni posso confermare: sostenne la terza forza, anzi se la inventò. Ma che tipo di terza forza? Le pagine del 'Mondo' e i convegni degli 'Amici del Mondo' sono lì a dirlo.

Sostenne la necessità di una forza laica e liberal-socialista che opponesse la sua visione politica e ideale a quella plumbea e funeraria dei campi di sterminio del comunismo sovietico. Del nazismo e della Shoah si parlava e si scriveva solo per dire che con loro perfino una durissima polemica sarebbe stata una concessione impensabile.

Ma c'era anche un terzo e un quarto fronte: contro il clericalismo della Chiesa e la sottomissione della Dc; e contro le politiche monopoloidi della Confindustria e dei 'Padroni del vapore'.

I convegni sostennero la libertà di stampa (quella che c'era era ritenuta inaccettabile e permanentemente insidiata), la scuola pubblica, l'abolizione del Concordato. Sul piano economico gli obiettivi erano la lotta contro i monopoli, la riforma delle società per azioni, la liberalizzazione del commercio, la denuncia del malaffare della Federconsorzi e infine l'epica battaglia per la nazionalizzazione dell'industria elettrica. Questa era la terza forza che noi volevamo. Dico noi perché noi allora eravamo lì.

Accadde ad un certo punto che la compattezza di quel gruppo si ruppe e si ruppe in particolare l'intesa tra Pannunzio ed Ernesto Rossi. Non sto a dire dove era il torto e dov'era la ragione; forse erano equamente distribuiti. Ma sta di fatto che la rottura determinò sostanzialmente la fine di quell'esperienza. 'Il Mondo' sopravvisse ancora per due anni, poi chiuse i battenti.

Mi auguro che queste cose qualcuno le abbia raccontate nel 'meeting' di via Solferino, Sala Montanelli. Indro (visto che l'ho nominato) non faceva parte della nostra compagnia. Combatté altre egregie battaglie, ma non le nostre.

(03 dicembre 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #175 inserito:: Dicembre 13, 2009, 10:39:31 am »

La grande anomalia nell'Italia del cavaliere

di EUGENIO SCALFARI


C'È un'anomalia al vertice istituzionale dello Stato. L'abbiamo scritto varie volte ed Ezio Mauro l'ha di nuovo precisato con chiarezza subito dopo il discorso di Silvio Berlusconi all'assemblea del Partito popolare europeo a Bonn. L'anomalia sta nel fatto che il presidente del Consiglio e capo del potere esecutivo disconosce l'autonomia del potere giudiziario; disconosce la legittimità degli organi di garanzia a cominciare dal Capo dello Stato e dalla Corte costituzionale e ritiene che il premier, votato dal popolo, detenga un potere sovraordinato rispetto a tutti gli altri.
Questa situazione - così ritiene il premier - esiste già nella Costituzione materiale, cioè nella prassi politica e nella convinzione dello spirito pubblico, ma non è stata ancora introdotta nella Costituzione scritta e ad essa si appoggiano i poteri di garanzia e la magistratura per contestare la Costituzione materiale. Bisogna dunque modificare la nostra Carta anzi, dice il premier, bisogna cambiarla adeguandola allo spirito pubblico. Lui si farà portatore di quel cambiamento, prima o poi. Quando lo giudicherà opportuno. A quel punto la situazione sarà pacificata, un nuovo equilibrio sarà stato raggiunto, il governo potrà lavorare in pace, i processi persecutori contro il presidente del Consiglio saranno celebrati solo quando il suo mandato sarà terminato e la sovranità della maggioranza sarà in questo modo tutelata.

L'anomalia ha notevoli dimensioni. Il fatto che Berlusconi l'abbia descritta e raccontata con parole sue in un congresso del Partito popolare europeo cui appartiene, denuncia di per sé la gravità di questa situazione, ma ancora di più questa gravità emerge dal fatto che non vi siano state contestazioni in quell'assemblea. L'Unione europea riconosce e fa propria una carta di diritti che vale per tutti gli Stati membri. Di questa carta i principi dello Stato di diritto e dell'indipendenza dei poteri costituzionali sono parte integrante. Sicché è molto preoccupante che uno dei principali esponenti del Partito popolare europeo, a chi gli chiedeva un commento sul discorso di Berlusconi, abbia risposto: è una questione interna alla politica italiana. Quando si tratta dei principi della costituzionalità europea non esistono questioni interne dei singoli Stati membri che possano sfuggire al vaglio degli organi dell'Unione. Credo che questo problema andrebbe formalmente sollevato dinanzi al Parlamento di Strasburgo e dinanzi al presidente del Consiglio dei ministri dell'Unione.

Per quanto riguarda il nostro "foro interno" per ora l'anomalia resta, ma verrà al pettine nei prossimi giorni sulla questione che più sta a cuore al premier, quella cioè della sua posizione giudiziaria rispetto ai tribunali della Repubblica. Lì avverrà il primo scontro. È ormai evidente che il metodo della "moral suasion", utilmente praticato dai nostri Capi di Stato nei confronti del governo fin dai tempi di Luigi Einaudi, non vale più. Esso è stato possibile per sessant'anni fino a quando le diverse posizioni politiche si confrontavano in un quadro di valori e principi condivisi; ma questo quadro di compatibilità è ormai andato in pezzi. Le varie istituzioni e i poteri dei quali ciascuna di esse ha la titolarità sono dunque l'uno in presenza degli altri senza più ammortizzatori di sorta. Gli angoli non sono più arrotondabili ma spigolosi. Il rischio è una prova di forza interamente istituzionale.
L'anomalia berlusconiana ci ha condotto a questo punto, a questo rischio, a questo pericolo. Molti pensavano che tutto si riducesse a problemi di galateo e di linguaggio. Non era così ed ora la dura sostanza è emersa in tutto il suo rilievo.

* * *

Abbiamo scritto più volte che l'anomalia populista è presente in modo particolare nello spirito pubblico del nostro paese. Ma non soltanto. La tentazione autoritaria è presente in molti altri luoghi. Autoritarismo e populismo spesso sono fusi insieme e costituiscono una miscela esplosiva, ma talvolta sono disgiunti. La vocazione al cesarismo a volte è alimentata dal conservatorismo di opinioni pubbliche sensibili agli interessi di classe e alla difesa di privilegi. Oppure dall'emergere di interessi nuovi che chiedono riconoscimento e rappresentanza.
Nella storia moderna la tentazione autoritaria è stata molto presente nell'Europa continentale, talvolta con modalità aberranti oppure con caratteristiche innovative. Ma ha innescato in ogni caso processi avventurosi, forieri di guerre e di rovine materiali e morali. I principi di libertà ne sono stati devastati.
Di solito quando ci si inoltra in questo tipo di analisi si rievoca l'esperienza del fascismo italiano. Esso avviò anche alcuni processi innovativi, ottenuti tuttavia con la perdita della libertà, con l'esasperazione demagogica del nazionalismo e con un generale impoverimento della società. Ma un altro esempio, con caratteristiche molto diverse, era già avvenuto in Europa un secolo prima e fu il bonapartismo. Andrebbe storicamente ripercorso il bonapartismo perché rappresenta una vicenda per molti aspetti eloquente di come si passa da una fase rivoluzionaria ad una fase moderata e poi ad una svolta autoritaria che aveva in grembo la fine del regime feudale, l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, pagando però queste innovazioni con milioni di morti in un quindicennio di guerre continue e con la perdita della libertà.

Il generale Bonaparte rappresentava un'anomalia rispetto al regime moderato del Direttorio, nato sulle ceneri del Terrore robespierrista. La sua vocazione autoritaria non aveva nulla di populistico ma era appoggiata da un'opinione pubblica che voleva a tutti i costi una pacificazione. Napoleone fu visto come lo strumento di questa pacificazione e fu l'appoggio di quell'opinione pubblica che gli consentì un colpo di Stato che non costò neppure una vittima. Il 18 brumaio del 1799 suo fratello Luciano Bonaparte, presidente dell'assemblea dei Cinquecento, con l'appoggio del generale Murat, sciolse quell'assemblea con la scusa che essa era piena di giacobini e consegnò il potere a suo fratello Napoleone. Il seguito è noto.
Non abbiamo nulla di simile, non c'è un generale Bonaparte, non c'è un generale Murat, non ci sono fantasmi militareschi. Ma c'è un'opinione pubblica spaccata in due e una classe dirigente anch'essa spaccata in due. C'è una tentazione autoritaria. C'è una maggioranza conservatrice formata da piccoli e piccolissimi imprenditori e lavoratori autonomi che sperano di ricevere tutela e riconoscimento. E c'è un'ampia clientela articolata in potenti clientele locali, legate al potere e ai benefici che il potere è in grado di dispensare.

Questa è l'anomalia. La quale ha deciso di non esser più anomalia ma di rimodellare la Costituzione. Non riformandone alcuni aspetti ma cambiandone la sostanza. Non più equilibrio tra poteri e organi di garanzia, ma un solo potere sovraordinato rispetto agli altri. L'Esecutivo che si è impadronito, con la legge elettorale definita "porcata" dai suoi autori, del potere legislativo e si accinge ora a mettere la briglia al potere giudiziario e agli organi di garanzia.
Sì, bisogna rivisitarla la storia del 18 brumaio del 1799 perché c'è un aspetto che ci può riguardare molto da vicino. Del resto, anche il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 va riletto e meditato. Ci sono momenti storici nei quali l'assetto di uno Stato viene sconvolto e capovolto. Dopo nulla sarà più come prima. Nessuno si era reso conto di ciò che stava per accadere. Quando accadde era ormai troppo tardi per impedirlo.

Post Scriptum. La vicenda Spatuzza-Graviano ha dato luogo a qualche fraintendimento che è bene chiarire. A me Spatuzza non piace affatto e i Graviano meno ancora, ma la cronaca ha le sue regole che vanno rispettate. E perciò ricordiamo: Spatuzza ha dichiarato in processo di aver saputo dell'accordo con Berlusconi e Dell'Utri da Giuseppe Graviano. Il quale ha rifiutato di deporre e ha detto che parlerà solo quando sarà venuto il momento di parlare. Chi invece ha detto di non aver mai conosciuto Dell'Utri e tanto meno Berlusconi è il fratello Filippo Graviano, del quale Spatuzza non ha mai parlato. Questo dice la cronaca e non altro.

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« Risposta #176 inserito:: Dicembre 17, 2009, 08:16:51 pm »

Parola di pentito

di Eugenio Scalfari


Un pentito di mafia è per definizione un criminale, altrimenti di che cosa dovrebbe ravvedersi? Dico di più: tanto più è pesante il suo fardello i delitti tanto più importante è la sua confessione. I mafiosi che si pentono sono molto diversi dai terroristi, sebbene quando uccidono non ci siano molte differenze di comportamento tra loro. Uccidono a sangue freddo, sia i terroristi sia i mafiosi. Non sotto l'impulso di un sentimento. Eseguono ordini. Alle loro spalle ci sono i mandanti.

Però una differenza c'è e riguarda i motivi del pentimento. I terroristi si pentono se e quando si rendono conto che le idee che li spingevano all'omicidio erano sbagliate; si tratta dunque di una crisi profonda che quando avviene mette in causa l'intera personalità, capovolge i sentimenti, la concezione della vita, il rapporto tra il bene e il male. Il terrorista che si pente è un'altra persona, le sue vittime gli pesano sulla coscienza e la loro memoria lo spinge all'espiazione.

Il mafioso, nella maggior parte dei casi, non conosce invece una crisi della stessa natura. Nella maggior parte dei casi il pentimento avviene dopo l'arresto e deriva dal tentativo di rendere meno dura la condanna. Il mafioso pentito sa che dovrà cambiare vita, identità e luogo di residenza. Sa anche che la sua organizzazione criminale vorrà vendicarsi della sua fellonia e aspetterà con pazienza il giorno in cui quella vendetta diventerà possibile. Si tratta dunque di una scelta molto difficile; la può fare soltanto chi ha le spalle al muro tra il carcere duro per tutta la vita e il regime alienante ma decente del pentimento.

Ho conosciuto abbastanza bene un mafioso pentito: Buscetta. Venne a casa mia due volte, circondato dagli agenti di polizia che lo scortavano dovunque. Avevo chiesto alla competente direzione della polizia di Stato di poterlo intervistare sulle ragioni del pentimento e l'autorizzazione era stata accordata. Buscetta dal canto suo aveva accettato e così ci incontrammo.

Era una persona di notevole spessore.
Nella famiglia mafiosa di cui faceva parte aveva avuto una posizione di grande rilievo. Sapeva molte cose non solo sull'organizzazione di Cosa Nostra, ma sui personaggi della Cupola, sugli obiettivi, sui contatti con il secondo livello (che erano professionisti o dirigenti locali dei partiti) e sui riferimenti di terzo livello (che erano uomini politici nazionali). Ma su questi ultimi non volle parlare. Neppure con i magistrati che lo interrogavano volle parlare in modo esplicito. Soltanto con Falcone si era aperto quando si incontrarono in una prigione americana dove era in quel momento detenuto. Ma Falcone non ritenne che fosse maturo il tempo di portare in giudizio quelle rivelazioni e fu ucciso prima di averlo fatto.

Buscetta non tradì la sua famiglia mafiosa.
Si pentì quando la sua famiglia perse la guerra interna che si era scatenata e di cui lo stesso Buscetta era stato una delle vittime perché alcuni dei suoi più stretti congiunti erano caduti sotto il piombo dei Corleonesi. La ragione del contendere - così mi disse lui e così aveva detto ai magistrati - era stata la droga. I Corleonesi avevano capito che quello sarebbe stato il gigantesco affare del futuro, ma Buscetta non voleva che la mafia entrasse su quel mercato. Questa, così disse, fu la ragione di quella guerra. Non so se Buscetta abbia detto la verità.

Vedo ora che molti commenti manifestano stupore perché il pentito Spatuzza, pluriomicida per sua stessa confessione, venga ascoltato in giudizio e le sue accuse e chiamate di correo siano verbalizzate dai giudici. Non capisco lo stupore: il pentito di mafia è sempre un omicida o ha commesso altri gravissimi reati. Fa parte di un'organizzazione criminale della quale ha deciso di rivelare alcuni segreti e tra di essi in primissima istanza i crimini da lui stesso commessi. Questo è infatti uno degli elementi che gli conferisce credibilità. In conclusione: un pentito di mafia è per definizione un criminale, altrimenti di che cosa dovrebbe pentirsi? Dico di più: tanto più è pesante il suo fardello di delitti tanto più importante è il suo pentimento, sempre che i fatti da lui rivelati siano confermati da altri elementi oggettivi.

Naturalmente è possibile che le sue chiamate di correo siano false; che si tratti di vendette e non di fatti realmente avvenuti. Si aspettava con grande interesse la deposizione dei fratelli Graviano, già in prigione da anni in regime di carcere duro. Avrebbero confermato o smentito le dichiarazioni di Spatuzza?

Hanno deposto a Palermo venerdì scorso.
Uno dei due fratelli ha smentito in pieno Spatuzza, l'altro si è rifiutato di rispondere ed ha inviato un memoriale in cui illustra ai giudici il regime durissimo del carcere duro. Dell'Utri, che assisteva in aula alla deposizione di Graviano, ha così commentato: "Ha parlato con grande dignità. Mi sembra sulla via del ravvedimento". Dopo la deposizione di Spatuzza aveva detto che le accuse contro di lui erano assurde tanto più provenendo da un pluriomicida.

Commento a mia volta: sia Spatuzza sia i fratelli Graviano sono pluriomicidi. Le loro dichiarazioni in giudizio possono essere false o veritiere. I giudici avranno il non facile compito di vagliarne l'attendibilità eventualmente chiamandoli a confrontare le loro opposte verità. Ogni altro commento è per il momento azzardato, ma da parte di Dell'Utri che è parte in causa si può capire.

(16 dicembre 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #177 inserito:: Dicembre 20, 2009, 03:49:37 pm »

L'EDITORIALE

L'inciucio è cosa non buona e ingiusta

di EUGENIO SCALFARI


Ho letto con molto interesse l'articolo del nostro collaboratore Alexander Stille (figlio di tanto padre) pubblicato venerdì scorso su Repubblica. Spiega perché chi si opponga alla politica del Pdl non può che concentrare le sue critiche su Silvio Berlusconi. Non è questione di distinguere la parola "nemico" dalla parola "avversario", la parola "odio" dalla parola "opposizione". Su queste differenze lessicali potremmo (inutilmente) discutere per pagine e pagine senza cavarne alcun risultato, come pure potremmo discutere sulla personalizzazione degli scontri politici in altri paesi.

Negli Stati Uniti, per esempio, lo scontro personalizzato è una prassi durissima e assolutamente normale. Basta ricordare (ed è appena un anno fa) la polemica senza esclusione di colpi tra Obama e Hillary Clinton durante le primarie, quella tra Gore e Bush nella corsa alla Casa Bianca, la campagna dei giornali che portò alle dimissioni di Nixon e Bill Clinton ad un passo dall'"impeachment" all'epoca dello scandalo Lewinsky.

Eppure in nessuno di quei casi i protagonisti avevano mai personalizzato su di sé il partito o la parte politica che rappresentavano come è avvenuto per Silvio Berlusconi. Ma chi lo ha detto meglio di tutti e con maggiore attendibilità è stato Denis Verdini. Il suo non è un nome molto noto, eppure si tratta d'un personaggio di primissimo piano: è il segretario del Pdl, il numero uno dei tre coordinatori di quel partito e soprattutto il co-fondatore di Forza Italia.

Quando Berlusconi decise di scendere in campo, nell'autunno del 1993, affidò la costruzione del partito ai due capi di Publitalia, la società che raccoglieva la pubblicità per il gruppo Fininvest, nelle persone di Dell'Utri e di Verdini. Il primo è da tempo distratto da altri affanni; Verdini è invece nel pieno del suo impegno politico.

Nell'articolo pubblicato dal Giornale il 18 dicembre, Verdini elenca gli obiettivi che il Pdl si propone di realizzare nei prossimi mesi e descrive come meglio non si potrebbe il ruolo di Berlusconi. "Lui ha costruito la figura del leader moderno - scrive Verdini - anzi ha costruito la leadership come istituzione. Per affrontarlo, anche gli altri partiti dovranno affidarsi ad una leadership e se non riusciranno a farlo saranno sempre sconfitti.

Ma anche i "media" non potranno esimersi dal concentrare sul leader la loro attenzione, se vorranno cogliere il vero significato di quanto accade".
Segue l'elenco degli obiettivi: smontare la Costituzione e adeguarla alla Costituzione materiale; cambiare il sistema di elezione del Csm e quello della Corte costituzionale; riformare la giustizia separando le carriere dei magistrati inquirenti da quelle dei giudicanti; concentrare nella figura del premier tutti i poteri dell'Esecutivo e sancire che tutti gli altri poteri siano tenuti a collaborare lealmente con lui perché lui solo è l'eletto del popolo e quindi investito della sovranità che dal popolo emana.

Quest'articolo è infinitamente più preoccupante delle esagitate denunce e liste di proscrizione lanciate da Cicchitto in Parlamento, da Feltri e da Belpietro sui loro giornali e dai vari "pasdaran" del berlusconismo di assalto. Verdini l'ha scritto il 18 dicembre, quando già Berlusconi era tornato ad Arcore ed aveva avviato la politica del dialogo con l'opposizione. Esso contiene dunque con lodevole chiarezza le condizioni di quel dialogo, con l'ovvio preliminare che essi comportano e cioè il salvacondotto in piena regola riguardante i processi del premier. Da qui dunque bisogna partire, tutto il resto è pura chiacchiera.

* * *

I giornali di ieri hanno dato notevole risalto alla battuta di D'Alema sull'utilità ed anzi la necessità, in certi momenti della vita politica, di far ricorso agli "inciuci". La parola "inciucio" denomina un compromesso malandrino tra parti politiche avversarie, un compromesso sporco e seminascosto che contiene segrete pattuizioni e segreti benefici per i contraenti, nascosti al popolo-bue.

Per esemplificare la sua battuta sull'utilità dell'inciucio D'Alema ha citato la decisione di Togliatti di votare, nell'Assemblea costituente del 1947, per l'inclusione del Concordato nella Costituzione italiana. Ma l'esempio è stato scelto a sproposito: la costituzionalizzazione del Concordato tra lo Stato e la Chiesa non fu affatto un inciucio ma un trasparente atto politico con il quale il Pci, distinguendosi dal Partito socialista e dal Partito d'azione, dichiarò la sua contrarietà a mantenere viva una contrapposizione tra laici e cattolici.

Si può non concordare con quella posizione; del resto la sinistra ha sempre privilegiato le lotte sociali rispetto alle cosiddette libertà borghesi, iscrivendo tra queste anche la laicità che non fu mai un cavallo di battaglia del Pci. Si può non condividere ma, lo ripeto, l'inciucio è tutt'altra cosa e D'Alema lo sa benissimo.
Credo di sapere perché D'Alema ha scelto di usare quel termine così peggiorativo: vuole stupire, gli piace esser citato dai "media", è una civetteria di chi, essendo molto sicuro di sé, sfida e provoca e si diverte.

È fatto così Massimo D'Alema. I compromessi gli piace descriverli, teorizzarli, talvolta anche tentarne la realizzazione, annusarne il cattivo odore, sicuro che se gli riuscisse di farli sarebbe comunque lui a guidarli verso l'utilità generale perché lui è più bravo degli altri.
In realtà non è riuscito a metterne in pista nessuno. Ma la sua provocazione ha suscitato preoccupazioni nel suo partito e parecchie reazioni. Si è dovuto parlare di lui per l'ennesima volta. Sarà contento perché era appunto ciò che voleva.

I suoi contraddittori hanno deciso che bisognerà spostare il tiro sui problemi economici ai quali il governo ha dedicato pochissima attenzione. Sarà su di essi che si svolgerà il grande confronto tra la sinistra e la destra.

È vero, il governo non ha fatto nulla, la nostra "exit strategy" dalla crisi è del tutto inesistente e farà bene l'opposizione e il Pd a darsene carico, ma il centro dello scontro non sarà questo. Il centro dello scontro l'ha indicato Verdini, sarà sullo smantellamento della Costituzione. Sul passaggio dallo Stato di diritto allo Stato autoritario.

* * *

Berlusconi vuole il dialogo. Che cosa vuol dire dialogo? Lo spiega quasi ogni giorno sul "Foglio" Giuliano Ferrara. Lo spiegano gli editorialisti terzisti "ad adiuvandum": dialogo vuol dire mettersi d'accordo sul percorso da seguire e poi attuarlo con leale fedeltà a quanto pattuito. Insomma un disarmo. Unilaterale o bilaterale? Vediamo.

Berlusconi chiede: la legge sul legittimo impedimento come strumento-ponte che lo metta al riparo fino al lodo Alfano attuato con legge costituzionale; rottura immediata tra Pd e Di Pietro; riforme costituzionali e istituzionali secondo lo schema Verdini. In contropartita Berlusconi promette di parcheggiare su un binario morto la legge sul processo breve e di "riconoscere" il Pd come la sola forma di opposizione.

Va aggiunto che Berlusconi non pretende che il Pd voti a favore della legge sul legittimo impedimento; vuole soltanto che essa non sia considerata dal Pd come un ostacolo all'accordo sulle riforme.

Vi sembra un disarmo bilaterale? Chiaramente non lo è. Chiaramente sarebbe un inciucio di pessimo odore.
In una Repubblica parlamentare il dialogo si svolge quotidianamente in Parlamento. Le forze politiche presentano progetti di legge, il governo presenta i propri, il Capo dello Stato vigila sulla loro costituzionalità, i presidenti delle Camere sulla ricevibilità di procedure ed emendamenti nonché sul calendario dei lavori badando che anche i progetti di legge formulati dall'opposizione approdino all'esame parlamentare.

Non si tratta dunque di un dialogo al riparo di occhi indiscreti ma d'un confronto aperto e pubblico, con tanto di verbalizzazione.

Quanto alla richiesta politica di rompere con Di Pietro, non può essere una condizione in vista di una legittimazione di cui il Pd non ha alcun bisogno e che la maggioranza non ha alcun titolo ad offrire. Come risponderebbe Berlusconi se Bersani gli chiedesse di rompere con la Lega? Che non è meno indigesta di Di Pietro ad un palato democraticamente sensibile ed anzi lo è ancora di più?

La conclusione non può dunque essere che l'appuntamento in Parlamento. Il punto sensibile è l'assalto alla Costituzione repubblicana. Ci sarà un referendum confermativo poiché sembra molto difficile una riforma condivisa. A meno che il premier non receda dai suoi propositi che, nella versione Verdini, sono decisamente eversivi. Uso questa parola non per odio verso chicchessia ma per amore verso lo Stato di diritto che è condizione preliminare della democrazia.

(20 dicembre 2009)
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« Risposta #178 inserito:: Dicembre 27, 2009, 10:40:54 am »

IL COMMENTO

Qualche domanda sul partito dell'amore

di EUGENIO SCALFARI


IL TERRIBILE 2009 che stiamo per lasciarci alle spalle sembra aver toccato il fondo; nel 2010 si annuncia la ripresa, ma che genere di ripresa? Sperare che sia rapida e robusta è legittimo e può essere un'aspettativa positiva, ma le previsioni generali sono poco incoraggianti: sarà una ripresa lenta e stentata in Europa e negli Stati Uniti, più dinamica per la Cina, l'India e gli altri Paesi emergenti.

Il divario tra queste due aree del mondo aumenterà e con esso le tensioni economiche e anche politiche.

Se ne è avuto un primo anticipo nell'incontro-scontro di Copenaghen sul clima: contrariamente a quanto si riteneva il cosiddetto G2, cioè l'accordo di Usa e Cina a procedere di comune accordo nel governo del pianeta, non ha funzionato. Quell'accordo non c'è. La Cina è decisa a procedere sulla via della modernizzazione con criteri propri e senza nulla sacrificare alla solidarietà internazionale come avrebbe desiderato l'America. Sul piano monetario, finanziario e commerciale proseguirà nel protezionismo, non rivaluterà la sua moneta rispetto al dollaro, continuerà a far provvista di materie prime facendone aumentare i prezzi, non limiterà l'inquinamento dell'atmosfera.

Questi obiettivi saranno rinviati di almeno dieci anni, quando il divario economico ma anche strategico e militare sarà ulteriormente ridotto.

Soltanto allora Pechino prenderà in considerazione un nuovo equilibrio con gli Usa per un governo paritario del resto del mondo che non potrà non tener conto di altre importanti presenze emergenti: India, Brasile, Sudafrica, Messico. Ed anche Europa, se il nostro continente saprà parlare con una sola voce; e fin d'ora è già chiaro che quella voce parlerà in tedesco più che in francese e inglese.

Nel frattempo la ripresa occidentale sarà lenta. Non priva di rischi di ricaduta. Mario Draghi colloca questo rischio tra un paio d'anni, quando i titoli emessi dai grandi gruppi industriali e bancari per cifre molto elevate saranno in scadenza e dovranno esser rinnovati e quando i governi più indebitati - a cominciare dagli Stati Uniti - dovranno trovare equilibri finanziari più sostenibili.

L'insieme di questi problemi comporterà tagli di spesa e/o aumento di imposte, cioè politiche economiche restrittive e comunque non espansive. Ma ci sono anche altri elementi che non favoriscono una ripresa rapida e robusta. Li segnala Romano Prodi in un articolo pubblicato sul Messaggero e il direttore dell'Economist, John Micklethwait: per alcuni anni il mercato del lavoro sarà stagnante, il livello dell'occupazione insoddisfacente, le imprese aumenteranno la produttività ma diffonderanno meno benessere sociale.

Scrive Prodi: "Il numero dei disoccupati è aumentato dovunque superando i massimi livelli raggiunti nello scorso decennio. Spesso gli imprenditori approfittano della situazione di crisi per procedere alla razionalizzazione dell'organizzazione aziendale aumentando la produttività a scapito dell'occupazione. Ma vi è un altro elemento da tener presente e cioè i deficit dei bilanci pubblici che si sono accumulati sia in Usa sia in Europa.

L'esigenza di tornare alla normalità si impone a tutti. Il debito cumulato dai Paesi dell'Ocse sorpasserà nel 2010 il 100 per cento del Pil. Questo significherà che il motore della finanza pubblica, che è stato così largamente usato per frenare la caduta dell'economia, potrà essere solo marginalmente utilizzato per accelerare la ripresa".

Questa è dunque la situazione. Bisognerebbe aprire una buona volta un pubblico dibattito nel nostro Parlamento per fotografarla ed elaborare una terapia, ma, come da tempo lamenta l'opposizione, non c'è alcun segnale in questa direzione. Per il nostro governo evidentemente il problema non esiste.

* * *

Molte altre cose non esistono per il governo, per la maggioranza che lo sostiene e per il premier che dirige l'una e l'altro e questo è un altro elemento di rischio non certo fugato dal "partito dell'amore", la più recente invenzione di Silvio Berlusconi.

L'amore e la ricerca del dialogo sono la conseguenza del deplorevole e inconsulto gesto dello psicolabile Tartaglia, tuttora ristretto a San Vittore per legittima prevenzione contro altri atti inconsulti che potrebbe commettere. Dal male può uscire un bene, ripetono i salmodianti esponenti del partito dell'amore, Schifani e Bondi in testa, invocando un rapido inizio della stagione delle riforme condivise e sollecitando Bersani a dar prova concreta delle sue intenzioni in proposito.

Ma Bersani ha già risposto: vuole anzitutto discutere della situazione economica e della terapia (condivisa?) da adottare. Sulle riforme istituzionali e costituzionali vuole sapere qual è la linea del governo ed ha ribadito come premessa che il Pd voterà contro leggi "ad personam" per quanto riguarda la processabilità di Silvio Berlusconi.

Molti nella maggioranza si rifanno alla "bozza Violante" per quanto riguarda le riforme istituzionali usandola come una sorta di scaramanzia, un portafortuna che dovrebbe rassicurare Bersani a romper gli indugi e venire "a patti col diavolo" come direbbe Di Pietro, fermo nella sua decisione dissennata di anteporre l'interesse della sua ditta a quelli di un'opposizione seria e impegnata a tutelare gli interessi del Paese.

Ma sulla "bozza Violante" bisogna esser chiari. Si tratta d'un documento attuale ancorché stilato diversi anni fa.

Parla di diminuire il numero dei parlamentari, di un diverso ruolo del Senato e di altre modernizzazioni istituzionali concernenti i poteri della Presidenza del Consiglio. Sono questioni importanti e non dovrebbe esser difficile raggiungere su di esse un'intesa tra maggioranza e opposizione. Ma la "bozza Violante" non fa menzione o la fa in modo vago del rafforzamento dei contropoteri necessario per procedere alle auspicabili modernizzazioni.

Non ne fa menzione perché quando Violante stilò quel documento, Berlusconi non aveva ancora manifestato la sua visione sul cambiamento della Costituzione. Quel documento oggi risulta gravemente manchevole non già per imperizia del suo estensore ma perché le condizioni del confronto- scontro sono radicalmente cambiate.

E' perciò del tutto inutile salmodiare sulla necessità delle riforme condivise se prima il premier e i suoi salmodianti non avranno tolto di mezzo la pretesa di cambiare la Costituzione dando all'Esecutivo un potere sovraordinato sia sul legislativo sia sul giudiziario sia sugli organi di suprema garanzia a cominciare dal Capo dello Stato e dalla Corte costituzionale e - per quanto riguarda quest'ultima - ritirando il disegno di modificare le modalità di elezione dei suoi membri.

In sostanza le riforme non saranno praticabili fino a quando il premier e la sua maggioranza non torneranno sui loro propositi di alterare la Costituzione in senso autoritario. Il partito dell'amore propugna un sentimento che merita di essere incoraggiato purché non sia una maschera che nasconde un tentativo di stupro. Nel qual caso si tratterebbe - allora sì - d'un inciucio col diavolo che il Partito democratico dovrebbe denunciare e contrastare con fermissima decisione, come certamente farà.

Post scriptum. Anche il Papa è stato oggetto di ruvida attenzione da parte di una ragazza venticinquenne che l'ha trascinato a terra scatenando un parapiglia sotto le volte di San Pietro con la conseguenza di far cadere anche il cardinale Etchegaray che si è rotto il femore e dovrà essere operato. La caduta a terra del Papa e del cardinale hanno fatto il giro del mondo, né più né meno del ferimento di Berlusconi, ed è naturale che sia così. Si tratta di due incidenti analoghi con una differenza: il Papa è per definizione il capo del partito dell'amore e quindi non ha bisogno di fondarlo perché ci pensò Gesù di Nazareth duemila anni fa. Il compito di Berlusconi è dunque molto più arduo, ma proprio per questo ancor più affascinante.

Del resto in una sua recentissima affermazione si è paragonato a Gesù Cristo per il ferimento a suo danno. Siamo dunque sulla buona strada...

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« Risposta #179 inserito:: Gennaio 03, 2010, 04:13:32 pm »

L'EDITORIALE

Berlusconi deve dare una risposta a Napolitano

di EUGENIO SCALFARI


Come tutti i discorsi chiari e complessi, quello indirizzato agli italiani la sera dell'ultimo giorno dell'anno dal presidente Napolitano è facile e al tempo stesso molto difficile da commentare. Ha parlato per poco più di venti minuti. Non ha tralasciato alcuno dei temi che interessano i cittadini. Tutti i cittadini, da lui esplicitamente nominati: gli uomini e le donne, i vecchi e i giovani, i lavoratori e gli imprenditori, i volontari, i militari, le forze di polizia, gli studenti, i docenti, i magistrati, i liberi professionisti, i residenti all'estero, gli immigrati. Insomma tutti, ma soprattutto i giovani, i lavoratori e il Mezzogiorno.

Queste sono dunque le priorità scelte da Napolitano e sulle quali egli ha richiamato l'attenzione della pubblica opinione; è stato lui stesso a dircelo con il suo messaggio alla nazione. Ma questa è soltanto la prima segnalazione che emerge dalle sue parole.

La seconda segnalazione emerge dall'ordine in cui sono disposti gli argomenti; ordine non casuale perché quel discorso è calibrato fin nelle virgole anche se è intriso di passione civica e intellettuale.
Al primo posto ci sono i temi del lavoro, della disoccupazione, la constatazione che molte sono le persone e le famiglie in grave e crescente disagio, il timore che questo disagio sia destinato ad aumentare nei prossimi mesi, la necessità che sia al più presto organizzata una rete completa di ammortizzatori sociali che ancora non c'è. Giovani, precari, abitanti del Sud e rispettive famiglie sono i soggetti più colpiti dalla crisi per i quali non sono ancora stati predisposti i necessari sostegni.

Il Presidente ha ricordato che questi moniti erano stati da lui formulati già nel discorso del 31 dicembre 2008. Da questo punto di vista si deve dunque registrare l'inadempimento del governo rispetto a necessità oggettive prevedibili e previste. Non siamo noi a dirlo, ma il messaggio presidenziale.

La terza segnalazione e il tono generale dell'intero messaggio si ispirano a speranza e fiducia. Non si tratta di formulazioni generiche ma di sentimenti solidamente motivati da Napolitano. Questo è un aspetto molto importante del suo messaggio perché tocca un tasto inconsueto: il Presidente riconosce e si compiace dell'attiva resistenza che gli italiani, la società italiana, i ceti che la compongono, hanno opposto alla crisi riuscendo ad attenuarne i devastanti effetti e dandosi carico dei disagi gravi che essa ha comunque prodotto.

Una resistenza attiva e condivisa: ha detto proprio così il Presidente, richiamando altri momenti della nostra storia repubblicana nei quali una resistenza analoga, quasi un istinto di sopravvivenza collettiva, spinse la nazione fuori dalla tempesta che ne stava mettendo in causa l'esistenza. Quali sono stati quei momenti? Tre soprattutto e Napolitano ne ha fatto cenno più volte nelle sue pubbliche (e private) esternazioni: la solidarietà degli italiani con le organizzazioni partigiane nel '44-45; la fase della ricostruzione dell'economia dopo la catastrofe della guerra; la compattezza nazionale contro il terrorismo negli anni di piombo dal '78 all'83.

Viene qui a proposito ricordare un sondaggio di pochi giorni fa, commissionato e pubblicato dal giornale "24 Ore", con varie domande. Una di esse interrogava il "campione" sulla Costituzione: se era inadatta e superata o invece ancora viva nei valori e nei principi e quindi meritevole di essere sostenuta. La maggioranza in favore della seconda risposta è stata altissima, quasi il 90 per cento si è espresso in favore della Costituzione. Altissima e per certi versi imprevista.

Cito questo dato perché ci introduce ad un altro aspetto del messaggio presidenziale dell'altro ieri, che riguarda direttamente la questione delle riforme istituzionali e della situazione politica entro la quale il processo riformatore si colloca.
Il Presidente avrebbe potuto sfumare questo problema, farne cenno come memorandum e auspicarne la realizzazione. Invece è andato molto più oltre: ne ha indicato le condizioni di fattibilità. Non le sue condizioni perché il suo ruolo è quello di un testimone "informato dei fatti" e al tempo stesso titolare d'un potere di constatazione e di garanzia. Non dunque le sue condizioni ma quelle oggettive, in mancanza delle quali quelle riforme non potranno essere realizzate.

La prima condizione è che quelle riforme siano condivise da una maggioranza molto ampia. La seconda è che siano accantonati i pregiudizi. La terza è il rispetto delle procedure fissate dalla Costituzione stessa. La quarta è che, per quanto riguarda le riforme istituzionali, esse si limitino alla seconda parte e non alla prima della nostra Carta che ne indica i principi ispiratori e che è, per definizione, intangibile.
Fa piacere registrare che - a parte il distinguo della Lega e l'inopinata uscita di Brunetta contro l'articolo 1 - tutte le altre parti politiche si siano dichiarate d'accordo con lo spirito e la lettera del messaggio presidenziale. Ma qui sorge qualche dubbio e qualche non marginale punto interrogativo.

* * *

Non solo la prima parte della Costituzione, ma anche il discorso dell'altro ieri del Presidente della Repubblica indicano i principi intangibili dei quali si auspica la condivisione di tutte le parti politiche, senza di che sarà molto difficile compiere quelle riforme: lo Stato di diritto, la separazione dei poteri costituzionali e la loro reciproca indipendenza, il rafforzamento delle istituzioni di controllo e di garanzia. Questo assetto dello Stato è indisponibile, cioè non può essere modificato neppure da eventuali pronunciamenti della volontà popolare la quale deve essere esercitata nei limiti previsti dalla Costituzione.

Ma dall'inizio di questa legislatura - e anche prima ve ne erano state preoccupanti anticipazioni - Berlusconi e il gruppo dirigente del suo partito hanno messo all'ordine del giorno una modifica della Costituzione che ha tutti i connotati di un mutamento radicale e dovrebbero essere proprio quei fondamenti costitutivi e indisponibili ad esserne coinvolti.

Quando Napolitano, dopo aver ricordato i suddetti principi, ravvisa nell'abbandono dei pregiudizi una delle condizioni tassative per la realizzazione delle riforme, a quali pregiudizi si riferisce?
In tutte le comunità, da quelle religiose a quelle democratico-costituzionali, esistono principi non disponibili sui quali è per definizione impossibile ogni negoziato. Non crediamo di forzare il discorso del Presidente se ravvisiamo nel radicalismo anticostituzionale del premier l'ostacolo da rimuovere affinché la modernizzazione della seconda parte della Carta possa aver luogo. Di più: la procedura di revisione prevista dall'articolo 138 esclude un "forum" extra-parlamentare che elabori un nuovo sistema e lo proponga in blocco all'approvazione delle Camere. Il 138 esamina modifiche specifiche caso per caso da sottoporre separatamente ai referendum confermativi quando manchi l'approvazione della maggioranza qualificata richiesta dalla Costituzione.

Questo è dunque lo schema entro il quale si possono realizzare le riforme. Esso richiede dunque un mutamento politico sostanziale nell'approccio fin qui sostenuto dal governo. Spetta perciò al premier, che ne è il principale sostenitore, rispondere al Presidente della Repubblica e alle forze di opposizione su questo punto fondamentale.
La riforma della giustizia, della quale anche ha parlato il Capo dello Stato, fa parte di questo chiarimento per tutto ciò che attiene alla Costituzione, leggi "ad personam" comprese.

* * *

In questo quadro ha importanza anche quella sorta di disarmo linguistico tra le parti politiche di cui il cosiddetto "partito dell'amore" rappresenta la metafora immaginifica.

Quel disarmo è auspicabile ed in parte è già avvenuto, almeno per quanto riguarda il Partito democratico da un lato e alcuni settori del governo e della maggioranza parlamentare. Pensare tuttavia ad una spersonalizzazione del confronto politico non è obiettivo a portata di mano. Esso richiederebbe un mutamento radicale nei comportamenti e addirittura nel carattere del premier, anzi per esser chiari fino in fondo una premiership di tutt'altra natura.

Si può chiedere a Silvio Berlusconi di non essere più Silvio Berlusconi? Si tratta ovviamente d'una domanda retorica alla quale la sola risposta possibile è negativa. Berlusconi è un fenomeno politico inseparabile da una personalizzazione estrema che costituisce l'elemento addirittura fondativo del suo partito. Perciò la personalizzazione continuerà per la semplice ragione che essa è ormai diventata un elemento istituzionale.
La sola cosa che si potrebbe chiedere sarebbe una sua moderata attenuazione, un esibizionismo più controllato e più sobrio, per usare un aggettivo che appare - anch'esso non casualmente - nel discorso di Napolitano. Sarebbe per esempio sommamente inopportuno che il premier impostasse la campagna elettorale per le elezioni regionali sulla propria effigie coperta di sangue dopo l'improvvido "attentato" di piazza del Duomo.

Purtroppo proprio questo avverrà e sta già avvenendo; avremo i muri delle città tappezzati dal volto d'un Berlusconi ferito e sanguinante, un "grandguignol" in piena regola che dilagherà anche negli spot televisivi: un colpo d'accetta su un confronto politico normale, come auspica con stimabile tenacia il Presidente della Repubblica.

Mi domando che cosa potrà avvenire se lo stravolgimento costituzionale auspicato dal centrodestra passerà alle Camere senza maggioranza qualificata e sarà quindi sottoposto a referendum confermativo.
Si troveranno in quel caso a confronto due disegni, due visioni, due concezioni della politica e del bene comune radicalmente antitetiche. Una rappresentata da Silvio Berlusconi e l'altra da Giorgio Napolitano.
Sicuramente quest'ipotesi non è nelle intenzioni del Capo dello Stato ma oggettivamente sarà questa la natura e la sostanza di quel confronto e di quei referendum.

Date le premesse che abbiamo fin qui illustrate, c'è solo da auspicare che ciò non avvenga, ma dipende solo dal premier far sì che l'auspicio si verifichi, in mancanza di che si avrà un confronto il cui esito sarà incertissimo e denso delle incognite più preoccupanti.

© Riproduzione riservata (3 gennaio 2010)
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