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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318547 volte)
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« Risposta #135 inserito:: Maggio 08, 2009, 04:52:37 pm »

Eugenio Scalfari


Montanelli anti e arci


Indro fu allo stesso tempo antitaliano e arcitaliano come capita alle persone di talento e di grandi passioni. Nel '94 ruppe con Berlusconi per l'avventurismo e il narcisismo patologico del Cavaliere  Indro MontanelliQualche giorno prima che si compissero cent'anni dalla nascita di Indro Montanelli sua nipote, che l'ha avuto molto caro e l'ha assistito amorosamente nei momenti dolorosi del trapasso, mi invitò a partecipare in qualche modo alla celebrazione di quell'anniversario. Ringraziai e promisi che l'avrei fatto, ma a qualche settimana di distanza. Non avevo voglia di unirmi ad un coro un po' troppo rituale che tendeva più a fare di lui una sorta di icona che a ricordare la persona vera, con i suoi pregi e i suoi difetti come ciascuno di noi.

Ho scritto molto su di lui: spesso contro, talvolta a favore, ma sempre cercando di capire quale fosse la sua natura e fino a che punto abbia rappresentato i sentimenti degli italiani, ammesso che sia possibile cogliere alcuni connotati comuni ad una nazione così variegata e con storie così diverse tra un luogo e l'altro.

Indro Montanelli, tra le tante immagini che gli sono state appioppate, è stato definito l'antitaliano e l'arcitaliano. Sono l'esempio di una contraddizione ma colgono un aspetto vero perché Indro fu allo stesso tempo l'uno e l'altro, anti e arci, come capita alle persone di talento e di grandi passioni. Simile in questo a moltissimi concittadini, a conferma del fatto che una nazione italiana non esiste perché il suo tratto essenziale è la contraddizione che nega ciò che afferma e afferma ciò che nega. "Siamo un gruppo di uomini indecisi a tutto", scriveva Ennio Flaiano. Esprimeva lo stesso concetto e la stessa visione.

Personalmente non ho mai condiviso questo modo di sentire, non sono mai stato anti e arci contemporaneamente, ho parteggiato per certe idee, per certi obiettivi, per affermare certi diritti e altrettanti doveri, sperando che questa visione delle cose si radicasse fino a diventare patrimonio di tutto il paese. In questo mio parteggiare è anche accaduto che fossi fazioso e mi sentissi straniero in patria nei momenti di maggior delusione, non rinunciando tuttavia a sperare in un futuro più prossimo ai miei ideali e ai miei convincimenti.


Questo modo di sentire e di essere era molto diverso da quello di Indro, lo sapevamo tutti e due, ma ci siamo stimati e talvolta ci siamo anche trovati insieme a sostenere alcune battaglie di libertà. La libertà era infatti una passione comune che ha reso possibile un dialogo tra noi e un'amicizia. Pochi sanno che ci fu un momento in cui pensammo addirittura di fondare insieme un giornale. Del resto l'intervista che determinò la sua rottura con il 'Corriere' Montanelli la dette all''Espresso' e non per caso.

Per sua più volte ripetuta ammissione Indro ebbe due punti di riferimento culturali ed anche caratteriali: Prezzolini e Leo Longanesi. Due pessimisti ad oltranza, due solitari, intrisi di scetticismo ed anche di cinismo. Così era anche Montanelli: pessimista, scettico, solitario ma non era cinico, al contrario era generoso. Generoso, libertario, libertino. Non liberale: sentirsi e dichiararsi tale avrebbe significato scegliere un'appartenenza se non altro culturale, ma questo Indro non lo fece mai, non era nelle sue corde.

Qualcuno l'ha avvicinato a Malaparte. Certe apparenze possono indurre a cogliere una somiglianza ma a mio parere non rappresentano la sostanza di quelle due persone. Malaparte era un uomo d'avventura dominato da una sola passione divorante: l'amore di sé, un narcisismo patologico da manuale accompagnato da un indubbio talento letterario.

Montanelli non ebbe nulla dell'avventuriero e disprezzava chi ne era attratto. La sua rottura con Berlusconi nel 1994 ebbe come motivo essenziale l'avventurismo ed anche il narcisismo patologico che emerse in quell'occasione come elemento dominante del Cavaliere. Anche Indro aveva la sua dose di narcisismo come ciascuno di noi, nei limiti però della fisiologia e questo fa la differenza.

Non starò a dire quanto fosse bravo nel giornalismo e nella divulgazione culturale di cui fu maestro. Se si vuole cercare un senso alla sua lunghissima esperienza professionale, dovrei dire che trasformò in buonsenso il senso comune prevalente. A suo modo politicizzò il senso comune, un'operazione che inconsapevolmente condusse per tutta la sua vita professionale e che spiega il grandissimo successo e il consenso che si è creato intorno a lui. Non so se sia un complimento questo che qui sto esprimendo, ma credo che espresso in poche parole sia questo il senso dell'operazione giornalistica e culturale da lui compiuta.

(07 maggio 2009)

da espresso.repubblica.it
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« Risposta #136 inserito:: Maggio 10, 2009, 06:07:53 pm »

IL COMMENTO

Le trame e i segreti della corte imperiale


di EUGENIO SCALFARI


E' PASSATA poco più d'una settimana da quando la signora Veronica Lario in Berlusconi ha rotto il velo del "Mulino bianco" collocato tra le ville di Arcore e Macherio, scatenando una "tempesta perfetta" registrata con ampiezza dai giornali e dalle televisioni di tutto il mondo. Viene in mente il "Truman Show", quel libro e quel film di grande successo che raccontarono qualche anno fa di un giovane scelto fin dalla nascita da una grande catena televisiva, protagonista a sua insaputa di un "reality" seguito da un immenso pubblico fino a quando la barriera che chiudeva lo spazio del "set" venne varcata e il giovane acquistò coscienza ed entrò finalmente nel mondo reale.

Qui è accaduto e sta accadendo qualche cosa di analogo con la differenza, certo non di poco conto, che il "reality" non è immaginario ma reale, è reale il protagonista che è il capo del governo ed è reale lo spazio in cui l'azione si svolge, i comprimari che lo circondano, i cortigiani, i ministri, il popolo. Tutto è tremendamente reale, eppure è nello stesso tempo immaginario, mediatico, politico. In Italia va dunque in scena un "Truman Show" e tutti noi ne siamo gli attori. Non so se riderne o disperarsene. Scegliete voi cari lettori.

Attorno a questa situazione a dir poco anomala si sono accese molte discussioni e sono emersi molti temi distinti uno dall'altro e tuttavia interdipendenti. Uno di questi riguarda il modo d'essere e per conseguenza il modo di vivere di Silvio Berlusconi.

Non è certo la prima volta che questo tema sale al centro dell'attenzione pubblica ma mai come in questo caso che ha mescolato la politica e il "corpo del re" al gossip più pruriginoso che coinvolge i rapporti tra il pubblico e il privato.

Il secondo tema riguarda il corpo delle donne, il rispetto che gli si deve e le offese che gli si recano nonché i modi con i quali lo si usa. "Mode d'emploi".

Il terzo tema riguarda la sensibilità (o l'insensibilità) dei cattolici, dei loro pastori, della Chiesa su questo complesso di questioni etiche e al tempo stesso politiche.

C'è poi il tema concernente gli effetti o i mancati effetti di queste vicende sulla pubblica opinione e sulle intenzioni di voto che ne derivano. Questa discussione mette anche in causa il ruolo dei "media", la loro oggettività e la loro faziosità.

I vari temi sono da tempo sotto esame da parte dei giornali e delle televisioni ma è nell'ultima settimana che la temperatura è salita e la tensione ha raggiunto il massimo.

Il pubblico è abbastanza frastornato e le posizioni si vanno rapidamente radicalizzando. Ma è anche vero che per la prima volta si è aperta una crepa nel muro fin qui compatto del consenso berlusconiano. La crepa è visibile ma è ancora presto per stabilirne la profondità. Se riguarda soltanto l'intonaco non avrà conseguenze sulla solidità dell'edificio. Oppure si estenderà intaccando le fondamenta, i muri maestri e il tetto. I sondaggi già effettuati a ridosso dei fatti non hanno ancora l'attendibilità necessaria per far capire la natura delle lesioni che quell'edificio ha subìto.

* * *

Comincio con un'osservazione che riguarda i rapporti tra la sfera pubblica e quella privata. Sulla "Stampa" di mercoledì Barbara Spinelli ha approfondito questo tema ed ha scritto: "Sarebbe bello se gli uomini politici appendessero all'attaccapanni tutte le loro questioni private prima di entrare nell'agorà della politica" ed ha aggiunto: "Si vorrebbe non saper nulla dell'uomo politico se non quel che riguarda il bene comune, nulla delle sue notti o delle sue vacanze, nulla delle sue barche, delle sue tribù parentali, nulla neanche del suo credere o non credere in Dio. La cosa pubblica sarebbe bello che fosse un piccolo lembo di terra dove l'umanità fa politica".

Cara Barbara, sarebbe bello? Una volta tanto non concordo con te, se non altro perché non è mai accaduto, neppure nella polis di Pericle, di Socrate, di Alcibiade. Non è mai accaduto nella storia antica e tanto meno in quella moderna. Soprattutto non è mai accaduto quando il potere raggiunge livelli di spinto autoritarismo o addirittura diventa potere assoluto.

In tempi di democrazia una sottile distanza tra pubblico e privato può sussistere, ma in regimi autoritari o assoluti quella tenda divisoria cade del tutto.

L'esempio più eloquente si ha guardando alla Francia del re Sole che dette il tono per 150 anni a tutte le corti d'Europa. Lo Stato era il re, proprietà e patrimonio del re, e così l'esercizio della giustizia e dell'amministrazione, la pace e la guerra. Nulla era privato nella vita del re, ogni suo gesto, ogni sua frequentazione, ogni suo attimo si svolgeva al cospetto del pubblico, a cominciare dal suo risveglio, delle sue funzioni corporali, del suo più intimo "nettoyage" cui era adibito un ciambellano di nobile famiglia che aveva il privilegio di "pulire il re".

Le amanti del re abitavano a corte e apparivano al braccio del sovrano senza alcuna mistificazione.

In tempi moderni qualche ipocrisia in più ha attenuato queste esibizioni ma non molto. Mussolini si esibiva a dorso nudo tra i contadini e i muratori, ma nascondeva Claretta nonostante si vivesse in tempi di potere assoluto. Voglio qui ricordare la battuta recente di Alessandra sua nipote: a chi gli domandava quali fossero le differenze tra suo nonno e Berlusconi in tema di frequentazioni femminili, ha risposto: "Mio nonno non ha mai fatto ministro la Petacci". In effetti la differenza è notevole, anzi è una delle materie del contendere e la si trova esplicitamente indicata nella dichiarazione all'agenzia Ansa di Veronica Lario.

* * *

Nella trasmissione di Bruno Vespa dedicata a Berlusconi e alla sua rottura con la moglie il titolo che campeggiava sul telone di fondo era: "Oggi parlo io". Infatti così è stato per oltre due ore, ha parlato soltanto lui anche se, oltre al conduttore come sempre abilissimo, c'erano tre "figuranti" nelle persone del direttore del "Corriere della Sera", del direttore del "Messaggero" e dell'estroso Sansonetti, già direttore di "Liberazione".

Sono amico di Ferruccio De Bortoli e ho stima di lui sicché uso con disagio la parola "figurante" ma non ne trovo altre più appropriate. La loquela berlusconiana ha letteralmente sommerso i tre colleghi. Il direttore del "Corriere" ha avuto soltanto la possibilità di raccomandare al premier maggior sobrietà nell'esercizio delle sue pubbliche funzioni, ma si è preso un rimbrotto immediato perché il Protagonista ha rivendicato il suo modo d'essere come un irrinunciabile esempio di democrazia popolare. Lui è fatto così e va preso così, dicono i suoi amici e ricordano la canzone da lui preferita nel suo repertorio canoro: "Je suis comme je suis" di Juliette Gréco, che lui canta spesso con molta grazia.

Per il resto i tre colleghi hanno ascoltato silenti il suo lunghissimo monologo. Forse sarebbe stato meglio se avessero rinunciato ad una presenza alquanto umiliante.

E' andato così in scena un processo in contumacia contro la moglie Veronica di fronte a quattro milioni di spettatori. Lui ha negato tutti gli addebiti come a suo tempo fece Bill Clinton, fino a quando dovette smentirsi platealmente per evitare l'"impeachment".

Clinton aveva cominciato col negare qualsiasi rapporto sessuale con la stagista della Casa Bianca e continuò imperterrito a ripetere questa sua verità pur di fronte all'immenso clamore dei "media" di tutto il mondo. Il tambureggiamento dei giornali e delle televisioni durò a lungo; Clinton dovette ripetere le sue affermazioni di innocenza davanti ad un Grand Jury fino a quando Monica Lewinsky confidò la sua verità ad un'amica che vuotò il sacco con la stampa. A quel punto l'ipotesi d'un impeachment per aver mentito al congresso diventò incombente e Clinton confessò per evitare un giudizio che si sarebbe probabilmente risolto con la sua infamante rimozione dalla carica.

Confrontare le normative italiane in proposito con quelle americane sarebbe umiliante. Aggiungo soltanto che nella sua lettera all'Ansa la signora Berlusconi-Lario denuncia il clima di omertà che circonda e protegge le malefatte dell'"imperatore". Ne abbiamo avuto una prova eloquente durante la trasmissione di Santoro con la prestazione dell'avvocato e deputato Niccolò Ghedini. Non avevo mai visto un avvocato difensore comportarsi non come un professionista libero anche se impegnato a proteggere gli interessi del suo cliente, ma come un servitore addestrato a picchiare mettendosi sotto i piedi la logica oltre che la verità.

Il vero spettacolo di quella trasmissione è stato lui, Niccolò Ghedini; nella sua doppia qualifica di avvocato di un solo cliente e di rappresentante del popolo e legislatore molto si è detto e scritto ma non abbastanza. E' perfino peggio di Previti che nelle sue malefatte ostentava almeno una sua grandezza. Il suo più giovane collega sembra piuttosto un pretoriano, perfettamente appropriato all'aria di basso impero che circola con tutte le sue flatulenze nei palazzi del potere.

* * *

Un'altra osservazione che bisogna fare riguarda la ricattabilità: Berlusconi è una persona ricattabile perché nega alcune circostanze che sembrano evidenti e che sono a conoscenza diretta di altre persone. Queste persone sono state e saranno colmate di benefici, ma dei loro servizi egli non può disfarsi quand'anche lo volesse poiché sono al corrente di segreti piccoli o grandi che potrebbero offuscare o addirittura interrompere i suoi successi e il suo potere.

Spesso è accaduto che tra queste persone si verificassero contrasti e che la loro riservatezza fosse dunque a rischio. Finora il leader è riuscito a mediare, a conciliare, a tacitare, ma il rischio è ricorrente e spiega anche alcune vicende altrimenti incomprensibili.

Una di esse, la più recente, è l'amicizia tra il premier e Elio Letizia, padre di Noemi. Non si sa come sia nata quell'amicizia né quando, una spessa coltre di reticenza ne copre l'origine e la natura alla stregua di un vero e proprio segreto di Stato. Basta leggere o ascoltare le interviste del signor Letizia - personaggio con non lievi trascorsi penali - per rendersi conto di reticenze a dir poco inquietanti.

La stampa ha tra gli altri suoi compiti quello di controllare il potere e cercare la verità bucando il velo della reticenza. E' dunque comprensibile anche se abominevole che la stampa sia una delle principali preoccupazioni di chi detiene il potere. Preoccupazioni "pelose" che si esercitano sulle proprietà dei giornali, sui direttori, sui giornalisti con compiti di rilievo. Gli editti di persecuzione contro giornalisti scomodi servono a metterli fuorigioco, i premi servono invece a favorirne la conversione.

Sarebbe impietoso farne l'elenco ed anche non necessario: basta infatti seguirne i percorsi e le carriere determinate dal Palazzo e gli effetti "deontologici" che ne derivano per averne contezza.

* * *

Questa fitta rete di premi, benefici, ricatti potenziali, lotte di potere, è stata messa in crisi da una donna, da una moglie, dalla sua denuncia pubblica, dall'assunzione di un rischio altissimo e personale.

La denuncia riguarda vizi pubblici e vizi privati che tuttavia costituiscono, come già detto, un contesto unico e non scindibile. Tutta la discussione sulle cosiddette veline assume, nelle parole di Veronica Lario, un significato preciso: la selezione distorta della classe dirigente, ormai interamente rimessa alle scelte capricciose dell'"imperatore".

Lo scandalo non proviene dal reclutamento privilegiato nel mondo dello spettacolo né dall'età né dal sesso delle prescelte, ma dalla preparazione politica sulla quale purtroppo circolano idee improprie.

La politica come tutti la vorremmo ha come premessa una adeguata formazione culturale coltivata in famiglia, a scuola e con letture che contribuiscano a svegliare la fantasia e a far crescere coscienza, carattere e senso di responsabilità.

I giovani che acquisiscono questa preparazione culturale sentono talvolta dentro di loro una vocazione politica, il desiderio di occuparsi del bene comune e di rappresentare interessi legittimi e valori congeniali al loro modo di essere e di pensare. Il seguito è affidato alla capacità individuale, agli incontri, ai punti di riferimento che la società esprime e alla competitività individuale.

Questo è il solo modo adatto a selezionare i talenti politici. Va detto purtroppo che è caduto in disuso in un'epoca di portaborse e di "yes-men".

* * *

Resta da parlare dei cattolici, della Chiesa e delle reazioni che questa vicenda ha suscitato. Se fosse ancora tra noi Pietro Scoppola intervenire su questo tema gli spetterebbe di diritto: si tratta di etica, un valore che coinvolge in modi diversi ma egualmente intensi sia il pensiero laico sia il mondo cattolico, con in più per quest'ultimo che l'etica è strettamente intrecciata al sentimento religioso e quindi impedisce il cinismo dell'indifferenza o almeno così dovrebbe.

Per quel che emerge da alcuni segnali il mondo cattolico, o per esser più precisi il laicato cattolico, vive con molto disagio il paganesimo berlusconiano abbinato ad una "devozione" di natura commerciale agli interessi della Chiesa. Proprio perché questo disagio è forte ed esercita una pressione intensa nelle Comunità e negli Oratori, la Conferenza episcopale l'ha assunto come proprio e il suo giornale, l'"Avvenire", ne ha dato conto.

Le reazioni della Santa Sede, manifestate tre giorni fa dal Segretario di Stato vaticano al plenipotenziario berlusconiano Gianni Letta, sono state invece di ben diversa natura. Si è raccomandata prudenza, maggior riserbo, abbassamento dei toni, offrendo in contropartita il silenzio della Santa Sede su quanto è accaduto. Il tema del possibile divorzio riguarderebbe un matrimonio civile e quindi non interessa la Chiesa. Semmai e paradossalmente quel divorzio sanerebbe lo strappo del primo divorzio, invalido per il diritto canonico poiché scioglieva un matrimonio celebrato religiosamente.

Un paradosso che riduce l'etica cattolica ad una ripugnante casistica, spiegata e condivisa da Francesco Cossiga che si era recato a solidarizzare col premier e poi, interrogato dai giornalisti, ha così risposto: "Alla Chiesa importa molto dei comportamenti privati, ma tra un devoto monogamo che contesta certe sue direttive ed uno sciupafemmine che le dà invece una mano concreta, la Chiesa dice bravo allo sciupafemmine. Sant'Ambrogio disse non a caso "Ecclesia casta et meretrix"".

Se è per questo, Dante disse assai di peggio. Era ghibellino e non si faceva certo intimidire.

(10 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #137 inserito:: Maggio 17, 2009, 11:21:35 am »

IL COMMENTO

La guerra dichiarata al nemico migrante

di EUGENIO SCALFARI


Il tema dei migranti domina su tutti gli altri l'attenzione degli italiani e delle istituzioni che li rappresentano. Se ne occupa il Parlamento, ne legifera il governo con decreti e voti di fiducia, ne discutono le forze politiche e i "media". La Chiesa si è mobilitata in forze e il presidente della Repubblica è anche lui intervenuto per condannare tentazioni di xenofobia e una retorica che si fa un vanto di chiudere la porta in faccia ad un popolo di disperati che dall'Africa e dall'Oriente tenta di raggiungere l'Europa, il continente del benessere e della gioia (così lo vedono), dei lustrini e della vita facile. Insomma Bengodi.

Questo tema infiamma la campagna elettorale in corso ancor più (ed è tutto dire) del conflitto che oppone Berlusconi a sua moglie e che al di là degli aspetti privati mette in causa la credibilità del presidente del Consiglio e la sua reticenza di fronte a questioni delicatissime e tuttora rimaste senza risposta.

La discussione sui barconi affollati di poveretti "senza arte né parte" secondo la definizione elegante del presidente del Consiglio, investe i problemi della sicurezza, del lavoro, della guerra tra poveri, della criminalità organizzata, ma anche l'etica, la solidarietà, la lotta contro le discriminazioni. Insomma un viluppo di problemi che non è semplice districare ma che incide direttamente sulla sensibilità e sulle legittime paure degli italiani, una volta tanto definibili come indigeni di fronte all'ondata di stranieri che si riversa sui nostri confini marittimi e terrestri.

In questo clima, il governo risponde brutalmente alle critiche dell'Onu, e il ministro La Russa arriva a definire l'Unhcr un'organizzazione "disumana e criminale". D'altronde la Lega e la destra hanno fatto di questo tema il cavallo di battaglia della campagna elettorale di un anno fa, hanno scommesso sulla paura e l'hanno enfatizzata come più potevano. Dovevano dunque pagare il debito contratto con i loro elettori alla vigilia di un altro appuntamento con le urne. Di qui il "respingimento" dei barconi in alto mare, che ha tutte le caratteristiche di uno spot pubblicitario accolto con soddisfazione da una vasta platea di italiani intimoriti e incattiviti dall'arrivo dei barbari, invasori delle nostre terre e della nostra tranquillità.

C'è un punto di equilibrio tra queste due opposte rappresentazioni della realtà? C'è una soluzione che salvaguardi valori e interessi che sembrano inconciliabili?

* * *

Se trionfasse la ragionevolezza sull'emotività non sarebbe difficile trovare quel punto di equilibrio, ma sono molti gli ostacoli che vi si frappongono.

Il primo ostacolo sta nell'interesse politico della Lega e del partito che si è dato il nome (quanto mai incongruo) di Popolo della libertà. Questo interesse mira a mantenere alto il livello di emotività di un'ampia parte del paese e se possibile ad alzarlo sempre di più. Bisogna distrarre l'opinione pubblica da altri temi incombenti e non favorevoli al governo: la crisi economica, la distruzione crescente di posti di lavoro, la perdita di competitività del sistema-Italia, il terremoto d'Abruzzo e i disagi che ne derivano e che sono ancora lontani dall'essere soddisfatti, la cicatrice tutt'altro che rimarginata della credibilità pubblico-privata del premier.

Bisogna trovare un nemico esterno sul quale concentrare la rabbia della gente ed eccolo pronto, quel nemico: è il popolo dei barconi. Le guerre servono a indicare un bersaglio infiammando l'opinione pubblica patriottarda e questa è una guerra. A questo serve il "respingimento", a questo servono le ronde, a questo serve aver istituito il nuovo reato di immigrazione clandestina.

In realtà il 90 per cento del popolo dei migranti entra in Italia e in Europa dai confini dell'Est europeo, l'immigrazione dal mare non supera un decimo dei flussi d'ingresso, ma respingere i barconi con la marina da guerra è molto più teatrale, fa scena, slega gli istinti xenofobi di chi assiste allo spettacolo dal proprio tinello guardando la televisione.

Si dice: quella gente "senza arte né parte" è ingaggiata dalla mafia, trasportata dalla mafia, e da essa controllata; viene da noi per delinquere, ricondurli da dove sono partiti è dunque un nostro diritto, anzi un dovere verso noi stessi e verso la Comunità europea. Ma manca la prova che i migranti dei barconi siano collusi con la mafia. Vengono dai luoghi più disparati, dal Sudan, dall'Eritrea, dall'Etiopia, dalla Nigeria, dal Maghreb, dall'Africa equatoriale. Hanno attraversato boscaglie, foreste, deserti. Inseguono un sogno e affrontano la morte e le sevizie per mesi e mesi. Collusi con la mafia? Trasportati dalla mafia degli scafisti, questo sì. E poi carne da macello di tutte le violenze. E per finire anche con la nostra.

Non è respingendo i barconi che la nostra sicurezza migliorerà. Non è con le ronde. Non è con la vessazione e con le denuncie.

Bossi ha detto: io parlo con la gente e la gente vuole questo. è vero, Bossi parla con la gente e trova consensi. Ma si vorrebbe sapere qual è la gente con la quale parla il leader della Lega.

Certo, l'emotività contro il nemico migrante si estende. è un buon segno? Non direi. è un "trend" verso il peggio. I leader politici che avessero il senso della responsabilità dovrebbero scoraggiarlo. Se invece ne godono, se si fregano le mani e alzano le dita a V come simbolo di vittoria e come fa il nostro ministro dell'Interno compiono un pessimo servizio verso l'interesse nazionale. Giorgio Napolitano, quando manifesta preoccupazione per la retorica sull'immigrazione parla proprio di questa irresponsabilità. Sarà un caso, ma il Capo dello Stato riscuote fra l'80 e il 90 per cento di consenso nazionale. Con chi parlano Bossi, Maroni, Calderoli?

* * *

Quel "trend" irresponsabile e così irresponsabilmente alimentato lambisce anche persone insospettabili. Mi hanno molto stupito e preoccupato alcune recenti dichiarazioni del sindaco di Torino, uno dei leader del Partito democratico. Ha detto che respingere i barconi non viola il diritto internazionale ed ha ragione. Ha aggiunto che il "respingimento" è autorizzato dall'Unione europea e fu adottato nel 1997 da Prodi e D'Alema per bloccare il flusso migratorio dall'Albania. Ha ragione anche su questo punto ma con una piccola differenza: in Albania c'erano anche la polizia e i militari italiani, i centri di raccolta erano sotto il nostro costante controllo e non sono paragonabili con quanto accade nell'inferno dei centri di raccolta libici.

Ma c'è un punto che più mi incuriosisce nelle parole di Chiamparino. Il sindaco di Torino propone di concentrare gli sbarchi verso due porti da indicare dell'Italia meridionale. Sbarchi settimanali, autorizzati a trasportare i migranti regolari o regolarizzabili. Che cosa significa regolari o regolarizzabili? Vuole dire quelli chiamati da un datore di lavoro italiano? Quelli non hanno bisogno di imbarcarsi sui barconi degli scafisti, possono prendere navi di linea e arrivare dove vogliono. Di chi sta parando Chiamparino? Qualche spiegazione sarebbe necessaria. Chi è chiamato non è clandestino. Chi è clandestino non è regolarizzabile e viene respinto in alto mare. Esiste una terza categoria "chiampariniana"? Ed anche "maroniana" e persino "berlusconiana" che noi non conosciamo? è una nostra lacuna informativa. Allora per favore colmatela.

Ho letto che Maroni sta per riproporre il tema delle badanti. Pare ci siano molte badanti clandestine. La polizia le scoverà e saranno rapidamente rimpatriate.

Chiamparino è d'accordo? Spiegatevi perché le vostre parole e le vostre proposte sono molto confuse.

* * *

Da qualche giorno i giornali fanno anche il nome di Piero Fassino tra coloro che dissentirebbero dal segretario del Pd sul tema dell'immigrazione. Fassino è persona che dice sì oppure no con grande chiarezza; non ha in mente altro che l'interesse pubblico e non quelli di partito e di bassa politica. Perciò gli ho chiesto direttamente quale sia la sua posizione in proposito.

Mi ha detto: 1) il "respingimento" è consentito dall'Unione europea. 2) Fu sperimentato con successo per stroncare il traffico di persone in provenienza dall'Albania. 3) L'Albania era sotto controllo della Nato e in particolare dell'Italia. 4) La situazione con la Libia è completamente diversa. 5) I centri di raccolta libici dovrebbero esser messi sotto controllo internazionale; riportare il popolo dei barconi in quei centri significa riconsegnarli ad un sistema di vessazioni crudeli. 6) Il governo italiano dovrebbe chiedere a quello libico un diritto di ispezione dei centri e condizionare a quel diritto l'erogazione delle risorse finanziarie che l'Italia ha promesso alla Libia.

Infine Fassino ha aperto un altro capitolo che a me pare di grande importanza: qual è la politica del governo italiano verso gli immigrati regolari che da anni vivono e lavorano nel nostro paese? è una politica di accoglienza e di integrazione o invece è il suo contrario?

* * *

Quella politica in realtà è un altro ostacolo enorme che si frappone al raggiungimento d'un equilibrio sull'intera questione dell'immigrazione e della sicurezza.

Gli immigrati regolari sono oggi 4 milioni di persone ai quali vanno aggiunti i cittadini europei provenienti dall'Est (romeni, polacchi, ungheresi eccetera).

Le previsioni sui flussi e sulla demografia ci dicono che tra dieci anni gli immigrati "regolari" saranno il 10 per cento dei residenti in Italia. Nel 2020 saranno il 15. Più o meno in tutta Europa sarà quello (e anche più) il livello degli immigrati e figli di immigrati. L'Italia, come già la Francia e la Gran Bretagna, sarà un paese multietnico, multiculturale, multireligioso. Non è un'opinione, è un fatto ed esiste già ora.

Ha ragione Fassino di porre il problema: qual è la nostra politica per gestire questo fenomeno? Del resto anche Fini la pensa allo stesso modo e pone le stesse domande.

Il premier ha già risposto: l'Italia non è un paese multietnico, il governo non vuole che lo diventi e non lo diventerà. Infatti le leggi in corso di approvazione ed il modo con le quali sono già preventivamente fin da ora gestite va nella direzione voluta da Berlusconi, Maroni e naturalmente Bossi.

Il risultato sarà questo: l'estensione della cittadinanza sarà sempre più lenta e contrastata; l'accoglienza istituzionale incerta e insoddisfacente; i rapporti tra le comunità di immigrati e i cittadini italiani saranno di diffidenza e non di integrazione, specie nelle zone di più intensa presenza cioè nel centro nord, la parte più ricca e produttiva del paese.

Questa situazione è quanto di peggio ci si prepara.

Non serve a nulla inseguire su questo terreno leghisti e berluscones. A questa deriva bisogna opporsi, tutelando la sicurezza, non soffiando sulla paura, denunciando il mancato rispetto dei diritti civili nei paesi di provenienza a cominciare dalla Libia. Infine coinvolgendo l'Unione europea in una politica europea dell'immigrazione. Si può fare, però sembra un sogno ad occhi aperti.

(17 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #138 inserito:: Maggio 24, 2009, 11:25:14 am »

Eugenio Scalfari


Attualità di Omero


Ulisse segna la nascita dell'Io e della sua inesausta domanda di autonomia, di avventura e di superamento di sé. L'eroe dell'Odissea è l'incipit della modernità, delle sue contraddizioni, delle sue nevrosi, del sentimento morale  Busto di Omero, copia romana del II secolo d.C.Al Salone del libro di Torino, dove sono stato per un paio di giorni più per curiosità letterarie che per impegni editoriali, ho notato che in numerose occasioni è stata ricordata l'importanza di Omero e dei suoi poemi ancora attuali come non mai sebbene siano passati tre millenni da quando cantò le imprese degli eroi sotto le mura di Troia e il ritorno avventuroso di Odisseo ad Itaca.

Quei due poemi e quanto fiorì attorno ad essi con inesausta attenzione hanno dato il tono alla civiltà letteraria occidentale scavalcando le epoche, le religioni, le scuole. Noi parliamo spesso di cultura greca, giudaica, cristiana, islamica indicando con questi riferimenti le radici della nostra civiltà occidentale, ma meglio ancora potremmo dire con una sola parola che in buona parte le comprende ponendosi all'origine di esse: cultura omerica.

In essa c'è infatti il divino, l'eroico, il mito della forza e quello del coraggio, il mito dell'intelligenza, il mondo della magia, quello oscuro delle anime morte, l'amore, la fedeltà, la gelosia, la vendetta, la pietà. Ma c'è anche, incredibile a dirsi, l'embrione della modernità incarnata da Odisseo e dal suo viaggio senza fine.

Ha scritto qualche giorno fa Claudio Magris sul 'Corriere della Sera' che Ulisse è il primo eroe moderno. Ha ragione e del resto siamo in molti ad aver già segnalato l'attualità dell'eroe dalle molte astuzie che attraverso le sue molteplici e perigliose esperienze arricchisce la sua natura e la sua umanità.

Il richiamo ad Ulisse comincia con Virgilio che modella il suo Enea sulla figura dell'eroe omerico, pur senza arrivare alla complessità drammatica del prototipo. Seguono infiniti altri riecheggiamenti nelle saghe dei miti fenici, nibelungici, vichinghi, ma è nel XXVI canto dell'Inferno che Ulisse conquista la sua dimensione completa di simbolo di 'virtute e conoscenza' raggiunte attraverso il viaggio. L'eroe errante per antonomasia, l'eroe delle tentazioni che subisce il fascino dell'avventura, il rischio di restarne preda, la capacità di controllarne la misura e l'esito.

Infinite altre interpretazioni si sono susseguite nelle epoche successive fino ad una sorta di capolinea che ha rilanciato su due diversi livelli il mito odissiaco: il superuomo d'ispirazione nietzschiana e dannunziana, e il borghese Leopold Bloom creato dalla fantasia letteraria di Joyce.

Il viaggio, l'eroe errante, l'idea fissa del ritorno e la necessità, invincibile come tutte le necessità, di ripartire tentando ancora la vita e lasciandosi tentare dall'appuntamento con la morte. E la dea che sempre l'ha protetto, Pallade Atena dagli occhi cerulei, la dea misteriosa dell'intelligenza e della 'polis'.

Non c'è Odisseo senza Atena. Si direbbe, modernizzando una mitologia trimillenaria, che tra i due ci sia stato un amore come non era insolito che avvenisse nei rapporti ravvicinati tra gli umani e gli dèi olimpici. Le tracce di quell'amore sono largamente presenti in tutta l'Odissea come nella sua versione novecentesca joyciana. La dea è gelosa di Calipso che è anche lei invaghita dell'eroe e gli ha promesso l'immortalità se resterà per sempre nella sua isola ai confini del mondo.

Atena impone a Zeus di liberarlo dalla malia di Calipso, così come lo aveva già reso invulnerabile dalla magia erotica di Circe. Ancora Atena lo salva dall'ira di Poseidon, lo nasconde al suo arrivo in Itaca, lo incita a massacrare i Proci che avevano invaso la sua reggia credendolo morto e volendo sostituirlo con uno di loro. Ed è ancora Atena a portare a compimento il massacro nella notte della vendetta e della purificazione.

Una dea e un eroe di tremila anni fa che il poeta dell'Odissea ci propone come 'incipit' della modernità, delle sue contraddizioni, delle sue nevrosi, del sentimento morale. Odisseo-Ulisse segna la nascita dell'Io e della sua inesausta domanda di autonomia, di avventura e di superamento di sé.

Ricordate Zarathustra? "L'uomo è un ponte teso tra l'animale e l'oltre-uomo. L'uomo è una transizione". Questo è l'Ulisse moderno, del quale quello omerico rappresenta l'inizio.

(22 maggio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #139 inserito:: Maggio 24, 2009, 11:34:54 am »

L'EDITORIALE

Il Cavaliere non è più felice né contento

di EUGENIO SCALFARI


MANCANO due settimane al voto per il Parlamento europeo e per molte amministrazioni locali, Province e Comuni. Il loro rinnovo fornirà un quadro aggiornato dei rapporti di forza dei partiti sul territorio e in tutto il Paese. Per di più, per quanto riguarda il voto europeo, i rapporti di forza sia in Europa, che in Italia saranno ottenuti con un meccanismo proporzionale, tre preferenze esprimibili nelle cinque circoscrizioni e una soglia di sbarramento del 4 per cento.

Questo è dunque il tema sul quale si deve fissare oggi la nostra attenzione: dopo tanti sondaggi una vera misurazione del consenso con una validità politica che inevitabilmente andrà al di là dei problemi specifici, locali ed europei.

Prima di affrontarla credo tuttavia opportuna una riflessione su un altro tema di non minore importanza e attualità: il caso Fiat-Opel. È in gioco un'operazione che riguarda il futuro dell'industria automobilistica europea e mondiale, con effetti di prima grandezza sulle imprese coinvolte, sui lavoratori che prestano ad esse la loro opera, sui consumatori, sulla divisione internazionale del lavoro.

Per certi aspetti questo tema economico e sociale ha un peso anche maggiore di quello politico-elettorale. Lo tratterò dunque per primo anche perché ho la sensazione che il pubblico, ma perfino le istituzioni coinvolte, non abbiano percepito fino in fondo la realtà della sfida in atto che si sta giocando a Torino, a Berlino, a Detroit, a Washington. Una diagnosi chiara mi sembra perciò necessaria e questo cercherò di fare.
La Fiat di Marchionne e della famiglia Agnelli ha preso già da qualche mese l'iniziativa di mettere insieme un gruppo di imprese automobilistiche che raggiunga una capacità produttiva di almeno sei milioni di autovetture. Prodotte e collocate nel mercato mondiale.

Si è detto con legittimo orgoglio nazionale che in questo caso la Fiat non è una preda ma il predatore. Le prede sarebbero la Chrysler, la Opel e la Vauxhall possedute dalla General Motor e forse anche le aziende che la GM possiede in Brasile e in Argentina.
L'orgoglio nazionale è legittimo, ma l'immagine di prede e predatori è del tutto impropria. In realtà la genialità di Marchionne è stata quella di attaccare per difendersi. Non mi sembra che questa verità sia stata compresa né dal governo italiano né dai sindacati italiani e tedeschi né dai governatori dei lander dove sorgono le fabbriche Opel. Non ci sono prede né predatori. C'è la necessità di creare un gruppo capace di competere sul mercato mondiale. Non è un obiettivo opzionale, ripeto: è una necessità. Se l'obiettivo non sarà raggiunto avremo delle aziende destinate a soccombere entro un breve arco di anni dopo essere state mantenute a stralcio a carico dei contribuenti dei rispettivi paesi.

Obama ha capito fin dall'inizio questa situazione ed ha infatti patrocinato l'ingresso di Fiat in Chrysler; anche i sindacati e i creditori di Chrysler hanno capito ed hanno accettato i necessari sacrifici. Ora tocca al governo e ai sindacati tedeschi e alla General Motor decidere.
Non è un caso che la Fiat abbia impostato l'operazione a costo zero. Non si tratta infatti di una scalata societaria (predatore-preda) ma d'una operazione di reciproca sopravvivenza dove non ci saranno né vincitori né vinti.

All'ultima ora Marchionne ha migliorato l'offerta Fiat diminuendo a diecimila i previsti esuberi per quanto riguarda la Opel. L'accordo prevede una ristrutturazione che mantenga le quote di mercato ma diminuisca i costi attraverso sinergie di qualità e aumento di produttività per unità di prodotto, con la conseguente diminuzione dei posti di lavoro.

L'alternativa è perire. Non stupisce che i ministri Scajola e Sacconi non se ne rendano conto; stupisce invece che non lo capiscano Epifani, Bonanni e i sindacati tedeschi, che di queste questioni ne dovrebbero sapere ben più dei ministri. Si spera che nelle prossime ore la ragione prevalga.
Ma resta il problema della General Motors, gigante di argilla sulla soglia del fallimento. Obama riuscirà ad avviarla sulla strada di un'effettiva salvezza? E il cancelliere signora Merkel saprà pilotare la sua gente sull'unica strada seriamente percorribile?

* * *

Veniamo alla politica, non senza molta ansia per quanto accadrà a Berlino e a Detroit nelle prossime ore.
Gli ultimi sondaggi compiuti da una decina di agenzie specializzate e diffusi dalla stampa nei giorni scorsi, prima che scattasse il divieto imposto dalla legge, danno risultati sostanzialmente omogenei: il Pdl oscilla in una forchetta tra il 39 e il 42 per cento; il Pd tra il 26 e il 29; la Lega tra il 9 e il 10, Di Pietro tra l'8 e il 9; le due sinistre sfiorano ma non arrivano alla soglia del 4; l'Udc tra il 6 e il 7.

Si tratta di sondaggi e quindi fallibili, ma sono il solo telaio sul quale ora possiamo ragionare. E cominciamo con il partito di Berlusconi.
La forchetta 39-42 è indubbiamente un'ipotesi molto forte ma non è certo uno sfondamento. Sfiorò il 38 per cento alle politiche del 2008 dopo le quali ci fu l'indubbio successo sui rifiuti di Napoli e il terremoto d'Abruzzo: una sciagura nazionale ma oggettivamente un'occasione benissimo gestita per il governo.
Era dunque legittimo prevedere un'impennata di consensi che invece, stando ai sondaggi, non c'è stata. C'è stato un freno e bisogna domandarsi quali ne siano le cause.

Una delle cause è certamente connessa con la crisi economica che è ancora ben lontana dalla soluzione. I suoi effetti negativi sull'economia italiana non sono ancora arrivati al culmine che secondo le previsioni si verificherà nel secondo semestre dell'anno in termini di rallentamento del Pil e di aumento della disoccupazione.

Il governo ha finora impegnato, per combattere la crisi, meno di mezzo punto di Pil, 6-7 miliardi di euro. Il resto, per usare un termine caro a Tremonti, è stato "movimentazione", risorse prese da un capitolo di spesa e trasferite ad un altro oppure promesse ma non spese. "Si farà a tempo debito" ripete il ministro dell'Economia suscitando le ire gentili della Marcegaglia e la rabbia nei sindacati e nell'opposizione.
Questo comportamento frena il consenso, ma lo frena anche lo strapotere di quello che Veronica Lario ha chiamato l'imperatore. Questo strapotere, reale ed ostentato, comincia a stancare una crescente quota di italiani. Non solo quelli che sono sempre stati all'opposizione ma anche molti che un anno fa gli hanno dato il voto.

C'è una crepa nel muraglione del consenso e lentamente si sta allargando. Probabilmente non rifluirà sulle forze di opposizione ma andrà ad ingrossare l'area dell'astensione.
Che cosa accade nel frattempo dalle parti dell'ex centrosinistra?

Stando ai sondaggi sopracitati il Partito democratico oscilla tra il 26 e il 29 per cento. Realisticamente con quale dato dobbiamo paragonarlo? Nel voto di un anno fa il Pd di Veltroni ottenne il 33,3. Ci si era illusi in una vittoria e perciò sembrò una cocente sconfitta ma in realtà non lo era, non era mai accaduto in Italia che un partito riformista ottenesse il consenso di un terzo degli elettori. Mai. Quel risultato inoltre si ebbe dopo la pessima esperienza della coalizione prodiana, lacerata da una rissa continua. L'estrema sinistra crollò ma i suoi voti non andarono ai riformisti bensì all'astensione.

Allora assumere come riferimento il 31 per cento dell'Ulivo alle europee del 2004? Oppure il 22 per cento dei sondaggi dello scorso febbraio, dopo la sconfitta in Sardegna e le dimissioni di Veltroni? Nel primo caso ci sarebbe un calo di quattro punti, nel secondo un aumento di altrettanti e forse più.

* * *

Intanto il premier straparla e nessuno dei suoi è in grado di contenerne gli eccessi. Lo preoccupa un'erosione percepibile tra la gente di buon senso che l'ha votato e si sta domandando se ne sia valsa la pena. Lo preoccupano le rampogne cattoliche sui temi dell'emigrazione e della civile convivenza. Lo preoccupa la Lega. Lo preoccupa persino Tremonti. E lo preoccupa infine la spina quotidiana di Franceschini.
Il solo con cui va a nozze è Di Pietro che non passa giorno senza attaccare il Pd e fornire un "assist" a Berlusconi. Di Pietro oggi come Diliberto e Pecoraro Scanio ieri.

Le elezioni europee, oltre a rinnovare il Parlamento di Strasburgo, serviranno a misurare il distacco tra Pdl e Pd. I voti ottenuti da Di Pietro non avranno alcun peso su quella bilancia, perciò non influiranno sul rapporto di forza tra governo e opposizione. L'esempio più recente dell'"assist" dipietrino sta nell'eventuale presentazione d'una mozione di sfiducia alle Camere destinata a ricompattare il fronte berlusconiano. Non sono errori ma improvvide furbizie e documentano che il nemico di Di Pietro non è Berlusconi ma il Pd.

Il problema dei democratici è quello di mobilitare gli elettori che hanno lasciato il Partito democratico e si sono rifugiati nell'area dell'astensione. Se c'è un momento in cui non ha senso astenersi è questo. Non ha senso criticare Berlusconi e astenersi. Non ha senso proclamarsi di sinistra e astenersi. Non ha senso avvertire sulla propria pelle l'imbarbarimento sociale e astenersi. Non ha senso temere una svolta autoritaria che è sotto gli occhi di tutti e astenersi.

Dopo le europee ci saranno ancora quattro anni di legislatura e ci saranno altre occasioni importanti per contare le forze, scegliere le alleanze, selezionare il personale politico. Dieci giorni dopo il voto del 6 e 7 giugno ci saranno i ballottaggi e il referendum, ma il primo appuntamento è tra due settimane.
Gli elettori diranno se in quella giornata la democrazia italiana sarà sconfitta oppure se le europee saranno una sorta di linea del Piave da cui ripartire. Gli elettori, ricordiamocelo, hanno sempre ragione qualunque sia il verdetto.

L'altra sera, in una trasmissione televisiva, mi sono imbattuto prima di cambiar canale in Borghezio e nella Santanché. Dico la verità: dopo averli ascoltati m'è venuta la voglia di espatriare.


(24 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #140 inserito:: Maggio 31, 2009, 10:56:44 pm »

ECONOMIA      IL COMMENTO


Draghi, radiografia di un paese malato

di EUGENIO SCALFARI


HA SCRITTO Alessandro Penati ("Repubblica" di venerdì scorso) che le "Considerazioni finali" lette dal governatore della Banca d'Italia il 29 maggio ad una vasta platea di banchieri, imprenditori e uomini politici sono un evento che non ha alcun riscontro nelle altre democrazie occidentali. Così pure le esternazioni del presidente della Confindustria all'assemblea degli industriali e i discorsi dei leaders sindacali il primo maggio. Queste frequenti sortite, secondo Penati, sono altrettante prediche inutili che nulla tolgono ma nulla aggiungono alla realtà economica e sociale del paese creando però un intreccio perverso che spinge ciascuno degli attori fuori dal proprio seminato con la conseguenza di confondere le competenze, alzare inutili polveroni ed infine paralizzare il sistema decisionale.

C'è del vero nella tesi di Penati che però non si pone la domanda del perché questi vecchi riti (come egli li definisce) durino da cinquant'anni e non accennino a scomparire. Per quanto riguarda in particolare il governatore della Banca d'Italia, quei riti cominciarono nel 1947 con Luigi Einaudi e proseguirono con i suoi successori fino all'ultimo Draghi.
Perché?
Le ragioni a mio avviso sono due. La prima deriva dalla struttura corporativa del paese: una serie di piccoli poteri ma coriacei, che hanno segmentato il cosiddetto interesse generale in una serie di agguerriti interessi particolari blindati e non comunicanti tra loro, compartimenti-stagni all'interno dei quali la visione complessiva non penetra.

Guido Carli, in una delle sue "Considerazioni finali" le chiamò "arciconfraternite del potere" attribuendo alla loro presenza quel sistema di lacci e lacciuoli che paralizza o comunque rallenta la diffusione del benessere all'interno della società. In questo paesaggio di corporazioni la Banca d'Italia è una delle poche voci (forse la sola) al servizio dell'interesse generale perché non è condizionata da interessi propri né di categoria.

La seconda ragione deriva dal fatto che l'Italia è sempre stata, fin dalla formazione dello Stato unitario, un paese povero di capitali di rischio. Il capitale l'hanno fornito le banche, anzi per un lungo periodo le banche straniere, prima francesi, poi tedesche. Ma la dotazione del capitale di rischio è sempre stata insufficiente. Di qui una compressione costante delle retribuzioni, una altrettanto costante evasione fiscale, una bassa produttività, una stentata crescita del reddito nazionale, un elevato livello del debito pubblico che è sempre stato tra i più alti d'Europa dai tempi di Marco Minghetti a quelli di Giulio Tremonti.
La Banca d'Italia, nella veste di suprema magistratura economica che le condizioni storiche le hanno assegnato, si è dunque dovuta occupare della crescita del reddito e dell'occupazione essendo essa una delle premesse per mantenere la stabilità dei prezzi e del valore della moneta.

Il professor Penati converrà con me che il vecchio rito delle "Considerazioni finali" ha dunque una sua ragion d'essere in un paese in cui non esiste una classe generale portatrice degli interessi generali. Fu questo il cruccio di Ugo La Malfa ed è stato il nostro cruccio per mezzo secolo, reso più intenso che mai in questi ultimi quindici anni di populismo e di demagogia "a gogò".

La relazione di Mario Draghi apparentemente non ha scontentato nessuno.
In realtà il governo l'ha accolta a denti stretti, i sindacati, la Confindustria e le opposizioni vi hanno invece visto la conferma delle loro posizioni. Il ministro dell'Economia si è chiuso in un superbo silenzio rivendicando al potere politico il diritto di gestire senza interferenze la politica economica. "Grazie, so sbagliare da solo": Tremonti non l'ha detto ma l'ha certamente pensato.

Ridotto all'essenza il discorso di Draghi si può riassumere nei seguenti punti:

1. Forse la crisi mondiale ha toccato il fondo e forse cesserà di sprofondare ulteriormente, ma la risalita "a riveder le stelle" sarà lenta specie in Europa e specie in Italia.

2. Gli effetti negativi della crisi finanziaria non si sono ancora scaricati sull'economia reale. Per quanto riguarda in particolare l'occupazione questi effetti cominciano appena ora a vedersi e agiranno in misura crescente nell'ultimo quadrimestre del 2009 ripercuotendosi con effetti di trascinamento per tutto il 2010.

3. Gli strumenti di sostegno sociale fin qui adottati
sono decisamente insufficienti. Le risorse mobilitate dal governo vanno nella giusta direzione di estendere la protezione a tutti i lavoratori in difficoltà, ma si limitano ad un livello troppo basso, troppo diseguale tra i diversi gruppi e categorie e non inclusivo dell'ondata di precari i cui contratti scadranno alla fine dell'anno coinvolgendo un milione e ottocentomila lavoratori.

4. Complessivamente il governo ha mobilitato lo 0,3 del Pil per sostenere i redditi dei lavoratori e delle famiglie; in cifre assolute 5 miliardi di euro.

5. Nonostante la modestia di queste cifre largamente inferiori a quanto fatto nel resto d'Europa, la finanza pubblica è in dissesto. Il deficit rispetto al Pil sta viaggiando al 4,5; a fine anno avrà superato il 5. Lo stock di debito pubblico sarà del 114 per cento rispetto al Pil e tenderà addirittura al 120 nel 2011. La spesa corrente è già aumentata di tre punti arrivando a livelli mai raggiunti prima. La pressione fiscale è al 43 per cento e continua a crescere.

6. La domanda dei consumatori è in discesa. L'investimento sia pubblico sia privato è sceso a livelli bassissimi.

7. Urgono interventi di sostegno immediati e consistenti. Per impedire che la sfiducia internazionale aumenti bisogna fin d'ora decidere con quali strumenti il governo rientrerà nei parametri di stabilità a partire dal 2011. Decidere, approvare, fissare la tempistica ora per allora affinché i mercati riacquistino certezza e speranza.
Fin qui Draghi. Tralascio altre cifre fornite dal governatore che i giornali di ieri hanno già ampiamente riportato.

* * *

La strategia di intervenire in modi e quantità appropriati per sostenere la domanda e il reddito dei lavoratori e dei pensionati impegnandosi fin d'ora nell'operazione di rientro, era già stata delineata dal ministro ombra per l'Economia del Partito democratico, Morando, fin dai tempi della segreteria Veltroni. Naturalmente non fu presa in considerazione dal governo. Tremonti disse che a Bruxelles ci avrebbero riso in faccia. Ma non ridono di fronte agli sforamenti della Germania, dell'Irlanda, della Spagna, della Gran Bretagna.
Quest'ultima in particolare viaggia tranquillamente oltre la soglia del 6 per cento. Secondo le previsioni si avvicinerà alla soglia del 10 entro l'anno. Infatti le agenzie internazionali di rating hanno declassato il debito pubblico inglese, fatto che non avveniva dal tempo della guerra mondiale. Né sta meglio (anzi sta peggio) il Tesoro americano.

Le due potenze anglosassoni si sono date il 2012-2013 come il biennio del rientro nell'equilibrio dei conti pubblici. Hanno anche indicato gli strumenti: taglio di spese, imposte sulle fasce abbienti, rientro dei sussidi dati a banche ed imprese per arginare la crisi. Nel frattempo però dovranno sostenere il finanziamento del Tesoro e soprattutto emettere una massa di titoli pubblici per sostituire quelli in scadenza alla fine di quest'anno e dell'anno prossimo. Si tratta di un ammontare enorme.
Draghi conosce bene questo problema e meglio ancora di lui lo conosce Tremonti. Nel secondo semestre di quest'anno verranno a scadenza una massa notevole di titoli pubblici italiani. All'incirca si tratta di 200 miliardi di euro, proprio in sincronia con le scadenze ben superiori di titoli Usa, Gran Bretagna, Germania. Tremonti non ama parlare di questo problema che sta sospeso nel cielo dell'Occidente come una fitta coltre di nerissime nubi. Dice che il peggio è passato e usciremo meglio degli altri dalla crisi. In realtà il peggio deve ancora venire e nasconderlo non giova a nessuno.
Altrettanto non giova il fallimento dell'operazione Fiat-Opel. Ho trattato questo tema la settimana scorsa e dunque non mi ripeterò. Auguro a Marchionne e alla Fiat di poter rimpiazzare lo scacco subìto in Germania con nuovi possibili accordi con altre imprese automobilistiche. Ma torno a ripetere che le iniziative di Marchionne non sono state messe in campo per desiderio di gloria ma per necessità di sopravvivenza. Se non andranno a buon fine la Fiat vivacchierà perché l'operazione Chrysler non basta a garantirne il futuro. Vivacchierà e peserà inevitabilmente sui contribuenti italiani.

* * *

Draghi - per tornare a lui - sostiene la necessità di riforme immediate e punta in particolare sulle pensioni. Prolungare l'età pensionabile e accelerare il sistema a contribuzione liberando così le risorse per rilanciare la crescita. Tremonti e il ministro del Lavoro, Sacconi, obiettano che la riforma si farà a tempo debito e che le risorse liberate saranno redistribuite all'interno del perimetro previdenziale. La preoccupazione di non turbare la pace sociale è giusta ma resta il dilemma posto dal governatore: come rilanciare la crescita?
Mi permetto di dire che le proposte del Pd di tassare con modeste e transitorie maggiorazioni i redditi al di sopra dei 120mila euro potrebbe fornire le risorse necessarie, insieme a provvedimenti anti-evasione che Visco aveva adottato e Tremonti smobilitato.

Post Scriptum. Non ho parlato di Silvio Berlusconi ma una cosa va ricordata. Il cardinale Bagnasco, nel discorso con il quale ieri ha chiuso la riunione della Conferenza episcopale italiana ha detto che la classe dirigente dovrebbe esser d'esempio educativo alle giovani generazioni con i suoi pensieri, i suoi comportamenti e lo stile di vita ed ha lamentato che ciò non stia avvenendo.
Dargli torto mi sembra difficile. Berlusconi ha definito "berlusconiana" la relazione di Draghi; allo stesso titolo potrebbe definire "berlusconiano" l'incitamento di Bagnasco a comportamenti educativi. Ed avrebbe potuto definire "berlusconiane" anche le parole di Franceschini sempre in proposito dei valori educativi da trasmettere ai giovani. Io spero che il premier definisca "berlusconiane" anche queste mie riflessioni se avrà avuto il tempo e la voglia di leggerle. Ne sarei molto compiaciuto. Come ha detto recentemente Roberto Benigni: lei è un mito, presidente, e i miti più si allontanano e più grandeggiano. Perciò si allontani, per il bene suo e del paese.

(31 maggio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #141 inserito:: Giugno 06, 2009, 05:27:58 pm »

L'EDITORIALE

Le anime belle di fronte alle urne

di EUGENIO SCALFARI


SCRIVO oggi e non domenica come è mia abitudine perché fin da oggi pomeriggio si comincerà a votare in Europa ed io voglio appunto parlare di questo voto.
L'argomento è già stato trattato molte volte e da tempo in tutti i giornali e in tutte le televisioni ed anche noi di Repubblica l'abbiamo esaminato ripetutamente, come e più degli altri. Sento dunque un rischio di sazietà verso un tema usurato da motivazioni contrapposte e ripetitive. Del resto a poche ore di distanza dall'apertura delle urne anche gli indecisi avranno fatto la loro scelta e difficilmente la cambieranno.

Infatti non è del colore del voto che voglio parlare. I miei lettori sanno come la penso e come voterò perché l'ho scritto in varie e recenti occasioni.
Non desidero dunque convincere nessuno ad imitare la mia scelta. Il mio tema di oggi è un altro. Voglio esaminare in che modo nella nostra storia gli italiani hanno usato la loro sovranità di elettori da quando il suffragio è stato esteso a tutti i cittadini di sesso maschile e poi, nell'Italia repubblicana, finalmente anche alle donne ed infine ai diciottenni abbassando la soglia della cosiddetta maggiore età.
Storicizziamo dunque la sovranità del popolo e vediamo nelle sue grandi linee quali ne sono state le idee e le forze dominanti.

* * *

Il suffragio universale maschile coincise nel 1919 con un sistema elettorale di tipo proporzionale; una proporzionale corretta in favore dei partiti quantitativamente più forti, che lasciava però a tutti i competitori ampi margini di rappresentanza.
Nelle elezioni del "Diciannove" (le prime dopo la fine della guerra mondiale del 1914-18) si affacciò sulla scena della politica italiana una forza nuova, quella dei cattolici riuniti attorno ad un sacerdote di grande carattere e di convinta fede religiosa: il Partito popolare di don Luigi Sturzo. Fu l'ingresso d'un nuovo protagonista la cui presenza ruppe gli schemi fino allora vigenti che avevano privilegiato le clientele liberali raccolte dalla destra nazionalista e salandrina e quelle democratiche che avevano in Giovanni Giolitti il loro leader parlamentare.

Il Partito socialista, massimalista con appena una spolverata di riformisti, stava all'opposizione in rappresentanza della parte politicizzata del proletariato.
Che tipo di Italia era quella?
Un paese traumatizzato da quattro anni di trincea, con un altissimo costo di morti, di mutilati, di sradicati; un paese che aveva però acquistato una certa coscienza dei propri diritti. In prevalenza contadino, in prevalenza analfabeta, in prevalenza fuori dalle istituzioni e della stato di diritto. Un paese in cui il popolo sovrano si limitava alla piccola borghesia degli impieghi e delle libere professioni, alla classe operaia del Nord, ai proprietari fondiari e ai mezzadri.

Il grosso della popolazione era fuori mercato, bracciantato con paghe di fame e prestiti ad usura, tracoma e colera nel Sud, pellagra e malaria nelle pianure del Nordest.
Ma gli ex combattenti della piccola borghesia erano agitati da sogni di rivincita e di dominio. Odiavano il Parlamento.
Detestavano la politica. Vagheggiavano il superuomo e il D'Annunzio della trasgressione e dell'insurrezione fiumana.
Poi trovarono Mussolini.

* * *

Ricordo queste vicende perché contengono alcuni insegnamenti. I più anziani le rammentano per averne fatto esperienza, i più giovani ne hanno forse sentito parlare ma alla lontana e comunque non sembrano darvi alcuna importanza.
Sbagliano: i fatti di allora rivelano l'esistenza di alcune costanti storiche nella vita pubblica italiana. Si tratta di costanti antiche, cominciarono a manifestarsi con la Rivoluzione francese dell'Ottantanove, con il tricolore che diventò ben presto la bandiera-simbolo dell'Europa democratica e con i tre valori iscritti su quella bandiera: libertà eguaglianza fraternità.

Quei valori hanno avuto un'influenza positiva tutte le volte che sono stati portati avanti insieme ed invece un'influenza negativa quando soltanto uno di loro ha esercitato egemonia culturale e politica. La libertà, da sola, ha generato privilegi in favore dei più forti; l'eguaglianza, da sola, ha dovuto essere imposta con la forza (ma ciò in Italia non è mai avvenuto); la solidarietà, da sola, ha dato vita ad un'infausta politica assistenziale che ha dilapidato le risorse e indebolito la competitività e la libera concorrenza.

L'Italia non ha mai avuto una borghesia degna di questo nome perché i tre grandi valori della modernità non hanno mai avanzato insieme. Per la stessa ragione la laicità non ha mai raggiunto la sua pienezza e per la stessa ragione un vero Stato moderno, una compiuta democrazia, un'effettiva sovranità del popolo e un'autentica classe dirigente portatrice di interessi generali, non sono mai stati una realtà ma soltanto un sogno, un'ipotesi di lavoro sempre rinviata, una ricerca vana e frustrante, uno stato d'animo diffuso che ha alimentato la disistima delle istituzioni e l'analfabetismo politico.

Col passar degli anni questo analfabetismo è diventato drammatico. Il rifiuto della politica ne è la conseguenza più negativa. Gli italiani si sono convinti che la politica sia il male che corrode il paese. Perciò una larga parte dei nostri concittadini ha delegato la sua rappresentanza ad un giocoliere che ostenta il suo odio contro la politica e il suo qualunquismo congenito e festevole, all'ombra del quale sta nascendo un potere intrusivo, autoritario, concentrato nelle mani di un solo individuo.

* * *

L'analfabetismo politico degli italiani è molto diffuso tra quelli che parteggiano per la destra ma non risparmia la sinistra. Per certi aspetti anzi a sinistra questa assenza di educazione politica è uno dei suoi connotati, in particolare tra i sedicenti intellettuali che sono forse i più analfabeti di tutti.

Uno degli effetti più vistosi di questo fenomeno consiste nella ricerca di un partito da votare che corrisponda il più esattamente possibile alle proprie idee, convinzioni, gusti, simpatie. Ricerca vana poiché ciascuno di noi è un individuo, una mente, un deposito di pulsioni emotive non ripetibili. Le persone politicamente mature sanno che in un sistema democratico occorre raccogliere i consensi attorno alla forza politica che rappresenti il meno peggio nel panorama dei partiti in campo. La ricerca del meglio porta inevitabilmente al frazionamento, alla polverizzazione del voto, al moltiplicarsi dei simboli e di fatto alla rinuncia della sovranità popolare.

Aldo Schiavone ha scritto ieri che la polverizzazione del voto è frutto di un narcisismo patologico: per dimostrare la nobiltà e la purezza della propria scelta si getta nel secchio dei rifiuti la sovranità popolare. Non si tratta d'invocare il voto utile ma più semplicemente di predisporre un'alternativa efficace per sostituire il dominio dei propri avversari politici.
La destra sa qual è il suo avversario e fa massa contro di lui. La sinistra coltiva il culto della testimonianza, ma quando si trasferisce quel culto nell'azione politica il risultato è appunto la rinuncia ad una sovranità efficace per far posto al narcisismo dell'anima bella, pura e dura.

Pensare che questo scambio sia un'azione politica è un errore gravido purtroppo di conseguenze.
Fu compiuto lo stesso errore dai popolari di Sturzo nel 1921: rifiutarono sia l'alleanza con i socialisti sia quella con i liberaldemocratici pur di restare puri nel loro integrismo cattolico. Rifiuto analogo fecero i socialisti. Le conseguenze sono note, ma non mi sembra che si siano trasformate in una solida esperienza. Vedo, a destra e a sinistra, una sorta di sonno della ragione dal quale bisognerebbe sapersi risvegliare.

Post Scriptum. Anche in America la ragione si era addormentata dando spazio ai furori emotivi di George Bush.
Dopo molti anni di letargo che hanno fatto degli Usa la potenza più odiata nel mondo, Barack Hussein Obama ha risvegliato la ragione facendo leva su una travolgente emotività carismatica.
Quanto sta accadendo nel mondo e nella straordinaria trasformazione dell'immagine dell'America ci insegna questo: per svegliare la ragione ci vuole un forte soprassalto emotivo, senza il quale l'emotività si volge a beneficio della demagogia.

Emozione razionale accresce la pienezza della democrazia, emozione demagogica le scava la fossa. Questo insegna Obama. L'insegnamento del giovane presidente afroamericano ci sia utile per la scelta che tra poche ore dovremo fare.


(6 giugno 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #142 inserito:: Giugno 14, 2009, 12:20:01 pm »

IL COMMENTO

Il successo della destra la sconfitta del suo capo

di EUGENIO SCALFARI


INNANZITUTTO i voti.
Ormai i dati sono ampiamente disponibili e possiamo dunque trarne alcune conclusioni. Ma bisogna distinguere le astensioni dai suffragi ottenuti in percentuale e in numeri assoluti.

I votanti per il Parlamento europeo sono scesi dal 73 al 66 per cento del corpo elettorale, sette punti in meno. Togliendo un 20 per cento di astensione fisiologica, le astensioni motivate politicamente ammontano dunque al 15 per cento, più o meno sette milioni e mezzo di persone. Gli astenuti che nelle precedenti elezioni del 2008 avevano votato per i democratici ammontano a due milioni e seicentomila; circa seicentomila hanno penalizzato le liste minori, oltre tre milioni e duecentomila vanno a carico del Pdl. Ecco dunque una prima indicazione importante.

Veniamo ai voti espressi paragonati al 2008, sebbene non sia corretto confrontare elezioni europee ed elezioni politiche. Il calo subito dal Pdl è stato di due punti, quello del Pd di sette. La Lega è oltre il 10 per cento su base nazionale, non ha sorpassato il Pdl in nessuna regione ma gli ha tolto molto in Piemonte e nel lombardo-veneto. E' cresciuta (rispetto alle europee del 2004) di otto punti nel nordovest, undici nel nordest, due punti e mezzo nel centro. La sua avanzata è stata rilevante in Emilia con un aumento dell'11per cento. In conclusione: arretra il Pdl sia in voti assoluti sia in percentuale; ancora di più arretra il Pd e si accresce il distacco tra i due partiti; raddoppiano la Lega e Di Pietro (rispetto al 2008).

Avanza di un punto Casini, la sinistra radicale cresce complessivamente di due punti ma non supera la soglia di sbarramento e quindi non entra nel Parlamento di Strasburgo e così pure i radicali.
Il Pd perde voti a favore di tutti gli altri partiti salvo il Pdl il quale a sua volta cede voti alla Lega e (pochi) all'Udc.

Il Pdl è più penalizzato dalle astensioni che dai voti espressi, il Pd da tutti e due questi elementi.

La Chiesa si è ripetutamente dichiarata contraria alla politica del governo nei confronti dell'immigrazione e il clero delle parrocchie si è discretamente mobilitato in favore dell'Udc con risultati però molto modesti. Una valutazione attendibile stima in 700mila voti lo spostamento verificatosi a seguito di queste raccomandazioni parrocchiali. In realtà un 20 per cento dei voti cattolici ha scelto di astenersi rispetto a precedenti votazioni in favore del Pdl.

Questo è il quadro d'insieme, che sarebbe tuttavia incompleto se non lo si inquadra nel contesto europeo.

* * *

In Europa si è verificata una frana di proporzioni inusitate dei socialisti in tutti i paesi dell'Unione salvo due modeste eccezioni. Particolarmente gravi i risultati dei socialisti francesi (addirittura scavalcati dai voti del movimento verde di Cohn-Bendit), dei laburisti inglesi e della Spd tedesca.

L'effetto paradossale di queste disfatte, alle quali occorre aggiungere l'insuccesso di Zapatero, ha portato il Partito democratico in testa alla graduatoria delle formazioni progressiste ed ha reso possibile la formazione d'un gruppo parlamentare a Strasburgo formato da un'inedita alleanza tra il Pse e i democratici italiani. Si tratta di una novità cui ha lavorato con tenacia Dario Franceschini e che apre la strada a nuovi sviluppi internazionali, ma resta che la sinistra europea è in piena crisi mentre avanza dovunque la destra moderata ma anche le formazioni xenofobe ed estremiste.

Se si guarda la situazione dal punto di vista dei governi in carica, c'è stata un'erosione del consenso che ha superato soltanto Sarkozy. Tutti gli altri hanno perso voti indipendentemente dal loro colore politico. Le cause vanno attribuite in parte alla crisi economica e in parte al tema dell'immigrazione e della insicurezza in proporzioni diverse da paese a paese.

Da questo punto di vista l'Italia non fa eccezione: la sinistra è stata punita, il Pdl ha perso voti, la Lega aumenta in percentuali e in voti assoluti.

Qui da noi il quadro è reso più complicato dalle contemporanee elezioni in molte province e comuni. Il patrimonio del centrosinistra era molto cospicuo ai nastri di partenza perché le precedenti elezioni del 2004 erano avvenute in una fase di scarsa popolarità berlusconiana favorendo ampiamente l'Ulivo. Oggi, in una situazione ben diversa, il pingue patrimonio di amministrazioni locali di centrosinistra non poteva che cedere di fronte alla spinta degli avversari. Infatti ha già ceduto in parecchi luoghi ma altre importanti amministrazioni sono andate in ballottaggio, sicché un bilancio definitivo si potrà fare soltanto il 21 giugno, fermo restando fin d'ora che anche nel potere locale sta avvenendo una scossa robusta in favore del centrodestra.

Ancora qualche osservazione, che è stata finora sostanzialmente ignorata, su quanto è accaduto in Sicilia, una regione considerata da tempo serbatoio di voti per la destra berlusconiana.

In Sicilia nel 2008 il Pdl aveva ottenuto il 46,6 per cento dei voti; è sceso alle europee al 36,6 per cento, dieci punti sotto. In valore assoluto la perdita è ancora maggiore: da un milione e 300mila voti a 600mila. Commenta Roberto Alimonte su "24 Ore": "La metà degli elettori siciliani del Cavaliere si è volatilizzata". Riassorbire la crisi siciliana sarà uno dei compiti che Berlusconi dovrà darsi al più presto. Ma ce n'è un altro assai più incombente per lui, sul quale ora dobbiamo soffermarci ed è quello del suo personale logoramento interno e internazionale.

* * *

La sua immagine pubblica ha subito un colpo evidente, ampiamente registrato da tutta la stampa occidentale e in tutte le capitali d'Europa e d'America. Non si tratta, come ancora i suoi "supporter" si ostinano a sostenere, di un "gossip" che riguarderebbe soltanto la sua vita privata, sebbene la vita privata d'un presidente del Consiglio sia in tutte le democrazie occidentali sotto i riflettori della pubblica opinione.

Si tratta invece d'una serie di fatti resi di pubblico dominio da sua moglie e da lui stesso in varie trasmissioni televisive; si tratta delle sue incerte versioni di quei fatti gremite di contraddizioni e reticenze, del suo ostinato silenzio su alcuni aspetti che hanno minato la sua credibilità. Si tratta infine e soprattutto di un aspetto estremamente grave per un capo di governo e cioè della sua potenziale ricattabilità.

Essa deriva da due circostanze particolarmente inquietanti. La prima: la sua frequentazione, della quale si continua ad ignorare l'origine, con il signor Letizia, padre della giovane Noemi, personaggio quanto mai equivoco con precedenti penali e relazioni di assai dubbia natura tra Secondigliano, Scampia, Casoria.

La seconda: il materiale fotografico in possesso di un fotografo sardo che forse non contiene nulla di particolarmente compromettente ma che costituisce un deposito di immagini ormai in circolazione internazionale che può esser fonte di intimidazione e di veri e propri ricatti da parte di personaggi spregiudicati e perfino di servizi più o meno segreti.

L'opinione pubblica italiana, nonostante il silenzio delle emittenti televisive e le reticenze di gran parte della stampa, ha percepito la gravità di una situazione che è stata altrettanto percepita nelle cancellerie dei nostri principali partner e alleati.

L'interessato avrebbe ancora la possibilità di fare chiarezza almeno sulla prima circostanza e cioè sulle origini e la natura dei suoi rapporti con il Letizia. Quanto alle centinaia di fotografie in circolazione, esse raffigurano senza dubbio una violazione della sua "privacy" ma ciò non toglie nulla alla loro oggettiva pericolosità e al sospetto che possano tradursi in strumenti di ricatto e di debolezza del capo del governo.

Questa situazione reagisce inevitabilmente sulle tensioni interne tra i membri del governo e tra le varie componenti della maggioranza, aggravate dai nuovi rapporti di forza tra la Lega e il Pdl; accentua le prese di distanza di Gianfranco Fini; spinge Berlusconi a interventi sempre più scomposti e a provvedimenti sempre meno accettabili, l'ultimo dei quali sulle intercettazioni sta suscitando proteste corali, allarma il Capo dello Stato e può precipitare una crisi tra i poteri dello Stato.

* * *

Se l'opposizione non fosse così fortemente debilitata avremmo almeno un aggancio robusto per riportare ordine e chiarezza. Purtroppo anch'essa ha perso credibilità anche se la campagna elettorale condotta dal segretario Franceschini è riuscita almeno a contenere le perdite salvando il salvabile. Sono molti ora a chiedere in che modo si possa e si debba costruire un partito che ancora non c'è, che è ancora un'ipotesi di lavoro e fatica a decollare per debolezza dei motori e insufficiente portanza.

Ci sono almeno tre esigenze generalmente avvertite: la prima è quella di radicare il partito nel territorio, la seconda è di selezionare una classe dirigente nuova, la terza riguarda la vecchia nomenclatura composta da quelli che guidarono i vari spezzoni confluiti nel Pd. I membri di quella nomenclatura non sono affatto da ostracizzare; rappresentano tuttora un deposito di esperienze, memorie, valori. Ma dovrebbero riporre ambizioni e pretese rassegnandosi ad un ruolo che resta peraltro di notevole importanza: ruolo di padri e di zii, ruolo di saggezza e incoraggiamento, non di comando e di intervento.

Quando Veltroni si dimise, con lui fece un passo indietro l'intero vecchio gruppo dirigente e questo fu l'aspetto positivo di quella drammatica ma ormai necessaria decisione. Sembra tuttavia che ora quel collettivo passo indietro sia rimesso in discussione e si riaccendano tra gli zii sentimenti di rivalsa e nuovi fuochi di battaglia.

"Come cavallo che uso alla vittoria / a tarda giovinezza e controvoglia / tra carri veloci torna a gara": così cantava Ibico. Controvoglia non so, ma certo il tornare a gara di tutta la vecchia nomenclatura sbarra la strada al necessario rinnovamento e riaccende eterne dispute che un corpo sano e robusto potrebbe sopportare ma un corpo debilitato non tollera rischiando la sua stessa sopravvivenza.

Così il tema delle alleanze. E' un tema da costruire quando il Pd si sarà rafforzato, avrà riacquistato credibilità e potrà costituire l'elemento centrale di uno schieramento con un programma comune, comuni convinzioni e comune visione del bene pubblico. Disputare oggi sulle alleanze di domani è soltanto un modo per riaccendere la rissa interna. Nella situazione attuale è un'operazione ad altissimo rischio.

* * *

Post Scriptum. La visita del colonnello Gheddafi in Italia, non priva di interessi concreti per il nostro paese, ha avuto aspetti di farsa che purtroppo si sono mescolati alla farsa nostrana. Ne è risultato un mix assai poco digeribile che rende ancor più grottesca e flebile la nostra credibilità internazionale.

(14 giugno 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #143 inserito:: Giugno 30, 2009, 03:27:33 pm »

L'EDITORIALE

Una manovra da tre soldi che non salva il Paese


di EUGENIO SCALFARI

- Non voglio commentare l'intervento di Berlusconi sulle previsioni (tutte concordi tra loro) delle varie istituzioni finanziarie internazionali, del nostro Istituto di statistica, del governatore della Banca d'Italia e dei giornali "sovversivi" che ne riportano fedelmente le stime. E neppure voglio soffermarmi sul reiterato invito del premier a boicottare la libera stampa lasciandola a secco di inserzioni pubblicitarie. L'ha già fatto ieri Ezio Mauro definendo quelle sconsiderate parole "Minacce e disperazione".
Voglio invece esaminare i provvedimenti che il ministro Tremonti ha proposto e che il Consiglio dei ministri ha approvato e che nelle intenzioni del governo dovrebbero servire a superare la crisi venendo incontro all'appello della Confindustria, dei sindacati e dell'opposizione per sostenere la ripresa entro i prossimi tre mesi, in mancanza di che - come ha detto la Marcegaglia - l'intero sistema economico rischia il precipizio.
Si tratta di provvedimenti talmente leggeri per dimensione e diluiti nel tempo da risultare del tutto inefficaci. Stupisce che l'organizzazione dei commercianti li abbia accolti con applausi; forse non hanno capito (e non sarebbe la prima volta) oppure gli esponenti di quell'organizzazione non sono in sintonia con i loro rappresentanti che conoscono e soffrono sulla loro pelle la situazione reale.

L'architettura normativa di quella ridicola manovra si appoggia su due interventi: un "bonus" alle aziende che invece di licenziare o mettere in cassa integrazione i propri dipendenti in esubero li trattengano presso di sé in attesa che la tempesta abbia termine e la riduzione del 50 per cento della fiscalità sugli utili reinvestiti nei processi produttivi. Soprattutto su questo secondo intervento punta il ministro dell'Economia, anche lui assai imbronciato nei confronti di Draghi, dell'Istat, dell'Ocse, della Banca mondiale, profeti di sventura da ridurre al silenzio "almeno fino al prossimo settembre".
"Zittire le Cassandre", questo è il succo di ciò che il governo ha in mente per uscire dalla crisi che attanaglia il mondo intero: un programma di politica economica non solo risibile ma sciagurato.

* * *

Il "bonus" alle imprese per evitare i licenziamenti. Non se ne conosce ancora l'ammontare e la relativa copertura e c'è una ragione che spiega questo silenzio: si ignora infatti quali e quante saranno le aziende che vorranno aderire a quell'invito e come saranno in grado di dimostrare di aver cambiato parere sul licenziamento dei loro dipendenti. I criteri per accertare questo auspicabile ravvedimento dovranno infatti esser rigorosi per non dar luogo a truffe ai danni dell'erario.

Anche supponendo che truffe non vi saranno resta comunque incerto che quel ravvedimento virtuoso vi sarà in misura apprezzabile e resta altrettanto incerto che si tratti d'un ravvedimento utile. Se il "bonus" sarà troppo esiguo le aziende non avranno alcun interesse ad accettarlo; se invece sarà adeguato, la perdita per l'erario sarà gravosa e difficile la sua copertura. Assai meglio sarebbe rafforzare con quelle risorse il sistema degli ammortizzatori sociali lasciando libere le imprese di calibrare al meglio il personale necessario alla produzione.

Ma veniamo al nocciolo del provvedimento, l'esenzione del 50 per cento di gravame fiscale sugli utili reinvestiti. Anche qui l'ammontare delle risorse necessarie è puramente ipotetico poiché è ipotetico l'ammontare degli utili destinati ad esser reinvestiti.
Il provvedimento specifica con apprezzabile chiarezza quali siano gli investimenti che meritano l'esenzione fiscale; si tratta di un ventaglio ridotto, di fatto riservato alle imprese medie e grandi che dispongono di programmi innovativi sia nel campo dei prodotti sia in quello dei processi di produzione.

C'è tuttavia un però che riguarda la tempistica: per dar luogo all'investimento degli utili occorre che gli utili vi siano e qui la scrematura sarà purtroppo vistosa in tempi di crisi. Ma poi è necessario che quegli utili siano destinati agli investimenti indicati nel provvedimento. Soltanto l'esame rigoroso dei bilanci aziendali sarà in grado di dimostrare che l'operazione di reinvestimento è stata effettuata, il che significa che la riduzione del carico tributario avrà luogo al più presto nella primavera del 2010 e non nei prossimi cento giorni come Emma Marcegaglia avrebbe voluto.
Tremonti del resto non si smentisce, se c'è un politico coerente è lui. La sua politica è sempre stata quella di guadagnar tempo sperando che il futuro sia migliore. Fece così nella legislatura 2001-2006, quando impiantò la sua politica sui condoni, sulle operazioni di "swap", sulla cartolarizzazione d'una parte del patrimonio pubblico immobiliare. Il risultato fu la caduta verticale dell'avanzo di bilancio, l'aumento altrettanto verticale della spesa e la flessione delle entrate tributarie.

Ora le condizioni sono cambiate e la politica di guadagnar tempo mantenendo possibilmente il consenso popolare si appoggia ad una tecnica profondamente diversa. Si tratta infatti di promettere e addirittura di inserire nella legislazione provvedimenti di sostegno alla produzione postergandone l'esecutività ad un anno da oggi. A quel punto se la tempesta sarà passata gli stimoli saranno diventati inutili ma comunque peseranno gravemente sulle casse dello Stato. Oggi che servirebbero "per scongiurare il precipizio" non se ne vede alcuno e tutto resta come prima. I salvagenti per aiutare i naufraghi che rischiano di morire sono stati gettati ad alcuni chilometri di distanza dal luogo del naufragio. Questo è esattamente il senso dei provvedimenti approvati dal Consiglio dei ministri. Altro di consistente non c'è.
Eppure un modo per soccorrere i naufraghi c'era ed è stato più volte indicato in questi mesi sia dalle imprese interessate sia dagli economisti e dall'opposizione. Si trattava di mettere immediatamente in pagamento i debiti dello Stato nei confronti di molte imprese e perfino delle pubbliche amministrazioni locali.
L'ammontare di questi debiti è stimata in 80 miliardi. I creditori privati e pubblici si sarebbero accontentati di una prima tranche di 30 miliardi con i quali avrebbero rimborsato alle banche i prestiti ricevuti per sopravvivere e i cospicui interessi nel frattempo maturati. Anche le banche, rientrando da esposizioni già molto protratte, avrebbero acquistato maggior libertà di manovra per nuove erogazioni tanto invocate e reclamate.

L'operazione sarebbe dunque utile ed anzi necessaria da ogni punto di vista ma presenta un piccolo inconveniente: in questo caso si tratta infatti di soldi veri, da pagare immediatamente. Tremonti, che pure aveva promesso di accogliere quelle richieste, ora fa il sordo. Il suo premier poi, anche lui impegnato in prima persona, ha addirittura perso l'udito. Nel frattempo trastullano le imprese, gli industriali, i commercianti, col "bonus" e con il credito di imposta ad un anno data.
Chi ha orecchi per udire e occhi per vedere, intenda e giudichi.

* * *

Il governatore Draghi, reo di imitare la Cassandra omerica, è stato dal canto suo d'una chiarezza cristallina. La diagnosi esposta due giorni fa (che ha suscitato l'ira funesta di Tremonti e del suo premier) è questa: la domanda interna e internazionale è piatta o discendente e ancor più lo sarà nei prossimi sei mesi in parallelo con l'aumento della disoccupazione e con la discesa complessiva del monte-salari. In simili condizioni le imprese sono restie ad investire e l'economia precipita nella recessione. Il nostro reddito pro capite è intanto il più basso d'Europa, al tredicesimo posto della classifica, seguito soltanto dalla Grecia e dalla Slovenia.
La questione dunque si gioca interamente sui consumi e sul sostegno dei redditi dei disoccupati e cassintegrati. Tutto il resto è puro spettacolo volto a mantenere il consenso dietro ad un sipario di chiacchiere. Ed ecco perché si vuole zittire chi parla della crisi che c'è ed è ancora ben lontana dall'esser stata superata.

* * *

Sull'argomento economico non mi resta per ora altro da scrivere e potrei fermare qui le mie riflessioni domenicali, ma c'è un altro tema al quale vorrei dedicare qualche osservazione ed è il preannunciato congresso (il primo dopo quello di fondazione) del Partito democratico.

È utile farlo ora questo congresso, non solo perché previsto dallo statuto con una procedura in realtà piuttosto barocca, ma anche perché tra un anno ci saranno le elezioni regionali, un appuntamento di notevole importanza al quale il Pd non può arrivare senza aver preso le necessarie decisioni sulla propria identità e la propria struttura.

Il congresso può rappresentare un momento di rilancio positivo oppure la vigilia d'un'implosione se si trasformerà in una rissa di tutti contro tutti. Questo rischio non è affatto remoto, esiste anzi incombe e spetta soprattutto ai militanti di quel partito di scongiurarlo oppure, con comportamenti impropri e non avveduti, renderlo inevitabile.

Non è avveduta la formazione di gruppi e gruppetti, il pullulare di capi e capetti, lo sbriciolamento del comune sentire, la velleità di formulare programmi fondati su parole vuote, affermazioni generiche, ricerca e costruzione di nicchie incapaci di governare ma capacissime di impedire ogni azione efficace.
Un partito riformista di massa non è mai esistito in Italia da quando esiste lo Stato unitario. Oggi esiste e conta all'incirca dieci milioni di voti. Paragonare questi voti, la loro composizione sociale e la loro identità riformista al vecchio Partito comunista è un errore madornale. Altrettanto madornale è l'errore di chi si rifacesse a vecchie appartenenze cattolico-popolari. Quel che rimaneva di quei due partiti oscillava un anno fa per il primo (Ds) attorno al 16 per cento e per il secondo (Margherita) intorno all'11. I dirigenti di entrambi arrivarono alla conclusione che le due storie si erano interamente esaurite. Questo fu il vero atto di nascita del Pd e questa fu la ragione dell'insediamento di Veltroni alla sua guida.

Il risultato elettorale delle elezioni politiche del 2007, con il 33,4 per cento dei voti, non fu una sconfitta come tutti ritennero, ma una vittoria. Per la prima volta il riformismo aveva un partito democratico e laico che rappresentava un terzo degli italiani.
Oggi quella rappresentanza è scesa da un terzo ad un quarto. È stata una sconfitta politica ma non la fine di un disegno. Le amministrative sono state anch'esse una sconfitta, in una fase tuttavia in cui l'intera sinistra europea è stata travolta. C'è però un dato da tener presente: tutti i partiti, con la sola eccezione della Lega, hanno indietreggiato in cifre assolute. Perfino Di Pietro: alle amministrative il suo partito ha perso il 9 per cento in voti assoluti. Così, chi più chi meno, tutti gli altri. La Lega ha ripreso gli stessi voti delle precedenti elezioni.

È dunque il partito del non-voto o del voto inutilmente disperso che va interpellato, rimotivato, riportato in linea e questo dovrebbe essere il vero compito del congresso del Pd.

Un problema analogo si pone al Pdl che ha anch'esso subito una profonda diminuzione in termini di voti assoluti, ma lì le cause sono diverse: si sta allontanando l'elettorato cattolico e moderato. Se quell'emorragia non si fermerà l'attuale gruppo dirigente del Pdl dovrà trovare nel suo interesse i modi per invertire il trend. Affare loro ma anche di chi non la pensa come loro perché il problema della democrazia interessa tutti e a tutti dovrebbe stare a cuore.

Il Partito democratico, per ritornare a quel tema, può e deve confrontare due diversi modi di intendere l'identità, la struttura e i valori culturali del partito. E non è vero che parte da zero. Il programma che Veltroni espose al Lingotto rappresenta ancora, a rileggerlo oggi, una piattaforma più che accettabile con qualche integrazione soprattutto sul versante laico che allora fu troppo sottaciuto.

Comunque non partono da zero i democratici italiani. Debbono contarsi su diverse visioni del bene comune, se ce ne sono di diverse; oppure su due diverse personalità e biografie.

Chi osserva da fuori questa vicenda non vede spazio per terzi e quarti candidati, sembra già ardua una visione duplice, tre o quattro sarebbero un tentativo di dividere l'atomo, che francamente servirebbe solo a nascondere la rissa generale e l'implosione.
Se è questo che i militanti di quel partito vogliono, nessuno potrà impedirglielo. Sappiano soltanto che l'implosione significherà sotterrare per un tempo indefinibile l'esistenza di un riformismo democratico in un Paese invaso dalla demagogia, dalla corruttela e da pulsioni autoritarie sempre più evidenti.


(28 giugno 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #144 inserito:: Luglio 05, 2009, 06:05:39 pm »

IL COMMENTO

Il Cavaliere ha bisogno di una lunga vacanza

di EUGENIO SCALFARI


A L'Aquila la terra continua a tremare, lo sciame sismico non dà tregua, sotto le tende un giorno si crepa dal caldo e il giorno dopo si galleggia sotto il nubifragio, ma Bertolaso ha l'aria contenta. "Andrà tutto benissimo" dice in Tv "e poi se non avessimo trasportato qui il G8 chi parlerebbe ancora del terremoto?"

Il popolo delle tendopoli in realtà se ne frega che si parli di lui anzi ne è decisamente irritato, ma Bertolaso è felice, ogni giorno compare alla destra dell'Onnipotente ed ha anche scansato un brutto processo sui rifiuti, trasferito a Roma e iscritto a nuovo ruolo.

Comunque, in caso di bisogno, è pronto il piano B per evacuare i Potenti in elicottero. Teatro. Puro teatro. Non è forse questa la regola generale? Preparare un piano B è diventato una mania. Ce n'è uno per L'Aquila, un altro per il disegno di legge sulle intercettazioni contestato dal presidente Napolitano per palesi vizi di incostituzionalità e ieri messo in opera dal ministro della Giustizia; un altro ancora per il lodo Alfano se la Corte ne invaliderà alcune parti, infine un quarto se la Corte lo invalidasse interamente.

Quest'ultimo piano B tuttavia è ancora da studiare, si va da una legge non più ordinaria ma costituzionale che però lascerebbe il Cavaliere esposto al corso della giustizia, ad una crisi istituzionale vera e propria con conseguente appello al popolo in stile Caimano.
Berlusconi, a differenza del suo Bertolaso, ha invece la faccia sempre più scura. Gli hanno suggerito di parlar poco e di farsi vedere il meno possibile e lui ci prova ma con evidente fatica.

Da quel 25 aprile, quando raggiunse l'apice della popolarità e del consenso abbigliandosi da padre della Patria con al collo la sciarpa da partigiano, sembra passato un secolo. Molte cose sono cambiate nel suo pubblico e nel suo privato, nel suo modo di gestire, nel suo eloquio e forse nei suoi pensieri.

Ma una cosa non è cambiata nonostante gli appelli del Quirinale ad una tregua almeno fino al G8: continua ad insultare la sinistra "un cadavere che ingombra, un branco di comunisti, un'accozzaglia senza idee". E continua ad indicare al pubblico ludibrio "i giornali eversivi ai quali gli imprenditori dovrebbero negare la pubblicità".

Nel frattempo gli incidenti di percorso si susseguono.
L'ultimo, forse il più grave, è stato l'improvvida cena in casa del giudice costituzionale Mazzella il quale, insieme all'altro suo collega Napolitano, ha anche reagito pubblicamente con una lettera al premier con lui stesso concordata.

Non staremo qui a ripetere le considerazioni su questo comportamento irrituale e su quell'incontro gastronomico tra "compagni di merende" come li ha giustamente definiti il collega Massimo Giannini. Sarebbe stato grave anche se il solo convitato dei due giudici della Corte fosse stato il presidente del Consiglio, vecchio amico ed elettore di entrambi; ma c'erano anche il ministro della Giustizia e il presidente della Commissione parlamentare, Vizzini, dando a quell'incontro un inequivocabile colore di cena di lavoro.

La conseguenza è che la Corte faticherà non poco a scrollarsi di dosso il peso che gli è stato caricato sulle spalle da due dei suoi componenti.

* * *

Dicono i bene informati che la principale occupazione del premier nelle poche settimane che lo dividono da una lunga vacanza sarà l'economia, a cominciare dal G8 del prossimo 8 luglio. E c'è da crederci perché la crisi è ancora tutta davanti a noi.

Il G8 deciderà ben poco. Non è più lì che si gioca la partita, ormai trasmigrata nei consessi dove si misurano i veri grandi della scena economica mondiale.
L'intervista ad un giornale italiano in vista del G8 Barack Obama l'ha data all'Avvenire. Non vende molto l'Avvenire ma rappresenta la Conferenza episcopale e Obama voleva parlare dell'incontro che avrà col papa sabato prossimo appena liberatosi dal meeting dell'Aquila.

Obama non appartiene alla categoria berlusconiana e tremontiana di quelli che sostengono che il peggio sia passato. Al contrario: lui sostiene che il peggio viene adesso con una valanga di disoccupati e con una secca diminuzione dei redditi di lavoro.
Ci siamo già occupati domenica scorsa di questo problema.

Ieri ne ha scritto con la competenza che gli è propria Luigi Spaventa, perciò non ripeterò i suoi giudizi e la sua analisi. Aggiungo soltanto che, dai documenti inviati in Parlamento dallo stesso Tremonti risulta quanto segue:

1. I dati sull'andamento del deficit, del fabbisogno, delle entrate, delle spese, del debito pubblico, forniti dal Tesoro sono esattamente quelli anticipati dall'Istat, dalla Banca d'Italia, dall'Ocse, dalla Commissione di Bruxelles, che il ministro aveva definito "congetture inutilmente allarmistiche".

2. Tra quei dati segnalo una spesa che cresce a ritmo sostenuto, un deficit che supererà il 5 per cento sul Pil, un debito pubblico a 119 per cento sul Pil, le entrate tributarie in forte calo, la disoccupazione in netto aumento.

3. Quelle congetture oggi interamente accolte dal Tesoro avrebbero dovuto suggerire al ministro di scusarsi con chi aveva dileggiato. Ovviamente non si è scusato.

4. Quanto ai provvedimenti per stimolare il sistema produttivo avevo scritto che entreranno concretamente in vigore tra l'inverno e l'estate del 2010 e così risulta dalle carte rese pubbliche da Tremonti. Scrissi che si trattava di salvagenti gettati in mare a qualche chilometro di distanza dai naufraghi. Ed è esattamente così.

* * *

Poniamoci adesso la domanda: a che punto è quest'opposizione cadaverica della quale straparla il presidente del maggior partito italiano? A che punto è il Partito democratico che si prepara al suo congresso fondativo? Il dibattito nel partito è in pieno corso e si svolge, almeno per ora, con sufficiente civiltà. Né mi sembra che abbia paralizzato la reattività del partito nei confronti di quanto accade nel paese.

Il timore manifestato da molti d'una introversione del Pd su se stesso non mi sembra si stia affatto verificando e d'altra parte sarebbe impossibile che ciò accadesse di fronte a quanto ora sta avvenendo nel paese.

In questa prima settimana congressuale si sono verificati in ordine cronologico i seguenti fatti: si sono riuniti a Torino i giovani del gruppo di Piombino che vogliono esser rappresentati da un proprio candidato; è stato ufficiato in questo senso il sindaco di Torino; dopo una breve riflessione Chiamparino ha declinato l'offerta e resterà al suo posto di sindaco fino al 2011 per poi forse candidarsi alla Regione Piemonte. Secondo me ha fatto benissimo.

Bersani ha presentato la sua candidatura e il suo programma al teatro Ambra Jovinelli di Roma. Franceschini ha anche lui annunciato la sua candidatura e presenterà il programma tra pochi giorni.
Walter Veltroni ha riunito al teatro Capranica di Roma quelli che parteciparono due anni fa alla fondazione del Pd al Lingotto di Torino ed ha rievocato il programma che espose in quell'occasione indicando i problemi del futuro e la missione che il Pd è chiamato a svolgere.

Hanno anche manifestato le loro tesi il gruppo cattolico di Fioroni, i liberaldemocratici di Rutelli, e sono più volte intervenuti Massimo D'Alema, Franco Marini, Piero Fassino, Sergio Cofferati, Massimo Cacciari.
Infine ieri si è materializzato il terzo candidato nella persona di Ignazio Marino, sostenuto dai giovani quarantenni di Piombino.

Chi assiste dall'esterno con partecipe attenzione a questo processo iniziale in vista del Congresso e delle successive primarie è indotto alle seguenti osservazioni.

Bersani ha fatto appello con molta dignità ad un sentimento identitario. Il suo schieramento appare notevolmente compatto e coinvolge una parte notevole dei democratici di provenienza Ds. Ritiene che il partito debba fin d'ora indicare le sue alleanze in vista d'una coalizione che comprenda possibilmente tutto il vasto arco delle opposizioni da Casini fino alla sinistra di Ferrero.

Sarà la coalizione a indicare con le primarie il candidato alla "premiership" quando ci saranno le elezioni politiche a fine legislatura.
Lo schieramento che si sta formando attorno a Franceschini è più variegato.

Riafferma la sua vocazione maggioritaria e il bipolarismo. Coinvolge una parte degli ex Ds, buona parte della ex Margherita, buona parte dell'elettorato giovanile.

Bersani punta le sue carte principalmente sul Congresso; Franceschini principalmente sulle successive primarie. La visione di Bersani è più rivolta ai militanti, quella di Franceschini tende a captare elettori al centro e a sinistra che attualmente sono esterni rispetto al Pd. Tutti e due cercano di riportare in linea la vasta platea degli astenuti.

Il tema della laicità e del laicismo è improvvisamente balzato in prima linea, sia pure con differenti tonalità, nel discorso pubblico del Pd. Per lungo tempo non è stato così, segno che il sentimento pubblico è cambiato.
Ignazio Marino, il terzo uomo, fa addirittura della laicità il suo tema principale se non addirittura esclusivo. Mi permetto di dire, da laico di vecchia data, che un partito complesso e riformista come è e vuole essere il Pd non può puntare sul laicismo tutte le sue carte. Diventerebbe fondamentalista e si ridurrebbe a pura e inefficace testimonianza. Questi, caro Marino, non sono tempi di testimonianza ma tempi di dura battaglia su tutti i fronti del riformismo.

Ci vorrebbe per il Pd un Barack Obama, come ha detto Veltroni. Purtroppo non c'è, non se ne abbiano a male gli esponenti del Pd. Non c'è tra gli anziani né tra i giovani.

Tanto più importante è che a questa mancanza si supplisca con una buona squadra che si valga dei talenti e non soltanto dei cooptati, giovani o anziani che siano.

Purché l'accesso sia aperto. Purché i valori siano condivisi e purché servano a ispirare progetti concreti, seriamente pensati e tenacemente perseguiti. Quanto alla vecchia questione del partito radicato sul territorio, questa è perfino una tautologia: se non opera sul territorio e sui bisogni che il territorio esprime, un partito non esiste.

Ma non esiste neppure se non ha una salda visione nazionale ed europea. Tra alcuni errori che possono essere rimproverati e dei quali lui stesso con notevole umiltà si rimprovera, questo è il lascito più importante di Veltroni che va meditato e raccolto.

(5 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #145 inserito:: Luglio 09, 2009, 10:30:39 pm »

Io e il resto del mondo

di Eugenio Scalfari


L'ultimo libro del filosofo Remo Bodei 'La vita delle cose' pone sotto i nostri occhi l'esistenza che gli oggetti vivono indipendentemente da noi e che a loro volta vivono riflessi nel nostro sguardo  Remo BodeiPoco tempo fa l'editore Laterza ha pubblicato un libro di Remo Bodei intitolato 'La vita delle cose'. L'autore è ben conosciuto nel mondo della filosofia e della cultura in genere; ha insegnato a lungo alla Normale di Pisa e attualmente insegna alla University of California di Los Angeles.

Secondo me quest'ultimo suo libro (ne ha scritti molti e tutti molto stimolanti) ha qualcosa di eccezionale e di sorprendente anche se parte da un'osservazione che tutti in un certo momento della vita abbiamo fatto e da una situazione che tutti abbiamo vissuto nelle nostre fantasie infantili: gli oggetti vivono. Vivono dentro di noi ma hanno anche una loro vita indipendentemente da noi. Esiste un rapporto ambivalente tra noi e gli oggetti, rivelatore di fondamentali meccanismi della conoscenza e della psiche. Penso insomma che il libro di Bodei meriterebbe d'avere moltissimi lettori perché tocca e scioglie una serie di nodi che spesso impigliano la nostra mente e i nostri pensieri.

Le cose delle quali parla Bodei sono uno sterminato universo, vanno dai giocattoli dei bambini alla collana di perle regalo d'un matrimonio, al letto in cui abitualmente dormiamo, alle posate che usiamo per consumare i nostri pasti, al bancone del bar che frequentiamo. Ma anche alla tomba che contiene le spoglie dei genitori o d'un amico che ci ha lasciato. E perfino la memoria dei nostri morti, il nostro passato, le persone che lo animarono.

Insomma, se vogliamo stringere la questione all'essenziale, le cose sono tutto ciò che è oggettivo, al di fuori di noi. E poiché noi, io, siamo l'unico soggetto che dal suo punto di vista guarda il resto del mondo, ecco che le cose delle quali parla Bodei sono per l'appunto il resto del mondo. Io e il resto del mondo, il quale vive nel mio sguardo e attraverso il mio sguardo entra dentro di me, suscita in me amore oppure odio e repulsione, mi invade, in certi casi mi possiede e mi domina mentre io a mia volta possiedo e domino lui, oggetto del mio sguardo e della mia attenzione.


Un soggettivismo esasperato? Non sarebbe in fondo una cosa nuova né, come prima ho scritto, sorprendente, se ne discute da quando gli uomini hanno cominciato a pensare e a riflettere su se stessi, cioè almeno da 2.500 anni. Ma è sorprendente il ragionamento attraverso il quale l'autore di questo libro pone sotto i nostri occhi l'esistenza che le cose vivono indipendentemente da noi e quali sentimenti suscita in questa apparentemente ovvia constatazione: malinconia, gelosia, sentimenti di perdita, feticismo, distacco, disperazione, bisogno di novità. Insomma vita, vita nostra, vita del soggetto che noi siamo e che alimenta la propria esistenza con un rapporto costante con gli oggetti (animati e inanimati) che ci circondano e che a loro volta vivono riflessi nel nostro sguardo speculare.

Trascrivo qui un brano di Fernando Pessoa citato da Bodei, che ci dà tutta la misura e l'intensità del libro di cui stiamo parlando: "Sento il tempo come un enorme dolore. Abbandono sempre ogni cosa con esagerata commozione. Le cose buone della vita mi fanno male in senso metafisico quando le abbandono e penso che non le vedrò né le avrò mai più, perlomeno in quel preciso esatto momento.

I morti. I morti che mi hanno amato nella mia infanzia. Quando li rievoco la mia anima si raffredda e io mi sento esiliato dai cuori, solo nella notte di me stesso, piangendo come un mendicante in silenzio sbarrato di tutte le porte".

Il linguaggio poetico di Pessoa, unito al sentimento della perdita e all'incubo della morte, raggiunge qui un'intensità drammatica che tocca il lettore nel profondo. Il miracolo psicologico che ne sgorga e che Bodei racconta con altrettanta efficacia consiste nel capovolgimento degli elementi che Pessoa esprime della perdita, della solitudine, del "silenzio sbarrato di tutte le porte". Nasce una creazione poetica che commuove i cuori e riapre le porte sbarrate del silenzio.

Lasciamo dunque concludere l'autore con parole sue: "Le cose rappresentano nodi di relazioni con la vita degli altri, anelli di continuità tra le generazioni, ponti che collegano storie individuali e collettive, raccordi tra civiltà e natura. Ci spingono a dare ascolto alla realtà, a farla entrare in noi così da ossigenare un'interiorità altrimenti asfittica. Mostrano inoltre il soggetto nel suo rovescio, nel suo lato più nascosto, quello del mondo che affluisce a lui in quel viaggio a sorpresa che è la vita".

(03 luglio 2009)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #146 inserito:: Luglio 12, 2009, 04:41:52 pm »

IL COMMENTO

Il meritato successo di un abile anfitrione

di EUGENIO SCALFARI


"PRENDIAMO ispirazione dalle intuizioni e dalle scelte lungimiranti che emersero alla vigilia o all'indomani della conclusione della seconda guerra mondiale, quando nacquero le Nazioni Unite e ancor prima le istituzioni di Bretton Woods. Da allora molto si è costruito ma non poco purtroppo si è negli ultimi anni venuto perdendo".

Queste parole sono state pronunciate la sera di giovedì scorso da Giorgio Napolitano nella cena da lui offerta all'Aquila a tutti i leaders mondiali presenti al G8, diventato per l'occasione un G14 con la partecipazione dei principali paesi emergenti.

Non si poteva dir meglio con poche parole e non si può adottare metro migliore per valutare i risultati di questo penultimo incontro dei paesi occidentali che presto cederanno il posto ad altre e più allargate forme di consultazione internazionale.

Occorre comunque ricordare che il G8 non è mai stato un organo decisionale perché nessuno dei governi che vi partecipano gli ha mai conferito una parte della propria sovranità. Ciò non toglie tuttavia che su alcuni temi specifici i governi possano firmare accordi operativi, formulando su altri temi raccomandazioni di indirizzo che dovranno poi essere tradotte in apposite norme da parte di istituzioni dotate di poteri operativi.
Faccio questa precisazione, ovvia ma spesso dimenticata da chi commenta i risultati di questo genere di incontri, a cominciare spesso da alcuni degli stessi partecipanti desiderosi di ricevere vantaggi di immagine anche a costo di manipolare la realtà di quanto è accaduto.

Al G8 dell'Aquila c'erano tre temi specifici e un tema generale di puro indirizzo. Quest'ultimo riguardava lo stato della crisi economica mondiale, la diagnosi delle possibili terapie da raccomandare. Quanto ai temi specifici, peraltro di grande portata, riguardavano il clima, gli aiuti ai paesi poveri e principalmente all'Africa, la politica dei paesi del G8 nei confronti dell'Iran.

I giudizi, o come si dice la pagella da compilare sugli esiti dell'incontro aquilano vanno dunque articolati su questa tastiera ed è quanto cercheremo di fare.

* * *

La diagnosi sullo stato attuale della crisi è stata abbastanza difforme. Barack Obama è nella sostanza il più pessimista, ritiene che il peggio sia al suo culmine e che si aggraverà ancora nel prossimo autunno e nell'inverno del 2010. Il peggio che determina il suo giudizio riguarda il delicatissimo tema della disoccupazione che in Usa ha già raggiunto il 10 per cento e potrebbe aumentare fino all'11 nei prossimi mesi con effetti pesanti sui redditi e sui consumi.

Il presidente americano inoltre non è ancora del tutto tranquillo sulla tenuta di alcune istituzioni bancarie e non esclude altri massicci interventi a sostegno sia di banche sia di grandi imprese a corto di capitali.

Il pessimismo operativo di Obama ha tuttavia come contrappeso il suo robusto ottimismo politico, che ha profuso in abbondanza e con notevole efficacia su tutto l'andamento del G8.

Al polo opposto della diagnosi di Obama si è collocato Berlusconi, secondo il quale il peggio è già passato e la disoccupazione non presenta scenari drammatici.

Di questa divergente diagnosi ha dato conto lo stesso Berlusconi in una delle sue conferenze stampa, spiegando però che il parere di Obama su queste materie è assai più importante del suo: un esempio molto infrequente di modestia che il premier italiano ha offerto per ingraziarsi il suo principale interlocutore. Lui è fatto così, vuole essere amato. Per essere amato da Obama ha anche buttato alle ortiche Bush. Quella è acqua passata. Obama invece è da conquistare e la modestia ne è stata questa volta lo strumento.

Il ministro Tremonti aveva proposto, con la collaborazione dell'Ocse e del governo tedesco, alcune nuove regole da introdurre nel sistema economico internazionale. Un documento di 13 cartelle è stato presentato al G8 con il titolo ambizioso di Global Legal Standard e menzionato favorevolmente come raccomandazione da esaminare nelle competenti sedi operative, suscitando una immodesta soddisfazione dello stesso Tremonti.

Di quali regole si tratta? In realtà non sono regole vere e proprie né potevano esserlo trattandosi di raccomandazioni di indirizzo. Ed anche per un'altra ragione: si enunciano valori e, come sappiamo, i valori non sono norme ma auspici e modi di sentire; riguardano più il dover essere che l'essere.

I valori tremontiani elencati nel documento sono l'etica nelle decisioni economiche, la trasparenza di quelle decisioni, la lotta contro la corruzione, la lotta contro l'evasione fiscale, la vigilanza del credito, la lotta contro i monopoli in favore della libera concorrenza. Ma chi mai oserebbe incitare gli operatori ad essere disonesti, a mentire, a favorire i monopoli e ad evadere le imposte? E quale uomo d'affari, imprenditore, banchiere si riconoscerebbe in un ritratto così perverso?

Debbo dire che a Tremonti va riconosciuta una notevole audacia: raccomandare la lotta all'evasione fiscale, quella contro i monopoli, la trasparenza delle decisioni da parte di uno dei principali membri dei governi berlusconiani è come parlar di corda in casa dell'impiccato. Ma il punto non è questo o non soltanto questo. Si tratta soltanto di raccomandazioni e non di altro.

Nel frattempo e nello stesso giorno in cui Tremonti presentava il suo documento al G8, il governatore Draghi annunciava un documento assai più corposo redatto dal "Financial Stability Forum" che è l'organo del Fmi da lui guidato, dove non si parla di valori ma di norme concrete che saranno imposte alle banche e alle istituzioni finanziarie quando lo studio del Fsf sarà definitivamente approvato entro l'anno in corso. Da notare che nel Fsf non sono rappresentati soltanto i paesi del G8 ma un ventaglio molto più ampio e quindi assai più interessante per l'operatività di quelle regole.

* * *

Bastano pochi accenni per i tre temi specifici affrontati dal G8, dei quali i giornali di tutto il mondo hanno già ampiamente parlato nei giorni scorsi.

Iran. I temi da affrontare in materia erano due: il nucleare iraniano e la repressione violenta del dissenso e quindi una violazione molto grave dei diritti di libertà in quel paese teocratico.

Entrambi i temi sono stati in qualche modo elusi nel documento approvato all'unanimità dal G8. La riprovazione delle violenze è stata affidata alle dichiarazioni di singoli capi di governo, tra i quali il più severo è stato il presidente francese Sarkozy. Sul tema del riarmo nucleare è intervenuto seccamente Obama, che attenderà comunque fino alla fine dell'anno sperando nell'avvio di un negoziato costruttivo. La vera e solenne reprimenda approvata all'unanimità (Russia compresa) nei confronti del governo iraniano è stata lanciata contro il negazionismo dell'Olocausto da parte di Ahmadinejad: era il meno attuale dei temi e forse per questo è stato scelto dopo una serrata discussione da parte degli "sherpa" durata a quanto si sa per due settimane.

Sul clima si è registrato un mezzo fallimento quando sono entrati in gioco i Cinque emergenti (Cina, India, Brasile, Messico, Sudafrica). I quali hanno accettato il principio dei 2 gradi di riscaldamento del pianeta come limite estremo, superato il quale ci sarebbe una catastrofe climatica planetaria; ma non hanno invece acconsentito a ridurre le proprie emissioni di gas inquinanti.

Se ne riparlerà in un'apposita riunione a fine anno a Copenaghen. Il colpo di scena di Obama è stato a questo punto l'impegno per il proprio paese di ridurre drasticamente le emissioni di gas serra facendo della ricerca di energie alternative il centro del rilancio industriale americano. La speranza è che un impegno del genere serva di orientamento anche al gruppo dei Cinque, il che però è tutto da verificare.

Infine l'Africa e i poveri. Tutti i paesi ricchi sono allo stato dei fatti largamente inadempienti rispetto agli impegni presi nei precedenti vertici. Il più inadempiente di tutti è il nostro: avremmo già dovuto versare un miliardo di dollari mentre abbiamo finora conferito 30 milioni, pari al 3 per cento di quanto dovuto. Ora Berlusconi ha promesso un versamento entro il prossimo agosto di 130 milioni e lo ha presentato come una manna. Questo è lo stato dei fatti per quanto ci riguarda.

Nel meeting del G8 è stato deciso un aiuto, destinato soprattutto all'agricoltura, di 20 miliardi di dollari. La cifra è cospicua ma restano tuttora indefinite le modalità e i tempi, chi guiderà gli investimenti e quando. Comunque su questo tema un mezzo successo politico c'è indubbiamente stato, ma è il solo dell'intero vertice.

Del tutto inevaso è stato invece il vero tema che i Grandi del mondo dovranno porsi e che invece è stato del tutto ignorato salvo che dalla Cina e dal gruppo dei Cinque emergenti: il nuovo assetto monetario internazionale. In altre parole il problema del dollaro.

La Cina vuole che si costruisca una moneta di conto e di riserva, calcolata attraverso una sorta di paniere ponderato delle principali monete a partire dal dollaro, dall'euro, dallo yen e naturalmente dallo yuan cinese. Moneta amministrata dall'Fmi, le cui quote di appartenenza dovranno essere profondamente riviste per fare appunto spazio ai paesi emergenti che sono rappresentati attualmente da quote soltanto simboliche.

Sarà un'operazione complessa, che vede gli Usa in totale disaccordo, ma che la Cina sembra decisa a portare avanti facendo leva sulla sua posizione di primo creditore degli Stati Uniti e primo detentore di riserve in dollari.

Sarà questo il vero tema del prossimo futuro, adombrato nel richiamo alle istituzioni nate a Bretton Woods nelle parole di Napolitano che abbiamo citato all'inizio. Un tema denso di implicazioni, che vedrà diminuire drasticamente il peso dei singoli Stati europei a beneficio dell'Unione europea e delle istituzioni che la rappresentano a cominciare dalla Banca centrale.

Questo tema sarà al centro della prima assemblea del Fondo monetario internazionale che è destinato a diventare la vera sede dei dibattiti e delle decisioni.

* * *

Ultimo argomento: il successo di Berlusconi e quindi dell'Italia, perché è vero che nei vertici internazionali un successo del governo è patrimonio comune al di là dei partiti e delle persone.

Berlusconi ha avuto successo, ha ricevuto complimenti da tutti, ha evitato con abilità i guai che incombevano sul suo capo e di questo gli va dato atto.

Per che cosa è stato complimentato? Per il suo ruolo, magistralmente ricoperto, di padrone di casa. Se lo è meritato. E' un compito che sa gestire molto bene come dimostrò nell'analogo meeting di Pratica di Mare: alloggiamento perfetto, cibo eccellente, sicurezza garantita, intrattenimento rilassante. Il "Financial Times" di ieri, che era stato il giornale tra i più severi nei suoi confronti, ha titolato "Da playboy a statista", ma ha sbagliato l'ultima parola, doveva scrivere anfitrione. Lo statista si è visto ben poco anche perché l'unico statista in campo è stato Obama e con lui nessuno era in grado di competere.

Berlusconi avrebbe potuto esercitare una piccola parte da statista associando al successo l'opposizione che ha accettato la tregua chiesta da Napolitano. Ma nemmeno questo ha fatto. Ha continuato ad attaccarla tutti i giorni, chiamandola "opposizione-cadavere, comunista, faziosa". Poi, una volta chiuso il sipario sul G8 dell'Aquila, è andato ancora più in là: si sta rimangiando l'impegno preso anche in suo nome dal ministro Alfano con il Quirinale circa una pausa nella legge sulle intercettazioni; ha ripetuto che non ha intenzione di trattare alcunché con l'opposizione; ha maltrattato i suoi dissidenti interni; ha richiamato all'ordine perfino la Lega. "Ora dev'esser chiaro a tutti che sono io che comando" ha detto ieri. L'ora della carota è passata e si ricomincia col bastone.

Ho letto ieri un interessante articolo del collega La Spina su "La Stampa". Scrive che la maggiore sobrietà dimostrata da Berlusconi al G8 è stata probabilmente l'effetto delle critiche acerbe di cui è stato oggetto da parte di alcuni giornali ai quali (scrive La Spina) andrebbe riconosciuto il merito del "new look" saggio e prudente del nostro premier di solito scapestrato.
Forse La Spina ha ragione; forse quel merito ad alcuni giornali andrebbe riconosciuto. Purtroppo però quella saggezza e quella prudenza di cui parla il collega sono già dietro le spalle.

Dal canto nostro, poiché è di noi che si parla, le nostre riserve e le nostre critiche non cesseranno se non altro per indurre il premier scapestrato a cambiare definitivamente comportamenti pubblici e privati che sono l'esatto contrario da quelli ai quali un capo di governo dovrebbe attenersi.

Continueremo dunque a pubblicare notizie di fatti come è compito di ogni giornale, ma non speriamo e non ci illudiamo di vedere effetti vistosi. Salvo quello di vedere il premier far bene il mestiere dell'anfitrione, ma di questo eravamo certi. Purtroppo non è di questo che ha bisogno il nostro Paese.

(12 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #147 inserito:: Luglio 19, 2009, 04:51:42 pm »

L'EDITORIALE

Una democrazia malata che deve guarire

di EUGENIO SCALFARI


TRE temi strettamente legati l'uno all'altro dominano il panorama della settimana che oggi si chiude: l'intervento del presidente della Repubblica sulla legge approvata dal Parlamento che riguarda alcuni aspetti della sicurezza pubblica; il dibattito in corso nel Partito democratico in vista del congresso che si concluderà il 25 ottobre; la presentazione del Dpef e del decreto anti-crisi che ha cominciato il suo iter parlamentare. Ma va aggiunto che su questi tre temi ne incombe un quarto che ha carattere preliminare e che può avere come titolo quello usato venerdì scorso da Gustavo Zagrebelsky per il suo articolo pubblicato dal nostro giornale: "Verità e menzogna".

Si tratta di un tema capitale per ogni democrazia poiché investe il rapporto fiduciario dei cittadini con le istituzioni, la formazione della pubblica opinione e la sua possibile manipolazione culturale prima ancora che politica e infine il funzionamento dello stato di diritto.
Inizierò con il primo tema e concluderò con il quarto: vi è infatti un nesso evidente tra gli interventi del Quirinale e la tutela dello stato di diritto, mai come oggi insidiato, indebolito e vulnerabile.

Si è detto da parte di alcuni fondamentalisti del centrodestra che l'intervento di Napolitano sulla legge di sicurezza è stato irrituale. L'ha detto anche Di Pietro che pratica un altro tipo di fondamentalismo.
Napolitano, com'è noto, ha promulgato la legge sulla sicurezza approvata dal Parlamento ma ha accompagnato la sua firma con una lunga lettera diretta al presidente del Consiglio, ai ministri proponenti (Maroni, Alfano), ai presidenti delle Camere e al presidente della Corte costituzionale.

La lettera elenca i punti critici della legge che, secondo il presidente della Repubblica, rischiano di inceppare l'ordinamento penale vigente suscitando effetti contraddittori rispetto a quelli voluti e interpretazioni molteplici da parte di chi dovrà attuarne le norme. I critici di Napolitano si sono domandati perché il Capo dello Stato, avendo ravvisato molteplici difetti della legge, non l'abbia rinviata al Parlamento come la Costituzione gli consente di fare. Questo dire e non dire, questo promulgare criticando e criticare promulgando sarebbe segno di incertezza e configurerebbe l'irritualità rimproverata.

Noi non pensiamo che le cose stiano così. Il potere di rinvio alle Camere d'una legge da esse approvata è previsto in caso di mancata copertura finanziaria (e non è questo il caso) e di altre palesi forme di incostituzionalità. Palesi, poiché se tali non fossero spetterebbe alla Corte - se e quando attivata - aprire un'indagine ed emettere la sua sentenza.

Napolitano non ha ravvisato palesi incostituzionalità ma preoccupanti elementi di incoerenza rispetto all'ordinamento penale vigente ed ha allertato le competenti istituzioni (e innanzitutto la Corte) affinché vigilino e provvedano a evitare gli incidenti di percorso che quella legge malfatta potrebbe produrre.
Non mi pare che ci siano obiezioni da opporre ma soltanto solidarietà da esprimere al Capo dello Stato che sta cercando con diuturna fatica di raddrizzare il timone d'una barca assai mal diretta dai nocchieri che dovrebbero assicurarne un'ordinata navigazione.

* * *

Il buon andamento della cosa pubblica riposa anche sull'esistenza d'una forte opposizione che abbia idee chiare sulla visione del paese e sui suoi problemi. Un'opinione molto diffusa, non soltanto nel centrodestra ma anche in ampi settori di centrosinistra, ritiene che il Partito democratico non abbia idee chiare sulla propria identità, non conosca né voglia conoscere i problemi del paese e sia percorso da una pulsione alla rissa interna alimentata soltanto da contrastanti ambizioni personali.

Offra insomma al pubblico uno spettacolo miserando che qualcuno ha definito tragicomico e che avrebbe il solo effetto di accrescere l'irruente baldanza del potere berlusconiano. Noi non pensiamo che le cose stiano in questo modo anche se non mancano segnali di preoccupazione e forze centrifughe che spingono al peggio.

I valori del partito riformista sono largamente condivisi al suo interno. Sono i valori di libertà, eguaglianza, solidarietà con i deboli, non violenza, difesa dell'ambiente. Ma poi questi valori che distinguono fortemente la sinistra dalla destra, vanno tradotti in una linea concreta e qui, come è naturale, le posizioni divergono. Quella di Bersani punta (sono parole sue) ad un partito di sinistra con forti connotati laici, evoca l'Ulivo, cioè una vasta alleanza di forze unite da un programma e da un comune avversario, si prefigge una legge elettorale alla tedesca e mira ad un'alleanza nazionale con il centro cattolico e moderato di Casini.

Il programma di Franceschini fa perno invece sul definitivo superamento delle antiche identità ex Ds ed ex Margherita, esalta un programma riformatore che colga i bisogni e le speranze dei vari ceti sociali e dei territori di insediamento del partito, sottolinea il ruolo degli elettori che si iscrivono al partito per partecipare alle primarie, fissa nel conflitto di interessi e in una legge che lo impedisca un impegno prioritario, conferma la laicità come un connotato di fondo e infine pone il tema d'una classe dirigente nuova e della sua selezione. Marino mette in prima fila il laicismo e si riserva di convergere con i suoi delegati sul nome di quello dei due candidati principali che presenti spiccate affinità con il suo programma.

Desidero esprimere un paio d'osservazioni strettamente personali su queste diverse posizioni che comunque denotano un dibattito serio e aperto. C'è in questo dibattito congressuale un'attenzione al laicismo, specie da parte di personalità post-comuniste, che rappresenta un'assoluta e per me positiva novità. È noto che il tema laico fu sempre subordinato nel Pci e lo è stato fino a poco tempo fa nelle successive incarnazioni della sinistra.

Questo laicismo spinto si coniuga tuttavia con l'esplicita ipotesi di un'alleanza nazionale con l'Udc di Casini e di Buttiglione, quasi a prefigurare uno schema che ricorda il tacito duopolio Dc-Pci della prima Repubblica. Mi sembra uno schema alquanto "retrò" per un partito riformista, senza dire che l'Udc non farà mai alleanze nazionali con la sinistra e l'ha detto in modo esplicito più e più volte.

Per concludere su questo punto: ho molto apprezzato la lettera che Virginio Rognoni ha inviato al "Corriere della Sera" di giovedì scorso e l'articolo di fondo di Sergio Romano in quello stesso numero del giornale. Entrambi hanno sottolineato l'importanza e la serietà del dibattito in corso nel Pd. Di Rognoni non dubitavo. Il Sergio Romano di giovedì è una mosca bianca in un gruppo di mosche nere e fa piacere averlo letto.

* * *

Uno degli elementi della partita politica è rappresentato dall'andamento della crisi economica, che il governo ha finora esorcizzato, prima disconoscendone l'esistenza e poi dandola già per conclusa. Posso dire che siamo il solo governo del mondo occidentale che abbia avuto questa posizione in due fasi entrambe caratterizzate da una consapevole dissimulazione della realtà.

Qualche cifra servirà a chiarire, almeno per chi abbia capacità e voglia di capire, riportandoci coi piedi per terra. Il confronto tra i dati del primo quadrimestre del 2008 con il corrispondente periodo del 2009 registra una diminuzione della produzione industriale del 21 per cento e degli ordinativi di oltre il 30. Ancora più grave è il crollo delle esportazioni che rappresentano il principale elemento di sostegno della domanda: una diminuzione del 24 per cento. Quanto al nostro prodotto interno lordo, le previsioni del Dpef lo collocano al meno 5,1 ma altre attendibili fonti lo collocano addirittura al meno 6.

Le altre cifre accolte nel Dpef concernenti il deficit, l'aumento delle spese, la diminuzione delle entrate, l'aumento del debito pubblico e della pressione fiscale confermano che erano giuste le previsioni della Banca d'Italia e sbagliate quelle del Tesoro di appena un mese fa, ma il peggio riguarda il settore dell'occupazione, destinata a una vera e propria discesa che avrà luogo dal prossimo settembre fino alla primavera 2010. Una discesa strutturale e non congiunturale poiché è accompagnata dalla distruzione di posti di lavoro che per molti anni non saranno compensati da un'estensione della base produttiva.

Il nostro ministro dell'Economia ostenta ciononostante grande tranquillità. Mette insieme piccoli tasselli di sostegno fiscale, talmente minimali che neppure i diretti interessati ne percepiscono sollievo e tutti comunque postergati alla primavera-estate del 2010, cioè tra un anno da oggi.

In questo (tardivo) recupero di frattaglie la sola bistecca è rappresentata dallo scudo fiscale dal quale Tremonti si aspetta un recupero di 3-4 miliardi di capitali e un beneficio per l'erario del 5 per cento sui guadagni che questi capitali hanno realizzato nel periodo in cui restarono imboscati nei vari paradisi fiscali.

I giornali hanno cercato nei giorni scorsi di spiegare in che modo la materia imponibile sarà accertata ma, con la migliore buona volontà, non ci sono riusciti tali sono le complicazioni normative. Aspettiamo dunque di poter leggere i testi di legge e soprattutto i regolamenti, ma intanto alcune considerazioni possono essere fatte.

1. Sono stati esclusi dal condono (perché di vero e proprio condono si tratta) i reati di bancarotta e di falso in bilancio. Si tratta d'una giusta esclusione, richiesta dall'opposizione e accettata dal governo.

2. Tuttavia viene escluso da una norma successiva che le dichiarazioni riservate del proprietario dei capitali rientrati alla banca agente possano mai essere utilizzate in giudizio contro il contribuente interessato. Si cancellano cioè le prove che dovrebbero rendere concreta la punibilità prevista dalle norme, sia rispetto al giudice civile che a quello penale. È un rebus del quale il Parlamento dovrà in qualche modo venire a capo o abolendo la punibilità o abolendo il divieto di provarla.

3. La vasta platea dei lavoratori dipendenti e dei pensionati, che paga le imposte per ritenuta alla fonte e quindi fino all'ultimo centesimo, assisterà allo sconcio spettacolo di evasori fiscali che ottengono sanatoria pagando una tassa "una tantum" del 5 per cento. Questo confronto sta già diffondendo rabbia e protesta tra i contribuenti che fanno il loro dovere. È facile capire che la sfiducia verso le istituzioni farà un altro passo avanti di fronte ad un condono che premia per l'ennesima volta i soliti noti e i soliti recidivi.

* * *

Mi resta da concludere con qualche parola sul tema "menzogna e verità". Su di esso sono state scritte intere biblioteche ma noi italiani abbiamo oggi il triste privilegio di vederne la messa in scena in presa diretta.
Le democrazie vivono sul rapporto di fiducia che si instaura tra il popolo e le istituzioni. Ma poiché le istituzioni sono rappresentate da persone, quella fiducia si instaura tra il popolo e le persone istituzionali.

Il rapporto fiduciario a sua volta si qualifica con due diverse modalità: la fiducia con partecipazione e quella con delega in bianco. Quest'ultima può essere revocata ma se dura troppo a lungo la revoca diventa difficile e sempre meno probabile anche perché l'area dalla partecipazione tende a restringersi mentre le istituzioni tendono ad assumere connotati sempre più autoritari.

Noi stiamo vivendo questa fase con un'intensità che non è mai stata così accentuata in tutti i settant'anni di storia repubblicana. Le democrazie autoritarie derivano dunque da una torsione della democrazia partecipata verso una democrazia autoritaria con tratti di regime stabile e sempre più difficilmente revocabile.

Il modello di democrazia autoritaria tende a raccontarsi in modo dissimile dal vero ed è a questo punto che la menzogna istituzionale diventa strumento primario di potere, deforma la realtà, indebolisce i poteri di garanzia, esercita la sua crescente influenza sui mezzi di informazione, dispensa favori e privilegi, viola diritti, narcotizza la pubblica opinione. La morale viene messa in soffitta, il teatro-spettacolo sostituisce la politica. Noi stiamo vivendo questa fase. Ad una tale deriva occorre resistere cercando di costruire il futuro.

(19 luglio 2009)
da repubblica.it
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« Risposta #148 inserito:: Luglio 19, 2009, 05:07:29 pm »

Elite e democrazia

di Eugenio Scalfari


Il potere politico è sempre stato concentrato nelle élite. Ma la loro circolazione insieme alla divisione dei poteri è lo schema tuttora valido anche se permanentemente insidiato  Ho letto con attenzione e interesse il libro di Massimo Salvadori ('Democrazia senza democrazia' editore Laterza) e, con pari attenzione e interesse, la recensione che gli ha dedicato Luciano Canfora sul 'Corriere della Sera' del 29 giugno scorso.

Il tema è di stringente attualità politica e i due autori, del libro e della recensione, procedono direi mano nella mano nella critica anti-elitista che ha come bersagli sia la democrazia liberale ottocentesca sia quella di massa instaurata nel secondo Novecento per iniziativa della socialdemocrazia e del movimento socialista in Europa.

Si tratta da parte dei due autori di una critica senza appello che mette sotto schiaffo la democrazia parlamentare e partitocratica, appoggiandosi alle motivazioni formulate da Gaetano Mosca, Robert Michels, Gramsci (ai quali aggiungerei Pareto e Salvemini e, perché no, in epoche diverse anche Tocqueville, Benjamin Constant, Georges Sorel e Schumpeter) convergenti nel dimostrare la falsità dell'auto-rappresentazione d'una democrazia formalmente esistente, ma in realtà totalmente asservita ai poteri economici e/o all'interesse dell'oligarchia dominante di mantenere il potere, estenderlo, bloccare le possibilità di controllo e di rinnovamento delle classi dirigenti.

Marx ed Engels sono assai meno presenti in questa analisi critica. Essi infatti davano una lettura sovrastrutturale della politica e fissavano il loro sguardo soprattutto sull'evoluzione delle forze economiche che rappresentavano la struttura della società. Nacque da questa loro lettura la distinzione tra le cosiddette libertà borghesi e la libertà sostanziale che si sarebbe attuata soltanto con l'abolizione della proprietà privata prima e dello Stato poi.

Ho detto che l'analisi marxista ha lavorato su un altro piano, ma è pur vero che la critica delle libertà borghesi ha finito con l'incontrarsi con quella anti-elitaria realizzando uno dei molti casi del 'marciare separati per colpire uniti'.


Non mi nascondo affatto i problemi edilizi che la democrazia parlamentare porta con sé sin dalla sua nascita, sia nella fase liberale che operava su un ceto molto ristretto in base al genere (soltanto maschile) e al censo (soltanto gli abbienti) e sia nella fase del suffragio universale, dei partiti di massa e delle organizzazioni sindacali.

La dinamica tra il potere politico e il potere economico e il frequente asservimento del primo rispetto al secondo è stata una costante della storia, non soltanto moderna, ma anche antica. Quindi non soltanto della democrazia. Non ho bisogno di ricordare a Salvadori (e tantomeno a Canfora) il peso che esercitarono i ricchi nella Roma senatoriale e perfino in quella pre-imperiale del primo e del secondo triumvirato.

Il dominio del 'business' sulla politica è, lo ripeto, una costante storica che si impose sia quando la politica era debole sia quando era forte; perfino Napoleone (e non parliamo del secondo impero di suo nipote) soggiacque in molte occasioni al potere economico, così come vi soggiacquero molti presidenti degli Stati Uniti e molti premier britannici. Tutti i paesi in tutte le latitudini hanno vissuto le fasi alterne di questa dinamica che è ineliminabile nella storia del mondo.

Mi preme però di discutere il tema delle 'élite' e delle oligarchie. Rimarco intanto una sostanziale differenza tra questi due temi che sintetizzo così: le oligarchie sono delle 'élite' che hanno bloccato l'accesso al potere di nuove forze sociali. Ma non tutte le 'élite' si rattrappiscono in oligarchie, così come non tutte soggiacciono al potere del 'business'. Roosevelt fu un caso importante di questa dinamica. Barack Obama ne è un altro, operante sotto i nostri occhi.

Personalmente ritengo che il potere politico sia sempre stato concentrato nelle 'élite'. La critica anti-elitaria ha quasi sempre avuto come sbocco politico l'insediamento di regimi autoritari o dittatoriali o addirittura totalitari. Da questo punto di vista la Rivoluzione francese rappresenta un esempio mirabile per la rapidità con la quale è passata da uno stadio all'altro: dalla democrazia costituzionale dell'89 all'oligarchia dell'asse Danton-Robespierre, alla dittatura del Terrore, all'oligarchia del Direttorio, al potere assoluto dell'Impero.


Le élite non bloccate, quelle che un radicale come de Viti de Marco chiamava 'la circolazione delle élite' e insieme la divisione dei poteri teorizzata da Montesquieu, cioè lo Stato di diritto che assicura il controllo attraverso appunto la divisione dei poteri: questo è lo schema di una democrazia funzionante, tuttora valido anche se permanentemente insidiato. A mantenerlo sono utilissime le analisi critiche del tipo di quella dell'amico Salvadori che tengono vivo il dibattito e segnalano le crepe e le falle di un sistema fragile che sopravvive perché "non se ne è ancora inventato un altro migliore".

(17 luglio 2009)
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« Risposta #149 inserito:: Agosto 02, 2009, 02:52:56 pm »

ECONOMIA     IL COMMENTO


Allarme rosso l'Italia si sfascia

di EUGENIO SCALFARI


LE NOTIZIE sono tante ed emergono da vari fronti, ma il loro senso si racchiude in tre parole: implosione, disfacimento, secessione. Tre parole che non riguardano soltanto il governo, i partiti, l'economia, la scuola, il federalismo, l'immigrazione, la sicurezza, il Mezzogiorno, le mafie, ma riguardano l'intero sistema-paese. Riguardano l'Italia. Riguardano le istituzioni e lo Stato.

Credo sia il momento di lanciare l'allarme rosso perché i segnali sono univoci: l'Italia, lo Stato italiano sono a rischio di implodere e non è uno scenario collocato in un futuro sia pur prossimo, ma già visibilmente in corso.

Bombe a orologeria brillano una dopo l'altra. Alcune sono già esplose. Se le altre non saranno subito disinnescate, se non avrà inizio subito un'inversione virtuosa, tra qualche mese la conflagrazione sarà generale. Stiamo ballando sull'orlo di un vulcano e pochissimi se ne rendono conto. Tra quei pochissimi c'è sicuramente il Capo dello Stato. Se dovessi fare altri nomi significativi sarei molto imbarazzato. Il solo dato confortante è l'esistenza d'una massa cospicua di persone che percepiscono questa situazione di gravissima crisi e vorrebbero contribuire a spegnere gli incendi già appiccati e impedire che i focolai dilaghino; ma non hanno strumenti, non hanno punti di riferimento, hanno perso la fiducia o non sanno su chi riporla.

Questa massa di persone, al di là degli schieramenti, della condizione sociale, della geografia, rappresenta un deposito di energie potenziali prezioso, ma purtroppo inerte; un esercito di riserva che nessuno è in grado di schierare; una sorta di vecchia e giovane guardia che se entrasse in linea oggi potrebbe capovolgere gli esiti di questa deriva. Sarebbe un miracolo. Io non credo nei miracoli ma in questo ancora ci spero.

* * *

Citerò un esempio dell'implosione in corso, tra i tanti che si possono fare: la penosa vicenda del decreto legge anticrisi che si è conclusa ieri dopo settimane e giorni di reiterati strappi istituzionali e costituzionali.
Il governo emana un decreto che contiene misure urgenti per fronteggiare la crisi economica. Il presidente della Repubblica, al quale non compete di esaminare il merito di quelle misure ma soltanto la loro urgenza, ravvisa che questo requisito esiste e ne autorizza la presentazione in Parlamento. Il provvedimento di conversione del decreto, che deve compiersi entro 60 giorni, inizia alla Camera dei deputati. Le competenti commissioni lo esaminano ma mentre l'esame è già in corso cominciano a piovere emendamenti di estrema importanza presentati dal governo, sicché la materia da esaminare cambia in continuazione sotto gli occhi dei deputati e del presidente della Camera.

Vengono introdotte norme su questioni di grande rilievo tra le quali lo scudo fiscale, la sanatoria per le badanti, spostamenti di risorse e di spese da un capitolo di bilancio ad un altro ed infine un complesso di norme che di fatto tolgono alla Corte dei Conti i poteri effettivi di indagine dei quali dispone.

La pioggia degli emendamenti è talmente copiosa da trasformare il decreto in una sorta di "passe-partout" senza alcun riguardo né all'omogeneità delle norme né alla loro urgenza. La lista degli articoli, dei commi e degli allegati si allarga a dismisura. Il presidente della Camera cerca di arginare quel diluvio ma riesce solo ad aprire un ombrellino bucherellato.

Alla fine, dopo l'ultimo emendamento inserito mezz'ora prima, il decreto va al voto su cui il governo ha posto la fiducia e passa con una stentata maggioranza, molto minore di quella di cui il governo dispone sulla carta.
A questo punto il Capo dello Stato convoca al Quirinale il ministro Tremonti, autore del decreto e di gran parte degli emendamenti che l'hanno trasformato, e in un colloquio di tre ore gli segnala una serie di punti istituzionalmente e costituzionalmente irricevibili. Si augura che il Senato in seconda lettura li emendi, fa capire che in caso contrario rinvierà il decreto alle Camere per un secondo esame come la Costituzione gli dà il potere di fare.

Tremonti ascolta, discute, controbatte; alla fine si impegna ad emendare il decreto. Ma poco dopo fa sapere che le correzioni suggerite da Napolitano non avverranno in Senato dove invece il decreto sarà approvato e convertito in legge con (ennesimo) voto di fiducia senza cambiare una sola virgola. La correzione avverrà subito dopo attraverso un decreto-bis (anch'esso da convertire in legge) che modificherà la legge appena approvata.

Una procedura macchinosa al limite della Costituzionalità, voluta dal governo per un solo ma decisivo motivo: il timore che la maggioranza al Senato si sfaldi e la legge affondi. Con un nuovo decreto ci saranno invece altri due mesi di tempo.
Il Capo dello Stato accetta questa procedura (che ha un precedente che può giustificarla) ma mette una condizione: il nuovo decreto dovrà essere emesso un minuto dopo il passaggio del vecchio decreto al Senato. Napolitano firmerà contemporaneamente la promulgazione della legge e il decreto-bis che la modifica, che è quanto finalmente è avvenuto ieri.

Ho motivo di pensare che il presidente della Repubblica avrebbe di gran lunga preferito che gli emendamenti da lui sollecitati fossero decisi dal Senato. Ma ho anche motivo di pensare che a Napolitano stesse più a cuore che la legge fosse emendata piuttosto che la procedura per ottenere quel risultato.

La morale che emerge da questa penosa vicenda è la seguente: il governo se ne infischia della Costituzione ed anzi opera in tutte le occasioni per svuotarla usando strumenti di urgenza anche dove l'urgenza non c'è e usandoli in modo da scavalcare filtri ed ostacoli. Si è arrivati al punto che una norma di legge fiscale, quella sul pagamento delle imposte da parte dei terremotati dell'Aquila, sia stata emendata con una circolare della Protezione civile anziché con un provvedimento legislativo perché il governo non si fida più della sua maggioranza se non vincolandola con il voto di fiducia. Questo è solo un esempio che dimostra il marasma istituzionale in cui ci troviamo.

* * *

La Lega nord è perfettamente consapevole di questo marasma come del resto lo siamo tutti. Ma la Lega non ne è affatto allarmata, anzi lo desidera. La Lega è un piromane che attizza l'incendio. Per mimetismo è spuntato un altro piromane in Sicilia. Se la Lega incendia anche la Sicilia incendierà. Se il governo si schiera con il leghismo di Bossi e di Tremonti, anche i siciliani adotteranno il metodo del ricatto e frantumeranno la maggioranza.

Per evitare (per ora) l'incendio generale Berlusconi sgancia a Palermo quattro miliardi e (per ora) il leghismo siciliano rinfodera le armi. Quei 4 miliardi in realtà sono finti, prelevati da risorse già destinate alla Sicilia ma bloccate. Semplicemente sono state sbloccate anche se la cassa non ci sarà fino al 2010.
A questo punto entrano in fibrillazione la Calabria, la Basilicata, la Puglia. Ma anche la Liguria, il Veneto, il Piemonte. Perché la Sicilia sì e gli altri no?
Berlusconi promette un piano Marshall per il Sud ma se ne riparlerà a settembre e i fondi comunque sono sempre quelli già stanziati ma non disponibili. La cassa ci sarà, a dio piacendo, tra il 2010 e il 2013. Intanto la secessione silenziosa della Lega va avanti.

* * *

L'esercito italiano è un'espressione "nazionale" e come tale si dà carico di rappresentare il paese nei luoghi dove la pace è minacciata dal terrorismo o da altre emergenze. Ma alla Lega nulla importa che l'Italia sia presente come Stato e chiede il ritiro da tutte le missioni all'estero. Meglio impiegare i soldati per spazzare i rifiuti e per impedire gli sbarchi dei migranti.
La scuola ha una missione culturale nazionale ma la Lega se ne infischia anzi non le piace affatto. Comincia col chiedere un esame di dialetto per i docenti destinati al nord, poi ripiega (ripiega?) su la nascita dei docenti nel territorio e su un esame di abilitazione per la storia e il linguaggio locale. Il ministro Gelmini acconsente.

La Lega non vuole l'integrazione degli immigrati regolari e cerca di seminarla di ostacoli. Sapete, cari lettori, quanti sono oggi gli immigrati regolari? Sono ormai cinque milioni, una massa di persone eguale agli abitanti del Lazio. Ma non si fermeranno qui. Fanno figli, chiamano a raggiungerli altri membri della famiglia, pagano tasse, reclamano diritti. Quale politica si farà per integrare questo flusso? Quanto costerà? Quanto renderà? Nessuno se ne preoccupa. Così il federalismo. Così la Sanità. Quanto costerà il federalismo? Tremonti non dà cifre perché non le ha. Il costo del federalismo è come il budino: sapremo qual è solo dopo averlo mangiato. Intanto si procede alla cieca perché così vuole la Lega e così vuole Berlusconi che è sotto ricatto: se la Lega lo lasciasse cadrebbe il giorno dopo, anzi quel giorno stesso. Questa è l'implosione, il disfacimento, la secessione silenziosa. Questo è l'allarme rosso che è necessario lanciare.

P. S. Ho chiesto domenica scorsa che fine avessero fatto i 35 miliardi di maggiori spese ordinarie fatte dal governo senza che se ne conosca la destinazione e il perché. Ovviamente il ministro dell'Economia non ha risposto. Né, nelle sedi istituzionali, è stato incalzato a rispondere. Ha risposto sulle minori entrate ma non sullo sfondamento sorprendente della spesa ordinaria.
Mi permetto di domandare a Casini, a Franceschini, a Bersani, a Di Pietro, a Ferrero: a voi non interessa sapere perché uno sfondamento così sorprendente è avvenuto? La più pesante manovra finanziaria degli ultimi vent'anni fu quella fatta da Giuliano Amato nel 1992: novantamila miliardi di lire. Lo sfondamento della spesa di quest'anno (35 miliardi di euro) è pari a 70 mila miliardi di lire. Nessuno è interessato a capire in quale buco nero e perché sono finiti?
 
(2 agosto 2009)
da repubblica.it
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