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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 317815 volte)
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« Risposta #510 inserito:: Luglio 03, 2014, 07:19:23 pm »

Quant'è bravo il premier, ma chi ripara gli errori che sta facendo?

di EUGENIO SCALFARI
   
Molte cose sono accadute in questi giorni in Europa e in Italia. Ne passerò in rassegna le principali ma ho la sensazione che, al di là dei loro effetti sulla politica e sull'economia che ci riguardano direttamente come cittadini di questo continente e di questo paese, esse abbiano un più profondo significato ed è di questo che voglio ora parlare; ci sono infatti notevoli cambiamenti di un'epoca e di un vissuto collettivo e individuale, dove le scelte che siamo chiamati a decidere hanno motivazioni ben più remote e conseguenze ben più profonde di quelle connesse all'immediatezza che ci sta davanti.

Per capire meglio quanto avviene ho recuperato i pochi libri di capezzale che spesso consulto per meglio illuminare il mio comportamento. Per esempio gli Essais di Montaigne e lo Zarathustra di Friedrich Nietzsche; l'uno segna l'inizio dell'epoca che chiamiamo moderna, l'altro ne rappresenta la fine.

Montaigne conclude così il terzo libro dei suoi Essais, l'opera che impegnò 27 anni della sua vita e che completò e aggiornò fino al momento della sua morte: "Tanto più sei Dio quanto più ti riconosci uomo. Noi cerchiamo condizioni diverse perché non siamo capaci di fare buon uso della nostra e usciamo fuori di noi perché non sappiamo vedere quel che c'è dentro. Se pure saliamo sui trampoli, dovremo comunque camminare sulle nostre gambe. E anche sul più alto trono del mondo saremo sempre seduti sul nostro culo. A mio giudizio le più belle vite sono quelle che ci conformano al modello comune e umano, senza mirabilia e senza stravaganze".

E poche pagine prima di questo finale, aveva scritto: "Nulla nuoce a uno Stato quanto un cambiamento totale che conduce solo all'iniquità e alla tirannia. Quando un pezzo di quell'edificio si stacca lo si può puntellare. Ci si può industriare affinché il naturale alternarsi e corrompersi di tutte le cose non si allontani eccessivamente dai nostri principi. Ma mettersi a riplasmare un così grande edificio equivale a fare come coloro che pensano di correggere dei difetti particolari stravolgendo ogni cosa e di guarire le malattie dando la morte". Infine: "La parola appartiene per metà a chi parla e per metà a chi ascolta. Ci sono due diverse concezioni della parola, come scambio o come duello, ma alla fine è la fiducia ad avere la meglio: un parlare franco apre la via ad un altro parlare e lo tira fuori come fanno il vino e l'amore".

Tre secoli dopo di lui, Friedrich Nietzsche chiude la modernità insieme ad altre persone che non si conoscono tra loro ma agiscono nei loro campi perfettamente intonati - senza saperlo - l'uno all'altro. Basterà citare Albert Einstein, Sigmund Freud e poco prima di loro Karl Marx.

Di Nietzsche l'imbarazzo è nella scelta che rappresenti al tempo stesso l'essenza del suo pensiero e il suggello finale all'epoca della modernità.

Secondo me la summa del suo insegnamento è questa: "Ciascuno di noi si sente al centro del mondo ed è il centro del mondo. Dunque il centro è dappertutto e cioè in nessun luogo. Ecco perché ciascuno vede il mondo e tutti gli individui a suo modo e perché la verità assoluta non esiste. Ciascuno ha la propria ed è questa la fatica del vivere e il suo valore".

Concludo questa premessa citando un mio giovane amico che certo non ha la levatura di quelli che ho appena ricordato, ma il cui sentire in qualche modo li riecheggia.

Voi lettori lo conoscete, lo criticate o lo apprezzate ma sapete che rappresenta una delle voci interessanti della post-modernità, quelle che io chiamo i contemporanei ed ha dedicato la vita fin qui vissuta alla politica e alla cultura, due attività che purtroppo assai raramente vanno insieme. Parlo di Walter Veltroni che è intervenuto il 24 giugno scorso al Festival delle Letterature tenutosi in Campidoglio.

"Pensate al nostro rapporto col tempo. La nostra modernità ha causato molte accelerazioni: quella tecnica, oggi impieghiamo la metà delle ore di trent'anni fa per arrivare da Roma a Milano, scriviamo mail invece di lettere, ci vediamo attraverso il mondo parlando al telefono, accediamo al sapere senza doverci muovere da casa. Ma anche l'accelerazione sociale: spariscono mestieri sostituiti dall'automazione e istituzioni come la famiglia, il lavoro, la scuola sono sottoposte a tensioni inedite.

Così cresce freneticamente il ritmo della nostra vita e tutti noi, che pure abbiamo possibilità di risparmio di tempo di ogni generazione vissuta prima di noi, sentiamo che dobbiamo sempre correre. Il nostro tempo storico è l'immediato. Non ci interessa il passato e il futuro ci spaventa. Non siamo disposti ad aspettare, non ci si parla di progetti o di grandi disegni. Ora, qui, subito. Ma il nostro problema è più generale siamo una generazione il cui cervello viene ogni giorno affollato da migliaia di informazioni che ci rendono più consapevoli ma ci sottraggono il tempo necessario per sistemare e razionalizzare. In fondo, per sapere. Stiamo sempre arrivando, ma il rischio è quello di smettere di sapere perché il nostro ippocampo si stanca di tanto cibo e comincia a coltivare una specie di anoressia, come un cassetto troppo pieno che cominci ad espellere fogli, spesso a caso. È dunque vero che ognuno, proprio ognuno, è il centro del mondo. Ad una sola condizione però: sapere che anche il tuo fratello, il tuo vicino, il tuo avversario, sono il centro del mondo. E conoscerli è il solo modo di sapere, viaggiare, arrivare".

* * *

Veniamo al nostro vissuto di questi ultimi giorni. I leader europei si sono incontrati, scontrati, accordati, rilassati, tra Bruxelles e Ypres dove hanno ricordato una guerra spaventosamente devastante, primo atto d'un terribile gran finale culminato nella distruzione dell'Europa delle nazioni e in un genocidio orribile che nessuno potrà dimenticare.

Quelle guerre hanno chiuso un'epoca; in Europa non ci saranno più. Ma l'Europa ci sarà ancora? Questa che vediamo non è che il miraggio d'una generazione che l'aveva sognato, ma non è ancora gli Stati Uniti d'Europa.

Sopravvivono i governi nazionali, le istituzioni europee sono deboli e contestate, la nazione egemone che è certamente la Germania è incerta e quasi impaurita dalla sua stessa egemonia; preferisce esercitarla per interposte persone ed istituzioni con tutte le condizioni che ne derivano. Nessuno o pochissimi perseguono veramente la nascita d'uno Stato federale con le relative cessioni di sovranità degli Stati nazionali. Anzi: ciascuno dei governi degli Stati confederati lotta per sé e al suo interno, cerca di avvalersi dell'Europa per rafforzare la propria leadership personale e dei suoi seguaci. Noi italiani abbiamo avuto l'occasione di un leader di notevole capacità che è riuscito nel giro di pochi mesi a trasformare in forza le sue qualità e i suoi difetti.

Matteo Renzi e il paese che rappresenta sembrano viaggiare col vento in poppa. Sembrano e in parte è fortunatamente così; in altra parte è un gioco di immagini e di specchi, di annunci ai quali la realtà corrisponde molto parzialmente. La sola vera conseguenza è il suo rafforzamento personale a discapito della democrazia la cui fragilità sta sfiorando il culmine senza che il cosiddetto popolo sovrano ne abbia alcuna percezione.

Ascoltando il leader appena tornato dalle esibizioni di Ypres e di Bruxelles sembra che la partita della flessibilità economica sia stata guadagnata. Pienamente guadagnata, dopo aver mostrato i muscoli alla Merkel e avere poi concluso con un sorriso, un abbraccio e solide promesse. Il pareggio del bilancio sarà rinviato al 2016, gli investimenti per la crescita saranno consentiti, la fiducia cambierà in meglio le aspettative, le riforme strutturali - che sono la condizione richiesta dalla Germania - saranno fatte anche perché (Renzi lo dice e lo ridice) il premier ci mette la faccia. Più chiaro, più netto ed anche più irresistibile di così non ce n'è un altro. Un vero fico che la sorte ha regalato all'Italia e - diciamolo - al Partito socialista europeo e all'Europa intera. Però...

Però non è proprio così. Intanto per quanto riguarda la flessibilità.

Il pareggio del bilancio non è stato rinviato al 2016 ma in realtà al 2015 il che significa che bisognerà porne le condizioni nella legge di stabilità di quell'esercizio, che sarà in votazione dell'autunno di quest'anno. Si intravede una manovra di circa 12 miliardi e forse più.

Nel frattempo la domanda, cioè i consumi, sono fermi anzi leggermente peggiorati; la "dazione" degli 80 euro, almeno per ora, non ha dato alcun segnale. È certamente presto per giudicare, aspettiamo i dati di giugno e di luglio; ma per ora non ci sono segnali di ripresa. Semmai ci sono segnali di ulteriore aumento della disoccupazione, giovanile e non. Il vero e solo dato positivo viene dall'intervento della Banca centrale europea che nelle prossime settimane dovrebbe intervenire con misure "non convenzionali". Ma qui non c'entrano né il governo italiano né le istituzioni europee e neppure la Germania. Qui c'entra la Bce e la fermezza di Draghi, sperando che la lotta per alzare l'inflazione abbia successo.

* * *

Draghi richiama un altro tema assai scottante che però non riguarda il presidente della Banca centrale il cui nome nel caso in questione è stato usato a sua insaputa (e molto probabilmente col suo personale fastidio).

È circolata nei giorni scorsi la notizia che uno dei possibili anzi probabili candidati a sostituire Van Rompuy alla presidenza del Consiglio europeo sarebbe stato Enrico Letta. La notizia è uscita sul Financial Times e su molti giornali italiani e la candidatura avrebbe avuto il pregio di non provenire dal governo italiano ma da quello inglese e anche francese. Pregio, perché i candidati alle massime cariche dell'Unione non sono scelti sulla base della nazionalità d'origine, ma sulla base del talento e dell'esperienza. Lo stesso Giorgio Napolitano ha ricordato pubblicamente che, dal momento della nomina a presidente della Bce, Draghi non è più considerato come un italiano, così come Jean-Claude Juncker non è considerato un lussemburghese, sicché un altro italiano scelto per un'altra carica non incontra alcuna difficoltà per la presenza d'un suo "originario concittadino".

Questo non è un dettaglio di poco conto ma un punto fondamentale per chi persegue gli obiettivi dell'Europa federale e non confederata. Ma il nostro Renzi (e guai a chi ce lo tocca) ha di fatto risposto: Letta chi? E poi ha aggiunto che la presenza di Draghi costituiva un ostacolo all'eventuale incarico di Letta. Comunque - ha infine aggiunto il nostro presidente del Consiglio - lui non pensava affatto ad ottenere quella carica per un italiano ma piuttosto ad avere la ministra degli Esteri, Mogherini, alla carica di Alto rappresentante della politica estera e della difesa europea.

Abbiamo già scritto domenica scorsa, e qui lo ripetiamo per chi ha orecchie da mercante, che quella carica non conta assolutamente nulla.

Politica estera e difesa sono solidamente nelle mani dei governi nazionali, nessuna cessione di sovranità è prevista in proposito, ogni paese europeo ha la sua politica estera che spesso non coincide con quella degli altri. Si tratta dunque d'un obiettivo di pura facciata, che proprio per questo l'Italia ha già ottenuto e utilizzerà a favore della Mogherini o di D'Alema.

* * *

Concludo ricordando che la flessibilità concessa all'Italia nei limiti che abbiamo già visto è comunque subordinata a riforme strutturali che incidano sull'economia. Altre riforme interessano assai poco l'Europa e gli stessi italiani. Quelle della legge elettorale nonché la riforma del Senato sono tra le meno interessanti ai fini della flessibilità. Di esse abbiamo più volte parlato nelle scorse settimane. Far sparire il Senato depaupera il potere legislativo. Il sistema monocamerale avvia inevitabilmente verso un cancellierato e quindi un rafforzamento del potere esecutivo. Si può fare e forse sarebbe anche utile, purché venga riscritta l'architettura dei contropoteri di controllo. Prima e non dopo.

Questo punto è essenziale per la democrazia e non può essere preso di sbieco: va affrontato di petto e - ricordiamolo - da un Parlamento i cui membri, specie in questioni di questa natura, sono liberi da ogni vincolo di mandato e debbono esprimersi a viso aperto, visto che agiscono come rappresentanti del popolo sovrano.

© Riproduzione riservata 29 giugno 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/06/29/news/bravo_premier_errori-90269092/?ref=HRER2-1
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« Risposta #511 inserito:: Luglio 06, 2014, 11:58:18 pm »

Rompere il cerchio magico per salvare il governo
Di EUGENIO SCALFARI
06 luglio 2014
   
Non mi sembra che per il governo italiano le cose vadano così bene come ci si aspettava e come Renzi e la banda di musicanti che accompagnano il suo piffero ci avevano fatto intendere. Non sembra a Bruxelles e neppure a Roma, tanto che lo stesso nostro presidente del Consiglio ha detto: "Attenzione. O le riforme andranno a buon fine nel tempo e nei modi giusti oppure io me ne andrò".

Non è un bel modo di ragionare perché potrebbe darsi che sia la tempistica che le riforme volute da Renzi siano sbagliate e in quel caso sarebbe positivo avere qualcuno che le corregga nel modo più appropriato. Dopodiché Renzi può ringraziare e restare dov'è oppure ringraziare e andarsene; un sostituto si trova sempre e non è una catastrofe.

Le riforme cui pensano sia Renzi sia Berlusconi sono due, tutt'e due in materia elettorale ed una di essa anche in materia costituzionale: quella del Senato e quella della Camera dei deputati. Nessuna delle due si occupa né di crescita economica né di sviluppo né di coesione territoriale, di investimenti, di occupazione giovanile e no, di equità sociale. Niente di simile. Per di più riguardano eventi che si produrranno alla fine della legislatura che avviene nell'aprile del 2018, cioè tra quattro anni.

Perciò - questo è certo - gli italiani e gli europei se ne infischiano totalmente sia che si facciano sia che non si facciano. Le prossime elezioni europee ci saranno nel maggio del 2019, perciò campa cavallo che l'erba cresce.

Ma interessano Renzi e i suoi musicanti, quelli sì.
Quelle riforme, imposte agli altri più che volute, sarebbero un segnale forte della autorevolezza di Renzi, di Delrio, della Serracchiani, della Boschi e quant'altri; un nuovo cerchio magico, il primo dei tempi repubblicani fu quello di Fanfani, poi di Andreotti, poi di Antonio Segni, di Craxi, di Cossiga, di Forlani, infine di Bossi e soprattutto di Berlusconi a cominciare da Dell'Utri e da Galan. Quando nasce un cerchio magico in un partito, il partito muore oppure si esprime. Bisogna che gli italiani lo capiscano ma non mi pare cosa molto facile.

* * *

La vera riforma della Camera sarebbe quella del collegio uninominale con un'unica soglia del 3-4 per cento e un premio riservato al ballottaggio tra i primi due o tre. È un sistema maggioritario che tutela al tempo stesso i due principi - che attualmente sembrano un ideale irraggiungibile - e che furono gli obiettivi costanti di Veltroni e di Bersani. C'è, con varie e modeste varianze, in Gran Bretagna, in Francia, in Spagna, in Olanda, in Grecia, e porta con sé il Cancellierato. Ma porta anche qualcosa di più: il rafforzamento insieme del potere esecutivo e di quello legislativo. L'uno è più forte nelle decisioni che deve prendere con chiarezza e con la rapidità richiesta dalla società globale in cui viviamo. L'altro grazie al legame con gli elettori: diminuisce senza tuttavia annullarsi l'appartenenza al partito di origine e giustifica pienamente l'articolo costituzionale sulla libertà da vincolo di mandato.

Non si capisce il motivo per cui, avendo quattro anni davanti a sé un seme così ragionevole e così diffuso che contiene alla perfezione i principi di governabilità e della rappresentanza non venga realizzato. Capisco che significa la fine dei cerchi magici, ma vi sembra un risultato da poco?

La riforma del Senato è motivata sempre da una serie di dati che abbiamo già dimostrato come completamente sbagliati utilizzando fonti di prima mano. Come è stato documentato la settimana scorsa, i decreti attuativi delle leggi definitivamente approvate, a partire dal governo Monti, tuttora giacenti sono ben 511.

Un numero abnorme: tutto questo dipende non già dal balletto (cosiddetto) tra Camera e Senato bensì dalla burocrazia ministeriale che dovrebbe approntarli.

Non lo fa, non si sa per quali ragioni e questo è il punto che bisognerebbe appurare per renderli immediatamente esecutivi e punire o addirittura rimuovere dai loro luoghi i responsabili. Il Senato, secondo i dati da noi pubblicati di prima mano, approva le leggi ordinarie in meno di due mesi, le leggi di conversione dei decreti in cinquantadue giorni, le leggi finanziarie in meno di tre mesi. Vi sembra questo un motivo sufficiente per l'abolizione di uno dei due rami del Parlamento? Il Senato può benissimo esser privato del voto di fiducia e delle leggi di bilancio ad esso connesse. Queste è opportuno riservarle alla sola Camera dei deputati ed avviene in molti dei paesi sopra indicati. Tuttavia i soli poteri restano invariati su tutto il resto e in particolare sul controllo concernente la esecutività delle leggi in questione. Non dovrebbe mai più ripetersi la situazione che stiamo vivendo adesso, con 501 leggi giacenti perché i Direttori ministeriali o i loro collaboratori non fanno il dover loro.

Resta il tema del Senato elettivo in primo o in secondo grado. A mio avviso non sembra così fondamentale. Primo o secondo grado importano poco purché i poteri conferiti a quel ramo del Parlamento - salvo quelli della fiducia e delle leggi di bilancio ad essa connesse - siano invariati. Invariato in particolare ed anzi possibilmente rafforzato - il potere di controllo non sulla legalità, che spetta com'è noto alla giurisdizione della magistratura inquirente e requirente - bensì sul controllo dell'efficienza, della giusta scelta degli obiettivi, e della rapidità. Questo controllo, condiviso ovviamente tra i due rami del Parlamento, può essere esercitato con maggiore efficacia dal Senato proprio per la ragione che esso non è coinvolto con la fiducia accordata dalla Camera al governo in carica e quindi può controllarne l'operato senza necessariamente metterne in discussione l'esistenza.

* * *

Resta il tema dell'Europa. In quello Matteo è bravissimo, personalmente confido che risolverà ogni cosa nel modo migliore rispetto agli obiettivi da ottenere.

Il problema non è tanto quello degli impegni con l'Europa: è pacifico che dovremo rispettarli e lo faremo. Il problema è quello dei tempi. La Germania vuole che la flessibilità non vada oltre il 2015 il che significa che la seminagione dovrebbe avvenire con la legge di stabilità all'esame del Parlamento nell'autunno del 2014. Il significato di questa tempistica è pessimo e pessimo è l'effetto che inevitabilmente avrebbe non solo e non tanto sui mercati quanto sulle istituzioni coinvolte e sui loro movimenti di capitale. Il vero obiettivo da realizzare sarebbe se la Germania accettasse la flessibilità fino al 2016 o meglio ancora al 2017.

È un compito che coinvolge in gran parte (e per nostra fortuna) le operazioni che Mario Draghi sta effettuando non certo nell'interesse italiano ma in quello europeo. Renzi secondo me è capace di utilizzare quell'appoggio e soprattutto di esercitare le pressioni dovute su Angela Merkel e sui suoi alleati i quali, del resto, di agevolazioni di questo genere hanno già in passato più e più volte usufruito. Se queste cose le dico io, che non sono certo un membro del cerchio magico di nessun partito e meno che mai di quello renzista, qualche significato forse l'avrà. Io ci credo e penso che possa realizzarsi.

© Riproduzione riservata 06 luglio 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/07/06/news/rompere_il_cerchio_magico_per_salvare_il_governo-90822528/?ref=HREC1-5
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« Risposta #512 inserito:: Luglio 21, 2014, 05:58:28 pm »

La sentenza forse è giusta ma disonora il paese

L'assoluzione di Berlusconi in appello per il caso Ruby non intacca la ricostruzione di quel personaggio che ha recato al Paese umiliazione e dileggio in tutto il mondo.
Un articolo della Costituzione impone al pubblico ufficiale di onorare la carica. I magistrati avrebbero dovuto tenerne conto


di EUGENIO SCALFARI
20 luglio 2014

Domenica scorsa ho raccontato una mia lunga conversazione con papa Francesco. È la terza che abbiamo avuto nel palazzo di Santa Marta dov'è la sua residenza che non somiglia in nulla al Palazzo Vaticano dove i Pontefici hanno risieduto almeno per quattro o cinque secoli. Per un miscredente che ammira la predicazione di Gesù di Nazareth, come è riferita dai Vangeli e approfondita e commentata dalle lettere di Paolo alle nascenti comunità della nuova religione, conversare con papa Bergoglio e spesso anche scriversi e scambiare telefonate è una profonda stimolazione dello spirito. Io non cambio il mio modo di pensare e il Papa lo sa benissimo; ma sento cambiare o arricchirsi il mio modo di sentire. Così spero accada anche ai miei lettori e così anche il Papa mi dice che avviene. Lui parla con moltissima gente, conforta, aiuta, rafforza la vocazione per il bene del prossimo e contemporaneamente trasforma e rinnova la Chiesa e le sue strutture che ne hanno gran bisogno. Un grande Papa, lascerà una traccia profonda nella storia della Chiesa che ha gran bisogno di uscire da un troppo lungo isolamento. Ho ricordato quel mio incontro di domenica scorsa con papa Francesco perché non capita spesso. Quando avviene è per me un gran sollievo.

Ma già dalla settimana successiva debbo tornare al mio lavoro di commentatore politico, economico, sociale. Anche quei temi mi appassionano, ma molto meno. Sarà il tempo che fugge via, sarà la statura spesso modesta dei protagonisti e sarà soprattutto la modestia della struttura etico-politica che caratterizza la fine d'epoca che stiamo vivendo.

Le fini d'epoca possono essere grandiose o mediocri. Quella che stiamo vivendo è decisamente mediocre e tuttavia bisogna illustrarne la drammaticità. Mediocre e drammatica. A volte è accaduto nella storia del mondo. L'Alto Medioevo fu un caso analogo e assai prima lo era stato la fine dell'Impero romano, da Teodosio in poi. A maggior ragione bisogna occuparsene cercando di capire e di far capire quanto avviene. Spesso sbagliamo anche noi sia le diagnosi sia le terapie.

Nessuno è infallibile, papa Bergoglio sa che non lo è neppure il papa. Per questo è grande anche se non lo sa e non se lo propone. Lasciate che un miscredente lo dica.

* * *

Ieri e oggi e forse per parecchi giorni ancora il fatto dominante in Italia è la piena assoluzione di Silvio Berlusconi da parte della corte d'Appello di Milano, annullando radicalmente la precedente sentenza del tribunale che lo condannava invece a 7 anni di reclusione.

La sentenza non fa storia fuori dal nostro Paese. L'Europa è alle prese con la guerra in Ucraina e con quella tra Israele ed Hamas; ma sta rinnovando tutte le proprie cariche ed è afflitta da una stagnazione economica e teme sempre di più di una possibile deflazione monetaria. Gli strumenti di contrasto non mancano ma la sorte di Berlusconi provoca al più qualche battuta scherzosamente cattiva.

Da noi è diverso: un uomo che ha dominato nel bene e soprattutto nel male il Paese torna di nuovo a farsi sentire quando veniva dato per politicamente ed anche economicamente morto e sepolto. Soprattutto rafforza alcuni protagonisti che nel frattempo hanno conquistato una parte del potere e ne indebolisce altri. Quindi abbiamo buone ragioni per occuparcene.

Personalmente debbo e voglio ribattere ad un grave insulto che Giuliano Ferrara ha lanciato a tarda notte di ieri ai microfoni di La7 con tale veemenza che Mentana, conduttore di quella trasmissione, ha dovuto silenziargli il microfono (video). L'insulto era diretto a Giuseppe D'Avanzo, giornalista di questo giornale e morto qualche anno fa. Ferrara l'ha indicato come un raccoglitore di falsità contro Berlusconi del quale avrebbe deturpato senza darne prova l'immagine privata e pubblica, gettando contro D'Avanzo l'insulto di falsità, di calunnia e di odio privo d'ogni fondamento.

Difendere D'Avanzo da queste contumelie mi sembra superfluo e quasi offensivo tanto è lontano dalle falsità che Ferrara gli attribuisce. Conosco bene il suo accusatore che - per sua sfortuna - ha una doppia natura: è gentile ma coltiva dentro di sé un complesso sado-masochista che a volte prende il sopravvento e lo spinge a farsi del male e a farlo agli altri nel più irruente dei modi. Così ha fatto per D'Avanzo e in molti altri casi. Il mio collega e amico era tutt'altra persona. Faceva il suo mestiere di giornalista con uno scrupolo ed una oggettività che ne fecero uno dei migliori della sua generazione. Raccoglieva con scrupolo indizi e prove del malaffare che avviliva il nostro Paese e lo denunciava descrivendo lo scenario attendibile che sarebbe toccato ad altri, politici e magistrati, di verificare e giudicare. Non sbagliò quasi mai; le rare volte che accadde, quando se ne accorse fu il primo ad ammetterlo e a scusarsi.

Su Berlusconi vide tutto e vide giusto. La sentenza della corte d'Appello non intacca minimamente la ricostruzione di quel personaggio che ha recato al Paese umiliazione e dileggio in tutto il mondo. Ed è di questo che ora dobbiamo parlare.

* * *

Le sentenze (è un detto comune) si rispettano e si eseguono. Per metà è un detto vero, per l'altra metà è sbagliato. Le sentenze, quando diventano definitive, si eseguono, ma possono essere liberamente criticate e gli errori che eventualmente contengono possono (debbono) essere indicati. Purché si tratti di critiche obiettive e non faziose tenendo sempre presente il dettato costituzionale che pone al centro dei poteri del giudice il suo libero convincimento, sempre che esso non sia fonte di intenzioni dolose, nel qual caso il giudizio spetta ad altri magistrati.

Per quanto ci riguarda noi pensiamo che la sentenza dell'altro ieri della corte d'Appello di Milano non sia affatto inficiata da dolo, ma da un libero convincimento che contrasti con gli altrettanto liberi convincimenti del tribunale milanese, della sua procura e perfino della procura generale della corte d'Appello che aveva chiesto nella sua requisitoria la conferma del predetto provvedimento del tribunale e che, come è quasi certo, ricorrerà in Cassazione quando tra 90 giorni le motivazioni della corte d'Appello saranno rese pubbliche.

Resta da capire e da spiegare il capovolgimento così totale tra le due sentenze, la prima delle quali ebbe quasi cinquanta udienze di dibattimento, l'altra quattro in tutto. Ciò significa che non è stato da parte della corte d'Appello un nuovo emergere di fatti ma un diverso libero convincimento.

Motivato da che cosa? Ecco il punto, cioè i due punti da essa indicati perché due sono i reati oggetto dei procedimenti in questione: quello di concussione al pubblico ufficiale e quello di corruzione di minorenne (che per raffigurarsi come reato deve essere non solo effettuata ma consapevole).

Il primo reato si consuma in alcune telefonate a un dirigente alla questura milanese che in quella fatale notte aveva arrestato e trattenuto in questura la ragazza Ruby, rea di un furto compiuto insieme ad una sua compagna. La questura aveva l'obbligo di confermare gli accertamenti necessari e poi assegnare ad una apposita comunità ritenuta idonea la colpevole (minorenne) del fatto commesso. Berlusconi si trovava a Parigi per un incontro internazionale. Viene informato dell'arresto di Ruby da persona a lui nota e in possesso del suo numero di cellulare e tutt'altro che moralmente integerrima. Parte una prima telefonata verso la questura da parte di un segretario del presidente del Consiglio e poi una seconda da lui medesimo con il dipendente della questura milanese. Gli si chiedono precisazioni sull'accaduto, lo si invita a proseguire oltre e poi, in successive comunicazioni, gli si chiede di consegnare la ragazza in questione ad un'incaricata e segretaria del medesimo presidente del Consiglio la quale provvederà a farla custodire dall'apposita comunità. Nel frattempo la questura consulta il giudice dei minori il quale si oppone a tale procedura irregolare. Il tono di voce del presidente del Consiglio non è (dice l'interessato della questura) né imperativo né severo ma mite e amichevole. Infine la notizia che la ragazza è la nipote di Mubarak (il rais egiziano) e che è interesse del governo italiano evitare uno scandalo inopportuno. Il dirigente della questura informa chi deve informare (giudice dei minori compresa) mentre ulteriori insistenze - sempre con tono amichevole - provengono da Parigi e da Roma. Infine la questura accetta perché la persona incaricata di assumersi la responsabilità di affidare Ruby ad una opportuna comunità avvenga e tutto si attiva di gran carriera: la Minetti (perché è di lei che si tratta) prende in carico Ruby, firma in questura, la porta fuori dall'ufficio e la assegna alla sua amica, prostituta e ladra, si fanno insieme una bella dormita e domani è un altro giorno.

Questo racconto, insieme a molte altre circostanze del rapporto Ruby-Berlusconi che non staremo qui a ricordare ma che sono notissime, configura chiaramente il reato di concussione in uno dei termini indicati dalla legge Severino la quale prevede che il concusso abbia tratto vantaggio dalla concussione. Ha tratto vantaggio? E che cos'è un vantaggio in casi del genere? Soldi versati: no. Promozioni ottenute: no. Licenziamento evitato: forse sì. Trasferimento immediato: forse sì. Promozione promessa per il futuro: forse sì. Il tribunale di Milano era certo dei "forse sì". La corte d'Appello milanese era invece convinta del "forse no". In ambedue i casi ha giocato il libero convincimento con quanto ne segue.

Salvo il secondo reato, anch'esso cancellato perché "non commesso". Non commesso perché Berlusconi non ebbe mai rapporti con Ruby? Strano: la ragazza passava spesso le sue notti ad Arcore in una sua apposita stanza; ebbe larghe dazioni in danaro e poi ampio "stipendio" mensile. Faceva "vita allegra" a Milano e altrove. Raccontava agli amici dei suoi rapporti con Berlusconi, tutto e il contrario di tutto e lo raccontò anche alla procura milanese: tutto e il contrario di tutto, riferito da amiche, rivali, colleghe di bella vita.

La corte d'Appello si è formata il suo libero convincimento in quattro udienze, il tribunale in cinquanta. Sentiremo la Cassazione, ma certo l'opinione pubblica italiana e internazionale ci ride (o ci piange) a sentirsi raccontare queste vicende. Ricordo un articolo della Costituzione che impone a qualsiasi pubblico ufficiale (il presidente del Consiglio è il primo di questi) di "onorare con i suoi comportamenti pubblici e privati la carica che ricopre".

Ecco un punto che il libero convincimento dei magistrati dovrebbe tenere nel massimo conto. Una cosa si può affermare con certezza: i tre della corte d'Appello l'hanno volutamente ignorato. Questa non è un'ipotesi ma una certezza della quale è auspicabile che la Cassazione tenga conto anche perché è un principio costituzionale (ancorché non provvisto di regolamento attuativo) resta comunque un principio che sul libero convincimento non può non esercitare il peso dovuto.

Due parole sulla grazia che torna a ricomparire specie nelle valutazioni dell'esimio avvocato Coppi. Dico esimio perché lo conosco e lo stimo anche se i suoi convincimenti politici sono l'opposto dei miei. Coppi sostiene che un provvedimento di clemenza sarebbe più che giustificato dopo la sentenza milanese. Non mi pare proprio che sia così per varie ragioni: 1. La grazia prevede una condanna definitiva. 2. La grazia deve essere chiesta dall'interessato o dai suoi parenti di primo grado. 3. La grazia interviene quando il colpevole ha dato segni certi di ravvedimento. Non si vede quali di queste condizioni siano presenti nel caso Berlusconi, anzi si vede la devastante assenza di tutte.

***

Si dovrebbe discutere a questo punto di Matteo Renzi, delle riforme, dei rapporti con l'Europa, delle nomine alle alte cariche, della crescita. E forse anche di Mario Draghi. Ma per esaminare o almeno introdurre questi avvenimenti bisognerebbe scrivere l'Odissea o almeno i libri su Telemaco.

Renzi non somiglia in nulla a Odisseo che torna ad Itaca e tanto meno a Telemaco che lo aspetta per liberare Penelope dai Proci. I Proci, quelli sì, ce n'è più d'uno a Palazzo Chigi e Telemaco sembra uno di loro, anzi lo è. Altrimenti non avrebbe il piglio che ha avuto ed ha tuttora con Enrico Letta.

Lasciamo andare.
Per Renzi alcune cose vanno bene. Molto bene. L'assoluzione di Berlusconi a Milano è una di quelle. L'ex Cavaliere di Arcore ormai è un padre della patria confermato dal libero convincimento della corte d'Appello. Questo ruolo potrà conservarlo fino a tutto il 2018. Allora avrà 84 anni e poi può anche darsi che ottenga la nomina di senatore a vita fino al 2025. Morire in bellezza, questo conta, e lasciare un figlio che rappresenta il meglio di sé. Non Piersilvio, ma Matteo il quale del resto ai grillini che fanno casino ha detto che "miglior regalo non potevano fargli". È proprio bravo, Matteo e gli applausi del suo partito se li merita tutti.

In Europa va molto meno bene. La Merkel gli fa i sorrisetti ma non sgancia un euro né una carica. Quella di Alta autorità per la politica estera e per la difesa poteva pur dargliela: non conta assolutamente niente. Emette qualche parere e basta. Invece no. Un socialista sia pure, ma non italiano. Perché? Perché no. Semmai gli daranno un commissario di basso profilo. Se vuole emergere si faccia dare una carica importante nel gruppo socialista. Che cosa vuole di più?

D'Alema al posto di Mogherini? No, D'Alema sarà antipatico ma ci sa fare: con gli egiziani, con i siriani, con i curdi, con i libici e poi perfino con Putin. Ed anche con gli italo-americani, quelli che contano. No, D'Alema no. Non l'avevano rottamato?

Quanto a Renzi, deve fare le riforme. Quali? Quelle economiche naturalmente, la produttività, la competitività, l'equità. E deve diminuire le tasse. Al centro e negli Enti locali. Serve a questo la riforma del Senato? Allora la faccia ma rapido perché tempo da perdere non c'è. Quella elettorale? Se ne parla nel 2018. Ma se gli avanza tempo la faccia adesso, all'Europa non gliene importa niente.

Ho scoperto in un'allegra chiacchierata con l'amico Draghi, che è renziano. Nel senso che lo considera uno capace di agire. Naturalmente deve agire in conformità con l'Europa e non contro. E l'Europa l'aiuterà. In che cosa: a galleggiare. Non rivelerei neppure sotto tortura delle cose professionali che alle volte Draghi mi confida perché conosce il mio silenzio. Ma qualche scherzo ridanciano, quello sì, si può dire e Draghi cui piace Renzi è uno scherzo da sganasciarsi dalle risate.

Ecco, Draghi potrebbe essere Odisseo e Renzi il suo Telemaco che l'aspetta. Ma a quel punto il figlio sarebbe inviso al padre.

Intanto aspettiamo l'autunno, quando il tema delle tasse, delle riforme e del debito pubblico diventeranno estremamente attuali. Vedremo. Renzi continua a dire che ci ha messo la faccia. Non vorrei che finisse come quella vecchia battuta di Petrolini.

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« Risposta #513 inserito:: Luglio 27, 2014, 11:17:49 pm »

Se il pifferaio stona il concertone diventerà una gazzarra

di EUGENIO SCALFARI

Oggi il tema che l'attualità mi suggerisce riguarda l'Italia e l'Europa, ma non posso tralasciare quanto sta avvenendo nella striscia di Gaza, un dramma storico che si protrae ormai da oltre mezzo secolo, una strage che non trova soluzione e della quale il resto del mondo ha in realtà cessato d'occuparsi con la serietà necessaria.

Ricordo ancora la guerra dei sei giorni, uno dei tanti episodi della tragedia mediorientale, la sconfitta fulminante che Israele inflisse a Egitto, Giordania, Siria e al movimento palestinese allora guidato da Arafat. Ci fu una crisi all'interno dell'Espresso e una rottura che non posso dimenticare tra il gruppo dei liberali che avevano come riferimento politico e culturale Ugo La Malfa, Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio da una parte e me che allora dirigevo l'Espresso dall'altra. I liberali esaltavano la forza militare di Israele e la civiltà occidentale che lo Stato ebraico rappresentava di fronte a cento milioni di arabi. Io scrissi un articolo che determinò la rottura con quei vecchi e fedeli compagni di idee, intitolato "I veri amici di Israele".

La tesi da me sostenuta era questa: Israele aveva pieno diritto di esistere, e di esser difeso, a patto che a sua volta difendesse i palestinesi dalle vessazioni cui erano sottoposti dalle varie tirannie arabe. Il ricordo della Shoah doveva ispirare lo Stato ebraico a impedire che un altro tipo di genocidio fosse perpetuato in loro nome e addirittura da loro stessi. I veri amici di Israele dovevano dunque esortarlo a percorrere la strada opposta.

Soltanto l'alleanza tra ebrei e palestinesi e la fondazione di uno Stato che li rappresentasse poteva risolvere il problema che avvelenava l'intera regione mediorientale.

I tempi sono cambiati profondamente in tutto il mondo da allora, ma il rapporto tra ebrei e palestinesi è rimasto lo stesso: una ferita purulenta che non si chiude e sparge i suoi veleni in tutta la regione. Con in più un elemento sconvolgente: tra le grandi potenze mondiali quella che dovrebbe esser più interessata a risolvere il problema e invece di fatto lo ignora è l'Europa.

L'Europa dovrebbe essere l'interlocutore principale di quei due popoli e di quei due Stati e collegarli con un trattato che entrambi li coinvolga nell'Unione europea. Questa è la sola via da percorrere a cominciare da subito e questo dovrebbero proporsi i veri amici di Israele.

***

Noi italiani ed europei siamo tuttavia afflitti da un altro tema che riguarda da vicino la nostra sopravvivenza economica e sociale: l'andamento negativo del nostro reddito, della nostra produzione, della nostra occupazione, della discrasia tra le richieste che noi facciamo all'Europa e quelle che l'Europa fa a noi.

Questo tema è rappresentato da una persona: Matteo Renzi. Molti - amici ed anche avversari - lo considerano dotato di coraggio, di intelligenza e capacità e rapidità di sintesi; altri al contrario gli attribuiscono i difetti di un'eccessiva ambizione e di un'insufficiente preparazione; altri infine gli riconoscono una leadership attualmente insostituibile che può oscillare verso il bene e verso il male secondo le persone capaci di esercitare un'influenza positiva o negativa sulle sue decisioni; pongono cioè il problema d'un partito che dovrebbe riappropriarsi di se stesso e sia in grado di influire sul solo leader di cui attualmente dispone.

Non dimentichiamo, in questo panorama che serve ad orientare i nostri giudizi, che Renzi è e sarà fino alla fine dell'anno in corso il presidente di turno dell'Ue ed è il segretario del Partito democratico aderente al Partito socialista europeo, il solo che ha avuto un'inattesa massa di voti che ne ha fatto il vincitore solitario d'uno scontro elettorale nel quale poco si è votato e mediocri sono stati i risultati delle altre formazioni politiche di sentimenti democratici ed europeisti.

Dunque: Matteo Renzi e il suo partito, i rapporti con gli altri governi europei, i rapporti con il Parlamento di Strasburgo, con Juncker già eletto presidente della nuova Commissione, con la Germania che è la potenza egemone, con la Francia, la Spagna e gli altri paesi del Sud Europa che hanno problemi simili ai nostri. Infine i rapporti con Draghi e la Bce. Non è roba da poco e Renzi si è assunto quel compito con lena ed entusiasmo, che è uno dei tratti del suo carattere.

Per chi osserva da fuori con la funzione di giornalista e testimone, il primo guaio è il suo partito che, come tale, ha repentinamente cambiato natura. Dopo tanti nomi, dalla Bolognina di Occhetto in poi, l'approdo di Veltroni al Partito democratico ha subìto una rilevante modifica, non ufficiale ma reale: si chiama ormai partito democratico renziano. Non mancano i contestatori ma sono pochi e discordi tra loro. Manca un gruppo dirigente di cui il leader sia l'espressione ma non il padrone. I luogotenenti sono numerosi, giovani, uomini e donne, ma nessuno di loro ha una voce propria, salvo il ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, ma questo si sapeva e il suo ruolo tende a restringersi.

Fa bene Napolitano a dichiarare che non esiste un rischio d'autoritarismo; fa bene chi si oppone al contingentamento del dibattito; fa bene chi non vuole l'ostruzionismo. Fa bene chi vede addirittura mettere un termine di calendario alla riforma del Senato: 8 agosto, a costo di non dormire neppure la notte di domenica. Fanno tutti bene ma attenti perché con tutti questi divieti, a volte chiamati ghigliottina e altre volte tagliola senza che sia chiara la differenza tra quelle due parole, l'autoritarismo rispunta inevitabilmente. Rispunta non perché qualcuno lo voglia ma perché se ne creano le condizioni. Se parla e decide solo il capo, la democrazia dov'è? Dice Renzi: ne parliamo da tre anni di queste riforme. Ma chi ne ha parlato? E di quali riforme?

I tre governi "presidenziali" di Monti, Letta, Renzi, alcune riforme le hanno fatte e il Parlamento le ha approvate. I tempi non sono stati particolarmente lunghi; il preteso balletto tra Camera e Senato che sarebbe il male numero uno della democrazia italiana, non ha rallentato le leggi, ne abbiamo già fornito le cifre. Ma ora ne diamo un'altra di cifra, estremamente significativa: 800 leggi, approvate da entrambe le Camere durante i tre governi sopraindicati, non sono ancora entrate in vigore. Pensateci bene: 800 leggi approvate da entrambe le Camere non vengono attuate. Perché? Perché mancano i regolamenti attuativi che dovrebbero essere studiati e ufficializzati dalla burocrazia ministeriale. Ottocento leggi. E poi si parla di balletto tra le due Camere, magari, ma il balletto non è quello: riguarda la burocrazia ministeriale, in gran parte in mano al Consiglio di Stato.

Si vuole abolire il Senato per snellire il potere legislativo e farlo diventare monocamerale. Ma non è affatto questa la ragione. Se la burocrazia resta quella che è, il monocameralismo non farà diminuire i tempi nemmeno di un giorno.

Ricordo ancora la mia ultima intervista con Aldo Moro, quindici giorni prima del suo rapimento. Mi spiegò perché l'alleanza tra la Dc e il Pci di Berlinguer era inevitabile: "Bisogna modernizzare e rifondare lo Stato. È ancora quello della destra storica, poi modificato dal fascismo. Ci vorrà almeno un'intera legislatura, forse non basterà. Quando avremo adempiuto a questo compito, i due grandi partiti riprenderanno il loro posto e si alterneranno democraticamente. Ma non prima e non bastano pochi mesi per ottenere un risultato storico di questa natura".

Forse Renzi non ha mai letto quel documento. Forse, con grandi intese e tre mesi di tempo dati alla Madia pensa di farcela. Ma nel frattempo perché non prova a far attuare quelle 800 leggi paralizzate? Quanto alle tagliole e alle ghigliottine: il presidente del Senato ha il potere di abolire alcuni emendamenti chiaramente ripetitivi, ma la procedura prevista dai regolamenti è estremamente gravosa. Non varrebbe la pena di modificare e dare a Grasso (e alla Boldrini) il potere di cassare gli emendamenti volutamente ripetitivi? Probabilmente gli ottomila previsti si ridurrebbero a poche centinaia e si lavorerebbe col tempo necessario.
Ma in realtà non è per questo che Renzi vuole abolire il Senato. Vuole potenziare l'Esecutivo e ridurre al minimo il Legislativo. È vero che c'è la trovata del referendum confermativo ma è, appunto, una trovata: gli elettori dei partiti delle larghe intese voteranno in massa l'abolizione del Senato; non gliene importa nulla di quella riforma. Provate a mettere a referendum una legge che abolisca il prolungamento dell'età lavorativa o che aumenti gli 80 euro a 100 e vedrete il risultato.

Renzi vuole il monocameralismo, dove agirà come presidente del Consiglio e leader del partito. Berlusconi farà altrettanto. Così andremo avanti fino al 2018. Se almeno riformassero lo Stato, ma temo sia l'ultimo dei loro pensieri.

***

In Europa però le cose non vanno molto bene e l'Italia è guardata con giustificato sospetto. Insiste molto sulla flessibilità, ma intanto il Pil scende, la produzione scende, i consumi scendono, la natalità scende. Dovrebbero abbassare le tasse, ma quali e come? Hanno bisogno di soldi da investire e volete che abbassino le tasse? Semmai dovrebbero tassare un po' di più i ricchi e alleggerire i poveri. Le rendite le hanno toccate, anche le pensioni che superano un certo tetto. Ma sono quisquilie, c'è l'evasione da stroncare. C'è molto e molto da fare. Abolire il Senato non serve a niente e all'Europa non interessa affatto.

Draghi ha detto quali sono le leggi di riforma da attuare: competitività, produttività, aumento della base occupazionale, equità sociale. Lo ripete quasi ogni giorno. Renzi non gli dispiace, anzi gli piace. Se farà quelle riforme che, tanto per dire, la Spagna ha portato avanti e infatti sta andando meglio di noi. La Spagna ha ricominciato a crescere, noi no.
Speriamo nella Madia. E nella Boschi. E nella Pinotti. E nella Mogherini. Se il pifferaio suona bene, loro faranno un buon coro, ma se il pifferaio stona, il concertone rischierà di diventare una gazzarra. Il pericolo è questo.

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/07/27/news/se_il_pifferaio_stona_il_concertone_diventer_una_gazzarra-92485218/?ref=HRER2-1
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« Risposta #514 inserito:: Agosto 04, 2014, 08:45:47 am »

Il concetto vi dissi... ora ascoltate com'egli è svolto (*)

di EUGENIO SCALFARI
   
In questi tempi bui che stiamo attraversando gli eventi si moltiplicano a ritmo serrato, ogni giorno ne accadono decine che si accavallano l'un l'altro, si contraddicono, cambiano il panorama nel costume, nella politica, nell'economia, nella cultura. Oppure i mutamenti sono soltanto apparenze e tutto resta sostanzialmente immutato? Va di moda rievocare il Gattopardo di Luchino Visconti e forse è proprio quella la situazione in cui ci troviamo? Ho fatto un elenco - sicuramente incompleto - degli ultimi sette giorni. Sembra di girare un caleidoscopio con i pezzi di vetro colorati che cambiano continuamente posizione e disegno secondo i movimenti della tua mano, ma vetri e colori sono sempre gli stessi ed anche le combinazioni finiscono col ripetersi. Vediamolo insieme quell'elenco e poi ragioniamoci sopra.

I primi terribili eventi hanno nomi stranieri e sono guerre, attentati, rivoluzioni, caos diplomatico, religioso, militare. Si chiamano Israele, Hamas, Libia, Ucraina. Ma di questi fatti non starò a parlare; gli inviati del nostro giornale li raccontano e li esaminano tutti i giorni nei luoghi dove avvengono e nelle capitali dove hanno sede organismi internazionali direttamente o indirettamente coinvolti.

Passiamo ad altri argomenti. È nato un movimento di donne antifemministe che ha risvegliato le femministe storiche spingendole al contrattacco. È avvenuto in America, a New York in modo particolare, ma si sta spargendo rapidamente anche in Europa.

Donne e femministe a confronto, con parole grosse, a volte ai limiti dell'insulto. Eppure c'è un punto che le accomuna: la parità dei diritti rispetto agli uomini. Il che vuol dire che convengono sull'emancipazione. Il movimento delle donne non vuole altro, non vuole quote rosa, non vuole abbandonare la guida della famiglia e le relative incombenze, non vuole introdurre i cosiddetti nuovi valori che il femminismo storico ha sempre rivendicato.

Un tempo le femministe erano contrarie all'emancipazione, il loro obiettivo era la liberazione. Ma la liberazione non serve a nulla se non hai il potere di cambiare i valori sociali. Vedete: anche in questo caso la conquista del potere diventa un requisito essenziale e passa inevitabilmente per l'emancipazione ed ecco che il Gattopardo fa capolino.

La Federcalcio è in cerca di un nuovo presidente; la Nazionale italiana è uscita malconcia dai Mondiali brasiliani e vuole rilanciarsi. Il candidato alla Federcalcio più forte si chiama Tavecchio, un dilettante che fa gaffe ogni volta che apre bocca ed è la controfigura del presidente della Lazio, Claudio Lotito. Juventus e Roma non vogliono Tavecchio a nessun costo e sperano che il presidente del Coni, Giovanni Malagò, lo fermi, ma Malagò non vuole coinvolgere il Coni in una diatriba che gli metterebbe contro tutte le leghe dei dilettanti. Se la maggioranza dei club non si schiererà avremo Tavecchio alla guida del calcio italiano, cioè Lotito. L'affarismo diventerà la sostanza e il gioco del pallone una farsa per scalmanati.

                              ***

Matteo Renzi vuole mettere il Senato nelle mani dei Consigli regionali. Sarebbe molto meglio abolirlo che affidarne il simulacro alla classe politica più mediocre e più corrotta che vi sia nel nostro Paese. Personalmente vorrei che il Senato rinunciasse al potere di dare o negare la fiducia al governo ma conservasse tutti gli altri poteri inerenti al Legislativo e i suoi membri, ridotti di numero come possibilmente dovrebbe farsi anche per la Camera dei deputati, continuassero a essere eletti dal popolo sovrano. Ma se questi obiettivi sono impediti dall'alleanza Renzi-Berlusconi, allora aboliamolo e basta. Renzi dovrebbe essere contento perché il suo vero obiettivo è il Monocamerale.

Avete qualcosa contro il Monocamerale? Io no. C'è quasi in tutta Europa, a cominciare dalla Gran Bretagna che è la patria della democrazia.
Il Monocamerale però rafforza notevolmente il potere Esecutivo, quindi ci vogliono contrappesi numerosi altrimenti il pericolo d'un governo autoritario si profila inevitabilmente. Gli osservatori gli hanno dato vari nomi. Qualcuno lo chiama dispotismo democratico. Altri autoritarismo o centralismo democratico. Altri ancora egemonia individuale. Ma la sostanza è la stessa, i pessimisti ad oltranza rievocano addirittura i rapporti tra il Direttorio e Napoleone Bonaparte.

Personalmente sono meno pessimista e quando penso al nostro presidente del Consiglio il cursus di Napoleone non mi viene neanche in mente e neppure quello di Benito Mussolini. Però mi viene in mente Bettino Craxi, quello sì, e debbo ammettere che non mi piace per niente.
Craxi era un socialista, ma di destra non di sinistra. Era alleato della Dc che aveva molti più voti di lui ma i suoi erano determinanti, quelli democristiani erano divisi in correnti molto in contrasto tra loro. Lui avrebbe voluto che Berlinguer lo appoggiasse restando però all'opposizione. Un piano alquanto bizzarro.

Anche Renzi vorrebbe che la sinistra lo appoggiasse e perfino i 5Stelle. Ma il vero cardine è con Berlusconi, la sua forza sta lì, nel patto del Nazareno.

La battaglia al Senato gli sta riservando qualche sgradevole sorpresa, ma il progetto non cambia salvo qualche adattamento di facciata.
La proposta più recente riguarda l'introduzione delle preferenze nella legge elettorale. È una concessione importante alla libertà di scelta degli elettori? Affatto. I "raccomandati" saranno sicuri dell'elezione come capilista, gli altri risveglieranno le lobby di tutta Italia, mafie comprese. Il nostro non è un Paese da preferenze. Il solo vero sistema accettabile è il collegio uninominale, con ballottaggio dei primi due, ma nessuno ci pensa più in questo strano Paese. La classe dirigente pensa ai propri interessi, la gente è indifferente, della riforma del Senato e della legge elettorale non gliene importa niente come del resto non importa niente neppure all'Europa. È un gioco tutto italiano, e il circuito mediatico lo moltiplica. Ci si accapiglia sul nulla, ma dietro a quel nulla ci sono progetti di potere coltivati con grande abilità.

Giuliano Ferrara ha scritto sul Foglio qualche giorno fa che io critico questo governo "con tono burbero". A me non pare. Se fossi burbero come spesso avrei voglia d'essere mi porrei come esempio quello di Gesù di Nazareth quando caccia col bastone i mercanti dal Tempio che insozzavano con i loro traffici e la loro brama di potere.

                                  ***

L'economia non va affatto bene. Questa settimana l'hanno dichiarato esplicitamente il ministro Pier Carlo Padoan e anche Renzi, le cifre fornite dall'Istat sull'occupazione e sull'andamento del debito e del Pil lo confermano; quelle della Svimez danno un quadro di disperazione per l'andamento del Mezzogiorno. Infine il commissario alla spending review Carlo Cottarelli l'ha messo nero su bianco: il governo vuole spendere in lavori pubblici cifre che non ha e che pensa di ricavare dai tagli sulle spese. In teoria quei tagli - che per ora sono solo teorici - dovrebbero servire a diminuire la pressione fiscale e non a finanziare altre spese.

In una conferenza stampa di giovedì scorso il presidente del Consiglio ha garantito che gli ottanta euro di bonus, pagato a partire dal maggio scorso ai lavoratori con redditi da otto a venticinquemila euro all'anno, saranno pagati anche nel 2015, mentre non saranno estesi ai poveri, esenti dall'imposta personale sul reddito (Irpef).

Questa esclusione conferma le difficoltà finanziarie che sono il vero problema del governo, ma i giornali non hanno colto a sufficienza un altro dato estremamente significativo: il bonus di ottanta euro doveva servire a rilanciare i consumi e quindi ravvivare la domanda. Invece non è accaduto nulla, i consumi sono fermi e in certi settori sono addirittura in diminuzione. L'operazione ottanta euro è dunque fallita (come avevamo previsto quando fu annunciata) e rivela ora la vera ragione per la quale fu fatta: suscitare simpatia elettorale a favore del Partito democratico renziano. Da quel punto di vista il risultato c'è stato alle elezioni europee del 25 maggio; le sbandierate finalità economiche sono invece miseramente fallite; molto meglio sarebbe stato destinare i 10 miliardi (tanto è costata l'operazione) ad una diminuzione dell'Irap in favore delle imprese: avrebbe accresciuto gli investimenti e forse avrebbe contribuito ad una ripresa della produzione industriale con conseguenze positive sull'occupazione. Anche questo era stato suggerito, ma naturalmente non fu ascoltato.
                             
                               ***
Senza l'Europa non si cresce. Il nostro governo vorrebbe essere autorizzato a sforare il 3 per cento del deficit almeno per due anni. Può darsi che questa facilitazione si ottenga, darebbe un certo respiro ma non è quella la chiave per uscire dalla stagnazione che minaccia di portarci a fondo. La chiave è nella nascita dell'Europa federale, con opportune cessioni di sovranità da parte degli Stati nazionali e diretti interventi di Bruxelles sulla politica economica e fiscale negli Stati in questione.

Dirò un'amara verità che però corrisponde a mio parere ad una realtà che è sotto gli occhi di tutti: forse l'Italia dovrebbe sottoporsi al controllo della troika internazionale formata dalla Commissione di Bruxelles, dalla Bce e dal Fondo monetario internazionale. Un tempo (e lo dimostrò soprattutto in Grecia) quella troika era orientata ad un insopportabile restrizionismo. Ora è esattamente il contrario: la troika deve combattere la deflazione che ci minaccia e quindi punta su una politica al tempo stesso di aumento del Pil, di riforme sulla produttività e la competitività, di sostengo della liquidità e del credito delle banche alle imprese.

Capisco che dal punto di vista del prestigio politico sottoporsi al controllo diretto della troika sarebbe uno scacco di rilevanti proporzioni, ma a volte la necessità impone di trascurare la vanagloria e questo è per l'appunto uno di quei casi.

                            ***

Per concludere dirò che stiamo marciando verso un'alleanza stabile e non più limitata alle sole riforme costituzionali, con Berlusconi. Renzi è convinto di questa necessità, Berlusconi è ancora incerto e potrebbe anche romper gli indugi e puntare sul voto anticipato.

Con quale legge elettorale? Anche con quella proporzionale lasciata come residuale dalla sentenza con la quale la Corte costituzionale abolì il Porcellum.

La proporzionale non prevede alcun ballottaggio, quindi è su misura per Forza Italia. L'ipotesi dunque c'è, ma non credo che prevarrà. Alla fine l'ex Cavaliere preferirà fare il padre della patria fino al 2018, stipulando un'alleanza solida e piena e negoziando la sua agibilità politica.
Quella economica per trattare gli affari delle sue aziende l'ha sempre avuta.

Adesso vuole solo essere riconosciuto padre della patria.

"E er popolo? Se gratta. E er resto? Va da sé".
(*) "Pagliacci", di Leoncavallo

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/08/03/news/il_concetto_vi_dissi_ora_ascoltate_com_egli_svolto_-93014426/?ref=HRER2-1
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« Risposta #515 inserito:: Agosto 12, 2014, 06:43:07 pm »

Matteo Renzi è bravissimo ma la pagella finora è negativa
Il premier aveva detto che sull'andamento della politica economica ci avrebbe messo la faccia, ma in realtà se metterci la faccia significa andarsene, ha rapidamente cambiato idea

di EUGENIO SCALFARI
   
Il Senato è stato riformato in prima lettura. Ce ne vorranno altre tre tra Camera e Senato prima che la riforma sia perfezionata e intanto anche la riforma della legge elettorale dovrà esser varata anche se ancora numerose sono le variazioni che il Pd vorrebbe includervi non ancora concordate con Forza Italia in modo definitivo.

Comunque entrambi questi due cambiamenti (ai quali si dovrà aggiungere la riforma del titolo V della Costituzione) richiedono una doppia firma: quella di Renzi e quella di Berlusconi. Di quest'aspetto della situazione parleremo tra poco ma intanto soffermiamoci sul significato del cambiamento avvenuto già da qualche tempo ma che nel voto dell'8 agosto ha avuto la sua ufficiale consacrazione.

Il nostro Ilvo Diamanti in un articolo di qualche giorno fa smentisce che si sia in presenza d'una tentazione autoritaria da parte di Matteo Renzi, come molti dei suoi avversari politici temono. Che Renzi, riducendo il Senato a poco più d'una scarpa vecchia, coltivi un rafforzamento del potere esecutivo non c'è dubbio alcuno; del resto è lui stesso che lo dice presentandolo come una svolta democratica che allinea l'Italia a tutti gli altri paesi d'Europa.

È vero e anch'io l'ho ricordato domenica scorsa. Per darne una definizione calzante ho chiamato questa scelta renziana ampiamente condivisa da gran parte del Pd, egemonia individuale. Diamanti usa una definizione molto simile: la chiama democrazia personale e, cercando un paragone col passato, fa il nome di Bettino Craxi.

La pensiamo allo stesso modo e qui nasce il problema: un'egemonia individuale o una democrazia personale è quanto merita il nostro Paese? Somiglia a quanto avviene negli altri Stati membri dell'Unione europea? La leadership è ormai un requisito della società mondiale determinato da molti mutamenti avvenuti a cominciare dalla società globale? E non è più soltanto un fatto della politica, ma di tutte le manifestazioni sociali ed economiche? Dipende forse dalla scomparsa delle ideologie, sostituite dal pragmatismo che opera avendo come riferimento soltanto il presente?
Le domande, come si vede, sono molte e bisogna confrontarsi con esse per capire che cosa stia accadendo e che cosa accadrà.

***

Quando nel 1989 cadde il muro di Berlino, la prima conclusione che ne trassero in tutto il mondo le persone che si interessano alla storia che abbiamo alle spalle e agli scenari che si prospettano nel futuro, fu che le ideologie erano state sepolte per sempre. La storia è finita, scrisse un intellettuale di molto prestigio; ora non c'è che il pragmatismo, si decide giorno per giorno secondo i problemi concreti e senza alcun pre-giudizio.

Sbagliava e lui stesso lo riconobbe qualche anno dopo. L'ideologia significa orientarsi secondo un sistema di idee interconnesse da una dominante: si privilegia l'eguaglianza oppure la libertà, la tutela dei più deboli oppure i risultati della gara dalla quale emergono i vincitori e soccombono gli sconfitti e così via. Ciascuna di queste visioni è un'ideologia: il socialismo è un'ideologia, il liberismo, il progressismo, il machiavellismo, l'esortazione alla carità oppure la totale indifferenza per tutto ciò che non ci riguarda direttamente. Ciascuno di questi modi di pensare è un'ideologia e noi viviamo in conformità a quella prescelta che però cambierà nel tempo come noi stessi cambieremo. Perciò parlare di fine delle ideologie e rallegrarcene è una pura sciocchezza.

Il secondo tema con il quale confrontarsi è la contrapposizione che molti fanno tra democrazia, cioè potere del popolo, e l'oligarchia, cioè potere di pochi. Almeno a parole la grande maggioranza è per la democrazia che prevede tuttavia alcune varianti: quella esercitata dal popolo direttamente (l'agorà greca, la piazza nei comuni medievali, il sistema referendario esteso e facilitato al massimo).

Se posso dare il mio giudizio, io credo che la sola e vera forma che realizza la sovranità sociale sia l'oligarchia. Se vogliamo il modello più antico è quello teorizzato da Platone nel suo dialogo sulla "Repubblica".

Certo l'oligarchia, per tutelare la libertà e la partecipazione, deve adottare alcune condizioni: deve essere democraticamente eletta, aperta sia a molte entrate sia a frequenti uscite; insomma deve rinnovarsi senza distinzione tra i ceti sociali di provenienza. Un'oligarchia chiusa o rinnovata soltanto per cooptazione è quanto di peggio possa accadere, ma se è aperta è il solo vero modo di affidare la società ai migliori e verrà giudicata dal cosiddetto popolo sovrano come consuntivo delle sue azioni sia in politica sia nelle istituzioni sociali ed economiche attraverso libere elezioni.

Certo c'è un altro modo di guidare una società ed è la dittatura. Capita spesso la dittatura. Nell'antica Roma repubblicana durava sei mesi e si instaurava quando c'era un pericolo alle porte che bisognava con urgenza sgominare. Poi venne l'Impero, Roma aveva conquistato l'intera Europa e Asia minore e aveva bisogno di una figura simbolica che la rappresentasse; nei primi due secoli l'Impero aveva tuttavia presso di sé una folta classe dirigente con ampie deleghe operative. Fin quando questo sistema, chiamiamolo imperial-democratico, durò Roma continuò a espandersi politicamente e a diffondere dovunque la sua cultura, le tavole del suo diritto, la sua poesia, la sua civiltà. Poi la classe dirigente si restrinse ai "clientes" dell'Imperatore e ai militari che comandavano le legioni e allora cominciò il declino.

***

Spero d'aver risposto come potevo e il più brevemente possibile alle domande che servono a disegnare uno scenario. Ora torniamo ai fatti che riguardano direttamente noi e l'Europa tutta.

L'attualità di questi giorni è dominata da due avvenimenti, entrambi italiani, la riforma del Senato che come Renzi voleva è stata approvata in prima lettura nel testo voluto dal governo e contemporaneamente, la cattiva sorpresa di un calo dello 0,2 per cento del Pil nel secondo trimestre dell'anno in corso, dopo un calo dello 0,1 per cento nel primo trimestre il che significa una perdita dello 0,3 nel semestre. Tecnicamente e sostanzialmente siamo in recessione.

Renzi aveva detto che sull'andamento della politica economica ci avrebbe messo la faccia, ma in realtà, se metterci la faccia significa andarsene, ha rapidamente cambiato idea. Debbo dire che ha fatto bene, le sue dimissioni avrebbero aperto una crisi estremamente difficile proprio nel momento in cui l'Italia ha la presidenza semestrale dell'Unione europea. Finora non si è ancora avuto alcun segnale di questa presidenza che avrebbe dovuto conferirci meriti e poteri di intervento ma temo che non si verificherà perché i dati dell'Istat equivalgono ad una pessima pagella.

Renzi dice che il calo del Pil non ha alcun significato, anzi lo spinge ad accelerare il risanamento. Non dice come e attingendo a quali risorse che francamente non ci sono. E poi interviene Mario Draghi con tutta l'autorità che gli deriva dalla competenza che ha e dalla carica che ricopre.

Su Draghi e i suoi recenti interventi che ci riguardano direttamente i giornali e lo stesso Renzi hanno fatto molta confusione eppure le sue parole sono state chiarissime. Ha detto che l'Italia deve finalmente affrontare le riforme economiche (finora non ne ha fatta alcuna salvo quella degli 80 euro sulla quale spenderemo tra poco una parola); le riforme secondo Draghi debbono affrontare tre temi: la produttività, la competitività e la crescita; le riforme istituzionali possono essere anch'esse perseguite ma non possono sottrarre tempo a quelle economiche: o vanno di pari passo, sempre che il calendario delle Camere lo consenta, oppure sono quelle economiche a dover essere privilegiate.

Infine - e questa è a mio avviso la richiesta fondamentale - Draghi ha esortato i governi europei a cedere nei prossimi mesi ampia sovranità all'Europa soprattutto su temi riguardanti la politica economica; senza queste cessioni di sovranità difficilmente usciremo dalla situazione di deflazione che ormai minaccia l'intera economia europea e quella italiana in particolare. Dal canto suo il presidente della Bce a settembre aprirà il rubinetto della liquidità come ha già da tempo annunciato con due finalità ben precise: ravvivare il rapporto tra le banche e la loro clientela (specialmente in Italia dove questo non accade ancora in modo soddisfacente) e diminuire il tasso dell'euro nei confronti del dollaro per favorire le esportazioni e quindi rafforzare la domanda di beni e servizi europei.

Mi permetto di ricordare che domenica scorsa ho scritto che per combattere la minaccia incombente della deflazione l'Italia dovrebbe accettare l'arrivo della "troika" internazionale che, a differenza di qualche tempo fa, è ormai orientata a favorire la crescita, lo sviluppo e l'occupazione. Draghi parla di importanti cessioni di sovranità: diciamo su per giù la stessa cosa. Sugli 80 euro la situazione è chiarissima: dopo tre mesi i consumi non si sono mossi, gli 80 euro soddisfano i beneficiari e questo è evidente, ma il risultato economico che si sperava ci fosse non si è verificato. Anche su questo punto Renzi l'aveva dato per certo e ci metteva, come dice lui, la faccia. Ho già detto che non può farlo per mancanza di alternative ma sarebbe proprio lui che dovrebbe favorirne la nascita. Invece non lo fa e forse gira con la maschera sul viso. Capisco ma non condivido.

***

La riforma del Senato, come pure avverrà per quelle della Camera, del titolo V e della Giustizia, porta due firme: quella di Renzi e quella di Berlusconi. Si sapeva, era necessario e nessuno può dir nulla. Del resto accadde la stessa cosa con il governo Monti. Con quello di Letta no perché c'era stata la scissione di Alfano che però non sarebbe bastata per le riforme costituzionali.

Quanto al resto, sia Renzi sia Berlusconi sostengono che per quanto riguarda la legislazione ordinaria e quella economica in particolare Forza Italia è e sarà all'opposizione. Sarà probabilmente così ma non dipende da Renzi bensì da Berlusconi. Forza Italia non è obbligata da nessun accordo a entrare nella maggioranza e non ne ha neppure l'interesse, ma nessuno può impedirgli quando vuole di votare a favore del governo anche su provvedimenti che non hanno nulla a che vedere con le riforme. Io ho la sensazione che questo avverrà spesso poiché significa che di fatto Berlusconi è il pilastro con Renzi della maggioranza. Può non piacere né in Italia né in Europa, ma se accadrà bisognerà purtroppo prenderne atto.

***

Dedico poche parole a quanto hanno scritto alcuni egregi colleghi di altri giornali su questioni come quelle qui finora trattate. Alcuni ripetono che l'abbandono del bicameralismo perfetto metterà la parola fine al balletto che fa perdere mesi e mesi di tempo alle due Camere prima che una legge sia approvata. Ho già fornito da tempo le cifre, raccolte dalla segreteria del Senato, che smentiscono quest'affermazione: i tempi non sono affatto lunghissimi e variano, secondo la natura dei provvedimenti, tra i cinquantasei e i duecento giorni. Come si vede niente di paralizzante.

Viceversa sono ancora privi di attuazione ben 750 provvedimenti approvati da entrambe le Camere ma privi dei regolamenti attuativi e di altrettanti decreti ministeriali che dipendono dalla burocrazia dei singoli ministeri. Il male dunque è qui e non nel bicameralismo.

Sulla "Stampa" di ieri un egregio collega ripeteva la filastrocca del balletto, ma sullo stesso giornale la senatrice a vita Elena Cattaneo in una lettera al direttore segnalava le ragioni per cui si è astenuta nel voto finale (al Senato l'astensione vale come voto contrario). È la lettera di una persona che non parteggia per alcun partito e non ha pregiudizi di sorta ma cerca di dare giudizi lucidi e motivati.

Infine sul nostro giornale di venerdì il professor Crainz ricorda che De Gasperi fu sempre e tenacemente favorevole al bicameralismo perfetto perché temeva che una sola Camera finisse per trasformarsi in una "assemblea giacobina" nel senso che avrebbe seguito pedissequamente le decisioni del demagogo di turno. Molti hanno spesso richiamato pareri di alcuni "padri costituenti" contro il bicameralismo, ma nessuno aveva ricordato il parere di Alcide De Gasperi che non è certo un nome da poco perché è stato il vero costruttore della Repubblica italiana.
© Riproduzione riservata 10 agosto 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/08/10/news/renzi_bravissimo_pagella_negativa-93492489/?ref=HRER2-1
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« Risposta #516 inserito:: Agosto 21, 2014, 07:01:40 pm »

Roosevelt non ci riuscì, ora ci prova lo scout italiano

di EUGENIO SCALFARI
17 agosto 2014
   
Non c'è alcun dubbio che l'Italia stia attraversando una fase di recessione e di deflazione e non c'è del pari dubbio che la stessa fase la stiano attraversando quasi tutti gli altri Paesi membri dell'Unione europea, in particolare la Francia e la Germania per citare i due principali: cala il Pil, aumenta il deficit, languono esportazioni e importazioni intraeuropee, sono fermi consumi e investimenti. Del resto fenomeni analoghi si manifestano perfino in Cina e in Brasile, il che accentua il carattere mondiale della crisi.

Il nostro presidente del Consiglio non sembra dare molta importanza a questi fenomeni. Punta sulle riforme istituzionali: Senato, Regioni e Province, legge elettorale, giustizia civile e Sblocca Italia. E punta soprattutto sull'Europa, ancora dominata da una politica rigorista che lui vuole capovolgere.

L'appuntamento culminante si prevede per il 30 agosto quando Renzi parlerà nella sua veste di presidente pro tempore del Consiglio europeo. Parlerà cioè con i rappresentanti degli altri Stati nazionali, nei quali risiede tuttora il potere di governare l'Ue, alla faccia degli altri organi di questa strana Confederazione composta da 28 membri, 18 dei quali hanno una moneta comune.

Renzi ha parlato a lungo nei giorni scorsi con Napolitano e con Draghi. Napolitano lo consiglia e lo appoggia, non si ha notizia d'alcuna critica salvo l'invito a non usare se non in casi estremi toni ultimativi. Del colloquio con Draghi, durato oltre due ore nella casa di campagna del presidente della Bce, si conosce soltanto una sobria versione di Renzi che è notevolmente positiva.

Draghi non parla con i "media", soprattutto con quelli italiani. Alcune sue tesi sull'Europa le aveva indicate in una pubblica comunicazione d'una settimana fa, dalla quale risultava - per quanto di pertinenza all'Italia - l'esortazione a privilegiare le riforme economiche su quelle istituzionali e - per quanto riguardava tutti gli Stati aderenti all'Ue - ad affrontare alcune importanti cessioni di sovranità all'Unione in materia di politica economica.

Nel colloquio con Renzi parrebbe - secondo la versione del Nostro - che su quest'ultimo tasto i due abbiano sorvolato; sulle riforme invece sono stati d'accordo. Draghi non ha detto nulla; evidentemente quando è in vacanza in campagna preferisce andare a caccia di farfalle non sotto l'arco di Tito ma a Città della Pieve e dintorni.

Una cosa però è certa e su questo il presidente della Bce era stato particolarmente facondo la scorsa settimana: l'Europa rischia di affondare sotto il peso della deflazione, ormai presente in tutto il continente. I prezzi diminuiscono, la domanda diminuisce, l'occupazione si restringe.

Contro la deflazione Draghi darà battaglia, cominciando a quanto pare a settembre, con misure anche "non convenzionali" e cioè lo sconto non solo di titoli pubblici ma anche di obbligazioni emesse da imprese che vantano crediti verso le pubbliche amministrazioni e verso la propria clientela; obbligazioni naturalmente garantite dai rispettivi debitori. E poi un'immissione di liquidità in favore delle banche purché esse la reinvestano in buona parte sulla clientela. La premessa dalla quale Draghi parte (così sembra) è che la predetta clientela, cioè le imprese manifatturiere e di servizi qualificati, reinvesta la liquidità che gli arriva. Del resto la scuola ci insegna che la deflazione si combatte così.

Qui però c'è un aspetto che forse è sfuggito all'attenzione dei più: la deflazione è un fenomeno estremamente pericoloso ma non va confuso con la depressione. Spesso vanno insieme, ma talvolta no. Quella del 1929 per esempio non fu un'accoppiata deflazione-depressione, soprattutto negli Usa. Non c'era deflazione, la liquidità non mancava ma non era utilizzata a dovere; i prezzi dei beni e dei servizi non diminuiva, ma la domanda mancava. Bisogna consultare Keynes per capir bene la differenza tra questi fenomeni e anche John Kenneth Galbraiht nel suo Il Grande Crollo. Non c'era deflazione in Usa, ma depressione. Oggi in Europa e in Italia i due fenomeni sono appaiati ma noi, il nostro governo, la Bce, le istituzioni dell'Europa confederata e soprattutto i possessori di capitale si propongono di battere la deflazione ma guardano con palese distrazione alla depressione. Ecco una questione sulla quale converrà soffermarsi e riflettere.

***

La depressione ha varie cause che la determinano. La prima, fatalistica e al tempo stesso consolatoria, la spiega con la teoria del ciclo economico; sarebbe una sorta di respiro: la depressione ha una pausa nel corso della quale la società decresce, la miseria aumenta e si diffonde fino a quando, toccato il fondo, tutta l'attività si rimette in movimento, il benessere torna a diffondersi, il progresso sociale raggiunge vette ancor più alte di prima. Si discute tra i sostenitori di questa tesi quale sia la durata del ciclo; secondo alcuni la depressione arriva ogni 25 anni, secondo altri 50 ed altri ancora prevedono che avvenga ogni 70 anni.

I sostenitori della seconda tesi escludono la teoria del ciclo e ne sostengono un'altra molto più convincente: la cattiva e a volte pessima distribuzione della ricchezza. Il liberismo in realtà genera rapidamente sistemi economici monopoloidi, dove il 10 e a volte perfino il 5 per cento della popolazione possiede il 40 e a volte il 50 per cento della ricchezza nazionale. La depressione sarebbe causata da questa diseguaglianza, una sorta di ribellione improvvisa dei ceti più bassi che sperano di ottenere l'intervento dello Stato per modificare in senso più egualitario le classi della società. Il "New Deal" di Delano Roosevelt puntò su questo aspetto. Lo fece però con molta prudenza e rispettando i privilegi dei ricchi ma sostenendo i bisogni primari dei poveri e affidando allo Stato alcune iniziative economiche.

Del resto tutto il pensiero marxista nacque sulla tesi della pessima distribuzione della ricchezza che avrebbe provocato, una volta compiutasi la rivoluzione borghese, la rivolta proletaria e l'instaurazione d'una società comunista.

C'è però una terza tesi che spiega la depressione dandone la responsabilità principale ai possessori del capitale, ai capi delle aziende e al management; questa rappresenta la vera classe dirigente d'un paese e si comporta come una classe chiusa nella forza dei suoi privilegi. Non reinveste i profitti ma li incassa come dividendi e/o come bonus destinati al management. Questa massa di ricchezza viene affidata alle banche d'affari che investono e speculano su determinati asset, sulle industrie del lusso, miniere non utilizzate, mutui all'edilizia popolare, nuove invenzioni tecnologiche che puntano sul restringimento della base occupazionale. Insomma speculazione; a volte positiva perché fa avanzare il nuovo, altre volte negativa perché sottrae risorse all'industria, all'agricoltura, ai servizi e le destina alla finanza e al suo arricchimento.

Questi comportamenti generano inevitabilmente corruzione, evasione fiscale, disoccupazione, potenza delle lobby, demagogia politica, capitalismo selvaggio. Schumpeter vedeva al tempo stesso l'aspetto positivo di questi comportamenti e l'aspetto negativo dovuto a una distruzione di ricchezza a danno dei molti e a favore dei ricchi. Non a caso sia quella del 1929 sia quella del 2008 sono nate a Wall Street. La deflazione non aveva nulla a che vedere con quegli eventi.

L'Europa dal 2011 a oggi ha importato la depressione (ricordate il fallimento di Lehman Brothers come campanello d'allarme?) ma in Italia questo percorso era già cominciato nientemeno che a metà degli anni Settanta del secolo scorso, si era rafforzato socialmente ed economicamente negli anni Ottanta e Novanta; infine fu ed è infinitamente accresciuto dalla sopravvenuta crisi americana.

Mettete insieme le tre tesi sopra esposte e aggiungetevi come sovrappiù la crisi di deflazione nel frattempo esplosa a causa del credit crunch delle banche, il malgoverno politico e avrete fotografato la situazione.

***

Il 30 agosto Matteo Renzi rivendicherà davanti ai capi di governo europei e al neo presidente della Commissione, la necessità di una nuova politica europea fondata sulla flessibilità, la crescita, la diminuzione della pressione fiscale in Italia e il necessario taglio della spesa pubblica. Rivendicherà inoltre il ruolo di Alta rappresentante della politica estera e della difesa per l'attuale nostra ministra degli Esteri.

Quest'ultima partita è già quasi persa in partenza ma qualora fosse vinta è pura e semplice fuffa. L'ho già scritto tre volte nei miei articoli domenicali: è una carica di semplice apparenza, non ha alcun potere su 28 paesi ciascuno dei quali ha un suo ministro degli Esteri e un suo ministro della Difesa. Avrebbe un senso se ci fosse in quei due settori la cessione di sovranità all'Europa, ma questo è allo stato dei fatti un'ipotesi di terzo grado, cioè irrealizzabile. Debbo dire che, almeno ai miei occhi, sarebbe quanto mai opportuna coi tempi che corrono; ma ove mai da qui a una decina d'anni si realizzassero gli Stati Uniti d'Europa, questa degli Esteri e della Difesa sarebbe l'ultima delle cessioni di sovranità.

Le altre richieste sulla flessibilità, sul rinvio della diminuzione di debito pubblico, sul taglio della spesa pubblica e la diminuzione della pressione fiscale, a me sembrano bubbole.

Bisognerebbe destinare risorse cospicue al taglio dell'Irap. Bisognerebbe che le imprese scoprissero nuovi prodotti e li lanciassero sui mercati, bisognerebbe che investissero in imprese nuove. Bisognerebbe creare un solido sistema di ammortizzatori sociali, bisognerebbe che i contratti aziendali avessero la meglio sui contratti nazionali, sempre che le aziende al di sotto dei 50 dipendenti stipulassero contratti di gruppo con sindacati di gruppo per non lasciare le aziende con pochi dipendenti alla mercé dei padroncini.

E bisognerebbe che Draghi mantenesse i suoi impegni e ai primi di settembre cominciasse la battaglia di fondo contro la deflazione.

Nel frattempo temo che il governo impieghi una parte preziosa del suo tempo alla riforma della legge elettorale che così come la stanno pensando servirà soltanto a rafforzare il potere esecutivo. Ma di questo ho già parlato e ormai me ne è passata la voglia. Un esecutivo forte è quanto ci vuole per farci uscire dalla depressione; se invece il suo principale miraggio è quello di rafforzarsi sempre di più, allora bisognerà ridiscutere non solo di depressione e di deflazione ma anche di democrazia individuale e sovranità popolare fittizia, una strada che rischiamo d'aver già imboccato riducendo il Senato a un'istituzione che prima sarà del tutto abolita e meglio sarà.
© Riproduzione riservata 17 agosto 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/08/17/news/roosevelt_non_ci_riusc_ora_ci_prova_lo_scout_italiano-93935757/?ref=HREA-1
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« Risposta #517 inserito:: Agosto 26, 2014, 06:28:58 pm »

Il califfato ci minaccia ma l'Europa pensa ad altro

di EUGENIO SCALFARI
24 agosto 2014
   
Quella che non a caso papa Francesco ha definito la terza guerra mondiale sta sconvolgendo tutto il mondo occidentale. Poiché supera i confini tradizionali, conviene individuare i luoghi con nomi più antichi: i punti centrali sono la Mesopotamia, il Mediterraneo, l'Europa fino agli Urali e l'America del Nord. È una guerra di religione e di contrapposte civiltà. Bernardo Valli e i numerosi inviati del nostro giornale ne seguono gli accadimenti giorno per giorno e ne danno un quadro che cambia di continuo. Vittorio Zucconi ne ha fornito un'immagine molto efficace: un treno in corsa gremito di gente ma privo del personale che dovrebbe guidarlo su un terreno accidentato e in ripida discesa, punteggiato da gallerie oscure e da fragili ponti.

Ma l'Europa che ne è il continente più coinvolto è - strano a dirsi - quello i cui governi meno se ne interessano. I governi che fanno parte dell'Unione europea si limitano a qualche generica dichiarazione di solidarietà con le minoranze sotto tiro, ma la loro propensione - così sembra - è di tenersene alla larga. Il primo e forse l'unico baluardo sono gli Usa, ma anche Washington si muove con estrema circospezione e moderazione.

L'attore principale, anzi unico almeno per il momento, è il Califfato, il movimento islamico che discende da Al Qaeda ma si è molto allontanato dalle finalità e dalle strategie di Bin Laden e dei suoi successori. Al Qaeda era una centrale al tempo stesso terroristica e religiosa. Non si proponeva di modificare la geografia degli Stati. Bensì di imporre l'interpretazione radicalizzata del Corano e delle scritture profetiche che l'avevano preceduto e accompagnato. Il fondamento era sunnita ma non prevedeva una guerra santa contro gli sciiti. La guerra santa era contro i cristiani ma, unita ad essa, c'era anche una guerra sociale dei poveri contro i ricchi; in particolare contro il capitalismo.

L'Is, la sigla che designa il Califfato, è un movimento del tutto diverso. Non è una centrale terroristica anche se il terrorismo è ben presente nella sua tattica di guerra; è un esercito vero e proprio, dotato di mezzi di guerra moderni, dispone di ampi mezzi finanziari ottenuti in parte con i rapimenti e i ricatti ma soprattutto con finanziamenti che vengono da potenze arabe (Emirati e monarchia Saudita) desiderose di guadagnarsi l'intangibilità geopolitica poiché l'alleanza ufficiale con gli Usa ha cessato da un pezzo dal rassicurarli.

Il Califfato vuole conquistare un territorio strategicamente decisivo: una parte della Siria, una parte dell'Iraq possibilmente fino a Baghdad, la regione del Kurdistan e da questo nucleo iniziale ripercorrere le strade che in poche decine d'anni portarono gli arabi maomettani alla conquista di tutta la costa del Mediterraneo fino all'Emirato spagnolo di Cordova e di Granada.

Il contenuto - l'abbiamo già detto - di questo movimento è religioso e sociale: contro i cristiani, contro i laici, contro i ricchi. Eccitando e seducendo anche molti giovani occidentali che amano l'avventura, le novità, la rivoluzione. Non importa molto contro chi e contro che cosa, ma la rivoluzione.

Quelle che scoppiarono due tre anni fa e furono definite primavere arabe erano composte da giovani animati da due diverse spinte: una parte voleva applicare nei loro Paesi i principi e i diritti di libertà e di giustizia imparati dall'Occidente liberal-democratico, e un'altra parte voleva invece una rivoluzione che colpisse e mettesse fuori gioco le dittature logore e corrotte.

Questa parte dei giovani che animarono le primavere arabe è pronta ad aderire al Califfato; in parte l'ha già fatto, in parte lo farà e sarà un apporto numericamente e moralmente fondamentale.

L'America di Obama vede la minaccia ma non ha molta voglia di impegnarsi a fondo nel Mediterraneo e in Mesopotamia. Il suo obiettivo in una società multipolare è l'intesa con l'America Latina e il Pacifico. Non le sfugge l'estrema pericolosità del Califfato ed è pronta a sostenere lo sforzo di quanti dovrebbero essere più interessati e più direttamente coinvolti in questa terza guerra mondiale. Ma, come abbiamo già notato, l'Europa non ha le forze. Di fronte al treno in discesa e senza chi lo guidi, l'Europa è un treno in salita con una quantità notevole di guidatori. Molti più guidatori che passeggeri.

I passeggeri non sono in quel treno; stanno a casa loro, mugugnano, protestano, aspettano l'Uomo della Provvidenza vero o supposto che sia. Del Califfato li terrorizzano le gesta ma lo guardano come un "horror", una favola. Per alcuni giovani perfino affascinante. C'è sempre e dovunque, nelle guerre, una quinta colonna e c'è anche qui.

L'Europa insomma pensa ai suoi guai ed è con questi che ora vuole e deve misurarsi.

***

I governi che contano di più e che fino a qualche anno fa rappresentavano una sorta di Direttorio, e cioè la Germania e la Francia, sono ancora per ovvie ragioni storiche, economiche, geografiche, le due più importanti del continente. Ad esse, nelle elezioni europee del 25 maggio scorso, si è aggiunta l'Italia di Renzi. Ma non sono certamente i soli. C'è la Spagna, l'Olanda, l'Austria e - fuori dall'Eurozona - ci sono la Gran Bretagna e la Polonia. Ma se dovessi dire qual è la persona che conta più di tutte le altre farei il nome di Mario Draghi, per la competenza economica che ha e per la carica che ricopre di presidente della Banca centrale europea, della quale le Banche centrali nazionali sono (o dovrebbero essere) importanti articolazioni contemporaneamente dotate di sovranità in quanto membri del Consiglio direttivo della Bce.

Ho scritto domenica scorsa che Draghi ai primi di settembre avrebbe dato applicazione ad una serie di interventi sulla liquidità, alcuni dei quali non convenzionali. Lo scrissi perché Draghi l'aveva pubblicamente dichiarato e quindi non era una previsione ma una certezza, ripetuta venerdì scorso dal medesimo Draghi dopo l'incontro con i principali banchieri centrali di tutto il mondo a Jackson Hole, sulle Montagne Rocciose.

L'obiettivo è di battere la deflazione che imperversa in Europa e la recessione - cioè una fase ancora tenue ma già assai allarmante di depressione economica. Su quest'ultima Draghi può far poco se non esortare i governi (e quello italiano in particolare) a varare leggi di riforme economiche soprattutto riguardanti il lavoro, la diminuzione della spesa pubblica improduttiva e a rilanciare investimenti e occupazione nell'ambito d'una flessibilità che i governi e la Commissione europea (la Germania in particolare) dovrebbero consentire.

Queste sono esortazioni; preziose ma purtroppo non affidate alle mani di Draghi. Il suo compito specifico riguarda la liquidità. Lo scopo (previsto dallo statuto della Bce) è di aumentare il tasso d'inflazione, attualmente prossimo allo zero, portandolo verso il due per cento. Lo può fare in vari modi: acquistando titoli pubblici sui mercati secondari, finanziando a bassissimi tassi le banche affinché destinino la maggior parte del finanziamento alla clientela che ne faccia richiesta. Infine finanziare obbligazioni di aziende creditrici e quindi immettendo nelle predette aziende una preziosa liquidità.

Ma lo strumento numero uno cui Draghi mira e di cui ha lungamente discusso con la presidente della Federal Reserve americana è il tasso di cambio dollaro-euro. L'euro fino a poche settimane fa quotava 1,40 dollari con punte fino a 1,45. Da qualche giorno è gradualmente disceso a 1,32, quindi un risultato positivo sebbene la Fed americana non sia disposta per ora a collaborare. La Fed dovrebbe aumentare il tasso d'interesse e dovrebbe diminuire l'acquisto di Bond del Tesoro Usa, ma aspetta d'esser sicura di una solida ripresa del lavoro e fino ad allora non si muoverà dalla politica attuale. Ci vorrà circa un anno, fino alla seconda metà del 2015.

E Draghi? Gli basta un cambio di 1,32 col dollaro, quindi una diminuzione di 8-10 punti? No, non può bastare. Non basta a rilanciare l'import-export dell'Europa verso l'area del dollaro. Il tasso di cambio ideale sarebbe 1,10 ma quello accettabile è intorno a 1,20 cioè un'altra diminuzione di 10-12 punti. Con quali strumenti può ottenere questo risultato con quella rapidità che provoca uno shock positivo nelle aspettative per quanto riguarda soprattutto l'esportazione europea?

È molto semplice: vendendo sul mercato dollari in quantità sufficiente a premere efficacemente sulle quotazioni. La vendita avrebbe un triplo risultato: svalutazione dell'euro, aumento dell'inflazione, investimenti causati dalle esportazioni, cioè da una accresciuta domanda estera.

Quanto al governo italiano, dovrebbe destinare almeno dieci miliardi alla diminuzione dell'Irap a favore delle imprese. Con quali risorse? Stornando la medesima cifra dal finanziamento dei famosi 80 euro i cui risultati di rilancio dei consumi non sono avvenuti; oppure tassando i ricchi il cui reddito sia da 130mila euro in su.

La cattiva distribuzione del reddito è una delle cause più importanti delle depressioni economiche. Possibile che, non dico Renzi  - impegnato nelle secchiate d'acqua gelata anti-Sla - ma dico Padoan non si renda conto di quali sono le manovre da fare?

Un'osservazione voglio ancora aggiungere che riguarda l'inclusione che si farà in tutta Europa ma che è un vero e proprio shock per l'Italia, del reddito malavitoso nella contabilità nazionale. Contabilizzando il reddito che le varie mafie ricavano dalla droga, dagli appalti, dai bordelli, dalle sale da gioco, il Pil nazionale aumenterà di almeno 60 miliardi di euro. Non combattendo il formarsi di quel reddito ma contabilizzandolo. Ne avranno un vantaggio e ne saranno tutti contenti all'Istat, all'Eurostat, al Tesoro.

A me sembra una pura e semplice vergogna.

P. S. Roberto Calderoli, come al solito, prima fa i Porcellum e poi li definisce porcate come infatti sono.

Questa volta la porcata è la legge approvata in prima lettura sulla riforma del Senato. Il senatore leghista che ne ha redatto il testo insieme alla Finocchiaro, una volta approvata l'8 agosto come Renzi voleva a tutti i costi, l'ha definita una merda (sic) ed ha aggiunto: "È stato consumato uno scempio estetico e lessicale che è difficile far funzionare".

Il "24 ore "di lunedì scorso gli ha dedicato una pagina intera che documenta "lo scempio estetico e lessicale". Basta leggere quella pagina per averne conferma. Uno scempio che le Alte autorità preposte al controllo delle leggi costituzionali non hanno contestato al governo e alle competenti commissioni parlamentari auspicando che quella legge deve essere profondamente emendata nelle future letture senza di che - immagino io - difficilmente il Presidente della Repubblica potrebbe promulgarla.

Lo ripeto ancora una volta: meglio di questo sgorbio sarebbe abolire il Senato. De Gasperi si rivolterebbe nella tomba, anzi è presumibile che lo stia già facendo perché per lui il bicameralismo perfetto era indispensabile al buon funzionamento della democrazia.

© Riproduzione riservata 24 agosto 2014
Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/08/24/news/califfato_minaccia_europa_pensa_ad_altro-94353698/?ref=HRER2-1
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« Risposta #518 inserito:: Settembre 07, 2014, 05:20:12 pm »

Noi siamo bravi ragazzi e nessuno ci può fermar

Di EUGENIO SCALFARI
07 settembre 2014
   
Da tre giorni a questa parte i casi nostri si concentrano in un nome, quello di Mario Draghi e sulla sua politica contro la deflazione che sta massacrando l'Europa e l'Italia in particolare.

La strategia di Draghi è stata da lui stesso illustrata in modo molto chiaro e si può riassumere così: ha già ridotto al minimo il tasso di sconto e sotto al minimo quello sui depositi a breve termine delle banche presso la Bce. Metterà a disposizione del sistema bancario europeo una quantità illimitata di liquidità con contratto a quattro anni; sconterà obbligazioni cartolarizzate di imprese europee; se necessario acquisterà titoli di debiti sovrani sui mercati secondari dei paesi in difficoltà.

Questa politica ha un obiettivo primario: rialzare il tasso di inflazione in prossimità al 2 per cento (attualmente in Europa è prossimo allo zero) e un obiettivo secondario ma interconnesso che è quello di abbassare il tasso di cambio dell'euro-dollaro almeno verso l'1,25 ma possibilmente all'1,20 contro dollaro. Questo risultato potrà essere anche attuato con interventi sui mercati di paesi terzi con monete diverse dall'euro, vendendo quote della nostra moneta e deprimendo così il cambio con riflessi sulle quotazioni del dollaro.

L'insieme di questi intenti non è di facilissima esecuzione ma la Bce e le Banche centrali nazionali dell'area europea sono perfettamente in grado di effettuarli con rapidità ed efficienza. Ma c'è un aspetto molto problematico: le imprese europee sono parte attiva di questo programma, debbono cioè essere disponibili a indebitarsi con le banche, sia pure a tassi di interesse abbastanza ridotti rispetto a quelli attuali.

Se hanno progetti di investimenti e se i governi le incentivano a investire, il sistema delle imprese farà quello che ci si aspetta; ma attualmente questa disponibilità non c'è o è comunque insufficiente, sicché questa seconda parte della strategia di Draghi rischia di non dare i risultati attesi.

La motivazione è evidente: la Bce, come tutte le Banche centrali, può agire sulla deflazione, ma gli strumenti per combattere la recessione-depressione non sono nelle sue mani ma in quelle dei governi ai quali non a caso Draghi raccomanda riforme adeguate sul lavoro, sulla competitività e sulla distribuzione più equa della ricchezza. La Banca centrale è perfettamente consapevole di questa situazione e lo è anche la Commissione europea e in particolare la Germania. Di qui l'alternativa (che non consente alibi) ai paesi più colpiti dalla depressione tra i quali al primo posto c'è purtroppo l'Italia: le riforme economiche sui temi che abbiamo prima indicato debbono essere fatte subito; soltanto dopo, quando saranno state varate e rese esecutive l'Italia potrà ottenere quella flessibilità che gli consenta d'avviare un rilancio della domanda e della crescita consistente e duraturo. Perdere tempo in altre iniziative è letale se ritarda questo tipo di riforme.
Meglio in tal caso cedere alla Commissione una parte della propria sovranità nazionale affinché sia l'Ue ad avere la possibilità di emettere direttive direttamente applicate in materia di lavoro e di fisco.

Questo è ora il bivio di fronte al quale il nostro governo si trova.

Finora non sembra sia pienamente consapevole della drammaticità della situazione e delle proprie responsabilità. Renzi si sente politicamente forte nel Partito socialista europeo e per conseguenza anche di fronte all'altro partito, quello Popolare, che con i socialisti fa maggioranza nel Parlamento dell'Unione. Pensa - o almeno così dice di pensare - d'essere in grado di fare la voce grossa a Bruxelles e di ottenere così, almeno in parte, quella flessibilità che gli consenta di alleviare il ristagno della nostra economia.

Le riforme le farà ma ci vuole tempo. Il bivio configurato da Draghi è vero solo in parte e non si può bloccare la forza politica di Renzi. La nomina della Mogherini, secondo lui, ne è stata la prova.

A me, osservando i movimenti del nostro presidente del Consiglio, viene in mente quella vecchia canzone americana nota e canticchiata in tutto il mondo occidentale: "Noi siamo bravi ragazzi e nessuno ci può fermar". E l'altra: "Quando i santi marciano tutti insieme a me piacerebbe marciare con loro".

Ma bisogna essere bravi ragazzi o santi. Francamente non mi pare che siamo né l'una né l'altra cosa e basta guardarsi intorno per capirlo fin dalla prima occhiata.

* * *
Dunque siamo arrivati a Matteo Renzi, al suo governo, alla montagna di problemi che si sono accumulati sulle sue spalle. Debbo dire che li porta molto bene, non perde l'allegria, le battute, la mossa.

La mossa per lui è importante, gli viene spontaneamente e riesce quasi sempre a bucare il video delle tivù e le prime pagine dei giornali. Pensate: sono tre giorni che i media hanno tra gli argomenti principali la decisione di Renzi di non andare al "salotto buono" di Ambrosetti a Cernobbio. Ci saranno cinque dei suoi ministri, due o tre premi Nobel, i principali industriali italiani e la stampa di mezzo mondo ma lui ha deciso che andrà a Brescia per festeggiare la ripresa d'attività d'una azienda che aveva avuto alcuni incidenti di percorso. Tre giorni e ancora se ne parla. Mi sembra incredibile.

Mi piace citare un passo scritto da Giuliano Ferrara sul Foglio di venerdì: "Non vorrei che tutti gli elogi alle grandi doti di comunicatore, per Renzi oggi come per Berlusconi ieri, alludano all'artista compiaciuto di sé che prende il posto dello statista. Finché non faremo un discorso alla nazione, sorridente quanto si voglia, ma pieno di verità, non ce la caveremo. Renzi ha già metà del piede nella tagliola che in Italia non tarda mai a scattare".

Così Ferrara. Personalmente mi auguro che la tagliola non scatti perché allo stato dei fatti non abbiamo alternative. L'ho scritto più volte. Criticavo Renzi per parecchi errori compiuti ma al tempo stesso dicevo: votate per lui, che altro si può fare? Erano in vista le elezioni europee del 25 maggio dove infatti prese il 40,8 per cento dei voti. Non certo per merito mio, ma ne fui contento sperando che cambiasse. Invece è peggiorato. È un artista della comunicazione come scrive Ferrara, io lo definirei un seduttore come Berlusconi, ma tutti e due si credono statisti e questo è il guaio grosso del paese.

L'ultimo mutamento renziano è stato quello dell'annunciazione (meglio che chiamarla "annuncite", come dice lui) del programma dei mille giorni che durerà fino alla fine della legislatura.

Vi ricordate la fase dell'annunciazione? Un giorno diceva: nel prossimo giugno faremo la riforma del lavoro e in un mese la porteremo a termine; io ci metto la faccia, se non si fa me ne vado.

Il giorno dopo annunciava per il mese di luglio la semplificazione della pubblica amministrazione con le stesse parole e metteva sempre la faccia in gioco. Il giorno successivo annunciava per settembre la riforma della scuola. Idem come sopra.

La sola volta in cui riuscì fu la prima approvazione della riforma costituzionale del Senato: la voleva per l'8 agosto e l'ottenne. Quella era a mio avviso una sciagura e si vedrà nei prossimi mesi se e come finirà, ma la ottenne anche perché ci furono i voti di Berlusconi. Due seduttori uniti insieme possono fare uno statista ma di solito di pessima qualità.

* * *
Dunque dall'annunciazione ai mille giorni, perché si è capito che in un mese una riforma che mira a cambiare una parte dello Stato non è neppure pensabile. La faccia non ce l'ha messa. È una fortuna perché oggi ci troveremmo senza un governo, senza un programma, schiacciati dalla recessione e della deflazione proprio nel momento in cui spetta all'Italia ancora per tre mesi la presidenza semestrale dell'Unione europea.

È una fortuna, ma anche una sciagura perché il nostro Renzi, che snobba Cernobbio (e chi se ne frega), adesso interferisce anche con Draghi.
All'esortazione di fare subito almeno la riforma del lavoro per trattare con la Commissione (e con la Merkel) una dose accettabile di flessibilità, ha risposto: "Subito? Ma che dice Draghi? Ci vuole il tempo che ci vuole per una riforma di quell'importanza". Ma lui non ci aveva messo la faccia per farla in un mese?

Io so in che modo la si può far subito: con i voti di Berlusconi il quale altro non vuole che stare nella maggioranza non solo per le leggi costituzionali ma anche per quelle economiche. Per tutte. E non pretende nemmeno che Renzi glielo chieda. Anzi, Renzi dirà che non chiede niente a nessuno, è un bravo ragazzo e nessuno lo fermerà.

Ma Berlusconi si sente un santo, anzi un padre della Patria che vuole marciare con tutti gli altri fino al 2018. Così poi lo vedremo inserito nell'album della storia d'Italia accanto ai volti di Mazzini, Garibaldi e Cavour.

Uno schifo, ma temo assai che finisca così.

* * *
Ci sarebbero tante altre cose da trattare, sulle coperture finanziare che non ci sono, sul taglio lineare di tutti i ministeri, sul blocco per il quinto anno agli stipendi degli statali e sul taglio a quelli delle Forze dell'ordine. Ma tralascio. Una notizia però viene dalla Calabria, anzi due. È una delle regioni più povere d'Italia ed anche purtroppo delle più corrotte.

Non a caso la 'ndrangheta è la mafia più forte d'Europa ed ha ormai i suoi centri più attivi a Milano, Torino, Lione, Amburgo, Bogotà.

La prima notizia arriva dal sindaco di Locri che l'ha resa pubblica, l'ha affissa sui muri della città e l'ha comunicata al presidente della Repubblica e anche a papa Francesco: il Comune ha 125 dipendenti e da tre anni quelli in servizio (non sempre gli stessi) sono 25; gli altri cento stanno a casa o in ospedale perché ammalati o perché l'autobus non funzionava o perché la moglie li ha abbandonati o per altre ragioni più o meno comprensibili.

Il sindaco li ha ammoniti, puniti, ne ha proposto il licenziamento ma il consiglio comunale, la segreteria, i partiti, le famiglie, lo hanno di fatto impedito. I 125 ci sono sempre, i 25 al lavoro anche, i cento assenti pure. Il sindaco si chiama Calabrese ed ama la sua terra. Forse papa Francesco farà un miracolo. Speriamo bene.

La seconda notizia riguarda una sentenza del Tar di Catanzaro ottenuta dall'avvocato Gianluigi Pellegrino che a suo tempo ne aveva ottenuta una analoga sul consiglio comunale di Roma presieduto dalla Polverini.

Nel caso di Catanzaro si trattava della Regione, presieduta da Scopelliti. Indagato per malversazioni varie, Scopelliti fu condannato in primo grado e sei mesi dopo la condanna si dimise dalla Regione. Per automatismo anche il consiglio regionale si sciolse ma prima approvò un atto in extremis: tolse al prefetto il potere di indire le elezioni e lo affidò al vicepresidente del consiglio regionale nonostante anche lui fosse dimissionario.

Nel frattempo il Consiglio dimissionario continuò a riunirsi regolarmente, votare progetti, assunzioni, appalti, incarichi, senza che né la destra (che governava il Comune) né i consiglieri Pd si astenessero da comportamenti indebiti.

A quel punto un comitato di cittadini da tempo esistente, che ha per fine quello di combattere i soprusi e gli illeciti della Pubblica amministrazione, incaricò Pellegrino di citare dinanzi al Tar quanto accadeva a Catanzaro. Contemporaneamente il suddetto comitato e il suddetto avvocato informarono di quanto avveniva la presidenza del Consiglio chiedendone l'intervento. La lettera e l'intera pratica furono passate al capo del Dipartimento uffici giudiziari di Palazzo Chigi, diretto da certa Antonella Manzione, già capo dei vigili urbani di Firenze quando il sindaco era Renzi.

Come un capo dei vigili possa assumere la guida dell'ufficio legislativo della presidenza del Consiglio è un fatto misterioso. Forse si sperava in un mistero gaudioso ma non sembra che sia così. Infatti di fronte al ricorso contro il consiglio regionale di Catanzaro la Manzione non ha trovato di meglio che rivolgersi al ministero dell'Interno per suggerimenti sul da fare e la pratica è ancora ferma lì.

Per fortuna il Tar ha provveduto: le elezioni sono state indette per il 10 ottobre e il commissario ad acta è di nuovo il prefetto.

Malgrado la 'ndrangheta, anche alcuni calabresi sono bravi ragazzi e testardi per natura. Sicché "nessuno li può fermar". Meno male.
© Riproduzione riservata 07 settembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/09/07/news/noi_siamo_bravi_ragazzi_e_nessuno_ci_pu_fermar-95171756/?ref=HREA-1
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« Risposta #519 inserito:: Settembre 14, 2014, 06:22:33 pm »

Scalfari: "Il desiderio è tutto, ma l'Italia ha smesso di sognare"

I nuovi desideri. L'immaginario e le derive del Paese secondo il fondatore di Repubblica. "L'uomo contemporaneo è schiacciato sul presente.
E rifiuta di conoscere il passato. Esiste una società responsabile che ha a cuore il bene pubblico. E poi ci sono mafie e lobby.
De Gasperi fu lo statista che più di tutti capì le aspirazioni di una comunità che cambiava"

di SIMONETTA FIORI
11 settembre 2014
   
VIVERE è essere un altro, scrive Pessoa nel Libro dell'Inquietudine. Bisogna evitare la monotonia, perché sentire oggi come si è sentito ieri non è sentire ma ricordare. Pessoa e la sua sinfonia di "doppi" ci conducono nello studio-mansarda di Eugenio Scalfari, che al desiderio ha dedicato gran parte dei suoi bellissimi libri. "Si muore desiderando", dice Scalfari. "Quando si esaurisce il desiderio, che può essere quello di sopravvivere o di morire dolcemente, si chiudono le palpebre".

Il desiderio è la vita, in sostanza?
"E' il termometro che misura la vitalità. Per la gran parte del tempo Oblomov vive ma non è vitale, perché non ha desideri. Solo dopo che gli entra in circolo una pulsione più forte riesce a battere la sua inerzia"
 
Tu lo fai discendere da Eros.
"Sì, Eros è il Signore dei desideri. La tarda mitologia lo battezzò dio dell'amore, riducendolo a paggetto della madre Afrodite, il cupido che con la freccia colpisce il cuore. Ma per una più antica mitologia che risale a Esiodo è una divinità primigenia che domina gli dei e gli uomini, suscitando il desiderio e l'entusiasmo del desiderio. Desiderio d'amore e di potere, desiderio di forza o di ricchezza. Desiderio di sopravvivenza. È Eros che ci dà il senso di cui abbiamo disperato bisogno".

Ti posso fare una domanda molto personale? Tu hai indagato la tua vita psichica in molte pagine dei tuoi libri. Ma hai mai pensato di farti aiutare da uno psicoanalista?
"Sì, l'incontro avvenne tardi, verso i quarant'anni. Prima ero persuaso che l'analisi fosse una cosa assurda. Ne ridevo con Simonetta, la mia prima moglie: "ma quelli sono matti, vanno lì a raccontare i loro sogni". Poi però ho conosciuto il senso di colpa. Amavo profondamente e in modi diversi due donne che erano molto diverse. Al principio credevo di non fare del male a nessuno, poi però cominciai a tormentarmi, pensando anche alle mie figlie. Allora nacque il complesso di colpa. E cominciò quel viaggio dentro di me che credo ciascuno di noi debba fare. Anche di questo, del senso di colpa e del viaggio interiore che ne è scaturito, sono debitore a Serena, la mia attuale moglie".

Ma ne parlasti con uno specialista?
"Ebbi un solo colloquio con un'analista che mi diagnosticò una nevrosi. Tutti abbiamo delle nevrosi, mi disse. Uno squilibrio costante, che può oscillare di intensità ma la sua natura rimane la stessa. La mia nevrosi era di tipo paternale. Le avevo raccontato che, quando arrivavo all'Espresso, mi accorgevo subito dei musi lunghi. E io non volevo musi intorno a me. Così chiamavo le persone nella mia stanza e risolvevo i conflitti. Siate allegri, dicevo, perché senza allegria io non riesco a lavorare".

E la psicoanalista come ti curò?
"Decise di non curarmi. Se io la curo, mi spiegò, smonto uno degli assi portanti intorno a cui lei ha costruito un giornale che è indispensabile per l'opinione pubblica italiana. Quindi io preferisco lasciarla con la sua nevrosi".

Le dobbiamo essere riconoscenti.
"Altri mi dicono: un'incapace. Io naturalmente non aspettavo altro e le dissi che avrei fatto da me. Lei mi mise in guardia: va bene, ma come tutti lei tenderà a giustificare. Vede lo squilibrio e dunque il danno che può derivarne, però tenderà a giustificarli. L'autocoscienza è giustificativa, Narciso messo a posto. Per me fu un incontro utilissimo, da allora l'autoanalisi continuo a farla ogni giorno. So che ho un Narciso molto forte, ma almeno io lo so, a differenza di molti altri che ce l'hanno più grande di me, ma negano di averlo".

Desiderio d'amore e desiderio di potere, hai detto prima. Per te il secondo ha rappresentato la volontà di incidere sulla vita pubblica del paese favorendone la crescita civile. È un desiderio appagato?
"Per alcuni aspetti, sì. Esiste una società responsabile, che ha a cuore il bene pubblico. Ed esiste una società irresponsabile che insegue il bene proprio e della propria famiglia: è il paese delle mafie, anche quello delle lobby e delle clientele. Mi sento appagato per il fatto che quel tipo di società che definisco responsabile è stata orientata dai giornali che ho contribuito a fondare, si è riconosciuta nella nostra voce e noi ci siamo riconosciuti in lei. Perché tra i giornali e il loro pubblico c'è un'appartenenza reciproca: loro appartengono a te, ma tu appartieni a loro. Quest'Italia responsabile, con il primo governo Prodi, è divenuta anche maggioritaria: il giorno della vittoria elettorale Prodi mi ringraziò per il sostegno ricevuto, ma io ringraziai lui perché era stato il primo a vincere. Poi tutto questo s'è sfasciato. Oggi mi dicono che sono troppo antirenziano, ma quello che vedo non mi piace per niente".

Tu hai uno sguardo che copre svariati decenni: come sono cambiati i desideri degli italiani?
"Mah, il loro motto potrebbe essere quello del Razzi interpretato da Crozza: "fatti li cazzi tuoi". Non è il desiderio solo degli italiani, ma gli italiani più degli altri considerano lo Stato un ingombro. Perché Berlusconi ha avuto successo? Perché ha detto: di politica mi occupo io, e voi fate quello che vi pare. Con un'unica eccezione: "i principi non negoziabili" della Chiesa. In una congiuntura favorevole, Berlusconi è stato il leader che ha interpretato meglio il desiderio degli italiani".

E lo statista che ha saputo tenere alte le stelle del desiderio?
"Lasciamo stare le stelle, anche se Alcide De Gasperi da cattolico conosceva bene il cielo stellato. Stranamente nessuno oggi ricorda più ciò che scrisse a proposito del Senato della Repubblica: affiancato con pari poteri alla Camera, rappresentava il meglio per la democrazia. Neppure il presidente Napolitano l'ha ricordato, in occasione del recente dibattito. Perché non citiamo mai De Gasperi? Seppe rappresentare un paese sconfitto con grandissima dignità. Ed ebbe un ruolo nella costruzione dell'Europa. Al quinto anno di governo fu fatto fuori".

Fu il dopoguerra un momento in cui gli italiani seppero desiderare in grande?
"Gli italiani facevano la ricostruzione, delle proprie cose ma anche delle cose nazionali. Oggi l'Istat paragona la nostra attuale deflazione a quella del 1959, ma non dice una cosa importante: che allora l'Italia era prossima al miracolo economico. Poco dopo sarebbe esploso il boom, più tardi vanificato da una classe politica che accresce il debito pubblico e da una classe imprenditoriale che prende i profitti ma senza reinvestirli, trasformando pian piano l'industria in finanza e costruendosi i patrimoni all'estero. Prima però c'era stato il miracolo italiano, che porta il nome di Guido Carli. Sono anni che ho vissuto: posso dire che erano molto diversi dagli attuali".

Oggi trionfa "l'uomo senza desiderio", come l'ha definito Massimo Recalcati, ossia schiacciato sul consumo compulsivo e privo di futuro.
"Sì, ne parlai con Recalcati, che mi disse che aveva preso questa idea dai miei libri e io ne fui felice. L'uomo contemporaneo è schiacciato sul presente. E rifiuta di conoscere il passato. Da tremila anni ogni generazione modifica o cerca di modificare le idee portanti e i valori della generazione precedente. Li modifica, ma li conosce: solo così è in grado di programmare il futuro. Poi ci sono momenti rivoluzionari in cui i valori vengono cambiati radicalmente, non solo aggiornati, ma sempre nella conoscenza degli ideali precedenti. Non era mai accaduto che le generazioni non volessero sapere niente dei padri".

Una domanda più personale. Come si coltiva il desiderio quando i margini temporali davanti a sé si restringono?
"Posso risponderti con i miei desideri. Mi piacerebbe scrivere un romanzo che ha come protagonista il mio doppio. Ho in mente il Libro dell'Inquietudine, dove ogni doppio di Pessoa si riproduce in un altro doppio".

Vivere è essere un altro, scrive Pessoa.
"Io sono affascinato da questo gioco della duplicità ma anche triplicità e quadruplicità del se stesso. E qualcosa di simile c'è nei Quaderni di Malte Laurids Brigge. Penso al Malte bambino che mentre è a tavola con il padre assiste all'improvvisa comparsa di una figura enigmatica che sbuca dall'oscurità. E penso alla morte spettacolosa del nonno ciambellano, così rumorosa che la si udì fin dalla fattoria. Voleva essere portato incessantemente da una stanza all'altra, con tutto il corteo di domestici, cameriere e cani ululanti. Pretendeva e urlava, scrive Rilke, svegliando tutto il villaggio. Una morte principesca e terribile".

L'idea del doppio contiene in sé una sfida: il superamento del limite, che è poi quello che hai praticato nella tua vita che ne contempla diverse: il fondatore di giornali, il protagonista politico, il pensatore, il romanziere. Desiderare è sfidare?
"Non è un caso che la parola sfida compaia nel titolo di uno degli ultimi libri: L'amore, la sfida, il destino. Ma la doppiezza ora voglio raccontarla in un romanzo. L'altra cosa che mi piacerebbe è trovare una modalità poetica. Alla fine però non riesco a concludere niente: sono troppo pieno di cose da fare"

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/09/11/news/l_italia_ha_smesso_di_sognare-95480909/?ref=HRER2-2
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« Risposta #520 inserito:: Settembre 14, 2014, 06:34:34 pm »

In casa Cupiello il presepio di Renzi piace a pochi

Di EUGENIO SCALFARI
14 settembre 2014
   
L'incontro informale dei ministri finanziari di tutti i Paesi europei, voluto da Renzi a Milano e concordato di comune accordo, per l'Italia si è aperto in un modo e si è chiuso in un altro. Questa è la vera novità che va registrata e che ha profondamente modificato la situazione in cui ci troviamo. Renzi direbbe che è cambiato il verso, ma questa volta non lo dirà perché il verso che è venuto fuori è esattamente l'opposto di quello che il nostro presidente del Consiglio aveva vagheggiato e disegnato nella sua mente da parecchi mesi come obiettivo di primaria importanza e d'un esito già raggiunto attraverso una serie di colloqui preliminari da lui svolti tra Bruxelles, Parigi, Berlino, Roma.

È insomma accaduto l'opposto e la sostanza è stata cambiata da vari episodi, battute, sortite su Twitter e conferenze stampa più o meno ufficiose con varianti riportate dal circuito dei media televisivi e giornalistici.

La situazione è ormai chiara e si può riassumere così: l'Italia dovrà avviare alcune riforme che l'Europa ritiene indispensabili.

Il testo e il calendario delle predette riforme, che regolano il lavoro, la competitività e la produttività, la semplificazione delle procedure sia della pubblica amministrazione ministeriale sia della giustizia civile sia la formazione e la scuola, dovrà esser sottoposto alla Commissione di Bruxelles dal prossimo mese d'ottobre e da quel momento sottoposto ad un monitoraggio che culmini in giugno e si chiuda nell'autunno del 2015.

Se l'Italia avrà adempiuto ai suoi impegni, la Commissione concederà una notevole flessibilità finanziaria, ma non prima di allora, salvo qualche briciola per alleviare la tensione sociale.

Nel frattempo però si dispiegherà in pieno la politica di liquidità della Banca centrale, con l'obiettivo di combattere la deflazione, portare il tasso d'inflazione verso l'1,5 per cento, il tasso di interesse delle banche a un livello compatibile e più basso di quello attuale, il tasso di cambio dell'euro nei confronti del dollaro verso l'1,20 per cento in modo da favorire le esportazioni.

Naturalmente anche la Bce monitorerà attraverso le banche il rispetto degli impegni e l'approvazione delle riforme concordate con la Commissione.

Non è una cessione di sovranità ma qualche cosa che le somiglia poiché sia la Commissione sia la Banca centrale sono affiancate nel monitoraggio e ciascuna ne trarrà le conclusioni e le conseguenze.

Come si vede, tutto ciò è esattamente l'opposto di quello che Renzi aveva immaginato. Non ci sarà la flessibilità se non dopo le riforme ritenute necessarie e solo in questo modo si potranno combattere i tempi bui che stiamo attraversando. Le implicazioni sulle parti sociali saranno numerose e preoccupanti. Il look è cambiato come vuole l'Europa e non come Renzi sperava.

Le ragioni sono evidenti e le aveva anticipate il governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, in un suo intervento del 25 marzo scorso. Ne riporto qui la frase iniziale che in poche righe chiarisce la sostanza dei tempi bui che stiamo attraversando: "La strada dell'integrazione europea è lunga e difficile, non è un percorso lineare, si procede spesso a piccoli passi ma a volte con strappi vigorosi. L'introduzione dell'euro è stato uno dei questi strappi e ci ha fatto compiere un passo deciso, ma non ha certo portato il cammino a compimento. L'euro è una moneta senza Stato: di questa mancanza risente. Le divergenze e le diffidenze che ancora caratterizzano i rapporti tra i Paesi membri indeboliscono l'Unione economica e monetaria agli occhi della comunità internazionale e a quelli dei suoi stessi cittadini. Questa incompletezza, insieme con la debolezza di alcuni Paesi membri, ha alimentato la crisi dei debiti sovrani dell'area dell'euro. Per l'Italia la soluzione di riforme strutturali che consentano un recupero di competitività è un passaggio essenziale per il rilancio del Paese. Gli interventi da attuare sono stati da tempo individuati e vanno effettuati al più presto".

Ho già ricordato che queste parole sono state dette da Visco il 25 marzo scorso. A volte chi tiene le manopole della politica non ricorda o neppure conosce il contesto in cui opera. Molti dei nostri guai derivano da questa ignoranza che determina scelte del tutto diverse da quelle che sarebbero necessarie.

* * *

Nella famosa commedia napoletana "Natale in casa Cupiello" Eduardo lancia la frase ormai diventata famosa: "'O presepe nun me piace", e la fa dire con cattiveria.

A quell'epoca dalle case di Firenze in giù l'albero di Natale era del tutto sconosciuto. I regali si facevano nel giorno dell'Epifania e il Natale era soltanto una festa religiosa. Il presepio era il solo gioco ammesso e noi bambini passavamo i giorni a prepararlo. Piaceva a tutti, piccoli e grandi. Ma a casa Cupiello no, a Eduardo no.

Perché?
Perché la concordia nella famiglia, ostentata dinanzi al presepio, era fasulla, covava conflitti, interessi contrastanti, bugie, torti fatti o subiti, prevaricazioni.

Oggi il presepio è tornato di moda nella politica, ma a molti non piace. Il 25 maggio numerosi italiani hanno votato Renzi nelle elezioni europee, dandogli un'altissima percentuale di consensi e molta forza all'interno e all'estero. Ma sono passati appena quattro mesi e la fiducia nel giovane leader si è alquanto erosa: il 70 per cento degli elettori teme che il Paese non ce la faccia a superare la crisi, il 90 per cento si attende molti e sempre meno sopportabili sacrifici. Infine la fiducia nel leader è scesa per la prima volta passando dal 74 al 60 per cento. È ancora molto alta ma il verso, come direbbe lui, è cambiato e non è da escludere che nelle prossime settimane scenda ancora di più.

Le ragioni ci sono. La pressione fiscale rilevata dalla Banca d'Italia, tra il 2013 e il 2014 è aumentata dal 43,8 al 44,1 per cento. Per erogare a 10 milioni di cittadini un bonus di 80 euro al mese le tasse sono aumentate per 41 milioni di contribuenti. Il governo ha fatto molti annunci e molte promesse ma ha realizzato assai poco. Secondo il capogruppo dei senatori di Forza Italia, Renato Brunetta, il tasso di realizzazione delle promesse di Renzi oscilla tra il 10 e il 20 per cento.

Analoghe conclusioni le ha fatte il vicepresidente della Commissione di Bruxelles, Jyrki Katainen e abbiamo visto che d'ora in poi le riforme saranno monitorate dalla Commissione e dalla Bce. L'obiettivo è agganciare la flessibilità necessaria a rilanciare la crescita, la competitività e l'equità sociale, ma nel frattempo i sacrifici non diminuiranno e qualcuno anzi aumenterà almeno fino alla metà del 2015. Tra questi c'è perfino l'ipotesi di abolire l'articolo 18 dello statuto dei lavoratori, cioè il divieto di licenziamento senza giusta causa. Il concetto di giusta causa verrebbe anch'esso abolito per legge conservando soltanto come ragione ostativa (naturalmente da documentare) la discriminazione.

Non sarà un'impresa facile anche se molti la ritengono necessaria per aumentare la competitività. Sergio Cofferati, all'epoca segretario generale Cgil, radunò al Circo Massimo e in tutte le strade adiacenti oltre due milioni di lavoratori provenienti da tutta Italia e bloccò la riforma che anche allora sembrava necessaria agli imprenditori. Probabilmente oggi uno scontro del genere sarebbe molto agitato mentre allora fu pacifico quanto fermissimo nel procedere ad oltranza se la riforma non fosse stata impedita. Ci sono altri modi di procedere per adeguare gli impegni suggeriti (ma a questo punto direi imposti) dall'Europa e dalla Bce? Ci sono. Riguardano anche i lavoratori dipendenti ma non soltanto e non soprattutto. Riguardano in prima linea il capitale e i suoi possessori, riguardano la finanziarizzazione delle aziende, riguardano nuovi progetti, nuovi prodotti, nuove tecnologie e nuovi investimenti. Riguardano la diminuzione delle diseguaglianze e lo sviluppo del volontariato produttivo oltre che quello assistenziale. Riguardano nuove energie, e la lotta all'evasione senza sconti.

* * *

Ma che cos'è oggi il Pd? Questa è la domanda di fondo che bisogna porsi nel momento in cui la ribellione dell'Europa mediterranea è rientrata di fronte all'accordo della Germania con la Spagna, all'enigma scozzese che, se vincessero i "sì" alla separazione, metterebbe a rischio l'adesione alla Gran Bretagna all'Ue e riguardano la crisi francese che allontana, anziché avvicinarla, la Francia dall'Italia.
Che cos'è il Pd? Anzitutto è un partito post-ideologico.

Abbiamo già affrontato altre volte il tema dell'ideologia.
Dai tempi dell'Urss e del comunismo staliniano per i liberali l'ideologia era una peste da cui liberarsi.

Perfino Albert Camus, che fu certamente un uomo di sinistra, detestava appunto come la peste l'ideologia.

Personalmente credo che l'ideologia sia una forma di pensiero astratto che esprime un sistema di valori e dunque penso che l'ideologia non sia eliminabile a meno che non si elimini il pensiero. Un sistema di valori è un'ideologia, le Idee platoniche sono la teoria ideologica della perfezione; le creature effettivamente esistenti sono imperfette perché relative e l'ideologia platonica è per esse un punto di riferimento. Abolite il punto di riferimento ed avrete un'esistenza day-by-day, la vita inchiodata al presente senza né passato né futuro.

Se torniamo ad un partito politico, la mancanza di ideologia ha lo stesso effetto: lo inchioda sul presente.
Nella Dc, Alcide De Gasperi era un politico con l'ideologia cattolico-liberale; Fanfani aveva un'ideologia cattolico-sociale; Moro un'ideologia cattolico-democratica. Andreotti non era ideologo, come ai suoi tempi Talleyrand. Voleva il potere subito e oggi. Con la destra, con i socialisti, con il Pci, con la famiglia Bontade, contro la famiglia Bontade.

Senza passato e senza futuro.
Ai tempi nostri Berlusconi è stato la stessa cosa. Scrive Giuliano Ferrara sul "Foglio" di giovedì scorso che al cavaliere di Arcore sarebbe piaciuto di governare la destra moderata guidando un suo partito di sinistra. Questo sarebbe stato il suo capolavoro. Del resto la sua azienda lavorava per Forlani e per Craxi: da sinistra per la destra. Non sarebbe stato un capolavoro? Per un pelo non ci riuscì e fu tangentopoli ad aprirgli le porte del potere. E Renzi? Nell'articolo intitolato (non a caso) "L'erede", Ferrara scrive: "Renzi sta costruendo una sinistra post-ideologica in una versione mai sperimentata in Italia e volete che un vecchio e intemerato berlusconiano come me non si innamori del boy-scout della provvidenza e non trovi mesta l'aura che circonda il nuovo caro leader?".

Mi pare molto significativo quest'entusiasmo di un berlusconiano intemerato al caro boy-scout post-ideologico della provvidenza. Ma il Pd? Come reagisce la sua classe dirigente e soprattutto i parlamentari? I parlamentari, salvo qualche eccezione, sono molto giovani e per ora stanno a guardare. Gli interessa soprattutto andare fino in fondo alla legislatura. Ma la classe dirigente renziana ha una univoca provenienza: viene dalla costola rutelliana della Margherita. La documentazione è fornita con molta completezza (sempre sul "Foglio" dello stesso giorno) da Claudio Cerasa.

Non c'è un solo nome renzista che provenga dal Pci-Pds-Ds. Nessuno. Margherita rutelliana. Se non è Andreotti, poco ci manca.

© Riproduzione riservata 14 settembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/09/14/news/in_casa_cupiello_il_presepio_di_renzi_piace_a_pochi_di_eugenio_scalfari-95704158/?ref=HRER2-1
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« Risposta #521 inserito:: Settembre 21, 2014, 05:52:12 pm »

Draghi, i governi e i passi falsi

di EUGENIO SCALFARI
20 settembre 2014
   
SUI giornali di tutta Europa ieri mattina campeggiava nelle prime pagine l'asta della Bce che sperava di collocare almeno 100 se non addirittura 150 miliardi di prestiti alle banche, ma ne aveva erogati soltanto 83. La richiesta di liquidità del sistema bancario per quattro anni di durata e a bassissimo tasso di interesse (lo 0,15 per cento) era stata circa metà del previsto. Draghi aveva dunque sbagliato diagnosi e ricetta per sconfiggere la deflazione?

La risposta a questa domanda nella maggior parte dei media era prudente nella forma ma critica nella sostanza: sì, Draghi aveva sbagliato. Ma qual era stato l'errore? Risposta: sopravvalutare il bisogno di liquidità in un'economia senza crescita.

Ridotto all'osso: non è la Bce e quindi non è Draghi che può salvare l'Europa e la sua moneta. I fattori sono altri e riguardano l'economia reale, non quella monetaria. I vessilliferi di questa tesi sono da sempre alcuni grandi giornali americani ed europei e in particolare il Financial Times, il Frankfurter Allgemeine, il Wall Street Journal e cioè, per dirlo con chiarezza, la business community della Germania, la City di Londra e Wall Street; banche d'affari, fondi d'investimento speculativi, interessi che vedono l'euro come il fumo negli occhi.

I siti internet ieri avevano invece già cambiato tema e le Borse, che giovedì erano state piuttosto pesanti, ieri erano in eccezionale euforia: la secessione scozzese era stata battuta al referendum, il Regno Unito restava tale, la sterlina saliva ad un tasso di cambio nettamente più forte del dollaro e dell'euro, le critiche a Draghi confinate nelle sezioni economiche.

Non c'è di che stupirsi, il circuito mediatico segue l'attualità. Del resto il referendum scozzese aveva sconfitto la tesi della secessione e la sorte dell'Europa era cambiata. Se il risultato fosse stato l'opposto probabilmente l'Europa oggi sarebbe agitata da un'altra tempesta che si aggiungerebbe a quelle già esistenti.

Il tema della deflazione, della liquidità, del credito bancario, resta dunque, superato senza danni lo scoglio scozzese, un elemento dominante della situazione. L'Europa supererà la recessione che l'ha colpita e la deflazione che la sta soffocando?

* * *

La deflazione dipende da un crollo della domanda, la recessione dal crollo dell'offerta. L'Europa sta soffrendo di entrambi questi fenomeni ed è evidente che questa contemporaneità aggrava la crisi. Fino all'anno scorso si diceva che avevamo purtroppo raggiunto il livello di squilibrio del 1929; adesso si dice giustamente che l'abbiamo superato.

Per sconfiggere la deflazione occorre una liquidità che tonifichi il sistema bancario e il volume dei prestiti che esso è in grado di offrire alle imprese. Ma se le imprese non hanno nuovi beni e nuovi servizi da offrire, non chiederanno prestiti alle banche. Il reddito nazionale diminuirà e con esso l'occupazione, i prezzi delle merci e dei servizi e le attese di ulteriori ribassi.

La Banca centrale offre liquidità alle banche ed esorta le autorità europee e i singoli governi nazionali ad effettuare riforme che rendano le imprese più competitive e con maggiore produttività. Le esorta, ma non spetta a lei di manovrare il fisco e influire sull'economia reale.

Questo compito è assegnato alla Commissione europea. Sono la Commissione e il Parlamento a dover creare le condizioni di rilancio dell'offerta produttiva e quindi della crescita. Se questo non avviene il disagio sociale aumenta e altrettanto aumentano le diseguaglianze tra i ricchi, il ceto medio, i poveri.

Mi domando se la realtà di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi sia chiara ai governi confederati nell'Unione europea. A mio parere no, non è affatto chiara perché ciascuno di loro pensa a se stesso, al proprio egoismo nazionalistico, al proprio potere politico.

Trionfo della politica sull'economia? Questo slogan esprime una volontà di potenza localizzata e sballa un sistema debole e incompleto. La Germania pensa a se stessa e idem la Francia, l'Italia e tutti gli altri. Questo è lepenismo allo stato puro, leghismo a 24 carati ed è ciò che voleva il 45 per cento degli scozzesi. Sembra paradossale sottolineare che il nazionalismo imperante coincide con le varie leghe antieuropee. Sono tutti e due fenomeni negativi che differiscono sulla localizzazione ma hanno la medesima natura: la politica deve dominare l'economia.

Questo è il clima che alimenta i governi autoritari e le dittature che non si accorgono dell'insufficienza degli Stati nazionali o regionali di fronte ai continenti.

L'America del Nord è un continente, la Cina, l'Indonesia, la Russia dal Don a Vladivostok è un continente, l'America del sud è un continente. E noi ci battiamo per gli staterelli europei o addirittura per molte regioni inventate come la Padania? È la stessa cosa, lo stesso terrore, la stessa corta vista che ha la sua motivazione nella volontà di potenza dei singoli leader e nell'indifferenza di gran parte dei popoli ad essi politicamente soggetti.

Noi europei per uscire dalla crisi che ci attanaglia ormai da cinque anni dobbiamo riformare lo Stato con riforme mirate contro la recessione e la deflazione. La Banca centrale mette una massa monetaria a disposizione ma farà anche di più: sconterà titoli emessi dalle aziende, acquisterà titoli sovrani sul mercato secondario, punterà (e in parte c'è già riuscita) a svalutare il tasso di cambio euro/dollaro per favorire le esportazioni.

Ma nel frattempo i governi, seguendo la politica della Commissione di Bruxelles dovranno privilegiare le riforme economiche su tutte le altre. Il nostro presidente del Consiglio vuole fare insieme una quantità di riforme per portare al termine le quali ci vorrebbero almeno due legislature. Chi può credere a programmi di questo genere?

Forse ignorano le cifre che riflettono la realtà, oppure hanno deciso di non tenerne conto.

Faccio un esempio (ne ha già parlato il collega Fubini ma merita d'essere sottolineato). Si tratta della disoccupazione tra Italia e Spagna. Le cifre ufficiali dicono che in Italia è al 12 per cento e in Spagna al 24.

La Spagna è dunque al doppio di noi calcolato sul numero degli abitanti quale che ne sia l'età.

Ma la realtà non è questa. Se calcoliamo sulla popolazione attiva l'occupazione è in tutte e due i paesi del 36 per cento. Se calcoliamo sull'età dai 16 ai 64 anni gli occupati in Spagna sono il 74 per cento e in Italia il 63. Il governo conosce queste cifre? E se ne domanda il perché? La Spagna cresce più di noi. Come mai? Dov'è che stiamo sbagliando? L'ho già detto varie volte perciò non mi ripeterò. Dico soltanto che non è Draghi che sbaglia e neppure le autorità di Bruxelles cui la Spagna ha obbedito passo dopo passo. C'è anche un modo di fare i passi giusti e quelli sbagliati.

© Riproduzione riservata 20 settembre 2014

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« Risposta #522 inserito:: Settembre 21, 2014, 05:53:31 pm »

San Pietro era sposato ma seguì Gesù e lasciò a casa la moglie

di EUGENIO SCALFARI
21 settembre 2014
   
Parlando dei cristiani divorziati e risposati in un secondo matrimonio e del loro desiderio d'esser perdonati e riammessi al sacramento dell'Eucarestia, il cardinale Walter Kasper ha detto una frase che è stata fatta propria da papa Francesco. La frase è questa: "La Chiesa non può dar l'impressione d'essere un castello con il ponte levatoio tirato su, le porte serrate, postazioni e sentinelle dovunque".

L'immagine è molto efficace e papa Francesco l'ha fatta propria. Del resto si era già espresso sull'argomento ed era stato ancor più chiaro. "La Chiesa - aveva detto - deve guardare alla realtà concreta, chinarsi sui fatti del mondo con tenerezza e accoglienza. I dottori delle leggi, gli scribi, i farisei, parlavano bene e insegnavano la legge. Ma lontani. Mancava la compassione e cioè patire con il popolo. Il Signore non è mai stanco di perdonare, siamo noi che ci stanchiamo di chiedergli il perdono".

Infine, in innumerevoli occasioni Francesco ha ricordato che l'indicazione principale del Concilio Vaticano II è stata quella di aprirsi al dialogo col mondo moderno, entrare con esso in sintonia per poter risvegliare la vocazione del bene e l'amore verso il prossimo, fermo restando il libero arbitrio della scelta.

Queste posizioni il Papa le discute continuamente con i cardinali della Curia oltreché con gli altri dignitari dei Consigli vaticani, delle Congregazioni, dei Ministeri, delle università cattoliche. Poi dice il suo pensiero, la sua concezione e il suo sentimento e quello diventa tema di riflessione di tutta la Chiesa.

Da quando ho letto ciò che scrive e dice e soprattutto da quando ho potuto parlare direttamente con lui, mi sono convinto che la sua non è una riforma della Chiesa, ma una rivoluzione.

Il Papa ritiene che, se l'anima d'una persona si chiude in se stessa e cessa d'interessarsi agli altri, quell'anima non sprigiona più alcuna forza e muore. Muore prima che muoia il corpo, come anima cessa di esistere.

La dottrina tradizionale insegnava che l'anima è immortale. Se muore nel peccato lo sconterà dopo la morte del corpo. Ma per Francesco evidentemente non è così. Non c'è un inferno e neppure un purgatorio. Per le anime che non sono scomparse nel nulla c'è la beatitudine d'essere ammesse alla luce del Dio che le ha create. E quando la nostra specie cesserà di esistere, "la luce di Dio sarà tutta in tutti". Questa è la visione di Francesco. Non è certo il primo ad averla avuta, ma veniva soprattutto dai mistici e da alcune alte figure del monachesimo. È molto raro che sia venuta a un pontefice, il vescovo di Roma successore dell'apostolo Simone-Pietro. In realtà la visione che Francesco ha evoca le comunità cristiane dei primi secoli.



La Chiesa come lui la concepisce è il popolo di Dio e i vescovi successori degli apostoli. Può sembrare e anzi è un paradosso quello di costruire una Chiesa profondamente diversa da quella esistente recuperando il modo d'essere delle antiche comunità cristiane. Ma questa appunto è la sua rivoluzione.

Adesso il tema all'ordine del giorno è la famiglia. Sarà convocato un Sinodo straordinario il prossimo 5 ottobre e poi, nel luglio dell'anno prossimo, il Sinodo ordinario a Filadelfia. Al primo parteciperanno 190 tra cardinali, vescovi e personalità anche laiche invitate dal Papa; al secondo le presenze saranno di circa 300 persone, in gran parte inviate dalle Conferenze episcopali di tutto il mondo.

"La Chiesa cattolica e apostolica parla tutte le lingue del mondo" ha detto nei giorni scorsi Francesco. Letteralmente voleva dire che il Vangelo è diffuso ovunque e quello è il compito dei missionari, ma in realtà il significato di quella frase è molto più profondo secondo me: parlare tutte le lingue del mondo significa per Francesco conoscere il pensiero delle diverse civiltà, delle diverse culture e delle diverse persone che la Chiesa missionaria vuole incontrare; nella misura del possibile capirle, capire l'essenza delle loro anime. Questa è la sintonia col mondo moderno e questo è l'obiettivo cui Francesco ha dedicato il suo pontificato.

* * *
Alcuni giorni fa ho incontrato - ma ci vediamo spesso perché ci lega un'antica amicizia - Vincenzo Paglia, attualmente presidente del Consiglio vaticano della famiglia. I due Sinodi in preparazione avranno al centro questo tema ed è lui che li sta organizzando; il secondo in particolare, quello di Filadelfia che si concluderà con una dichiarazione discussa e votata dai vescovi e affidata all'attenzione del Papa (che naturalmente parteciperà ai Sinodi) affinché ne approvi la stesura e ne renda pubblico il testo. Il tema dei divorziati e del loro rapporto con la Chiesa e con i sacramenti sarà discusso perché è proprio su di esso che si è formata una vera e propria opposizione alle tesi sostenute dal cardinal Kasper e fatte proprie dal Papa.

Naturalmente alcuni dei cardinali che hanno manifestato dissenso, e cioè la non ammissibilità dei divorziati all'Eucarestia, sono stati invitati a partecipare al Sinodo. Francesco non evita la discussione, il confronto, la differenza delle posizioni, desidera che il confronto abbia luogo. Ma non sfugge agli osservatori che il tema dei divorziati è soltanto una parte del confronto tra Francesco e i curiali che resistono alla marginalizzazione della Chiesa istituzionale che il Papa sta attuando.

La Curia organizza i servizi, ma è il popolo dei fedeli e i vescovi con cura d'anime successori degli apostoli che costituiranno la Chiesa: questo è il cuore del contrasto, la cui sostanza riguarda il potere temporale che la Chiesa ha avuto dopo i primi secoli della sua esistenza. Questo è dunque il vero punto di scontro, del quale il dissenso sui divorziati è soltanto non dico un pretesto ma un aspetto assai particolare e poco rilevante.


Discutendone con don Paglia ho appreso una circostanza che ignoravo e che penso sia ignorata da gran parte delle persone: l'apostolo Pietro aveva moglie. In uno dei Vangeli sinottici si racconta che tra i vari miracoli fatti da Gesù ci fu anche la guarigione della suocera di Pietro che lui stesso aveva implorato al Maestro affinché si interessasse in favore di quella sua parente ammalata.

Pietro, che fu il primo vescovo di Roma su designazione di Gesù a quanto raccontano i Vangeli ("tu sei Pietro e su questa pietra tu costruirai la mia Chiesa"), era dunque ammogliato e molti dei dodici apostoli lo erano. Gesù infatti, come recitano gli evangelisti, dice a chi vuole seguirlo e agli apostoli in particolare che lo seguiranno sempre e dovunque dal momento in cui lo incontrano: "Chi vuol seguire me deve abbandonare per sempre la sua casa, il padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli". E lui è il primo ad averlo fatto dal momento stesso in cui ha inizio la sua predicazione dopo il battesimo nelle acque del Giordano.

Il clero dei primi secoli non prevedeva il celibato dei presbiteri, la Chiesa cattolica d'Oriente lo pratica tuttora e il problema si ripresenterà di nuovo, anzi si è già presentato perché i pastori anglicani, ortodossi, o delle varie Chiese protestanti, che sono sposati, se decidono di passare al cattolicesimo sono accolti dalla Chiesa con le loro famiglie. Se il problema non si pone per loro, verrà al pettine anche per i sacerdoti cattolici. Forse papa Francesco non avrà il tempo per affrontare anche questo tema, ma ormai esso fa parte integrante del rinnovamento della Chiesa e bisognerà risolverlo.

* * *

Nella disputa attuale apertasi sul rapporto tra i divorziati e i sacramenti, i canonisti affermano che fu proprio Gesù a stabilire che il matrimonio è indissolubile. Del resto i canonisti e i teologi riconosciuti dalla Chiesa citano una serie di affermazioni fatte da Gesù. Le citano letteralmente, direi virgolettate, traendole dai suoi discorsi, dalle sue parabole, dalle preghiere di cui sono loro a stabilirne il testo.

Ma in verità non esiste alcuna parola scritta da Gesù. Direttamente di Gesù non si sa assolutamente nulla. Si conoscono perché lo raccontano i Vangeli, soltanto quattro dei molti esistenti accettati e ufficializzati e diffusi dalla Chiesa. Ma non sfugge a nessuno che dei quattro evangelisti, tre non conobbero Gesù, non lo videro e non l'ascoltarono mai. Scrissero i loro testi tra i 50 e i 60 anni dopo la sua morte che avvenne - secondo gli Atti degli Apostoli - tre anni dopo l'inizio della predicazione quando il Signore aveva trentatré anni.

Il quarto evangelista, Giovanni, scrisse il suo Vangelo tra i 60 e i 70 anni dalla morte del Maestro. E poiché quando Gesù morì l'apostolo Giovanni non poteva certo avere meno di vent'anni, la scrittura del suo Vangelo sarebbe stata fatta da una persona più che ottantenne.

In realtà è molto dubbio che l'autore sia l'apostolo. Comunque gli altri tre raccontano la vita del Signore con fonti di seconda o di terza mano. I loro Vangeli non sono ovviamente fotocopia l'uno dell'altro e differiscono non solo nello stile ma anche in molti fatti e soprattutto nulla ci dicono sui trent'anni che Gesù trascorse nella casa natale con i suoi genitori e fratelli. Di quei trent'anni nulla sappiamo, né di seconda né di terza mano.
Ricordo questa situazione, che del resto è nota a tutti, perché affermare con certezza che Gesù disse, pensò, sentenziò, rispose, è del tutto arbitrario. Noi conosciamo quattro racconti di Marco, Matteo, Luca, Giovanni (della cui identità poco sappiamo), ciascuno con le sue fonti e la sua interpretazione.

Sappiamo anche un'altra cosa: Paolo di Tarso non era un apostolo di quelli che seguirono il Maestro e poi continuarono a diffondere la sua dottrina dopo la sua morte e la sua resurrezione. Paolo non conobbe mai Gesù, gli apparve la sua figura nella mente dopo la caduta da cavallo nell'incidente che gli capitò sulla via di Damasco e il trauma che ne ebbe.

Ma Paolo non solo si proclamò uno degli apostoli al pari degli altri, ma scavalcò gli altri con la sua facondia e la lucida acutezza dei suoi pensieri. In realtà, come tutta la patristica riconobbe e la Chiesa tuttora riconosce, fu lui il vero fondatore della nuova religione e non soltanto per le norme comportamentali e spirituali che si desumono dalle sue molteplici lettere alle varie comunità cristiane nel frattempo sorte, ma soprattutto per la pressione che esercitò sulla comunità di Gerusalemme guidata allora da Pietro e da Giacomo (fratello o cugino di Gesù) che era allora la più importante delle poche comunità esistenti.

Quando Paolo, dopo la caduta sulla via di Damasco, si proclamò apostolo e fu dagli altri accettato come tale, esisteva di fatto quella sola comunità. Essa era considerata da Pietro e da Giacomo come una comunità ebraico-cristiana. In sostanza, come una variante dell'ebraismo. Esistevano molte comunità ebraiche i cui principi differivano molto tra loro e rispetto al Sinedrio che amministrava il Tempio e applicava la legge.

La variante cristiana era dunque secondo Pietro e Giacomo una di quelle. Gesù del resto nacque ebreo e tale rimase, sia pure - a detta degli evangelisti - introducendo nella legge ebraica delle varianti a dir poco rivoluzionarie.

Paolo però voleva che la nuova religione uscisse da Gerusalemme e si diffondesse nel mondo, a cominciare dalla costiera mediterranea e naturalmente da Roma, capitale dell'Impero.

Roma, proprio perché Impero che regnava su molte genti, non era affatto intollerante con le religioni e gli dèi che i suoi sudditi adoravano. Purché tutte le genti dell'Impero riconoscessero gli dèi romani e li trattassero con rispetto. Per il resto adorassero pure i loro dèi, aprissero templi e celebrassero i rispettivi culti.

Infatti i cristiani non furono perseguitati né da Tiberio né dai suoi successori, salvo una persecuzione peraltro limitata che fu effettuata da Nerone perché la sua guardia palatina aveva individuato alcuni pretesi incendiari in un gruppo di cristiani. Le vere persecuzioni vennero dopo, quando i cristiani diffusero la loro religione con molta rapidità e in tutto l'Impero minando l'autorità dell'imperatore, ritenuto sacro dalla Roma tardo-imperiale.

Dunque fu Paolo a dare carattere ecumenico alla Chiesa. Papa Francesco usa oggi proprio il tema di "uscita". La Chiesa deve uscire da sé e andare nel mondo: questa è la Chiesa missionaria da lui vagheggiata. Se non esce, la Chiesa muore. Così predica Francesco ed uscire significa confrontarsi con il mondo, con le altre religioni, con le altre Chiese e con l'opinione secolarizzata, con gli atei e i miscredenti.

La Chiesa per Francesco è come l'anima: se non esce da sé, muore. Il dialogo che ho con lui e che ritengo prezioso per me avviene perché io non credo. Ma il racconto degli evangelisti mi affascina e in molte cose lo condivido.

In uno dei nostri recenti incontri mi domandò qual era la massima cristiana che più consideravo e io risposi: "Ama il prossimo tuo come te stesso". "Questo ci rende simili, ma io dico oggi che bisogna amare il prossimo un po' più di se stessi".

Così disse in quel nostro incontro di tre mesi fa. Pensavamo la stessa cosa e questo mi ha dato forza e conforto.
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« Risposta #523 inserito:: Settembre 28, 2014, 03:47:26 pm »

C'è solo acqua nella pentola che bolle sul fuoco

Di EUGENIO SCALFARI
28 settembre 2014
   
C'è una massima di Giordano Bruno, citata martedì scorso da Michele Ainis sul Corriere della Sera, che serve egregiamente come epigrafe a queste mie riflessioni domenicali. Dice così: "Non è cosa nova che non possa esser vecchia e non è cosa vecchia che non sii stata nova".

E c'è un'altra massima, in questo caso del nostro Presidente della Repubblica in un suo recente intervento, così formulato: "Non possiamo più esser prigionieri di conservatorismi, corporativismi e ingiustizie".

Infine mi si permetta di citare me stesso in una trasmissione televisiva guidata da Giovanni Floris e in un articolo precedente. Avevo scritto e detto che "Matteo Renzi ha da tempo messo a bollire una pentola d'acqua ma finora non ha mai buttato nulla da cuocere". Continuava a pensare che in quattro mesi avrebbe rifondato lo Stato non solo dando inizio alla riforma del Senato e alla legge elettorale ma cambiando anche la giustizia civile e penale, i rapporti tra Stato e Regioni, semplificato la Pubblica amministrazione, saldato tutti i debiti che essa ha presso imprese e Comuni. Visto che la tempistica dei quattro mesi (nella quale aveva più volte ripetuto di impegnare la propria faccia) non poteva funzionare, ha ripiegato sui mille giorni, aggiungendo a quel minestrone già annunciato il problema della crescita economica, la ripresa del lavoro specie quella dei giovani, la fine del precariato e la riforma radicale del sistema del welfare.

Intanto la pentola d'acqua (che è in sostanza il favore dell'opinione pubblica e dell'appoggio parlamentare) cominciava ad evaporare.

E comunque non avrebbe potuto cuocere tutto in una volta quell'immensità di problemi che si erano già presentati fin dai tempi di Aldo Moro quando lui e Berlinguer avevano realizzato un'alleanza tra i due partiti per risolvere i problemi di rifondazione dello Stato valutando che il tempo necessario sarebbe stato almeno di dieci anni.
Queste sono le epigrafi che illustrano l'attualità della quale è mio compito occuparmi.

* * *

Domani, lunedì, Matteo Renzi, nella sua duplice veste di segretario del partito e presidente del governo, spiegherà alla direzione del Pd quali sono i problemi (già sopra indicati) che costelleranno i mille giorni che rimangono fino al termine della legislatura. Poi si voterà e i parlamentari dovranno attenersi a quanto la maggioranza avrà deliberato.


In realtà questa norma non esiste in nessuno statuto di partito. I parlamentari dissenzienti hanno pieno diritto di presentare emendamenti alle leggi proposte dal governo e addirittura di votare contro. Non si tratta di obiezioni di coscienza ma di diritti politici i quali trovano la loro tutela nell'articolo della Costituzione che sancisce la libertà del mandato parlamentare. Questo possono fare i membri delle Camere, sia con voto palese sia con voto segreto.

La tecnica elettorale che meglio tutela quelle libertà è il collegio uninominale, con o senza ballottaggio al secondo turno. Ma questo sistema del ballottaggio, che è il più perfetto per costituire una maggioranza parlamentare rappresentativa al tempo stesso della governabilità e della rappresentanza del popolo sovrano, è stato confiscato da tempo dalle segreterie dei partiti col sistema delle liste ed anche con quello eventuale delle preferenze. In un Paese di lobby e di mafie le preferenze sono quanto di peggio si possa concepire.

Incoraggiano negoziati piuttosto loschi e il voto di scambio il quale se provato è addirittura un reato previsto dal codice penale. Quindi la legge ideale sarebbe il collegio uninominale con ballottaggio al secondo turno tra i due meglio arrivati, ma mi sembra che le maggioranze esistenti sia sulla carta e nella realtà non sono di questo avviso.

Il Capo dello Stato ha anche indicato nel discorso di saluto al nuovo Csm e al vecchio che se ne va censure verso le correnti che dividono la magistratura e che diminuiscono la sua credibilità specie quando si tratta di nominare magistrati a nuovi incarichi o trasferirli come punizione o sottoporli a procedimenti disciplinari. Tutte cose necessarie e giustissime purché ciascuno dei magistrati che partecipa a queste procedure si dimentichi della sua appartenenza ad una associazione il che purtroppo non sempre avviene.

Concludo questa parte del mio ragionamento con una visione molto scettica di quanto accadrà nei prossimi mesi. L'Italia otterrà la flessibilità di cui ha estremo bisogno soltanto se e quando avrà portato avanti alcune riforme economiche che aumentino la competitività e la produttività del sistema. Mescolare queste riforme con tutta la massa di problemi elencati da Renzi significa aver perso (o non avere mai avuto) il ben dell'intelletto.

Mario Draghi ha già dato e ci darà nei prossimi giorni (non solo all'Italia ma all'Europa) tutto l'appoggio monetario e la liquidità che riesce ancora a tenerci a galla. Il tasso di cambio è già sceso all'1,27 nei confronti del dollaro e di molte altre monete. Ne deriva un appoggio concreto all'esportazione e alla domanda. Purtroppo la domanda interna, nonostante il famoso e ultra-lodato provvedimento degli 80 euro mensili al ceto medio-basso non ha minimamente spostato in alto i consumi. Quelli al dettaglio, che costituiscono il grosso di questo "fondamentale" dell'economia, sono diminuiti tra il 2013 e il 2014 dell'1,50 per cento nell'ultimo dato fornito dall'Istat. Chi ci ha messo e continua a metterci la faccia dovrebbe averla persa da un pezzo.

* * *

Aspettiamo dunque i responsi della Commissione di Bruxelles e delle riunioni dei capi di governo per vedere come saranno giudicate le misure che nel frattempo avremo avviato (sempre se qualche cosa si avvierà). E aspettiamo la legge di stabilità che è il documento essenziale sul quale l'Europa giudica i Paesi membri e quindi se stessa.

L'interesse dell'Italia dovrebbe essere quello di rafforzare i poteri del Parlamento europeo, della Commissione e della Banca centrale per avviarsi sulla strada d'una Federazione.

Non mi pare che il nostro governo abbia questo in mente. Mi pare anzi che veda il centro del problema negli Stati nazionali i quali, qualora non cedano sovranità al sistema europeo e non rafforzino i poteri di rappresentanza del Parlamento, saranno sempre più degli staterelli, capaci forse di vendere i loro prodotti e trarne qualche profitto.
Si stanno affermando due fenomeni contrapposti ma allo stesso tempo analoghi: si accresce la spinta verso poteri globali e sorgono esigenze di spezzettare gli Stati nazionali. La voglia di referendum da un lato l'emergere di potenze continentali dall'altro, dovrebbero imprimere a Paesi come il nostro di scegliere il ruolo che fu indicato per primo da Ernesto Rossi e poi dal manifesto di Ventotene redatto dallo stesso Rossi, da Altiero Spinelli, da Colorni e da altri confinati o imprigionati dalla dittatura fascista.

Pochi sanno e pochissimi ricordano questa tradizione che fu uno dei suggelli della sinistra liberal-socialista italiana.

Ho letto con interesse l'articolo di mercoledì scorso del direttore del Corriere della Sera Ferruccio de Bortoli. È un attacco in piena regola non tanto contro la politica di Renzi quanto sul suo carattere e il suo modo di concepire la politica.

Debbo dire: mi ha fatto piacere che anche il Corriere abbia capito che il personaggio che ci governa è il frutto dei tempi bui e se i tempi debbono essere cambiati non sarà certo quel frutto a riuscirci.

Il frutto dei tempi ha le caratteristiche del seduttore e noi, l'Italia, abbiamo conosciuto e spesso anche sostenuto molti seduttori. Alcuni (pochissimi) avevano conoscenza dei problemi reali e la loro seduzione ne facilitava la soluzione. Altri - la maggior parte - inclinavano verso la demagogia peggiorando in tal modo la situazione.

Aldo Moro si alleò con Enrico Berlinguer che era già uscito dal comunismo sovietico, e previde che per rifondare lo Stato ci sarebbero voluti almeno dieci anni di alleanza tra le due grandi forze popolari del Paese.


Dico questo pensando al tema dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Fu introdotto dall'allora ministro del Lavoro socialista Giacomo Brodolini membro d'un governo di centrosinistra presieduto appunto da Moro. La giusta causa per licenziare: prima lo si poteva fare a discrezione del "padrone". Dopo fu la giusta causa una difesa da questa discrezionalità priva di motivazione, che avrebbe dovuto essere provata dall'imprenditore di fronte al giudice del lavoro. Il dipendente non perdeva infatti soltanto il salario ma anche la dignità di lavorare.

Adesso si dice che la giusta causa è già stata ridotta dalla Fornero a "discriminazione" ma la giusta causa è sempre stata una discriminazione e se licenzio un dipendente solo perché ha gli occhi azzurri o mi è antipatico o piace a mia moglie o è pigro, questo in alcuni casi è giusto in altri no. Penso che bisognerebbe conservarlo l'articolo 18 così inteso e riconoscerlo anche ai lavoratori impiegati in aziende con meno di quindici dipendenti; penso anche che i precari che dopo un certo numero di anni ottengono il contratto a tempo indeterminato, abbiano anch'essi quella tutela.

Si dice però, anche da autorevoli fonti internazionali, che la giusta causa o discriminazione che sia costituisca un ostacolo contro l'aumento della competitività. Ammettiamo che sia così e poiché la competitività è una condizione per attirare investimenti, allora bisogna abolire l'articolo 18 per tutti e sostituirlo con tutele economiche e sistemi di formazione per favorire nuovi reimpieghi. L'America è su questo terreno il Paese più moderno e più reattivo che conosciamo.

Ma le risorse da mobilitare sono molto più cospicue di quelle di cui si parla. Non si tratta di due o quattro miliardi; per compensare chi perde il lavoro ce ne vogliono a dir poco dieci volte tanto e il periodo di sostegno non può essere limitato ad un anno.

L'abolizione dell'articolo 18 si può fare soltanto se compensa il lavoro con l'equità che deve essere massima se è vero che la nostra Costituzione si basa sul lavoro e questo dovrebbe essere l'intero spirito della nostra Repubblica.

I ricchi paghino, gli abbienti paghino, i padroni (con le loro brache bianche come cantavano le leghe contadine ai primi del Novecento) paghino e le disuguaglianze denunciate da Napolitano diminuiranno. Una politica di questo genere, quella sì ci darebbe la forza di indicare all'Europa il percorso del futuro.

Caro de Bortoli, sai quanto ti stimo e ti sono amico e quanto ho apprezzato il tuo articolo di mercoledì scorso. Ma permettimi di ricordarti che su questi temi il Corriere della Sera ha sempre rappresentato l'opinione e gli interessi della borghesia lombarda. Ha reso molti servizi agli interessi del Paese quella borghesia, sempre che il primo di quegli interessi fosse il proprio. Oggi non è più così. Bisogna ricreare una sinistra che riconosca le tutele anche ai ceti benestanti ma metta in testa quelle dovute ai lavoratori. A me non sembra che Renzi sia il più adatto e Berlusconi il suo migliore alleato. Ma questo è solo un aspetto del problema Italia. Gli altri sono ancora più impegnativi e vanno messi sul tavolo con tenace franchezza.

© Riproduzione riservata 28 settembre 2014

Da - http://www.repubblica.it/politica/2014/09/28/news/c_solo_acqua_nella_pentola_che_bolle_sul_fuoco-96827678/?ref=HRER2-1
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« Risposta #524 inserito:: Ottobre 05, 2014, 07:28:19 pm »

Sior paron dalle belle brache bianche caccia le palanche

di EUGENIO SCALFARI
05 ottobre 2014
   
DATE le palanche, cioè salari adeguati alle persone e ai lavori che svolgono nell'azienda. Questa bella canzone cantata dai braccianti e dai coloni delle leghe contadine nel Veneto e nell'Emilia io l'ho sentita per la prima volta nel bellissimo film "Novecento" di Bernardo Bertolucci. Lui ha raccontato come pochi altri la società italiana del secolo scorso. L'hanno chiamato alcuni storici il secolo breve; invece è stato lunghissimo: è durato almeno centovent'anni e come sempre accade nella storia degli uomini ci ha lasciato del bene e del male.

I padroni con le belle brache bianche che fanno parte integrante di questa storia cominciarono ad apparire nella società nella tarda metà dell'Ottocento e molti di essi lavoravano diversamente ma con eguale intensità dei loro dipendenti. Il loro problema è di creare imprese laddove esistevano soltanto latifondi e paludi. E il sistema in qualche modo funzionò perché ne sorsero in vari luoghi e non più soltanto nell'antico triangolo il cosiddetto "polo" e cioè Torino Milano e Genova. Ad essi si aggiunsero Savona, Alessandria, Novara, Varese, Brescia, Bergamo, Treviso, Padova e poi questa specie di coda di una stella cometa che aveva il suo centro tra Piemonte e Lombardia si diffuse anche sulla costiera adriatica arrivando fino a Pescara, Foggia, Bari, Lecce. Lì si fermò la luce di quelle stelle grandi e soprattutto piccole. E i padroni rimasero più saldi che mai ma in molti punti diventarono padroncini per la piccolezza delle aziende e la scarsità di manodopera che vi era impegnata.

La canzone che serve da titolo di quest'articolo termina con la richiesta dalla quale abbiamo iniziato il testo: "Date le palanche".

Abbiamo già detto che cosa sono le palanche ma nella situazione che stiamo attualmente vivendo la parola serve da metafora: la palanca non è più denaro ma è la pubblica opinione, il consenso, che premia o punisce i padroni. I quali ovviamente vivono soprattutto di relazioni di favore dell'opinione pubblica, di affari con lo Stato e soprattutto di buoni profitti. Lavorano ancor più dei loro predecessori e non portano più le brache bianche. Adesso il governo in carica vuole favorirli abolendo l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, cioè abolendo la giusta causa secondo la quale il licenziamento di un dipendente è condizionato appunto da una motivazione giuridicamente accettabile. Verrebbe mantenuto però il reintegro in caso di licenziamento dovuto a motivi disciplinari e discriminazione che è qualche cosa di più (o di meno secondo i punti di vista) della giusta causa. La discriminazione serve a vietare con l'apposito ricorso alla legge alcuni tipi di licenziamento e cioè quelli determinati da differenze di etnia, di religione e di sesso. Qualcuno pensa di abbinarvi anche provvedimenti discriminatori di tipo economico, ma la norma ancora non è scritta e quindi attendiamo.

A me tuttavia non sembra che questi provvedimenti siano utili e dirò il perché.

* * *
L'illegittimità per discriminazione sarà rigorosamente indicata dalla legge che il giudice dovrà ovviamente e altrettanto rigorosamente applicare. Personalmente ho la sensazione che tra discriminazione e giusta causa ci siano molte coincidenze e in certe circostanze e per certe ragioni possono diventare addirittura sinonimi o essere invocati come tali dagli interessati.

Facciamo un esempio: un dipendente di pelle scura o comunque di etnia diversa viene sospettato di essere colpevole di appropriazione indebita e per questo licenziato. È ovvio pensare che l'interessato incolpato si difenda negando il fatto del quale non esistono prove concrete.

Che fa il giudice a questo punto? Se accerta l'inesistenza delle prove deve far valere la discriminazione in favore del dipendente di colore. A questo punto il giudice può e probabilmente deve appellarsi alla Corte costituzionale perché risolva un caso molto difficile e cioè la perdita del posto di lavoro da parte di persona accusata con prove quantomeno incerte ma coperta da una norma di legge molto precisa che impedisce che sia licenziato soltanto per il colore della pelle.

Che deciderebbe a quel punto la Corte? E a ben pensarci una legge di questo genere è costituzionalmente corretta o invece crea una situazione che rende diseguali i cittadini i quali, sulla base della Costituzione tutelata dalla Corte, debbono essere assolutamente eguali di fronte alla legge. Questa è una situazione molte ingarbugliata che probabilmente darà luogo ad una sequela di processi innumerevoli e potrebbe anche essere eccepita dal presidente della Repubblica.

Ho saputo poche ore fa che il presidente della Confindustria, Squinzi, asserisce che i padroni non esistono più ma ci sono soltanto lavoratori che svolgono lavori diversi, alcuni manuali più o meno sofisticati di primo o di secondo o di terzo livello ed altri, gli imprenditori ed i loro collaboratori, lavori di testa, dedicati a relazioni sociali e politiche, alla creatività aziendale.

Purtroppo questa situazione auspicata da Squinzi avviene di rado e sarebbe bene che avvenisse più spesso. Ma sta di fatto che l'abolizione dell'articolo 18 fornisce al lavoratore-imprenditore una libertà di decisione che nessun altro nell'azienda ha e quindi padrone era, padrone resta anche perché il governo sta mettendo fuori gioco le rappresentanze sindacali. Di palanche, quelle vere, ce ne sono poche o nessuna ma a questo punto voglio ricordare una questione che ho già sollevato nel mio articolo di domenica scorsa. Il governo sta pensando, e fa benissimo a pensarlo ed attuarlo, a compensare almeno i licenziati con appositi sostegni economici che rientrerebbero nella definizione di salario nazionale. Scarso ma sufficiente alla vita: pane ed acqua e poco contorno.

Questo compensa sicuramente, nei limiti del possibile, la perdita del salario o stipendio che sia, ma non compensa la dignità del lavoro cioè la perdita del posto di lavoro il quale nel 99 per cento dei casi non sarà rinnovato perché di lavoro in giro non ce n'è.

Il lavoratore quindi non perde soltanto il salario ma perde la dignità e l'esistenza del lavoro, se ne sta a casa a quarant'anni o poco più in attesa che arrivi l'età della pensione e intanto incrocia le dita o legge la Settimana enigmistica. Questa dignità non va compensata monetariamente? E in cifra superiore perché superiore ne è il danno d'averla perduta, rispetto al sostegno del mancato salario? Ci sono le risorse per far questo? A me non pare ma questo aggrava di gran lunga la situazione che stiamo vivendo anche perché non a caso il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ci ricorda un giorno sì e un giorno no che la dignità del lavoro va comunque preservata e  -  aggiungo io  -  è tutelata dal primo articolo della Costituzione.

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A questo punto si pone il problema, del resto strettamente connesso a quelli che abbiamo fin qui svolto, sulla natura del Partito democratico italiano. Il nostro giornale ha dato notizia che gli iscritti al Pd sono attualmente centomila mentre furono cinquecentomila appena un anno fa. I circoli del partito sono praticamente vuoti; i leader di corrente quando vogliono mobilitare i loro amici li riuniscono in luoghi fuori dai circoli dove dovrebbero parlare a tutti anziché soltanto ai loro. Si chiama partito liquido o così lo chiamano e sarebbe appunto basato non sui militanti ma sul popolo e sono tre i partiti o movimenti di questa natura: il Pd guidato da Renzi, Forza Italia guidata da Berlusconi e i 5 Stelle guidati da Grillo.

Tre partiti populisti. Può piacere o meno questa definizione ma di questo si tratta e Renzi infatti non sembra affatto preoccupato di questo declino quantitativo; sembra anzi che gli faccia piacere e lo ha anche pubblicamente detto. Lui si rivolge al popolo e naturalmente al popolo di sinistra visto che noi abbiamo aderito per sua iniziativa e come era giusto avvenisse al Partito socialista europeo. Dunque siamo socialisti. Dalle riforme fin qui annunciate (ma pochissimo eseguite) di socialismo non pare ci sia granché. Tant'è che mentre i sindacati battono i piedi e pensano al peggio il presidente della Confindustria è felice della situazione e non è il solo, ce ne sono molti altri come lui altrettanto felici.

Non che ricevano favori specifici ma promesse d'incentivi, quelli sì, miglioramento della loro posizione nelle aziende sicuramente e infine l'abolizione di questo articolo 18 che a loro certo non dispiace.

In realtà Renzi ha realizzato un piccolo capolavoro, bisogna dargliene atto e per quanto mi riguarda lo faccio con piacere: ha creato un nuovo partito il quale in sede europea aderisce ai socialisti ma poi va molto d'accordo sia con Hollande che certamente socialista è sia con Cameron che è un conservatore della più schietta specie. Il partito Pd trattiene o addirittura recupera dagli astenuti una parte dei votanti ma prende anche molti voti dalla destra berlusconiana o da quegli astenuti che votarono l'ultima volta per Forza Italia e questa volta hanno preferito Renzi.

Naturalmente alle elezioni del 25 maggio siamo stati quelli che hanno stravinto rispetto al totale degli altri partiti europeisti. Abbiamo vinto con 11 milioni di voti. Sono molti? Sono il 41,8 per cento degli elettori italiani, una percentuale formidabile e quasi mai raggiunta.

Non si guarda mai però ai voti assoluti. I voti assoluti presi da Renzi sono stati 11 milioni; quelli presi da Veltroni quando guidò il partito per la prima volta al voto politico (non europeo) furono 13 milioni. Le percentuali erano molto più basse perché paragonate con un numero di elettori molto più alto. È curioso che questo rapporto tra cifre percentuali e cifre assolute non venga mai ricordato ed è un errore per un partito che si dice di sinistra e prende soprattutto voti da destra.

Ripeto: è un piccolo capolavoro ma la natura del partito è completamente cambiata.

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Una brava economista che vive a in Inghilterra insegna nell'Università del Sussex, Mariana Mazzucato in un articolo da noi pubblicato venerdì ha analizzato la differenza tra la politica di incentivi agli interventi privati e la politica effettuata da enti di vario genere e specializzati in diversi settori ma tutti della stessa natura pubblica. Questi enti promuovono ed effettuano e guidano gli investimenti e finora i privati hanno accettato con franca soddisfazione queste offerte ed hanno ingrossato le dimensioni di capitale e posti di lavoro di queste iniziative.

Il luogo di tutto ciò si trova nella Silicon Valley dove fioriscono queste iniziative le quali hanno contribuito in modo ampio ad una ripresa negli Stati Uniti. Credo sia opportuno ricordare che iniziative analoghe costituirono la dorsale di politica economica di Roosevelt il quale la portò avanti e la lasciò in eredità al Paese.

Il nostro Renzi è stato di recente alla Silicon Valley, ha visitato una buona parte degli impianti e degli investimenti ivi esistenti, ha parlato con i responsabili sia pubblici sia privati. Se le affermazioni della Mazzucato sono esatte (come ho motivo di pensare) Renzi dovrebbe star per cambiare i suoi progetti che riguardano appunto l'avvio di nuovi investimenti e la creazione di posti di lavoro e in qualche modo ricavarli da quanto ha visto e constatato nella Silicon Valley altrimenti non si capisce a che cosa sia mai servita quella gita.

Del resto voglio ricordare che la nascita dell'Iri avvenne per analoghe considerazioni e l'Iri nei primi quarant'anni della sua esistenza fu una leva di direzione e di esecuzione di investimenti importantissimi per l'Italia, a cominciare dalla siderurgia che a quell'epoca era un investimento modernissimo, alle autostrade che misero sulle ruote l'unificazione linguistica e culturale del Paese. Poi decadde perché mani inesperte (non tutte di certo) e spesso conniventi e non collaboranti con interessi privati, ridussero l'Iri ad un ospedale o poco più. Prodi fu il primo dei suoi presidenti a voler disfare quella istituzione ormai logora e lo fece vendendo o tentando di vendere alcune attività alimentari che erano le più lontane dal ciclo originario.

Comunque oggi non c'è più e nessuno lo rimpiange. Ma l'esperienza della Silicon Valley opportunamente aggiornata e rinnovata come essa stessa fa di continuo, non va dimenticata con leggerezza.

Caro Squinzi, lei dice a volte cose molto sensate e a volte  -  mi permetta di dirlo  -  alcune sciocchezze. I padroni ci sono sempre ed oggi semmai sono più forti e più ricchi di prima e questo è un punto sul quale lei di solito sorvola ma che rappresenta uno degli aspetti essenziali per risanare la struttura economica e politica di questo Paese.

© Riproduzione riservata 05 ottobre 2014

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