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Autore Discussione: EUGENIO SCALFARI.  (Letto 318004 volte)
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« Risposta #420 inserito:: Aprile 14, 2013, 11:08:18 pm »

Chi saranno i nuovi capi dello Stato e del governo

di EUGENIO SCALFARI


Giorgio Napolitano ha preso ufficialmente congedo dalla sua carica nel momento stesso in cui il comitato dei "saggi" da lui nominato gli ha consegnato il documento con le proposte su alcuni problemi da lui stesso indicati per risolvere questioni economiche, sociali e istituzionali che saranno trasmesse al suo successore come eventuali linee-guida nella misura in cui il nuovo inquilino del Quirinale vorrà tenerne conto.

Ero andato a salutarlo un paio di giorni prima; spero di vederlo più spesso quando tra poco sarà senatore a vita. Ci conosciamo da molti anni e siamo da tempo legati da sentimenti di amicizia. Ho ancora una volta tentato di fargli cambiare opinione su una eventuale prorogatio del suo mandato, ma mi ha elencato molte e solide ragioni per le quali riteneva impossibile accettarla: avrebbe profondamente turbato l'ordinamento costituzionale senza produrre alcun concreto vantaggio per uscire dallo stallo che stiamo attraversando. Le sue motivazioni mi hanno convinto e tuttavia non sarà facile riempire il vuoto che la scadenza del suo settennato lascerà.

Napolitano è uno dei pochissimi presidenti della nostra Repubblica ad essere stato, dal momento della sua elezione, rigorosamente super partes. Nessuno degli altri, salvo Luigi Einaudi e Carlo Azeglio Ciampi, lo è stato. Non lo fu Gronchi e neppure Segni né Saragat né Leone né Pertini né Cossiga e neppure Scalfaro.

Napolitano sì, lo è stato ed ha instaurato un metodo di ascolto non soltanto delle forze politiche ma anche di quelle sociali e della pubblica opinione e un'attenzione all'Europa, alle potenze internazionali, alla cultura in tutte le sue manifestazioni, che ha scarsi riscontri nei suoi predecessori.

Non sarà facile sostituirlo ma per fortuna non impossibile.

Basterà trovare una persona che non abbandoni quel metodo che fa del capo dello Stato un punto di riferimento capace non solo di rappresentare l'unità nazionale nel senso pieno del termine, ma in particolare delle ragioni dei ceti più deboli, degli esclusi, dei giovani, delle minoranze, garantendo a tutti la libertà, l'eguaglianza dei punti di partenza, l'interesse generale, l'indipendenza delle istituzioni, la separazione dei poteri costituzionali.

Cioè la presenza e il rafforzamento della nostra ancora gracile democrazia.

Questo è stato Giorgio Napolitano. Auguriamoci che il suo successore proceda nel segno della continuità.

* * *

Nelle attuali circostanze il compito primario e urgente del nuovo Presidente è di dar vita ad un governo dotato di una solida maggioranza; un governo di scopo e di lunga durata, capace di mantenere la nostra credibilità internazionale, di collaborare ad un mutamento della politica economica europea per uscire dalla recessione e soprattutto di stimolare la crescita economica e l'occupazione.

L'Italia soffre in questa fase della nostra storia d'una crisi di fiducia della politica. Il popolo disprezza i partiti ed anche le istituzioni da essi indebitamente occupate. C'è una sfiducia profonda che crea un distacco assai pericoloso tra il paese reale e quello cosiddetto legale. Questo distacco è in parte motivato ma in parte va al di là del giusto accomunando tutti i partiti in un medesimo giudizio negativo che non corrisponde alla realtà.

Questo è comunque il dato di fatto che va superato attraverso riforme importanti e sostanziali cambiamenti. Bisogna che avvenga in modo evidente la "disoccupazione" delle istituzioni da parte dei partiti. Fu uno degli obiettivi di Enrico Berlinguer nei primi anni Ottanta del secolo scorso, ma non ebbe alcuna attuazione. Sono trascorsi trent'anni da allora e la situazione è addirittura peggiorata. Ho visto con piacere che Fabrizio Barca ripropone quell'obiettivo come il principale per uscire dal pantano della corruzione e superare la sfiducia nella politica. Ha ragione, purché alle parole questa volta corrispondano i fatti.

Nel frattempo - non sembri un paradosso perché non lo è - né al Quirinale né alla guida d'un governo di scopo vadano dirigenti di partito. Credo che queste siano le due condizioni indispensabili affinché i partiti riacquistino la fiducia, anch'essa indispensabile affinché la democrazia funzioni nella sua pienezza, le istituzioni tornino a riscuotere consenso dal popolo e i partiti riprendano a svolgere il ruolo prezioso di raccordo tra il popolo sovrano e i poteri costituzionali.

Il capo dello Stato deve avere piena conoscenza della Costituzione, tutelare la separazione dei poteri ed una leale collaborazione tra di loro, avere la necessaria credibilità internazionale, capacità di ascolto, intuizione politica, forza di carattere e di iniziativa. Non serve un notaio al Quirinale, ma un uomo di garanzia e di equilibrio. Ce n'è più d'uno che possiede questi requisiti e una biografia che li documenta. Ce ne sono in particolare tra i membri della Corte costituzionale, nelle accademie delle scienze ed anche in quelle figure (purtroppo ormai pochissime) che sono ritenute "riserve della Repubblica".

Le forze politiche che siedono in Parlamento trovino l'intelligenza di scegliere la persona più adatta al compito e mettano da parte i loro interessi particolari. Se sapranno e vorranno farlo questo sarà il primo passo verso la loro necessaria rigenerazione.

* * *

Il governo delle larghe intese auspicato da Napolitano non solo è possibile ma necessario. Bisogna tuttavia intendersi su che cosa significano le larghe intese.

Bersani è stato molto chiaro su questo aspetto della questione, distinguendo le intese su riforme istituzionali e costituzionali da quelle propriamente politiche. Proprio da questo punto di vista ho scritto prima che anche il governo che dovrà essere al più presto insediato non potrà essere guidato da un dirigente di partito. Ci vorrà anche lì una persona, uomo o donna che sia, proveniente dalla società civile. L'esempio Ciampi del 1993 si attaglia anche in questo caso ad essere imitato. Potrà avere, quel governo, nella sua composizione anche qualche personaggio politico come ministro, ma non come premier. È dunque necessario che sia un governo del Presidente. Un governo politico (non esistono governi tecnici perché hanno bisogno di ottenere la fiducia duratura del Parlamento) che sia votato per il suo programma di scopo e duri fintantoché lo scopo non sarà stato raggiunto.

Maurizio Crozza in una sua recente trasmissione ha mimato un duetto tra Bersani e Berlusconi (video), ritmato da due frasi: Berlusconi dice "ti compro l'anima" e Bersani risponde "ma non te la vendo". È così. Un governissimo è impossibile.

Il voto di fiducia ciascun partito lo darà a quel programma fatto di punti concreti che, essendogli stati affidati dal capo dello Stato, non comportano uno schieramento politico e non raffigurano una grande alleanza. Si chiamarono un tempo "convergenze parallele" e di questo infatti si tratterà.

Una volta realizzati gli obiettivi, ma soltanto allora, il capo dello Stato potrà sciogliere le Camere per indire nuove elezioni, essendovi già - tra gli scopi realizzati - una nuova legge elettorale.

Il percorso è dunque chiaro sia per quanto riguarda la persona adeguata da eleggere tra quattro giorni al Quirinale, sia per il governo nominato dal nuovo capo dello Stato dopo le consultazioni che riterrà di fare.

Grillo e il suo movimento. Stando ai sondaggi di Mannheimer, i 5 Stelle sono in leggero ma costante declino. I sondaggi fotografano l'esistente, sia pure con incerta attendibilità, ma è un fatto che gli eletti grillini in Parlamento non sono più un monolite e lo saranno sempre di meno.

Potranno però essere - e l'hanno già dimostrato per il fatto stesso di esserci - uno stimolo potente al cambiamento se daranno anch'essi una mano per attuarlo.

Potrebbero per esempio condividere l'elezione d'un presidente della Repubblica proveniente dalla società civile e perfino un premier di analoga provenienza votando almeno su alcuni provvedimenti da essi condivisi o proposti. I parlamentari 5 Stelle non possono rinchiudersi nell'autosufficienza, il Parlamento comporta inevitabilmente una partecipazione altrimenti tanto sarebbe valso per i grillini scegliere l'astensione dal voto anziché un movimento-partito. Anche Grillo lo capirà, anzi da qualche indizio sembra lo stia già capendo. Nelle cose giuste che a volte dice e sostiene, merita d'essere ascoltato; il resto sarà la realtà a suggerirgli di cambiare. Nessuno vuole comprargli l'anima, partecipare non significa venderla.

Quanto al Pd, esso rappresenta allo stato dei fatti il solo partito che abbia tuttora un'anima e un corpo, ammaccati tutti e due ma tuttora vivi e operanti. Purtroppo quell'anima e quel corpo, in questa fase di crisi, si sono decomposti in varie correnti. Punti di vista diversi possono essere una ricchezza, correnti organizzate attorno ad interessi di potere sono invece l'anticamera della dissoluzione.

Se Bersani sarà il promotore sia d'un capo dello Stato con le caratteristiche sopra indicate e sia d'un governo del Presidente, lui e il suo partito ne usciranno rafforzati.

Emergono nel frattempo le personalità di Barca e di Renzi e questo è un altro segno di cambiamento, ma non sono i soli emergenti e si vedrà al prossimo congresso di quel partito.

Qualche osservatore obietta che si sente odore di centralismo democratico, cioè di vecchio comunismo. Occorre però analizzare la sostanza del centralismo democratico che ha due modi di essere praticato: uno è il tentativo d'una nomenclatura oligarchica di trasmettere slogan e ordini obbligatori da eseguire alla base dei militanti. L'altro è un movimento che viene dal basso, che elabora e indica i temi che la società richiede e li trasmette agli organi centrali del partito affinché diano a quei temi aspetto concreto ed entrino a comporre la visione del bene comune di quel partito. Questo è l'aspetto positivo e augurabile.

Il futuro dirà quale strada sarà percorsa. Molto dipende dal Bersani dei prossimi giorni e dal partito nei prossimi mesi.

© Riproduzione riservata (14 aprile 2013)

DA - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2013/2013/04/14/news/chi_saranno_i_nuovi_capi_di_stato_e_governo-56584968/?ref=HRER1-1
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« Risposta #421 inserito:: Aprile 21, 2013, 06:09:59 pm »


Solo lui può riparare il motore imballato

di EUGENIO SCALFARI


IERI, alle ore 15, Giorgio Napolitano ha accettato d'essere rieletto alla carica di Presidente della Repubblica dopo aver ricevuto pressanti inviti da parte di tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento, Lega inclusa sia pure con qualche riserva e Movimento 5 Stelle e Fratelli d'Italia (La Russa) esclusi. I grillini hanno continuato a votare Rodotà rafforzato dal partito di Vendola. Alle ore 18 Napolitano è stato rieletto con 738 voti. Questa è la cronaca telegrafica dei fatti già universalmente noti.

Tra quanti hanno tirato un respiro di sollievo alla rielezione di Napolitano ci sono anch'io. Conosco infatti bene le ragioni che fino a ieri avevano motivato il suo fermo rifiuto alla proposta di accettare il reincarico per tutto il tempo necessario per sbloccare una situazione pericolosa di stallo della democrazia. Il Presidente quelle ragioni me le aveva spiegate in un colloquio avvenuto due settimane fa, del quale detti allora conto su questo giornale.

Al di là del gravoso fardello degli animi e della fatica fisica che quel ruolo richiede, altre ce n'erano a spiegare la sua posizione. La principale che tutte le riassume era la necessità che dopo un lungo settennato ci sia un passaggio del testimone ad un'altra personalità con altro carattere e altra biografia politica, che tenga conto della precedente esperienza ma ne aggiorni i contenuti.
Discontinuità nella continuità, questo è l'insegnamento che la storia della Repubblica consegna a chi ricopre il ruolo di rappresentare la nazione, coordinarne le istituzioni e i poteri costituzionali, tutelare i deboli, garantire le minoranze, rafforzare i valori della libertà e dell'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

Napolitano voleva che questo ricambio avvenisse come del resto è sempre avvenuto dalla nascita della Repubblica fino a ieri. Certo non prevedeva quanto nel nuovo Parlamento sarebbe accaduto. Soprattutto non prevedeva che il Partito democratico crollasse su se stesso affiancando la propria ingovernabilità a quella addirittura strutturale del nuovo Parlamento, diviso in tre tronconi (tre e mezzo per l'esattezza) di pari consistenza per quanto riguarda i consensi espressi dagli elettori e ferocemente opposti ciascuno agli altri. E quindi: un Parlamento ingovernabile e partiti autoreferenziali, due dei quali caratterizzati da populismo e demagogia e l'altro dominato da correnti contrapposte che ne segano non solo i rami ma il tronco stesso che tutti li sorregge.

Risultato: blocco dell'intero sistema, Paese allo sbando, credibilità internazionale in calo vertiginoso. I mercati finora non ci hanno penalizzato e questo dipende da alcune cause tecniche che sono state già largamente esaminate. Ma se il blocco fosse ancora durato le acque calme della Borsa e dello spread sarebbero tornate tempestose, la speculazione fa cambiare in pochi minuti la direzione e l'intensità del vento. Tutto questo non era prevedibile due settimane fa, ma non da me che lo sentivo arrivare e ne ero profondamente preoccupato.

Mentre scrivo (è la sera di sabato) è in corso una manifestazione silenziosa e composta di grillini in piazza Montecitorio. Grillo non vuole eccitare i suoi e quindi non andrà in piazza.
Rodotà da Bari, dove ha partecipato ad un dibattito culturale organizzato dal nostro giornale, ha deplorato le marce su Roma ed ha dichiarato che l'elezione di Napolitano si è svolta nell'ambito previsto dalla Costituzione. Poco prima Grillo aveva invece parlato di golpe, ma Grillo, si sa, è un comico.

* * *

Conosco Stefano Rodotà da quasi sessant'anni. Entrò nel Partito radicale fondato nel 1956 dagli "amici del Mondo" e da allora ci furono tra noi sentimenti di amicizia e collaborazione. È stato più volte parlamentare militando nei partiti post-comunisti e, prima, tra gli indipendenti di sinistra associati al Pci. Fu poi presidente del Pds e vicepresidente della Camera, ebbe incarichi nelle istituzioni culturali europee e infine presiedette l'autorità che tutela la privatezza delle persone. Ha scritto molti libri di diritto, è docente universitario, ha lanciato il referendum sull'acqua pubblica e collabora al nostro giornale fin dal primo numero scrivendo sui temi che più lo interessano.
I grillini, nelle loro "quirinarie" su Internet, l'hanno scoperto e piazzato al terzo posto d'una loro lista di candidabili al Quirinale, dopo la Gabanelli e Gino Strada. I due che lo precedevano hanno ringraziato ma rifiutato, lui ha ringraziato e accettato. Il resto è noto.

Rodotà si è pubblicamente rammaricato perché il Partito democratico e i vecchi amici non l'hanno contattato. Essendo tra questi ultimi debbo dire che neanche lui ha contattato me. Che cosa avrei potuto dirgli? Gli avrei detto che non capisco perché una persona delle sue idee e della sua formazione politica, giuridica e culturale, potesse diventare candidato grillino per la massima autorità della Repubblica.

Il Movimento 5 Stelle, come è noto, vuole abbattere l'intera architettura costituzionale esistente, considera l'Europa una parola vuota e pericolosa, ritiene che i partiti e tutti quelli che vi aderiscono siano ladri da mandare in galera o a casa "a calci nel culo". Come puoi, caro Stefano, esser diventato il simbolo d'un movimento che impedisce ai suoi parlamentari di parlare con i giornalisti e rispondere alle domande? Anzi: che considera tutti i giornalisti come servi di loschi padroni? In politica, come in tutte le cose della vita, ci vuole il cuore, la fantasia, il coraggio, ma anche il cervello e la ragione.

* * *

Adesso Napolitano farà un governo, è la cosa più urgente della quale ha bisogno il Paese. Naturalmente un governo politico come tutti i governi che hanno bisogno della fiducia del Parlamento. Un governo di scopo, adempiuto il quale passerà la mano o proseguirà se il Parlamento lo vorrà.

Il governo seguirà le indicazioni di scopo che il Capo dello Stato gli affiderà in parte già contenute nel documento dei "saggi" a lui consegnato una decina di giorni fa e già reso pubblico. Ai primi posti ci sono la riforma della legge elettorale, la riforma del Senato, la riforma del finanziamento dei partiti, una politica economica che, nel rispetto degli impegni già presi con l'Europa, adotti provvedimenti mirati alla crescita e all'equità per alleviare al più presto e il più possibile la morsa della recessione, iniettando liquidità nelle imprese, alleggerendo il cuneo fiscale, modificando l'Imu per quanto riguarda le piccole imprese e le famiglie meno abbienti, infine sostenendo socialmente gli esodati e i lavoratori precari.

Quanto ai partiti, anch'essi hanno bisogno d'una profonda riforma, tutti, nessuno escluso. Il Partito democratico ha bisogno addirittura d'una rifondazione. Ne avrebbe bisogno più di tutti il Pdl, ma lì c'è un proprietario ed è impossibile riformarlo se non licenziandolo; ma è possibile licenziare il proprietario?

Il Pd non ha proprietari, non c'è un Re nel Pd. Però ci sono i vassalli l'un contro l'altro armati. È una fortuna non avere un Re ma è un terribile guaio esser dominati da vassalli e valvassori. Questo è il problema che dev'essere risolto.

Bersani, credo in buona fede, pensava d'averlo modificato rinnovando il grosso della rappresentanza parlamentare, ma non è stato così. Riempire i seggi parlamentari con persone alla prima loro esperienza, mantenendo però in piedi un ristrettissimo apparato, aumenta la partecipazione della base soltanto nella forma ma non nella sostanza. I nuovi eletti seguono più l'emotività che la ragione e l'esperienza debbono ancora farsela. Qual è la società che vogliono? Qual è l'interesse generale che dovrebbero perseguire? Non mi sembra che questa visione del bene comune sia chiara nelle loro teste e in quelle dell'apparato meno ancora. Si scambia l'interesse generale con quello del partito e l'interesse del partito con quello della corrente cui si appartiene. Questo è accaduto negli ultimi mesi ed ha raggiunto il culmine negli ultimi giorni. Oggi si lavora sulle rovine prodotte da mancanza di senno e da miserabili interessi di fazioni contrapposte.
Bisogna guardare alla nazione e bisogna guardare alla costruzione d'una Europa che sia uno Stato federale che ci contiene. Se questi dati di realtà non entrano nelle teste della classe dirigente, non ci sarà mai né una destra decente né una sinistra efficiente. Gli impuri diventeranno legione, i puri saranno velleitari e inconsapevoli. Carne da cannone.

I grillini? Anche lì c'è un proprietario e anche lì i puri sono carne da cannone. La discontinuità va bene se aggiorna ma non distrugge il patrimonio di esperienze della nostra storia repubblicana nel bene e nel male.

L'Italia l'hanno fatta Mazzini, Cavour e Garibaldi, diversissimi tra loro ma oggettivamente complementari. E se vogliamo giocare alla torre e si deve scegliere tra Gramsci e Togliatti, scelgo Gramsci. E se debbo scegliere tra Andreotti e Moro scelgo Moro. Tra Togliatti e Berlinguer scelgo Berlinguer. Infine scelgo Napolitano perché, purtroppo per noi, non trovo altro nome da contrapporgli. Ti chiedo scusa, caro Stefano, con tutto l'affetto e la stima che ho verso di te, ma il nome Rodotà in questo caso non mi è venuto in mente.

© Riproduzione riservata (21 aprile 2013)

da - http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-presidente-repubblica-edizione2013/2013/04/21/news/rielezione_napolitano_scalfari-57138214/?ref=HREA-1
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« Risposta #422 inserito:: Aprile 27, 2013, 05:01:33 pm »

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Più un popolo è futile più ricorre al gergo

di Eugenio Scalfari

Spiegando il significato di quella parola il grande Diderot scrisse: un certo cinguettio di società che rimpiazza lo spirito vero, il buonsenso, il giudizio, la ragione e la conoscenza. Non si potrebbe dir meglio

(11 aprile 2013)

Ricorre quest'anno il trecentesimo dalla nascita di Denis Diderot e tra tante pubblicazioni che lo ricordano ce n'è una, uscita proprio in questi giorni dall'editore Gallimard, scritta da Jean Starobinski con il titolo "Diderot, un diable de ramage".

Starobinski è un cultore di Diderot ma questa volta si limita a esaminarne il linguaggio. Tra le tante novità che l'Illuminismo ha introdotto nella cultura moderna c'è stata infatti anche quella del linguaggio, del sapere enciclopedico. Del romanzo filosofico, nell'approccio didascalico alla ricerca della verità. Starobinski porta ad esempio di questo nuovo linguaggio l'Encyclopédie di cui Diderot fu l'ideatore, il direttore editoriale e uno dei principali autori. Il sapere enciclopedico, che aveva già fatto la sua comparsa in Inghilterra, raggiunse in Francia il suo culmine a metà del Settecento e la novità fu questa: sostituire alla ricerca intellettuale compattamente deduttiva un approccio guidato da argomenti specifici e non connessi tra loro.

Questo tipo di linguaggio era stato anticipato da Montaigne nei suoi "Essais" e ha il suo centro non più nella verità oggettiva ma in quella soggettiva, non più nella ricerca dell'"assoluto" ma nell'analisi del "relativo". Una vera e propria rivoluzione che teorizzò l'importanza del viaggio dentro il proprio sé a fianco di quello nel mondo esterno che fino a quel momento aveva avuto la dominanza nella cultura europea.

L'enciclopedismo diderottiano ne fu la realizzazione più evidente: singole parole e i loro molteplici significati esaminati da autori diversi, il massimo soggettivismo tenuto insieme dall'ideologia del relativismo.

Non sembri paradossale la parola ideologia applicata al relativismo: esprime un principio che si contrappone a quello di assolutismo, lo scontro degli opposti che costituisce l'essenza del pensiero moderno.

Le opere diderottiane che meglio esprimono l'essenza di quel pensiero, oltre all'Encyclopédie che tutte le riassume e le rappresenta, le troviamo in uno dei suoi "conte philosophique" e in due dei suoi principali dialoghi: "Jacques le fataliste", "Le Neveu de Rameau" e "Le rêve de d'Alembert". Sono i tre capolavori di Diderot e dell'Illuminismo, ovviamente insieme all'opera di Voltaire, anch'essa ispirata alla stessa ideologia relativistica dei due fondatori del pensiero moderno.

Starobinski segnala che Diderot mise anche in guardia i lettori dell'Encyclopédie contro le possibili deformazioni del pensiero relativistico. Lo fece esaminando la parola "gergo" che merita d'essere riferita a chiusura di questa pagina. «La parola "gergo" ha diverse accezioni. Significa: 1. Un linguaggio corretto quale si parla nelle nostre province. 2. Una lingua convenzionale che alcune persone mettono a punto per comunicare in pubblico senza esser capite. 3. Un certo qual cinguettio di società che ha magari una sua eleganza ma che rimpiazza lo spirito vero, il buonsenso, il giudizio, la ragione e la conoscenza. E' l'arte di nobilitare con una formula ricercata ideuzze fredde, puerili, comuni. Più un popolo è futile e corrotto e più far ricorso al gergo».

Non si potrebbe dir meglio.

© Riproduzione riservata

da - http://espresso.repubblica.it/dettaglio/piu-un-popolo-e-futile-piu-ricorre-al-gergo/2204636/18
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« Risposta #423 inserito:: Aprile 28, 2013, 12:02:46 pm »

   
Un medico per l'Italia malata

di EUGENIO SCALFARI


IL GOVERNO Letta è nato ieri pomeriggio. Presterà giuramento questa mattina e si presenterà al Parlamento domani. Nelle circostanze date è un buon governo. Enrico Letta aveva promesso competenza, freschezza, nomi non divisivi. Il risultato corrisponde pienamente all'impegno preso, con un'aggiunta in più: una presenza femminile quale prima d'ora non si era mai verificata. Emma Bonino agli Esteri è tra le altre una sorpresa molto positiva; sono positive anche quelle della Cancellieri alla Giustizia e di Saccomanni all'Economia.

L'intervento di Napolitano nella sala stampa del Quirinale dopo la lettura della lista e le parole di ulteriore chiarimento da lui pronunciate confermano la solidità del risultato. Persino il Movimento 5 Stelle dovrebbe prendere atto che un passo avanti verso un cambiamento sostanziale è stato compiuto. Ma ora facciamo un passo indietro per capire meglio qual è la prospettiva che ci si presenta e le cause che l'hanno determinata.

* * *

"L'Italia l'è malada", così cantavano i contadini delle Leghe del Popolo nella Bassa Padana e nelle Romagne, aggiungendo "e il dottor l'è Prampolin": Camillo Prampolini, che fu uno dei fondatori del partito socialista nel 1892. Questo stesso titolo lo usai alcuni anni fa sul nostro giornale commentando un altro periodo di crisi tra i tanti che si sono succeduti nella nostra storia.

Questa volta però la crisi è ancora più grave perché non è soltanto il nostro paese ad esser malato, è malata l'Europa, è malato il Giappone, sono malati gli Stati Uniti d'America, è malata l'Africa e il Vicino Oriente. Insomma è malato il mondo. È un dettaglio? Non direi. Ma spesso ce lo dimentichiamo ed è un errore perché ci toglie la prospettiva, ci fa scambiare gli effetti per cause e prescrive le terapie che sono soltanto "placebo" e non medicine efficaci.

La malattia cominciò nel 2008 con la crisi del mercato immobiliare americano che culminò col fallimento della Lehman Brothers. Poi, nei mesi e negli anni successivi, si allargò all'Europa, coinvolse in varia misura il resto del mondo e infine diventò, in Europa, recessione e crisi sociale. Durerà fino all'anno prossimo e questo è lo stato dei fatti.

La politica ha ceduto al passo all'economia e deve riprendere la sua supremazia e puntare sull'espansione? Lo sostengono in molti e Krugman lo teorizza, ma gli sfugge un elemento fondamentale: nel mondo globale la ricchezza tende a ridistribuirsi tra i paesi che emergono dalla povertà e gli altri che riposano passivamente su un'antica opulenza.

Questo movimento ha una forza e una ineluttabilità che non possono essere arginate; possono essere tutt'al più contenute entro limiti sopportabili attraverso un confronto tra le potenze continentali.

Se ci fosse uno Stato europeo, esso sarebbe in grado di sostenere quel confronto, ma fino a quando non ci sarà i governi nazionali resteranno irrilevanti. Che l'errore lo faccia Grillo invocando la palingenesi è comprensibile, ma che lo facciano anche intelletti consapevoli è assai meno scusabile.

Probabilmente la causa dell'errore sta nel fatto che l'analisi della situazione e la terapia capace di guarirne la malattia sono soverchiate dagli interessi, dalle ambizioni, dalle vanità delle lobbies e degli individui. L'egoismo di gruppo ha la meglio, l'emotività imbriglia la ragione, la vista corta di chi vuole tutto e subito impedisce la costruzione di un futuro migliore. La palingenesi non è la costruzione del futuro, ma un'utopia che porta con sé la sconfitta.

* * *

Il governo si chiama istituzionale perché è stato formato seguendo rigorosamente la procedura indicata dalla Costituzione e lo spirito che ispira il nostro ordinamento democratico. Lo stesso avvenne con il governo Monti nel novembre 2011, in comune i due governi hanno la situazione di emergenza. Quella di due anni fa era un'emergenza della finanza pubblica che rischiava di precipitare in un fallimento del debito sovrano e dello Stato; quella di oggi è un'emergenza economica e sociale che rischia di determinare una decomposizione della società.

Le emergenze limitano la libertà di scelta e impongono soluzioni di necessità. In questi casi il rigoroso rispetto della meccanica istituzionale diventa la sola via praticabile e il primo che ha dovuto cedere a questa scelta obbligata è stato Giorgio Napolitano. Aveva deciso e più volte ripetuto di non voler essere riconfermato al Quirinale e ne aveva spiegato pubblicamente e privatamente le motivazioni. L'emergenza nel suo caso non è stata soltanto la crisi sociale ma la crisi politica che non ha reso possibile la nomina del suo successore. Perciò, suo malgrado, Napolitano ha dovuto restare al Quirinale.

Suo malgrado, ma per fortuna del paese. Napolitano conosce benissimo i limiti e i doveri che la Costituzione gli prescrive; proprio per questo, nell'ambito di quel quadro, può agire con la massima energia. Se le forze politiche non reggeranno ad una "mescolanza" che contiene  -  non c'è dubbio  -  anche elementi repulsivi, se ne assumeranno l'intera responsabilità.

Ci sono molti precedenti in proposito e lo stesso Napolitano ne ha richiamato uno: l'incontro politico tra Moro e Berlinguer a metà degli anni Settanta. La mescolanza ci fu, o meglio mosse i suoi primi passi per iniziativa di quei due interlocutori; ma è stata facile l'obiezione di alcuni critici che hanno ricordato non soltanto la diversità delle situazioni storiche ma anche la diversa qualità degli interlocutori. È vero, ma ci sono altri esempi, forse più probanti.

Nel 1944, quando la guerra era ancora in corso e le armate contrapposte si fronteggiavano sulla cosiddetta "linea gotica" a ridosso del Po, Palmiro Togliatti riuscì ad arrivare da Mosca a Napoli. Il Pci era stato ricostituito nel Sud dai dirigenti clandestini finalmente alla luce del sole; a Napoli il segretario locale del partito era Cacciapuoti, comunista a 24 carati. Sbarcato a Napoli, Togliatti arrivò inaspettato a casa di Cacciapuoti.

Commozione, abbracci, convocazione immediata di tutti i dirigenti del partito, cena improvvisata, entusiasmo. Dopo cena si fece silenzio. Togliatti disse che voleva per l'indomani l'assemblea di tutti gli iscritti, dove avrebbe annunciato le decisioni da mettere in atto. "Ci puoi anticipare quali sono le decisioni?" disse Cacciapuoti e Togliatti rispose "riconosceremo il governo Badoglio e l'appoggeremo". Lo sbalordimento fu generale, ma Togliatti spiegò che non c'era altra via almeno fino a quando l'armata americana non fosse entrata a Roma. Pochi giorni dopo incontrò Benedetto Croce che era arrivato da tempo alle medesime conclusioni e faceva parte del governo Badoglio.

C'è ancora un altro esempio che riguarda Berlinguer. Quando il Pci dall'astensione passò al vero e proprio ingresso nella maggioranza, il presidente del Consiglio designato da Moro era Andreotti, sicché il passaggio dalla "non sfiducia" al voto in favore del governo ebbe Andreotti come interlocutore. Moro fu rapito lo stesso giorno del voto che però era stato deciso già prima da Berlinguer.

Badoglio nel '44, Andreotti nel '78, il Pci di Togliatti e poi quello di Berlinguer. Napolitano era a Napoli nel '44 e a Roma nel '78. Adesso ha responsabilità assai maggiori di quelle che allora ebbero i due leader comunisti. Lui è il primo ex comunista andato al Quirinale 58 anni dopo la firma della Costituzione. Ma un presidente al di sopra delle parti come lui, salvo Ciampi, non è mai esistito. Garantisce tutti, ma garantisce soprattutto il paese e per questa ragione nell'interesse del paese agisce con tutta l'energia necessaria.
Ora vedremo il governo Letta al lavoro. Se i fatti corrisponderanno alle parole molte sofferenze saranno lenite e molte speranze riaccese.

(28 aprile 2013) © Riproduzione riservata

da - http://www.repubblica.it/politica/2013/04/28/news/un_medico_per_l_italia_malata-57597866/?ref=HREA-1
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« Risposta #424 inserito:: Aprile 28, 2013, 12:03:42 pm »

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Più un popolo è futile più ricorre al gergo

di Eugenio Scalfari

Spiegando il significato di quella parola il grande Diderot scrisse: un certo cinguettio di società che rimpiazza lo spirito vero, il buonsenso, il giudizio, la ragione e la conoscenza. Non si potrebbe dir meglio

(11 aprile 2013)

Ricorre quest'anno il trecentesimo dalla nascita di Denis Diderot e tra tante pubblicazioni che lo ricordano ce n'è una, uscita proprio in questi giorni dall'editore Gallimard, scritta da Jean Starobinski con il titolo "Diderot, un diable de ramage".

Starobinski è un cultore di Diderot ma questa volta si limita a esaminarne il linguaggio. Tra le tante novità che l'Illuminismo ha introdotto nella cultura moderna c'è stata infatti anche quella del linguaggio, del sapere enciclopedico. Del romanzo filosofico, nell'approccio didascalico alla ricerca della verità. Starobinski porta ad esempio di questo nuovo linguaggio l'Encyclopédie di cui Diderot fu l'ideatore, il direttore editoriale e uno dei principali autori. Il sapere enciclopedico, che aveva già fatto la sua comparsa in Inghilterra, raggiunse in Francia il suo culmine a metà del Settecento e la novità fu questa: sostituire alla ricerca intellettuale compattamente deduttiva un approccio guidato da argomenti specifici e non connessi tra loro.

Questo tipo di linguaggio era stato anticipato da Montaigne nei suoi "Essais" e ha il suo centro non più nella verità oggettiva ma in quella soggettiva, non più nella ricerca dell'"assoluto" ma nell'analisi del "relativo". Una vera e propria rivoluzione che teorizzò l'importanza del viaggio dentro il proprio sé a fianco di quello nel mondo esterno che fino a quel momento aveva avuto la dominanza nella cultura europea.

L'enciclopedismo diderottiano ne fu la realizzazione più evidente: singole parole e i loro molteplici significati esaminati da autori diversi, il massimo soggettivismo tenuto insieme dall'ideologia del relativismo.

Non sembri paradossale la parola ideologia applicata al relativismo: esprime un principio che si contrappone a quello di assolutismo, lo scontro degli opposti che costituisce l'essenza del pensiero moderno.

Le opere diderottiane che meglio esprimono l'essenza di quel pensiero, oltre all'Encyclopédie che tutte le riassume e le rappresenta, le troviamo in uno dei suoi "conte philosophique" e in due dei suoi principali dialoghi: "Jacques le fataliste", "Le Neveu de Rameau" e "Le rêve de d'Alembert". Sono i tre capolavori di Diderot e dell'Illuminismo, ovviamente insieme all'opera di Voltaire, anch'essa ispirata alla stessa ideologia relativistica dei due fondatori del pensiero moderno.

Starobinski segnala che Diderot mise anche in guardia i lettori dell'Encyclopédie contro le possibili deformazioni del pensiero relativistico. Lo fece esaminando la parola "gergo" che merita d'essere riferita a chiusura di questa pagina. «La parola "gergo" ha diverse accezioni. Significa: 1. Un linguaggio corretto quale si parla nelle nostre province. 2. Una lingua convenzionale che alcune persone mettono a punto per comunicare in pubblico senza esser capite. 3. Un certo qual cinguettio di società che ha magari una sua eleganza ma che rimpiazza lo spirito vero, il buonsenso, il giudizio, la ragione e la conoscenza. E' l'arte di nobilitare con una formula ricercata ideuzze fredde, puerili, comuni. Più un popolo è futile e corrotto e più far ricorso al gergo».

Non si potrebbe dir meglio.

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« Risposta #425 inserito:: Aprile 30, 2013, 04:42:29 pm »

I 5Stelle fuori dall'Europa



di EUGENIO SCALFARI

RINGRAZIO Rodotà delle precisazioni che ci ha mandato.

Rispondo quanto segue.

1. Gli errori da lui rilevati e compiuti da parte del Pd nei suoi confronti, io stesso li ho rilevati in due modi.Consigliando a Bersani per il tramite dell'amico Luigi Zanda di prendere contatto con Rodotà affinché ricordasse pubblicamente la sua biografia politica strettamente legata alla sinistra democratica; questo a mio avviso sarebbe stato sufficiente a far convergere i voti del partito su di lui. Evidentemente questo mio suggerimento non fu accolto. Per quanto riguarda la situazione attuale di quel partito, l'ho descritta come Rodotà e i nostri lettori hanno potuto leggerla: divisa in correnti che antepongono il loro interesse a quello del partito e soprattutto del Paese segando non solo i rami ma il tronco stesso che tutti li sostiene. Il Pd -  ho ancora aggiunto  -  non deve essere soltanto riformato ma rifondato. Come è chiaro questo va molto ad di là del fatto di non aver votato per Rodotà.

2. Grillo negli ultimi giorni più convulsi ha detto che se il Pd avesse votato per Rodotà, lui avrebbe appoggiato un governo fatto da quel partito ma a distanza di qualche ora ha aggiunto mai per un partito guidato da Bersani. Voleva cioè scegliere lui anche il presidente del Consiglio?

3. Un governo sostenuto dal Movimento 5 Stelle avrebbe dovuto applicare la politica delle Cinque stelle che ho riassunto brevemente nel mio articolo di
domenica anche per chiedere a Rodotà se condivide quei punti; ma lui a quella mia domanda non ha dato alcuna risposta nella sua lettera. Che tipo di governo sarebbe dunque nato con l'appoggio di Grillo? Un governo col quale la speculazione avrebbe giocato a palla e l'Europa avrebbe severamente sanzionato.

4. Resta il fatto che il governo che sta per nascere non deriva da una concertazione tra i partiti che lo appoggiano. Sarà un governo del Presidente e i voti per fiduciarlo verranno dati a quel governo. Un tempo si chiamavano "convergenze parallele" e questa credo sarà la natura politica del governo stesso, né più né meno come il governo Monti quando nacque nel novembre 2011.

5. Se il risultato sarà positivo ai fini dell'uscita dalla recessione ed anche dalla costruzione di un'Europa federale che è a mio avviso indispensabile in un mondo globalizzato, allora questo governo che a Rodotà sembra scellerato riconsegnerà il proprio mandato con un Paese finalmente rafforzato e solido. Chi verrà dopo  -  sempre che i risultati corrispondano alle aspettative  -  dovrà lodarlo insieme al Capo dello Stato che l'ha reso possibile ma, per l'esperienza che ho, posso fondatamente supporre che sarà invece ricoperto dai vituperi di chi senza essersi sporcate le mani riceverà un bel dono che non gli sarà costato sicuramente nulla.

Ho già detto che mantengo stima e affetto per Rodotà ma penso che, prima che avvenisse l'ultima votazione a Montecitorio, avrebbe dovuto annunciare il suo ritiro come pure penso che i suoi elettori di Cinque stelle avrebbero dovuto almeno alzarsi in piedi invece di restare seduti sui loro scranni. Anche l'educazione fa parte della cultura che evidentemente non c'è.

(22 aprile 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #426 inserito:: Maggio 05, 2013, 04:19:00 pm »


Opinioni

Il Dio di Francesco più trino che uno

Eugenio Scalfari

Il papa ha definito Gesù il nostro avvocato che ci attende e ci difende. Ha così accentuato la distinzione dei ruoli del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Quasi a voler dare un'impronta politeista al cattolicesimo

(26 aprile 2013)

L'Osservatore Romano del 18 aprile è uscito con un titolo in prima pagina a tutte colonne alquanto sconcertante. Due parole: «L'Avvocato Gesù» e sotto la foto di Papa Francesco in piedi sulla sua piccola auto scoperta che si muove in mezzo ai fedeli in piazza San Pietro.

L'Avvocato Gesù: questo è l'appellativo che il Papa ha usato nell'udienza generale del 17 aprile. Con queste parole: «Gesù è il nostro Avvocato. Quando uno di noi è chiamato dal giudice la prima cosa che fa è avere un avvocato affinché lo difenda. Il nostro Avvocato ci difende dalle insidie del diavolo e ci difende da noi stessi, dai nostri peccati. Gesù è un capocordata quando si scala una montagna legati alla corda. Ci attira a sé conducendoci a Dio. Lui ci apre il passaggio e ci attira a sé e intercede per noi. Gesù è l'unico ed eterno Sacerdote che ha attraversato il supplizio e la morte in croce, è resuscitato e asceso al Cielo ed è presso Dio Padre dove intercede sempre a nostro favore. Egli è vivo in mezzo a noi e ci rassicura; non è più in un preciso posto del mondo come era prima dell'ascensione, ma è nelle signoria di Dio, presente in ogni spazio e tempo, accanto a ognuno di noi. Nella nostra vita non siamo mai soli, abbiamo accanto questo Avvocato che ci attende e ci difende». Fin qui il Papa. Proveremo ora a tirarne qualche conclusione e a porci qualche domanda.

Chiamare Gesù l'avvocato di tutti è naturalmente una metafora che non intacca la sua natura divina di Figlio di Dio che il Papa anzi sottolinea (semmai ce ne fosse bisogno) in ogni riga del suo discorso. La missione del Figlio di aiutarci a sfuggire ai nostri peccati e a respingere le tentazioni del diavolo è connaturata alla recuperata alleanza tra il Creatore e le sue creature. Il Dio "uno e trino" è quello dell'amore, della misericordia e della carità. In questo senso è un Dio del tutto diverso da quello del Vecchio Testamento; non più il Dio degli eserciti che si identificava col popolo eletto d'Israele, la sua parola è diretta a tutte le genti e a lui sono attributi sentimenti umani che lo rendono comprensibile ai fedeli chiamati a onorarlo e adorarlo. Sentimenti però che sono concentrati nel Figlio cui la Chiesa riconosce il ruolo dell'intercessione. Gesù Cristo intercede affinché il Padre conceda il suo perdono. Le creature debbono passare attraverso Gesù, è lui che apre la porta e conduce alla vetta della salvezza e il Padre ascolta soltanto la voce del Figlio. Ma, secondo la tradizione cattolica, anche Maria sua madre assunta in Cielo intercede per rendere più facile che la voce delle creature arrivi al Figlio. Si direbbe che la tradizione abbia costruito una sorta di catena che coinvolge vari anelli, vari scalini da percorrere. Una scala santa: i Beati, i Santi, Maria, il Figlio, il Padre. La trinità non è prevista nelle altre due religioni monoteiste, dove il dio è uno e uno soltanto il cui nome non deve essere neppure pronunciato e di cui è impossibile qualunque raffigurazione.

La chiesa cattolica, vista in questo modo, è assai poco monoteista. Si colloca ­ ?€“ si direbbe ?€“ in una zona intermedia tra il monoteismo e il politeismo, ricorda alla mente la figura dello Zeus olimpico, depositario di un ruolo di padre e fratello delle altre divinità a ciascuna delle quali è affidato un ruolo specifico. Zeus è l'ultima istanza, i figli e i fratelli conservano però la loro autonomia nel governo degli istinti umani e degli elementi del cosmo.

E' questa la natura del cristianesimo cattolico? Il Figlio ?€“ che si è anche incarnato ?€“ è il depositario della misericordia e del perdono, lo Spirito Santo avvolge le creature e le predispone al bene, il demonio le insidia e le mette alla prova. Il Padre unifica le invocazioni e da lui proviene la luce della beatitudine che illumina le anime dei salvati.
I "riformati" sono però un'altra cosa. Il loro è un rapporto diretto con Dio, la catena delle intercessioni e degli intercessori è di fatto inesistente. C'è un solo Dio per loro ma si potrebbe anche dire che ciascuno ha il suo Dio poiché ci arriva da solo e da solo lo pensa. E' così?

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« Risposta #427 inserito:: Maggio 05, 2013, 04:20:05 pm »

Tutti ai remi per salvare la nave

di EUGENIO SCALFARI


DOMANDIAMOCI anzitutto che cosa vuole la gente, le persone che incontriamo o di cui sappiamo tutti i giorni e che appartengono alle più diverse categorie: lavoratori, consumatori, giovani, anziani, occupati, disoccupati, indignati, disperati, civicamente impegnati, indifferenti, antipolitici.
Quelli che chiamiamo la gente e che un tempo chiamavamo il popolo, il "demos", sostantivi nobilitanti perché ne sottolineano la sovranità, non hanno più una visione del bene comune perché sono schiacciati sul presente dai loro bisogni immediati, dalla loro povertà o dal timore di sprofondarvi dentro, circondati da una nebbia che gli impedisce di costruire il futuro.

La gente altro non è che un popolo degradato dagli errori e a volte dai crimini commessi da una classe dirigente anch'essa degradata; ma anche per colpa propria perché ha subìto quel degrado senza reagire e addirittura sguazzandovi dentro. Le colpe non stanno mai da una parte sola, chiamano in causa ciascuno di noi sicché  -  come diceva il Nazareno che parlava per parabole  -  chi è senza peccato scagli la prima pietra.

Dunque la gente, simulacro sconcertante del popolo sovrano. Che cosa vuole? Vuole un immediato sollievo dai propri disagi, vuole il recupero di almeno una parte del benessere perduto e un po' più di giustizia sociale; vuole che si diradi la nebbia e si riaccenda la speranza di futuro.
Questo vuole la gente. Detesta la disperazione e per questo è disperata.

Ha bisogno d'essere governata ma non si fida. Un nuovo governo finalmente c'è e il Parlamento gli ha votato un'ampia fiducia ma la gente aspetta di vedere i primi fatti. Le promesse non bastano, gli impegni neppure, quante volte furono traditi?

Ma attenzione, gente: molto dipende anche da te. Se ancora una volta cadrai nell'inganno della demagogia, se ti lascerai sedurre dal canto delle sirene, se non vorrai e non saprai ritornare popolo, sarà poi troppo tardi per piangere perché qui e ora si gioca il tuo destino.

***

Molti temono ed altri sperano che questo appena costituito sia un governo "balneare". Altri si augurano che rappresenti una svolta: dopo la guerra civile durata vent'anni tra berlusconismo e antiberlusconismo, finalmente la pacificazione.

Abbiamo già detto che la gente non è interessata a nessuna di queste ipotesi, ma soltanto (e non è poco) al recupero d'una parte del suo benessere, a tutele sociali e al rilancio del lavoro e della crescita. Gli obiettivi sono questi; al governo spetta di trovare gli strumenti e metterli in opera. Può sembrare paradossale, ma i mercati pensano la stessa cosa e la loro risposta finora è positiva. Perciò la natura di questo governo è chiarissima: stato di necessità per oggettiva mancanza di alternative. Dovrà durare fino a quando quei risultati non saranno stati raggiunti.

Un governo balneare non corrisponde a questo mandato perché non è in pochi mesi che gli obiettivi assegnati potranno essere raggiunti. I partiti che lo appoggiano debbono averlo ben presente.

Le provocazioni di sapore pre-elettorale che Berlusconi continua a lanciare ogni giorno, non giovano affatto, inaspriscono una conflittualità che rende friabile una compagine tenuta insieme con gli spilli. Forse il Cavaliere pensa di consolidare in questo modo il ruolo di "kingmaker" cui aspira e di attrarre almeno in parte i sei milioni di voti perduti. Quando vorrà, staccherà la spina come ha fatto con Monti; ma commette un grave errore a coltivare queste ipotesi. Napolitano non ha alcuna intenzione di sciogliere le Camere fino a quando la legge elettorale e le altre riforme da lui ritenute indispensabili per avviare il Paese verso una solida ripresa non saranno state effettuate.

Chi pensa che in quel caso lo scontro avverrà tra Berlusconi e Letta si sbaglia, lo scontro contrapporrebbe il Cavaliere a Napolitano, che avrebbe con sé le Cancellerie europee, i mercati e soprattutto la gente. L'immagine del "meno male che Silvio c'è" andrebbe in frantumi nel breve spazio d'un giorno, perfino tra le file dei suoi fedeli. Forse qualcuno di loro dovrebbe avvertirlo prima che sia troppo tardi.

Quanto ai partiti, dovrebbero riformarsi e rifondarsi perché così come sono ridotti hanno perduto ogni capacità di rappresentanza. Tutti, movimenti compresi. Spetta ai loro militanti di provvedere e alla pubblica opinione di stimolarli mettendoli di fronte alle loro responsabilità. Viviamo in un Paese dove non è mai esistita una destra liberal-moderata e una sinistra riformatrice e non trasformista. La destra dovrebbe ripudiare il populismo e la sinistra il frazionismo nascosto sotto il mantello dell'utopia.

Se così non sarà, avrà avuto ragione chi ci definì un'espressione geografica. Sono passati duecento anni da allora, ma con scarsissimi progressi.

***

L'abolizione e il rimborso dell'Imu sono richieste prive di senso salvo per quanto riguarda i proprietari di case con redditi bassi. Per il resto l'Imu altro non è che un'imposta progressiva sul patrimonio ed è bene che come tale sia mantenuta. L'economia reale ha bisogno di tutele sociali estese e robuste, alleggerimento del cuneo fiscale, incentivi al consumo e alla creazione di posti di lavoro.

Le risorse disponibili e quelle che l'Europa dovrà mettere a nostra disposizione nel quadro delle trattative in corso vanno canalizzate in questo modo. La lotta all'evasione va continuata con decisione. Le vendite di patrimonio pubblico debbono finalmente essere intraprese; i debiti della pubblica amministrazione liquidati, se ne parla da un anno, che cosa si aspetta? La "spending review" ha dato ben poco finora, eppure l'obiettivo è di palmare evidenza: la burocrazia, cioè la semplificazione amministrativa mai fatta. Questo dovrebbe essere uno dei compiti primari del governo, altro che balneare!

Walter Veltroni sostiene che anche la lotta contro la criminalità organizzata  -  a cominciare da quella che domina il settore dei videogiochi  -  è un obiettivo economico di essenziale importanza, ed ha perfettamente ragione. Dai un seguito in questo senso, caro Enrico Letta, sarebbe benvenuto.

E meno male che Draghi c'è. Qualcuno  -  a cominciare dalla Bundesbank ma non solo  -  ha dato un'interpretazione riduttiva della diminuzione del tasso di interesse della Bce ed ha trascurato altre parti dell'intervento preannunciato da Draghi: l'accelerazione dell'unione bancaria, i prestiti trimestrali illimitati alle banche europee e il tasso negativo sui loro depositi presso la Bce. Si tratta di iniezioni di liquidità della massima importanza, che sono all'origine del buon andamento dei mercati e dello "spread". La ripresa dell'occupazione in Usa e la politica di liquidità della Federal Reserve sono altrettanti elementi positivi della situazione. Forse siamo veramente all'inizio della ripresa a cinque anni dallo scoppio della crisi.

***

Un altro sparo a salve di Berlusconi riguarda la sua candidatura alla presidenza della Convenzione indicata nel programma di governo. Non starò a ripetere quello che è stato già detto da persone non sospettabili di faziosità sulla impossibilità di dare al Cavaliere un ruolo di "terzietà". Fa ridere la sola idea.

Ma il problema è un altro: creare questa Convenzione non ha alcun senso. Poteva averne quando Bersani la indicò come uno strumento utile per discutere i temi delle riforme costituzionali, distinte da un governo formato dal Pd al di fuori della logica delle larghe intese. Ipotesi rivelatasi ben presto irrealizzabile. Ma ora non ha senso alcuno, espropria le commissioni parlamentari e propone una sorta di Assemblea costituente del tutto sconsigliabile.

Noi non abbiamo affatto bisogno di una generale rilettura critica della Costituzione vigente, tantomeno con l'obiettivo di passare dalla Repubblica parlamentare a quella presidenziale.

Abbiamo bisogno di specifiche e limitate riforme di stretta competenza del Parlamento sulla base dell'articolo 138 della Costituzione: la riforma del senato federale e del bicameralismo perfetto, la diminuzione del numero dei parlamentari, la riforma del finanziamento dei partiti, l'abolizione delle Province.
Questi sono i temi; per realizzarli la prevista Convenzione è una via sbagliata. Ho visto che anche Stefano Rodotà è su questa linea e me ne rallegro.

Ed ora, come disse l'ammiraglio Nelson a Trafalgar, faccia ciascuno il proprio dovere. Lui purtroppo ci rimise la pelle ma la battaglia fu vinta. Noi speriamo che la vinciamo restando in piedi sul cassero della nostra nave che batte le insegne dell'Italia e dell'Europa.

(05 maggio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #428 inserito:: Maggio 06, 2013, 11:41:57 am »

Dialogo con i non credenti nel nome di Gesù di Nazareth

Esce il nuovo libro di Vincenzo Paglia.

Un lungo testo in forma epistolare indirizzato a chi non ha la fede.

L'obiettivo non è di convertire l'interlocutore ma di trarre profitto dalle due posizioni

di EUGENIO SCALFARI


CARISSIMO amico non credente, così comincia il libro di Vincenzo Paglia e il titolo lo rispecchia fedelmente: A un amico che non crede (Piemme). Ma in realtà quelle 230 pagine, dense di riflessioni, citazioni e narrazioni, sono dirette all'uomo in quanto tale, credente e non credente, cristiano o non cristiano.

Mi sento tra i destinatari di questa lunga lettera anche perché Vincenzo, anzi don Vincenzo, lo conosco da vent'anni e forse più e la conoscenza è diventata amicizia e scambio di sentimenti e pensieri. Pensieri discordi nelle reciproche conclusioni, ma coincidenti nel metodo, cioè nel dialogo alla ricerca di quanto i laici non credenti debbono alla storia e all'esperienza cristiana e reciprocamente quanto i cristiani debbono al pensiero critico dei non credenti e alla sua storia.
L'autore, per chi non lo sapesse, è stato il co-fondatore della Comunità di sant'Egidio e da una decina d'anni è vescovo di Terni. Di recente Benedetto XVI l'ha nominato presidente del "consiglio delle famiglie", tema di fondo della Chiesa e della società. Non è un "martiniano" don Vincenzo, ma ha molto apprezzato le posizioni del cardinale da poco scomparso. I suoi punti di riferimento sono stati papa Wojtyla, Benedetto XVI e ora, a quanto capisco, papa Francesco.

Il suo libro tocca tutti i punti del confronto tra il credente e l'amico non credente. L'obiettivo non è di convertire alla fede il suo interlocutore né di esporsi all'eventuale reciprocità, ma di trarre reciproco profitto spirituale dal saggiare le posizioni dell'uno e dell'altro. I temi del confronto sono: la zona del mistero che l'autore chiama l'Oltre; l'affermazione e la negazione di Dio; il Dio assente o presente di fronte al Male; Gesù il Cristo; la fede e la scienza; l'amore verso gli altri; la verità e l'assoluto; la morte e l'aldilà.

L'elenco comprende gran parte del dibattito in corso da sempre, anche prima che il cristianesimo facesse la sua comparsa. Ma è un dibattito che non si svolge mai allo stesso modo perché cambiano le culture che si confrontano, le società e i problemi della convivenza. Cambia il mondo e gli interrogativi che si pone l'"homo sapiens" da quando l'evoluzione dette forma ad un animale pensante. Rimane tuttavia come tema costante del confronto quella zona del mistero che a volte sembra restringersi e a volte estendersi, ma è direttamente connessa alla ricerca del senso.
Questo è il punto di fondo che il libro affronta. Viviamo in un'epoca che ha reso ancor più incalzanti le domande e ancor a più difficili le risposte e il dibattito è diventato sempre più acceso rivelando aspetti di drammaticità.

* * *

Al primo punto c'è il dibattito sull'esistenza o la negazione di Dio. Debbo dire che monsignor Paglia non è un patito delle cinque regole di San Tommaso, le ritiene importanti ma non decisive e pensa piuttosto che la vera prova dell'esistenza di Dio derivi dalla fede. Da questo punto di vista gli è molto utile rievocare l'intuizione ontologica di sant'Anselmo: se tante persone pensano Dio come trascendenza eterna che tutto pervade, è impossibile che questa fede non poggi sulla realtà oggettiva.

La maggior parte dei non credenti pensa invece (ed io sono tra questi) che l'idea stessa della divinità sia una meravigliosa invenzione dell'"homo sapiens", a quale scopo? Per sconfiggere la morte immaginando un aldilà che eternizza l'anima e dà un senso al passaggio terreno riscattandone la precarietà. La tesi del dio inventato è presente da molto tempo e fu anche ufficializzata da alcuni imperi d'Oriente e da quello romano: l'imperatore era un dio umano durante la sua vita. Dunque era la carica, il ruolo ad essere divinizzato.

Comunque non è l'ufficializzazione imperiale che interessa e preoccupa il credente, ma l'invenzione della divinità da parte della mente umana. A quell'idea l'autore del libro obietta che la mente umana, pur capace di sorprendenti invenzioni, non può arrivare a tanto, troppo complessa è l'invenzione di un Divino che non abbia un fondamento di realtà, qualunque cosa s'intenda per Divinità. Perfino il bosone di Higgs? Questo vorrei domandare all'autore della lettera all'amico non credente: una particella elementare può essere Dio?

Credo di conoscere la risposta, ed è un'altra domanda: chi ha creato la particella elementare? Anzi le particelle elementari non sono un'invenzione ma una scoperta degli scienziati come la meccanica dei quanti, le onde magnetiche, i buchi neri e il big bang che la scienza ipotizza arrivando a tracciarne la storia fino ad un miliardesimo di miliardi di secondo, arrestandosi a quel punto prima che il big bang avvenga. Ma prima ancora che cosa avviene? Il credente gli risponde che prima ancora c'è Dio. Il non credente invece continua da parte a ritenere che quel Dio che ha creato perfino le particelle elementari sia un'invenzione della mente per esorcizzare la morte. Io rispetto la fede, rispetto il mio amico credente, rispetto il mistero, ma Dio è un'invenzione, un mito che personifica il concetto dell'Essere.

Anche qui credo di conoscere le risposte del credente: se Dio è l'Essere, l'Essere non è un'invenzione della mente ma una realtà come è una realtà il suo rapporto con gli Enti. Gli Enti emergono dall'Essere, nascono, muoiono e si disfano nell'Essere il quale sta, esattamente come Dio. Infatti sono la stessa cosa.

Siamo arrivati dunque ad un punto comune? In un certo senso sì, siamo arrivati a un punto comune con alcune precisazioni. L'identificazione di Dio con l'Essere spoglia Dio da ogni umanesimo, non è pensabile che sia misericordioso o vendicativo o giusto o sapiente o qualunque attributo umano che gli si voglia attribuire, salvo forse quello dell'eternità ma anch'esso con molte riserve poiché l'Essere è fuori dal tempo.

L'altra precisazione riguarda noi umani: la nostra mente arriva fin qui, può esprimere Dio attraverso equazioni matematiche o attraverso metafore che lo raccontino come un personaggio, ma al di là di questo la nostra mente non può andare. C'è l'Oltre? Cioè qualcosa di non esprimibile? Sicuramente c'è l'Oltre, per noi inconoscibile, terra ignota e non esplorabile. Qui finisce in disaccordo il discorso sull'esistenza di Dio. Ma voi, credenti cristiani, avete un altro capitolo da raccontare che per voi anzi è il primo perché da esso prendete il nome ed è il capitolo di Gesù di Nazareth, figlio dell'uomo e figlio di Dio. Forse su questo capitolo potremo incontrarci.

* * *

Le fonti sono i Vangeli, gli atti degli Apostoli, le lettere da essi inviate alle comunità cristiane e poi Paolo e poi Girolamo e poi Agostino e Ambrogio e Bernardo, la dottrina, la mistica, la Chiesa di Gregorio di Saona e quella di Bonifacio e duemila anni di storia del potere spirituale e di quello temporale passando attraverso gli scismi, le crociate, l'Inquisizione, la Riforma. Infine lo scontro con la filosofia moderna da Montaigne a Cartesio, a Kant, all'illuminismo, a Hegel, a Nietzsche, a Freud. Infine il Vaticano II che ha cercato di rompere la gabbia costruita dal Vaticano I.
Tutto questo è stato messo in moto e dominato dal personaggio Gesù di Nazareth, raccontato dagli evangelisti che hanno parlato di lui senza averlo conosciuto fondandosi sulle narrazioni di alcuni apostoli.

Gesù di Nazareth. Il libro di don Vincenzo, che ricorda tutte queste tappe di storia religiosa con dovizia di citazioni e di riflessioni  -  fornisce di Gesù un ritratto dove risplende la sua dolcezza, la sua mitezza, il suo amore per il prossimo, la sua consapevolezza del destino che lo attende e soprattutto la sua predicazione.

Il ritratto è molto bello, ne emerge la forza di quell'uomo ed anche le debolezze insite nella sua forma umana; perfino alcuni momenti culminanti dove l'essere uomo sommerge la sua fiducia e lo spinge a dubitare di sé e perfino del Padre: nell'orto del Getsemani qualche ora prima dell'arresto e poi sulla croce del Golgota.

Questo è il ritratto. Quanto alle fonti esse offrono varie possibilità d'interpretazione, dovute alle molteplici trascrizioni dall'aramaico al greco antico e poi al latino, soprattutto per quanto riguarda il Vangelo di Marco. Cronologicamente esso è il primo poiché Matteo aveva scritto alcuni appunti andati perduti ma la scrittura del suo Vangelo è posteriore a quella di Marco.

La differenza tra i vari Vangeli consiste in questo: il ritratto di Marco raffigura un personaggio in certi momenti mite e dolce ma in altri aspro, triste e inquieto. Una personalità forte, bizzarra e contraddittoria. Comincia a trent'anni la sua storia, senza che poco o nulla si sappia sulla nascita, sull'infanzia e sull'adolescenza. Comincia col battesimo nelle acque del Giordano dove predica ed urla Giovanni Battista. Dopo il battesimo, il deserto e le tentazioni del demonio, poi la predicazione, le parabole, i discepoli, le folle; le parole dure nei confronti della famiglia, anche della propria; l'identificazione di sé con il figlio di Dio. Attenzione: non il Messia ma il Figlio. Quello di Marco è un ritratto in parte alternativo ma che sottolinea quasi ad ogni riga la divinità del personaggio e coincide con tutti gli altri Vangeli sulla dottrina dell'amore come carità nei confronti del prossimo.

Io penso che l'uomo Gesù abbia predicato un'umanità cui dobbiamo riferirci come il modello nobile e ad esso ispirare i nostri comportamenti. Ciascuno nell'autonomia della propria coscienza e  -  oso dire  -  costi quel che costi. Su questo, caro Vincenzo, siamo d'accordo e tu lo sai.
 

(06 maggio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #429 inserito:: Maggio 07, 2013, 11:15:14 pm »

La leggenda di Belzebù

Eugenio SCALFARI

GIULIO Andreotti è stato il vero  -  e mai risolto  -  mistero della prima Repubblica. Una cosa è certa: Andreotti è stato un personaggio inquietante e indecifrabile, l'incrocio accuratamente dosato d'un mandarino cinese e d'un cardinale settecentesco. Ha tessuto per quarant'anni, infaticabilmente, una complicatissima ragnatela servendosi di tutti i materiali disponibili, dai più nobili ai più scadenti e sordidi. È stato lambito da una quantità di scandali senza che mai si venisse a capo di alcuno. L'elenco è lungo: lo scandalo del Sifar (era ministro della Difesa all'epoca dei dossier di De Lorenzo e di Allavena).

E poi lo scandalo Montedison-Rovelli (allora era presidente del Consiglio), lo scandalo Eni-Petromin (di nuovo presidente del Consiglio), quello Caltagirone, l'arresto del direttore generale della Banca d'Italia, Mario Sarcinelli, e l'incriminazione del governatore Paolo Baffi (che furono ricondotti ad una sua vendetta), lo scandalo Sindona al quale era legato da una dubbia amicizia, quello del Banco Ambrosiano, quello del comandante della Guardia di Finanza in combutta con i contrabbandieri del petrolio e, infine, lo scandalo della P2 che in un certo senso tutti li riassume.

Ciascuno di questi casi può assumere l'aspetto geometrico di una piramide tronca di cui non si riesce a vedere il culmine. Ci sono indizi, amicizie, legami, luogotenenti che mantengono contatti e in caso di necessità si assumono in prima persona le responsabilità (vedi il caso
Evangelisti che diede le dimissioni da ministro quando si scoprì che aveva ricevuto denari da Caltagirone). Tutti questi elementi ruotano attorno ad Andreotti e lasciano intuire che potrebbe essere stato lui il Grande Protettore, il Padrino, comunque il punto di riferimento, ma niente di più.

Quest'uomo così discusso esercitò una grandissima influenza ma non dette mai ordini. Suggeriva, consigliava, incoraggiava, proteggeva. Aveva una memoria tenace, una zona segreta della mente nella quale annotava gli sgarbi ricevuti e i favori resi, i nemici e gli amici. Quegli occhi leggermente obliqui sembravano due fessure attraverso le quali entrava tutto ciò che doveva entrare senza che ne uscisse nulla, non un moto d'ira o di gioia, non un risentimento percepibile né di odio né di riconoscenza. Quelle labbra sottili, quella testa incassata tra le spalle ingobbite, quel colorito giallognolo, quell'immagine fisica di fragilità non disgiunta da una certa eleganza, una vita privata senza ostentazione alcuna, quel tratto al tempo stesso alla mano ma distante da tutti, ne fanno un enigma vivente. Se indossasse un kimono di seta e babbucce ai piedi e aggiungesse ai radi capelli un posticcio codino, Andreotti sarebbe l'immagine d'un alto consigliere della Città Proibita dell'impero celeste. Ma con una sottana violetta e la berretta cardinalizia in capo potrebbe essere un personaggio ritratto di scorcio dal Tiziano, tra un cardinal dè Medici e un cardinal Barberini. Oppure, in talare nera e fascia di seta alla vita, un potente generale dei gesuiti del diciottesimo secolo.

Nel partito ebbe sempre scarso seguito, la sua corrente numericamente non era forte, i grandi del capitale, sia pubblico che privato, non sono mai stati suoi alleati: Mattei, Petrilli, Cefis, Schimberni, Cuccia, nessuno di questi uomini ha mai avuto con lui rapporti organici mentre alcuni di loro ne hanno avuti con altri leader politici magari anche meno dotati.

Non so se sia stata un'inclinazione o una necessità, ma Andreotti si è sempre posto come il leader di forze eterogenee e minoritarie con l'obiettivo di riunirle intorno a sé trasformandole in una maggioranza sia pure provvisoria. Qualche esempio. È stato il protettore di Rovelli contro Cefis, di Sindona contro Cuccia, del Banco di Roma contro la Commerciale e il Credito Italiano. Di Roberto Calvi contro tutti. Ha avuto in mano per molti anni l'importantissima Procura della Repubblica di Roma, attraverso Claudio Vitalone. Gelli ha lasciato più volte intendere di considerarlo il suo referente principale. Il generale Maletti, capo dei servizi del controspionaggio, gli fu devotissimo. Orazio Bagnasco non mosse passo nella finanza senza consultarlo.

In Vaticano, questo cardinale mancato non è mai stato nelle grazie dei Segretari di Stato in carica, a conferma di quell'inclinazione del carattere di cui abbiamo detto che lo spingeva a lavorare non di fronte ma di sponda; ma sempre mantenne contatti solidi e profondi con i capi di alcune potenti congregazioni, con lo Ior, con il Vicariato di Roma e con alcuni dei sostituti della Segreteria.

Il suo vero avversario a pari livello di intelligenza politica è stato Moro, non Fanfani. Moro privilegiava la strategia, Andreotti la tattica. Ma in alcune cose importanti i due si somigliavano. Per esempio nel radicarsi al centrodestra per meglio aprire sulla sinistra. Per esempio, nel servirsi di personaggi discutibili come procuratori d'affari: se Andreotti ha avuto i suoi Sindona e i suoi Caltagirone, non dimentichiamoci che anche Moro ha avuto i suoi Sereno Freato.
Ma Moro, proprio perché aveva il gusto della strategia, puntò fin dall'inizio sul partito come strumento indispensabile per attuarli. Andreotti invece sul partito non puntò mai. In un'ideale partita a quel classico gioco che è lo scopone, Moro può raffigurarsi come il giocatore che dà le carte e gioca per "apparigliare", mentre Andreotti è il giocatore "sotto mano" che gioca per "sparigliare". Nella corsa al Quirinale sono caduti tutti e due. Ad eliminare il primo hanno provveduto le raffiche di mitra dei brigatisti, il secondo è malamente scivolato sul caso Gelli-P2.

Poi, nel 1992, cadde la prima Repubblica e ogni possibilità che il "divo" avesse ancora una prospettiva politica. Negli anni del berlusconismo è stato il testimone di un'epoca tramontata per sempre. Che possiamo dire oggi di lui se non augurargli che riposi in pace? "Sic transit gloria mundi" oppure "Ai posteri l'ardua sentenza", ma i posteri sono già tra noi e c'è da scommettere che molti di loro che hanno appena vent'anni non sanno neppure che sia mai esistito.

(07 maggio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #430 inserito:: Maggio 15, 2013, 12:00:18 pm »

L'esecutivo appena nato, a Brescia rischia il crac

di EUGENIO SCALFARI


L'uscita in piazza di Silvio Berlusconi a Brescia per attaccare la magistratura e i giudici che l'hanno condannato in appello a pene severe, commisurate alle malefatte da lui ripetutamente commesse, si è svolta  -  e questo è l'aspetto politicamente più grave  -  con la presenza e la partecipazione di Angelino Alfano, vicepresidente del Consiglio e ministro dell'Interno, e dei ministri  Gaetano Quagliariello (Riforme) e Maurizio Lupi (Trasporti e Infrastrutture). Enrico Letta, parlando nella mattinata di ieri all'assemblea del Pd, aveva già manifestato il suo dissenso dalla presenza di ministri del suo governo all'iniziativa di Berlusconi. Parleremo più dettagliatamente nel seguito di questo articolo delle conseguenze che quel che è accaduto a Brescia può avere, ma intanto ne segnaliamo la gravità e la necessità assoluta che mai più si ripetano fatti analoghi.

Fatta questa premessa che tra poco svilupperemo, seguiamo ora i fatti accaduti ieri e le loro implicazioni secondo l'ordine cronologico in cui si sono svolti.

È la prima volta che un ex leader della Cgil diventa segretario del maggior partito della sinistra italiana che è in qualche modo l'erede del Pci. Non ci riuscì Giuseppe Di Vittorio né Bruno Trentin né Luciano Lama e neppure Cofferati sebbene ne avessero tutti i numeri. Ce l'ha fatta invece Epifani, sindacalista al cento per cento ma di fede socialista nella corrente guidata allora da Antonio Giolitti.

Epifani governerà fino al prossimo ottobre, quando avrà luogo il congresso del partito. A stretto rigore nulla impedisce che il "traghettatore", come molti lo chiamano per indicare il compito che gli è stato assegnato, si candidi alla successione di se stesso, ma i concorrenti sono molti, a cominciare da Matteo Renzi, la Bindi, Speranza, Cuperlo, Civati, Orfini, Zingaretti, Franceschini, per non parlare di Fabrizio Barca. Comunque Epifani oggi c'è. Guiderà il partito nei prossimi cinque mesi con compiti estremamente impegnativi che lui stesso ha indicato ieri nel suo discorso di presentazione.

Il primo sarà di assicurare la compattezza del Pd nell'appoggiare il governo Letta; il secondo di far sì che quell'appoggio sia attivo e non di rimessa, cioè intessuto di proposte che restituiscano al Pd la primogenitura e quindi la forza per disputare a Berlusconi il ruolo d'ispiratore numero uno del governo. L'appoggio attivo presuppone che il governo sia vissuto come necessario, utile e senza alternative in questa fase di crisi economica e sociale che l'Italia e l'Europa stanno attraversando. Infine il terzo compito che riguarda la ricostruzione del partito, la partecipazione della base, il rinnovamento della squadra che affiancherà il segretario e, nei limiti del possibile, lo smantellamento delle correnti che ne sono da tempo diventate altrettanti tarli, altrettanti feudi, altrettante confraternite di potere.

 Cinque mesi, durante i quali Epifani dovrà attraversare le fiamme a piedi scalzi. Se ci riuscirà, quei cinque mesi diventeranno una fase essenziale nella storia della sinistra italiana e lui meriterà un oscar per averla guidata.

* * *
Enrico Letta è consapevole di quanto è accaduto all'assemblea del suo partito: se a partire da domani il Pd non gli assicurerà quell'appoggio attivo del quale abbiamo già detto, Letta vedrà aumentare il ruolo di Berlusconi e le sue pretese, la principale delle quali è che le promesse da lui fatte in campagna elettorale costituiscano la base dell'attuale governo. L'indipendenza del governo Letta e la stessa sua credibilità europea ne risulterebbero fortemente diminuite. È pur vero che l'iniziativa del Pd che abbiamo chiamato appoggio attivo al governo non deve andare al di là del limite implicito in un governo definito di larghe intese. Ma su questo punto diventa preminente il ruolo del presidente del Consiglio poiché è a lui che spetta di stabilire e tradurre in atti esecutivi il programma del governo.

L'ha già fatto nel discorso di presentazione alle Camere, ma il discorso non basta anche perché in esso erano delineati due distinti piani di lavoro e due distinte finalità che hanno già suscitato pericolosi equivoci e inquietanti strumentalizzazioni che a nostro avviso debbono esser chiariti con la massima urgenza.

I due piani di lavoro sono da un lato gli interventi di politica economica e sociale necessari per avviare una concreta politica di crescita e di equità in Italia e in Europa nel rispetto degli impegni già presi con le autorità di Bruxelles e con i governi degli altri Paesi a cominciare dalla Germania.

Dall'altra parte le riforme costituzionali e istituzionali senza le quali la politica economica non avrebbe a sua disposizione gli strumenti adeguati e la democrazia italiana rischierebbe un tracollo già in parte verificatosi.
Quanto alle due (pericolose) finalità, esse sono gli scopi concreti per adempiere i quali è nato questo governo e la "pacificazione" auspicata tra le forze politiche che lo sostengono.

 Se la pacificazione è limitata all'esistenza di questo governo, è ovvio che essa sia un requisito indispensabile d'una maggioranza parlamentare, sia pure di necessità; non significa buttarsi con le braccia al collo gli uni con gli altri, ma rispettare i legittimi interessi, l'equa ripartizione dei compiti, lo spirito di servizio e di squadra per i rappresentanti dei partiti chiamati a far parte del governo. Il che vuol dire che i ministri e sottosegretari, come pure i presidenti delle commissioni parlamentari, debbono avere rispettivamente come referenti primari il governo stesso e i presidenti delle Camere. Ma se invece il concetto di pacificazione viene visto come un definitivo oblio di quanto ha diviso e divide le forze politiche presenti in Parlamento e nel Paese, se si tratta d'una definitiva cancellazione dell'incompatibilità tra le parti in questione; allora va detto che quest'obiettivo non è accettabile e non lo sarà fino a quando il centrodestra sarà guidato da Silvio Berlusconi.

 Si è fatta molta polemica sulla parola "impresentabilità" ma francamente il vocabolario non ne contempla un'altra per esprimere un dato di fatto oggettivo. Un personaggio con una biografia come quella di Berlusconi non può avere il ruolo che da vent'anni riveste senza che lo spirito stesso della vita pubblica e delle istituzioni ne siano profondamente deturpati. In nessuna delle democrazie occidentali quest'elemento di degradazione sarebbe mai stato accettato e infatti nessun governo occidentale ha accettato Berlusconi e l'Italia da lui rappresentata come un partner credibile e affidabile.

 Non si tratta d'una questione personale e soggettiva, ma politica e oggettiva: Berlusconi non è presentabile e non si tratta di un giudizio morale ma politico. Purtroppo il partito da lui fondato non ha saputo né potuto né voluto uscire dalla minorità ed è tuttora, dopo vent'anni, di sua personale proprietà. Ecco perché una pacificazione non è possibile. Chiederla al Partito democratico significa precludere che esso partecipi ad un governo reso necessario dall'esito delle elezioni dello scorso febbraio e questo è il punto che Enrico Letta deve al più presto chiarire; se non con le parole, con i fatti.

 Con le parole l'aveva in parte già chiarito nel suo discorso d'insediamento parlamentare quando, ricordando il pensiero di Nino Andreatta che fu il suo maestro, disse: "Questo governo non si propone di fare la politica ma le politiche, cioè le cose concrete delle quali la gente ha necessità e bisogno". Dunque un governo di scopo come lo fu quello Ciampi del 1993 e poi quello Dini del 1994. Del resto l'incompatibilità di Berlusconi è stata plasticamente riconfermata da quanto è avvenuto a Brescia con l'aggravante che a quella manifestazione contro la magistratura milanese, accusata d'avere emesso una sentenza sfavorevole a Berlusconi, hanno partecipato non solo tutti i dirigenti del Pdl ma anche il vicepresidente e ministro dell'Interno, Angelino Alfano. Nello stesso contesto (Alfano sempre presente e partecipe) Berlusconi ha anche definito la Corte costituzionale come un'istituzione infeudata alla sinistra politica. Ripeto: ad una pubblica manifestazione di piazza contro la magistratura. Cioè i rappresentanti del potere esecutivo che interferiscono sull'autonomia del potere giudiziario. Berlusconi, imputato e privo di cariche di governo, può spingere la sua protesta fino al ricorso alla piazza, ma i membri del governo no. Sarebbe intollerabile che questo "vulnus" si ripetesse.

Crediamo dunque indispensabile che il presidente Letta intervenga ancora con la massima ed esplicita chiarezza al riguardo. Un aut-aut è indispensabile se il governo vuole continuare ad esistere con l'appoggio del Pd e della pubblica opinione democratica.

(12 maggio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #431 inserito:: Maggio 20, 2013, 11:53:41 pm »

La proposta rivoluzionaria di Hollande all'Europa

di EUGENIO SCALFARI


Riformisti o rivoluzionari? Questa domanda sta al centro del problema italiano ed europeo, ma può essere declinata in molti altri modi. Per esempio: socialisti o liberali? Progressisti o moderati? Di destra o di sinistra? Innovatori o conservatori? Sostenitori dei diritti o anche dei doveri?

Spaccare la società in due è quasi sempre una semplificazione e semplificare i problemi complessi è quasi sempre un errore. Senza dire che bisogna analizzare con attenzione il significato delle parole. Se restiamo alla prima domanda che tutte le riassume, arriviamo alla conclusione che spesso una riforma fatta come le condizioni concrete richiedono può rappresentare una svolta radicale e quindi una rivoluzione; mentre accade altrettanto spesso che una rivoluzione che abbatta tutta l'architettura sociale preesistente spesso sbocca nel suo contrario, cioè in una dittatura.

Ma applichiamo questa griglia di domande all'Europa di oggi e all'Italia chiamando in soccorso anche qualche esperienza storica che possa aiutarci a capire il presente col ricordo di un passato analogo e quindi attuale.

La moneta unica europea è stata una riforma rivoluzionaria: ha reso impossibili le svalutazioni delle monete nazionali come strumento di competitività, ha unificato il tasso del cambio estero per una popolazione di oltre 300 milioni di persone, ha consentito un mercato libero per le persone, le merci e i capitali.

Un'altra riforma rivoluzionaria è stata quella del servizio sanitario nazionale. Un'altra ancora quella della scuola dell'obbligo. Una quarta il divieto di licenziamento senza giusta causa, una quinta il riconoscimento di pari diritti tra uomo e donna, una sesta quella delle pari opportunità e cioè della lotta contro le diseguaglianze nelle posizioni di partenza. Infine ultima della serie la tutela della libera concorrenza sul mercato degli scambi economici.

È pur vero che alcune di queste conquiste, tutte avvenute nel mezzo secolo trascorso dopo la fine della guerra, sono state in parte vanificate o deformate da interessi precostituiti che ne hanno impedito o limitato la piena realizzazione. Ed è altrettanto vero che nuove esigenze, nuovi bisogni e nuove tecnologie sono nel frattempo emersi rendendo necessari ulteriori mutamenti che spesso sono mancati. La necessità di una continua manutenzione e di mutamenti successivi è una dinamica indispensabile senza la quale le riforme effettuate si trasformano in uno stato di fatto che non progredisce ma invecchia. Il riformismo correttamente inteso coincide con l'innovazione, se diventa consuetudine cessa di esistere.

Purtroppo l'Europa e gli Stati che ne fanno parte versano in questa condizione. Il dinamismo delle riforme è cessato da almeno 20 anni e forse più. Perciò molti invocano la rivoluzione e rimproverano i riformisti di essersi addormentati. Ma che cos'è la rivoluzione quando è sganciata dal riformismo ed anzi gli si oppone?
                                     
                                                                    * * *

La rivoluzione che si oppone al riformismo di solito si ispira all'utopia. I rivoluzionari utopisti si propongono la distruzione dell'esistente, non il suo ammodernamento. Perciò usano il "senza se e senza ma" e dicono di no a tutto. Nove volte su dieci finiscono in una dittatura.

Nel suo libro appena uscito col titolo "E se noi domani - L'Italia e la sinistra che vorrei" Walter Veltroni ricorda e concorda su una frase che Piero Calamandrei pronunciò in un ampio discorso da lui tenuto all'Assemblea costituente il 5 settembre 1946. La frase è questa: "Le dittature sorgono non dai governi che governano e che durano, ma dall'impossibilità di governare dei governi democratici".

Veltroni ricorda anche che l'ultimo governo democratico governante fu quello dell'Ulivo presieduto da Romano Prodi dal '96 al '98. Dopo di allora i governi arrancarono e dal 2001 al novembre del 2011 furono gestiti dal populismo berlusconiano con la breve parentesi del biennio prodiano 2006-2008 che registrò il penoso spettacolo d'una coalizione che andava da Mastella a Bertinotti e un solo voto di maggioranza al Senato.
Per fortuna - aggiunge Veltroni - si susseguirono al Quirinale Scalfaro, Ciampi e Napolitano che sono stati i migliori presidenti della Repubblica che l'Italia abbia avuto ed hanno supplito alle terribili carenze del sistema.
Concordo pienamente con questi giudizi e con la necessità d'un profondo mutamento dei partiti e della società. Siamo percossi da una terribile crisi economica e sociale e in Italia ma anche in Europa da uno smarrimento della pubblica opinione. E siamo schiacciati da due populismi contrapposti e dalla crisi profonda del partito che ha la maggioranza assoluta dei seggi alla Camera e quella relativa al Senato, ma non è in grado di risollevarsi dalla crisi che l'ha atterrato.

Quanto all'Europa, versa anch'essa in condizioni che dire drammatiche è dir poco: una marea di disoccupati, una recessione che ha colpito quasi tutti i Paesi che la compongono, una politica economica profondamente sbagliata, una politica bancaria in fase di stallo, una lentezza decisionale che aggrava i malanni e vanifica le incerte terapie.

Questa è la situazione. Ci sono speranze di riportarla sulla giusta rotta?

                                                                      * * *

La speranza (lo dico con le parole di Calamandrei) è un governo che governi e che duri. Quello di Enrico Letta è nato per necessità e si regge su una maggioranza anomala e rissosa ma, allo stato dei fatti, senza alternative. Grillo non è un'alternativa e i suoi voti, quand'anche saltassero ancora in avanti (ma i sondaggi attuali lo danno al 23 per cento) da soli non bastano. Dal bacino elettorale di Berlusconi non succhia più, anzi sta avvenendo il contrario: è Berlusconi che si sta riprendendo i voti dei delusi che erano emigrati dal Pdl verso l'astensione o verso Grillo.

I cinque stelle continuano invece ad affascinare i giovani di sinistra, i delusi del Pd, i sognatori della palingenesi, quelli che sono rimasti schifati dall'apparato chiuso e correntizio d'un partito che nel 2008 si era presentato come una sorta di partito d'azione moderno, aperto, che avrebbe dovuto plasmare una società civile forte e porsi al suo servizio.

Su questi delusi i cinque stelle esercitano la loro tentazione che però ha un punto debole: non esprimono nulla che sia di sinistra, né di quella tradizionale né di quella che pensa in termini di cultura moderna. Ce ne sono ancora nel Pd e molti, ma non pare che abbiano voce o almeno non abbastanza, capace di rovesciare gli equilibri malsani che ancora dominano quel partito.

Un Pd moderato non corrisponde alla sua genesi e soprattutto non riempirebbe alcun vuoto, al contrario ne aprirebbe uno a sinistra con conseguenze letali nel quadro italiano ed europeo.

Il Pd può avere, dovrebbe avere, i voti dei liberali, che non sono affatto moderati nel senso conservatore del termine. Nelle democrazie mature i liberali sono sempre stati alleati della sinistra riformatrice, è sempre stato così dovunque, in Inghilterra, in Usa, in Francia, in Germania, in Spagna. Ed anche in Italia, nei rari momenti di democrazia vincente. Rari, perché una parte rilevante di italiani non ama lo Stato, lo considera estraneo se non addirittura nemico e soggiace alle lusinghe della demagogia e del populismo. Predomina in loro un elemento anarcoide ed un'indifferenza verso la politica che porta inevitabilmente verso forme a volte nascoste e a volte palesi di dittatura.

Questo è il dramma italiano, un risvolto del quale, certamente non marginale, estende l'antipatia verso lo Stato nazionale ad un'analoga antipatia verso l'ipotesi di uno Stato europeo. Da questo punto di vista il populismo berlusconiano coincide con il populismo grillino: lo Stato italiano, per quel che poco che esiste, dev'essere raso al suolo e lo Stato federale europeo non deve nascere. Quel tanto che esiste dell'uno e dell'altro dev'essere completamente abbattuto. Poi, sulle loro ceneri, si potrà forse edificare il nuovo. Ma se li interroghi sul come distruggerli e come ricostruirli, riceverai come risposta una scrollata di spalle e un generico "si vedrà".

                                                                      * * *

Non è così che si costruisce il futuro dell'Europa e quello dell'Italia che le è strettamente legato. Da questo punto di vista giovedì scorso è avvenuto un fatto nuovo di straordinaria importanza: il presidente francese Hollande per la prima volta nella storia politica della Francia ha abbandonato la posizione tradizionale del suo paese di scetticismo e di ostile distacco verso un'Europa federata ed ha chiesto in modo perentorio la nascita entro il 2015 d'un governo unitario europeo con un bilancio comune, un debito pubblico sovrano comune, una politica economica, estera e di difesa comuni, un sistema bancario ed una Banca centrale con i poteri di tutte le Banche centrali dei paesi sovrani.

Non era mai accaduto prima, la Francia era anzi vista come un ostacolo insuperabile a questa evoluzione, imposta ormai dall'esistenza d'una società mondiale globale. Il progetto di Hollande prevede anche l'elezione del presidente dell'Europa col voto diretto dell'intero popolo europeo.

Il governo spagnolo si è già dichiarato pronto a sostenere la proposta francese. Il nostro presidente del Consiglio Enrico Letta aveva anch'egli sostenuto per primo questa necessità ma non aveva fissato date. Hollande ha rotto gli indugi: due anni di tempo e se gli altri paesi europei (la Germania soprattutto perché a lei è rivolto il messaggio di Hollande) non saranno d'accordo, la Francia andrà avanti con chi ci sta.
I partiti italiani finora non si sono fatti sentire; i giornali hanno riportato la notizia ma senza rilevarne la novità e la fondamentale importanza. Questa sì, sarebbe una rivoluzione: un governo ed un presidente eletto di uno Stato europeo fra due anni. Le elezioni tedesche che avranno luogo in autunno dovranno cimentarsi soprattutto su questo tema e così pure quelle italiane quando avverranno e le elezioni europee che si svolgeranno interamente su questi temi. La messa in comune dei debiti sovrani nazionali fu, non a caso, il primo passo della Confederazione americana verso la Federazione.

Il futuro si può costruire soltanto così e soltanto così può rinascere la speranza nel cuore degli europei e degli italiani.

 

(19 maggio 2013) © Riproduzione riservata

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« Risposta #432 inserito:: Maggio 24, 2013, 11:11:40 am »

Morire e uccidere per narcisismo

di Eugenio Scalfari

Trasformare in gesto estremo una vendetta sociale. Per comparire sui media. Anche questo è un modo di avere successo

(15 maggio 2013)

C'è molta disperazione in giro e cresce il numero di quelli che dalla loro sofferenza di anima e di corpo fanno derivare effetti estremi. Il loro numero è in costante aumento, probabilmente anche a causa di un complesso di imitazione. Va di moda (si può dire così?) punire se stessi e punire gli altri, dilagano i suicidi e anche gli omicidi. Il movente è l'insostenibilità dei sacrifici imposti dalla crisi, che non è soltanto economica ma anche sociale e morale.

Questa "moda" suscita grande preoccupazione in chiunque rifletta sulle condizioni della società. Il peso dei sacrifici è naturalmente un elemento che spiega l'indignazione e la rabbia anche perché in molti casi non si accompagna all'equità e colpisce, come si dice, i soliti noti. Ma quando sconfina in gesti estremi il movente dei sacrifici non è una motivazione sufficiente, anche perché talvolta quei gesti sono compiuti da persone le cui condizioni economiche non sono tali da provocare una così insopportabile disperazione. Quindi bisogna scavare più a fondo, nell'intimità delle coscienze e di quanto si agita nella zona oscura della psiche.

Lo ha fatto con grande lucidità Massimo Recalcati, uno degli studiosi più attenti a queste problematiche, esperto analista e seguace del pensiero di Sigmund Freud e di Jacques Lacan. In un suo recente articolo su "Repubblica" Recalcati individua due simboli che dominano da anni la psicologia collettiva e ne influenzano i comportamenti; questa sindrome è in costante aumento e si basa sul mito del successo e su quello del fallimento, che costituiscono le due facce della stessa medaglia.
Il successo è l'obiettivo che ormai da anni domina la vita delle persone e soprattutto dei giovani che iniziano la loro corsa dopo la stagione felice dell'adolescenza: successo nella carriera, nello stile di vita, negli agi, nella notorietà e popolarità; ma anche successo in amore, ostentabile come capacità di fascino e seduzione.

Il risvolto negativo di un mancato successo è il sentimento di fallimento. Chi non riesce a conquistare la vagheggiata vetta si sente un fallito anche se non è affatto in coda nella scala sociale ma più semplicemente ne ha scalato almeno la metà o addirittura i tre quarti. Non è in coda, ma neppure sulla vetta e questo è sufficiente a farlo sentire un fallito, uno sconfitto, un umiliato d'una battaglia perduta.

Per Recalcati è chiaro che entrambi i due simboli, successo e fallimento, sono il prodotto di un narcisismo esasperato, un amore per se stesso che ha varcato la soglia fisiologica per entrare in una condizione patologica, in una egolatria che suscita comportamenti abnormi. Nel caso di successo conseguito, un'enfasi fuori misura che conduce alla fine a una solitudine inquietante e a tentazioni di prevaricazione e di imperio su quanti lo circondano. Nel caso di fallimento, a sentimenti di invidia e vendetta sociali contro avversari specificatamente eletti come tali.

Per soddisfare il narcisismo - presente in dosi patologiche anche in chi si sente e si vive come un fallito - la vendetta va compiuta in modo eclatante, fino al punto da trasformarsi anch'essa in un successo poiché nessuno sarebbe riuscito a vendicarsi in quel modo, con quella efficienza e con quella efferatezza al limite della follia. Non è tecnicamente un pazzo chi si compiace di quei gesti estremi, anzi è perfettamente lucido e ha piena capacità di intendere e di volere, come recitano le scienze giuridica e medica. Ma l'obiettivo che determina la sua azione è quello di fare notizia, di conquistare le prime pagine dei giornali e gli schermi delle televisioni e, per di più, di trasformare il suo gesto estremo in una vendetta sociale compiuta nel nome dell'intera comunità. Il fallito diventa così un giustiziere e come tale sarà ricordato.

Questa è l'analisi di Recalcati, che trovo molto convincente. Esempi d'attualità ce ne sono molti, a cominciare da quello dello "sparatore" di piazza Montecitorio. L'inchiesta giudiziaria che lo riguarda è tuttora in corso, ma la molla narcisistica che ne ha fatto per molti sconsiderati un'icona di vendicatore-giustiziere anziché semplicemente un omicida a sangue freddo, fornisce un'idea adeguata del degrado che la società ha in questi anni subìto. Su questo punto bisognerebbe fare ulteriori considerazioni poiché quel degrado coinvolge la classe dirigente ma insieme con essa anche una parte non trascurabile di quella che un tempo chiamavamo popolo e ora chiamiamo gente per definire con questo termine più anonimo la decadenza morale e culturale che ha colpito allo stesso modo in alto e in basso, governanti e governati. Evidentemente è il frutto di un'epoca dove il consumismo fa premio sulla morale, l'emotività sulla responsabilità e il narcisismo sul bene comune. La colpa è di tutti, nessuno escluso.

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« Risposta #433 inserito:: Giugno 07, 2013, 07:10:03 pm »


Opinioni

La cultura annoia chi non ce l'ha

di Eugenio Scalfari

Il Salone del libro di Torino ha dimostrato come leggere, informarsi e confrontarsi sia una delle esperienze umane più interessanti. Ma c'è chi invece della vivacità intellettuale ha fastidio: ed è un peccato

(03 giugno 2013)

Se c'era un argomento che non mi sarebbe mai venuto in mente di fare oggetto di questo "Vetro soffiato" era il Salone del Libro svoltosi a Torino come ogni anno e concluso domenica scorsa. A suo modo un evento, come sono eventi sul cinema i Festival di Cannes, di Venezia e di Berlino, la Fiera del Libro di Francoforte e gli appuntamenti musicali di Salisburgo e Lucerna. Mi ha fatto riflettere un articolo di Vittorio Feltri sul "Giornale".

E' una stroncatura in piena regola del Salone torinese, reo secondo lui d'esser stato monopolizzato dalla cultura di sinistra e in particolare del Partito democratico di cui il Salone ha rappresentato (secondo Feltri) il pre-congresso. Sono stati presentati i libri appena usciti di Veltroni e di Renzi, riproposto un libro di Gramellini, uno di Gianni Riotta e un altro di Giuliano Amato. Non è molto per giudicare una manifestazione culturale dove erano presenti tutti gli editori italiani, dove una quantità notevole di libri è stata venduta a un pubblico in larga misura giovanile e dove i dibattiti si sono avuti su una larga rassegna di temi dove la politica politichese ha avuto assai scarsa rappresentazione. Si è parlato di cultura, di morale, di religione, di storia, di filosofia, di musica, di arti figurative, di scienza, di architettura, di antichi miti e di futuribile. Insomma di tutto.

Ma per Feltri no e il titolo del suo articolo riassume efficacemente il suo pensiero a proposito del Salone: "Chiacchiere, noia e i soliti noti". Un articolo, sia pure scritto da un giornalista che ha una sua notorietà, significa poco, è un parere che dura un giorno per chi lo legge, ma è rappresentativo d'uno stato d'animo che, guarda caso, è condiviso da una parte politica alquanto vasta ed è il populismo berlusconiano per il quale hanno votato due mesi fa 10 milioni di italiani e i potenziali sostenitori aumentano a 15 milioni e forse più, un quarto del Paese.Mi guardo bene dal dire che si tratti di analfabeti e di illetterati e neppure che oppongono a una cultura che secondo Feltri è di sinistra un'altra cultura antagonista. Dico semplicemente che sono indifferenti alla cultura. Li annoia. Disertano le librerie oppure no? Mi piacerebbe sapere che cosa comprano. Forse l'articolista del "Giornale" ci può illuminare su questo punto?


I libro sono in crisi da un paio di anni, è un fenomeno diffuso in tutto il mondo e in parte dovuto alle ristrettezze economiche e alla proletarizzazione delle classi medie. Ma in parte, come dimostra l'analoga crisi dei giornali, questo mutamento ha come causa di fondo le nuove tecnologie della comunicazione: la Rete ha sostituito la parola scritta per un numero crescente di persone. La lettura dei giornali e dei libri è stata sostituita dalla lettura "on line". Salvo, ovviamente, i "best-seller", ma quello è un fenomeno marginale rispetto alla vendita globale, come pure marginale è la vendita di libri che avviene nel corso di un evento. A Torino però le presenze di pubblico (prevalentemente giovanile) e l'acquisto di libri è fortemente aumentato rispetto all'anno precedente: 330 mila persone in più e molte decine di migliaia di volumi venduti rispetto al Salone del 2012.

Rilevante è stata la presenza di giovani e di donne che hanno costituito circa il 70 per cento dei presenti negli "stand" delle case editrici e ai dibattiti. Noia molto poca. Chiacchiere ovviamente molte perché, fino a prova contraria, ci si esprime ancora con le parole. Resta da vedere se le parole hanno un senso. Non ho nulla nei confronti di una cultura diversa e opposta alla mia, anzi mi interessa molto, sono assai curioso per natura, lo ero da giovane e lo sono ancora di più da vecchio, ma resto indifferente di fronte agli indifferenti alla cultura. Da loro non ho niente da imparare. Dovrei semmai fare opera missionaria per convincerli a leggere Proust o Tolstoj e Rilke o magari DeLillo e McEwan o Roth e Yehoshua. Ma lascio a gente più giovane questa missione. Feltri, tanto per dire, potrebbe farlo facilmente visto che vive in mezzo a loro e li ha dunque a portata di mano.

   
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« Risposta #434 inserito:: Giugno 15, 2013, 11:18:12 am »

Opinioni

Evviva l'improvvisazione

di Eugenio Scalfari

L'azienda è una jam session, spiegano Fresu e Salvemini. Hanno ragione.Dall'auto ai giornali, occorre cogliere i cambiamenti del mercato. Ci vuole estro, ma anche organizzazione. Guai ad adagiarsi sulla routine

(06 giugno 2013)

La prefazione di un libro di Frank J. Barrett che ha un titolo insolito e affascinante ( "Disordine armonico. Leadership e jazz") è intitolata: "L'azienda è una jam session". Intrigante. Perché che cosa c'entra un Marchionne - tanto per fare un nome - o un Diego Della Valle con Duke Ellington o Thelonious Monk o Louis Armstrong?
Invece c'entrano ed ecco perché. In una "jam session" si parte da un ritmo e da una melodia molto scarna, non più di sette-otto note. Il solista, tromba o clarino o sassofono che sia, imposta melodia e ritmo; attorno a lui ci sono altri strumenti ad archi o a fiati o a percussione, tra i quali quelli indispensabili sono il contrabbasso, il pianoforte e la batteria i quali, sul ritmo e su quelle poche note di melodia, impostano una molteplicità di variazioni. Suonano per ore e non è mai la stessa musica a uscire da quegli strumenti né c'è qualcuno che diriga un inesistente spartito anche perché a sua volta il solista, che ha dato il ritmo e lo scheletro melodico, è quello che ancor più degli altri si sbizzarrisce nelle variazioni.

Gli autori della prefazione sono un musicista, Paolo Fresu, e un economista, Severino Salvemini. Il loro testo comincia così: «Bisogna rifuggire dal potere seduttivo della routine e assumersi i giusti rischi per sfidare lo "status quo". Bisogna dunque disegnare una struttura minima perché solo questa aiuta a non ingessare il prodotto stimolando gli individui alla massima autonomia. Per improvvisare bisogna però rispettare poche regole. La struttura è sostenuta da una dinamica di gruppo dove, dietro leader e individualità svettanti, si staglia un collettivo che dà forza e coesione all'intera organizzazione. Altro requisito fondamentale è il dialogo, dove ogni affermazione trova una replica».

Le cose avvengono proprio così in una "jam session" di artisti che suonano musica jazz. Molti suonano fino a notte in locali d'intrattenimento ma poi, invece di andarsi a riposare, si ritrovano in qualche cortile disabitato e fanno mattina per loro divertimento improvvisando nel modo descritto con le parole dei due autori (anche Salvemini è un musicista oltre che economista).

Ma in un'azienda? Che cosa avviene o può avvenire in un'azienda alle prese con le varie fasi dell'invenzione del prodotto, dei modi di produrlo, della confezione con cui presentarlo al pubblico e del marketing per conoscere i destinatari? Noi che facciamo giornali o editori e autori di libri vediamo che spesso anche il nostro fare somiglia a una "jam session". Penso per personale e ormai semi-secolare esperienza alle riunioni mattinali di redazione che debbono produrre il giornale identificando i fatti rilevanti del giorno da mettere in primo piano, come impaginarli, come titolarli, a chi affidarne la scrittura e quale spazio concedergli. Ma il tutto deve avvenire accordando le pagine con la struttura sociale e culturale del pubblico di appartenenza e queste informazioni non te le fornisce solo il marketing con sondaggi sulla diffusione, ma anche i giornalisti che conoscono i lettori e ne ricevono consenso o dissenso sugli articoli pubblicati.

Chi dirige deve tener conto di tutte queste risposte al prodotto messo in vendita, conoscerne i risultati giorno per giorno e tenerne conto per il prodotto successivo senza tuttavia seguire passivamente le preferenze manifestate dai lettori-consumatori. C'è un'interdipendenza tra i lettori di libri e giornali e chi confeziona quei prodotti, gli uni influiscono sugli altri reciprocamente. Non c'è quindi uno spartito e una routine ma un'improvvisazione continua conservando però la linea scelta del ritmo e della melodia.
Ho fatto l'esempio degli autori e degli editori di giornali e di libri. Ma vale anche per un produttore di scarpe o di automobili o di manufatti d'ogni tipo e genere? La risposta di questo libro è affermativa: vale per ogni tipo di azienda. L'industria dell'automobile sforna di continuo nuovi modelli, a volte e per certi mercati punta sulle utilitarie, in altri su berline o limousine o Suv, o jeep con traino a quattro ruote o a volte sull'auto coupé. E non parliamo della confezione del cibo o di una partita di calcio. In questo caso l'obiettivo è sempre quello di subire meno reti possibili e di farne il più possibile ma i modi, lo schieramento e gli allenamenti e la scelta dei giocatori variano di continuo.

Insomma: schema sobrio, leadership chiaramente stabilita, personalità svettanti, collettivo intonato a fungere da sottofondo e improvvisazione. Vale perfino per i partiti politici: se si arroccano su apparati rigidi che ripetono la stessa routine, affondano in pochi mesi.

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