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« Risposta #180 inserito:: Gennaio 10, 2010, 11:14:43 am » |
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L'EDITORIALE
L'inferno di Rosarno e i suoi responsabili
di Eugenio Scalfari
A ROSARNO ha infuriato per due giorni e due notti prima una sommossa e poi una caccia al "negro" con ronde armate che sparano a pallettoni per ferire e ammazzare. Nel terzo giorno, cioè ieri, gran parte degli immigrati è stata portata via dalla polizia nei centri di concentramento chiamati centri di accoglienza, sulla costa jonica della Calabria, ma la caccia al "negro" continua contro i pochi dispersi che vagano ancora nella piana di Gioia Tauro. Un incidente mortale potrebbe ancora accadere, visto lo stato d´animo dei "cacciatori" che ricorda quello degli aderenti al "Ku Klux Klan" nell´America degli anni Sessanta. Siamo arrivati a questo? Perché ci siamo arrivati?
I calabresi hanno difetti e virtù, come dovunque in Italia e nel mondo. Fra le virtù più radicate c´è quella dell´ospitalità, che ha un che di antico ed è tipica della civiltà contadina. Ma anche l´ospitalità si è logorata col passare del tempo e il mutare delle condizioni sociali. E con l´arrivo della mafia. Fino ai Sessanta non esisteva mafia in Calabria. Esisteva il brigantaggio nei boschi dell´Aspromonte e delle Serre. Esisteva da secoli, ma non la mafia. Ora, da quarant´anni, la mafia calabrese è diventata la più potente delle organizzazioni criminali che operano nel Sud d´Italia e la gestione degli immigrati è una delle sue attività, specie nella piana di Gioia Tauro, dove le "´ndrine" possiedono anche fertili terreni coltivati ad aranci. Il caporalato è diffuso e utilizza il lavoro dei clandestini.
Attualmente sono valutati a circa ventimila i braccianti destinati alla raccolta delle arance, dei mandarini e dei bergamotti. Ma non è un fenomeno recente, dura da quindici o vent´anni in qua. Riguarda solo i maschi, non ci sono femmine tra loro né famiglie. Sono maschi singoli, senza dimora, alloggiati in ovili diroccati, senz´acqua, senza luce, senza cessi. E vagano per quelle terre in cerca di lavoro giornaliero.
Vagano in Calabria, in Sicilia, in Basilicata, in Puglia. Secondo le stagioni raccolgono agrumi, olive, uva, pomodori. Il lavoro è in mano ai caporali, quasi tutti affiliati alle mafie locali. Dodici ore per venti o venticinque euro sui quali i caporali trattengono un pizzo di cinque e i camionisti che li trasportano sui campi un prezzo di due o tre euro.
«Cercavamo il paradiso abbiamo trovato l´inferno» ha detto ieri uno di loro avvicinato da un cronista. Eppure, se continuano a cercar lavoro in quell´inferno vuol dire che sono fuggiti da inferni ancora peggiori. Sono gli ultimi della Terra. Quelli ai quali Gesù di Nazareth nel discorso della Montagna promise che sarebbero stati i primi nel regno dei cieli. Alla fine dei tempi. Dodici ore di lavoro a 15 euro di paga. I tremila di Rosarno e gli altri come loro non hanno tempo di pregare, stramazzano in un sonno da cavalli o da maiali grufolosi. È questo l´amore, è questa l´ospitalità?
I calabresi di Rosarno non sono certo abitanti di un paradiso. Sono quindicimila di povera gente e vivono in un paese sotto il tacco della mafia. Il Comune fu sciolto per infiltrazioni (si fa per dire) mafiose ed è amministrato da un commissario prefettizio. Ma quando si faranno nuove elezioni vinceranno ancora le "´ndrine" perché in quella piana la mafia è un potere costituito, in attesa che lo Stato lo sconfigga. Speriamo che avvenga presto, ma se mi domandate quando sarò tentato di rispondervi: «alla fine dei tempi», quando verrà il regno dei giusti e il giudizio universale. Prima ci sarà stata l´Apocalisse. Che sembra già cominciata.
* * *
Qualche domanda però è di rigore. La rivolgiamo al ministro dell´Interno, a quello del Lavoro, a quello delle Attività produttive, a quello dell´Agricoltura, competenti e quindi politicamente responsabili di quell´inferno. Ma le rivolgiamo anche al Prefetto, al Questore, al Comandante dei carabinieri, al Governatore della Regione. Non sapevate? Non sapevate che la raccolta dei frutti di quelle terre è affidata a ventimila immigrati, in maggior parte clandestini, gestiti da caporali e pagati in nero? Non sapevate come vivevano? Non vi rendevate conto che si stava accumulando un materiale altamente infiammabile e che l´incendio poteva divampare da un momento all´altro? Non avevate l´obbligo di intervenire? Di attrezzare un´accoglienza decente? Di regolarizzare i clandestini e il loro lavoro, oppure di rimpatriarli ma sostituirli visto che gli italiani quel tipo di lavoro non sono disposti a farlo?
Maroni ha messo le mani avanti ed ha dichiarato l´altro ieri che c´è stata troppa tolleranza: bisognava cacciare i clandestini o processarli per il reato di clandestinità. Ma se di tolleranza si tratta, a chi è rivolta l´accusa di Maroni se non a se stesso? Non è lui che predica la sera e la mattina la tolleranza zero? Se ne scorda per le terre a sud del Garigliano? Oppure si rende conto che, clandestini o no, gli immigrati sono indispensabili all´economia italiana? E che la tolleranza zero ci ridurrebbe alla miseria?
Al Nord è diverso: la miriade di piccole imprese della Val Padana e del Nordest hanno bisogno degli immigrati e organizzano un´accoglienza decente, salvo poi dare i voti alla Lega a tutela dell´"integrità urbana", della separazione o dell´integrazione col contagocce. Si può capire: l´immigrazione in Italia è arrivata tardi ma in dieci anni siamo passati da un milione a quattro milioni di immigrati. Il tasso d´aumento è stato dunque molto alto ed ha determinato inevitabili tensioni sociali. La classe politica avrebbe dovuto gestire questo complesso processo; invece ha puntato le sue fortune sulla paura e ne ha ricavato consenso.
Nel Sud non poteva che andare peggio. Lì non c´è purgatorio ma inferno. Lì sono i volontari i soli che tentano di sfamare gli "ultimi" e dar loro una parvenza di riconoscimento. Maroni e Scajola e Zaia e Sacconi preferiscono far finta che non esistano. Aprono gli occhi solo quando scoppia la sommossa e poi la caccia al negro. Ma non hanno altra ricetta che l´espulsione, anche se ieri Maroni ha smentito che di questo si tratterà per i clandestini di Rosarno. Ma chi raccoglierà le arance, i pomodori, le olive? Chi attrezzerà l´accoglienza?
Il partito dell´amore dovrebbe materializzarsi in quelle terre dove regna invece la violenza mafiosa, i bulli di paese che si spassano giocando al tiro a segno con i fucili ad aria compressa e sparando sul negro per vincere la noia. Noi aspettiamo risposte alle nostre domande, anche se sappiamo per esperienza che questo potere non ha l´abitudine di rispondere.
* * *
Nel frattempo, nelle alte sfere si consumano altri misfatti. Uno di essi è la decisione del presidente del Consiglio di coprire con il segreto di Stato la posizione processuale di Marco Mancini, già capo del controspionaggio alle dipendenze dell´allora direttore del servizio di sicurezza, Nicolò Pollari. Misfatto, cattivo fatto: non trovo altra parola per definire un atto di estrema gravità. Ne ha diffusamente scritto il collega D´Avanzo il 6 gennaio scorso. Se torno sull´argomento è proprio partendo da una sua definizione alla quale non è stata data alcuna risposta. D´Avanzo è un giornalista scrupoloso che fa domande più che legittime doverose; il fatto che siano scomode per il potere accresce la loro legittimità e dovrebbe obbligare i destinatari ad una plausibile spiegazione.
La definizione di D´Avanzo distingue tra i fini e i mezzi nell´attività dei servizi di sicurezza. I fini sono prescritti dalla legge: la difesa dello Stato e delle istituzioni in cui esso si articola; la lotta contro lo spionaggio straniero; l´acquisizione all´interno e all´estero di notizie utili al perseguimento dei fini suddetti. I mezzi sono invece scelti discrezionalmente dalla direzione del servizio e possono in certi casi anche violare le leggi ma proprio in quei casi l´autorità politica deve esserne informata sotto vincolo di segreto. Sappiamo tutti che il servizio di sicurezza non ha natura angelica e addirittura può avere commercio anche col diavolo, ma sempre per il raggiungimento di quei fini e non per altri.
Il segreto di Stato può venire opposto al magistrato inquirente e a quello giudicante. Ma esiste tuttavia un organo di natura parlamentare, il Copasir, che ha il potere di accedere alla documentazione superando il segreto e questo sulla base del principio democratico secondo il quale non deve esistere alcun organo dello Stato che non abbia sopra di sé un altro organo cui rispondere.
Parlo di queste cose perché mi trovo nella condizione di essere il primo, insieme al collega Lino Jannuzzi che allora lavorava con me all´Espresso, ad aver vissuto in prima persona l´apposizione del segreto di Stato in un processo che fu intentato contro di noi a proposito del "Piano solo" organizzato dall´allora comandante generale dei carabinieri, De Lorenzo.
Non entro nei dettagli che sono fin troppo conosciuti, se non per ricordare che noi demmo la prova testimoniale dell´esistenza di quel Piano, che aveva connotati eversivi, al punto che il Pubblico ministero che guidava l´accusa contro di noi e che si chiamava Vittorio Occorsio ? ucciso qualche anno dopo dal terrorismo fascista ? chiese al tribunale l´archiviazione degli atti contro di noi ritenendo che avevamo raggiunto la prova dei fatti.
Il tribunale ritenne però che la prova testimoniale non bastasse e chiese l´esibizione del documento redatto dal Comando dei carabinieri, agli atti del servizio di sicurezza. L´allora presidente del Consiglio, Aldo Moro, pose il segreto di Stato su quel documento e così fummo condannati.
Non esisteva a quell´epoca un Copasir che potesse accedere alla documentazione; fu istituita una Commissione parlamentare d´inchiesta dove però, per regolamento, la maggioranza parlamentare era presente in numero soverchiante. La Commissione lavorò per quasi un anno e si concluse con un compromesso. Poi la legge sul segreto fu riformata e il Copasir ? la cui presidenza spetta all´opposizione ? ne è stato uno dei positivi risultati.
Proprio per queste ragioni è della massima importanza la scelta del presidente di quell´organismo, che dev´essere indicato dai gruppi parlamentari del maggior partito d´opposizione, cosa che avverrà nei prossimi giorni. L´esperienza ci insegna che chi guida quel delicatissimo organo deve avere l´intelletto e i titoli per venire nominato a quella carica e non dev´essere in nessun modo mescolato alla lotta politica in corso. Dal momento in cui viene insediato acquista le caratteristiche di un giudice di una magistratura che è la sola che possa vigilare sulla congruità dei mezzi usati dai servizi di sicurezza per realizzare i fini che la legge indica, vigilando anche che i mezzi non siano così perversi da stravolgere i fini stessi.
Noi abbiamo la sensazione che il segreto posto sulla posizione processuale di Marco Mancini copra mezzi illeciti e non pertinenti ai fini di istituto, ma la nostra sensazione non fa testo, può soltanto suscitare attenzione nell´opinione pubblica.
Spetta al Copasir accertare ed eventualmente rimuovere il segreto di Stato su quella specifica situazione. E qui il peso della scelta, che sia congrua ai compiti di quell´organismo.
Post scriptum. Sembra ormai decisa la scelta del Partito democratico di far propria la candidatura di Emma Bonino all´elezione del presidente della Regione Lazio. Mi sono trovato talvolta in posizione critica nei confronti dei radicali, ma in questo caso penso che quella della Bonino sia la candidatura migliore. Ha qualità di amministratrice già ampiamente collaudate e integrità di carattere e di comportamento a tutta prova. Penso anche che, se uscirà vittoriosa dal confronto con la Polverini, non sarà certo lei ad assumere atteggiamenti irriguardosi verso la Chiesa in una regione che ospita il Papa nella sua capitale garantendogli piena indipendenza. Sarà tuttavia, Emma Bonino, un presidio di laicità in un momento che di laicità ha gran bisogno, non certo contro ma anzi a sostegno dello spazio pubblico riservato alla Chiesa e alla sovranità dello Stato nei campi di sua esclusiva competenza. © Riproduzione riservata (10 gennaio 2010) da repubblica.it
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« Risposta #181 inserito:: Gennaio 19, 2010, 05:03:24 pm » |
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IL COMMENTO
Il gesto che Bettino non fece
di EUGENIO SCALFARI
La lettera del Presidente della Repubblica alla signora Anna Craxi nella decennale ricorrenza della morte di quello che è stato il leader del Partito socialista e capo del Governo dal 1983 all'86, non è una missiva privata. È stata pubblicamente diffusa, come è giusto che fosse trattandosi non già di condoglianze per un lutto ma di un documento mirato - come il presidente Napolitano esplicitamente scrive - "a favorire una più serena e condivisa considerazione del difficile cammino della democrazia italiana nel primo cinquantennio repubblicano". In realtà la lettera si occupa del periodo di cui Craxi fu uno dei protagonisti, né poteva essere altrimenti.
Quindi un pubblico documento che, oltre alla vedova di Bettino Craxi, è diretto all'opinione pubblica italiana, autorizzando pertanto una valutazione altrettanto pubblica del suo contenuto.
La lettera è ampia e si può dividere in due parti: la prima si occupa della politica di Craxi nei tre anni di presidenza del Consiglio; la seconda, assai più sommaria, della fase che è stata battezzata "Tangentopoli". La diversa attenzione dedicata ai due argomenti è pienamente comprensibile: si voleva in questa lettera commemorare e privilegiare gli aspetti positivi e soltanto sfiorarne quelli negativi che però non potevano esser taciuti. Anche questo criterio adottato dal nostro Presidente è pienamente accettabile; fa parte di una "pietas" che non è soltanto una privata virtù ma un elemento costitutivo d'una democrazia dove convivono valutazioni diverse e talvolta non condivise né condivisibili, sulle quali la "pietas" soffonde una virtuosa tolleranza.
Tolleranza ma non oblio, che è invece incompatibile se modifica e mistifica il passato rischiando d'inquinare il presente e di compromettere il futuro.
La ricostruzione dell'azione politica di Craxi come leader socialista e per tre anni capo del governo corrisponde alla realtà, né poteva essere altrimenti essendo stata scritta da uno dei testimoni ed attori di quei fatti: la politica estera di Craxi, mirata ad una piattaforma italiana nel Mediterraneo, alla comprensione dei bisogni e dei diritti della Palestina e del mondo arabo, accompagnata peraltro dalla difesa dello Stato d'Israele. Infine una riconfermata e leale adesione all'alleanza nord-atlantica non disgiunta da iniziative volte a dinamizzare lo sviluppo dell'Unione europea.
Tutti elementi positivi, sui quali peraltro è doveroso aggiungere che ciascuno di essi, prima di Craxi, aveva costituito l'essenza della politica estera italiana con Fanfani, con Gronchi, con Aldo Moro, con Cossiga. Nessuno di quegli elementi rappresentò dunque una novità o addirittura una discontinuità, ma semplicemente una prosecuzione.
Qualche riserva si dovrebbe viceversa formulare sul rinnovamento del Concordato con la Santa Sede. Per certi aspetti fu un aggiornamento, per altri la riconferma di privilegi di tipo "temporalistico" che potevano anzi dovevano legittimamente essere invocati dallo Stato e non lo furono affatto.
Infine la grande riforma costituzionale. Craxi ne fece la piattaforma ideologica del suo pensiero ma ne dette una sola immagine: quella di un futuro e auspicato presidenzialismo. Il presidente Napolitano ci permetterà di affermare che un conto è modernizzare la democrazia parlamentare ed un conto del tutto diverso è volerla sostituire con un assetto di tipo presidenziale.
Aggiungiamo che l'azione di Craxi per realizzare l'unità della sinistra italiana nel quadro d'una democrazia compiuta non fu particolarmente efficace.
Anche il Pci ebbe notevoli responsabilità su questo mancato obiettivo (non certo Napolitano che anzi si batté coraggiosamente per realizzarlo), ma Craxi non fu da meno finendo addirittura con lo schierarsi con la parte più conservatrice della Dc.
Infine Tangentopoli. La lettera rievoca il discorso parlamentare in cui Craxi lanciò una chiamata in correità a tutti i partiti. Tutti, disse, avevano violato la legge sul finanziamento dei partiti e tutti, a cominciare dal suo, dovevano quindi assumersene la responsabilità.
Discorso senza dubbio coraggioso se ad esso fosse seguito il necessario sbocco: la chiamata di correo è l'ammissione di un reato in questo caso particolarmente grave. Chi si avventura su quel terreno prosegue dimettendosi dalle cariche che ricopre e mettendosi a disposizione dell'autorità giudiziaria. Non lo fece nessuno, a cominciare da Craxi il quale del resto non fu semplicemente il fruitore passivo del sistema di corruttela ma ne fu un attivo organizzatore con una differenza rispetto agli altri partiti di governo: il leader del Psi non si limitò a fruire delle "dazioni" ma intervenne sulle singole imprese e sulle singole loro operazioni tassandole o facendole escludere dalle gare. Tralasciamo per carità di patria i decreti in favore di Fininvest.
Detto questo, si proceda pure alla toponomastica nei Comuni che nella loro libera capacità di decidere vogliano intestare a Craxi piazze e giardini.
Altra cosa è la condivisione politica e morale, la quale non è parcellizzabile. Si condividano i meriti e si condividano le rampogne per i reati. Dopodiché c'è la "pietas" pubblica, ma non l'oblio.
© Riproduzione riservata (19 gennaio 2010) da repubblica.it
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« Risposta #182 inserito:: Gennaio 22, 2010, 09:57:34 am » |
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Il sogno di Tremonti
di Eugenio Scalfari
Nessuna Camera, solo il Senato delle Regioni. Composto da quelle territoriali e quelle anonime in forma di Spa, per energia, trasporti, pubblicità... Un comune amico mi porta un messaggio di Giulio Tremonti: vorrebbe incontrarmi per espormi un suo progetto sul quale desidera un mio parere. La proposta mi stupisce: non ho alcun rapporto con il ministro dell'Economia, al quale non ho lesinato critiche da parecchi anni. Comunque il messaggio è allettante, mi incuriosisce; accetto. L' incontro si svolge a casa dell'amico, dalle parti della via Cassia. Il ministro è gentile, non fa alcun accenno alle mie critiche, evita di imbarazzarmi e viene al sodo.
"Si tratta", mi dice, "di una novità assoluta non solo per l' Italia ma per il mondo intero". "Si tratta", chiedo io, "del suo piano di riforma fiscale?" "No, è ben altro. Una rivoluzione, un nuovo tipo di Stato e di patto sociale".
Ha gli occhi spiritati, come accade in chi è ossessionato da un'idea che viaggia sulle ali della fantasia prima di planare nella realtà. Credo che colga la mia sorpresa e che ne abbia piacere. "Ma prima", mi dice, "una premessa". E si inoltra in un'analisi storica di filosofia politica che parte dalla democrazia ateniese, dall'oligarchia di Sparta, dalla tirannide di Tebe e poi la 'Repubblica' di Platone, la politica nel pensiero di Aristotele e di Tommaso D'Aquino, i costituzionalisti del Seicento spagnolo e naturalmente Montesquieu e Rousseau, fino alla modernità di Schmidt, Popper, Habermas.
Parla senza interruzioni e lo seguo con qualche difficoltà anche perché mi sfugge del tutto dove voglia arrivare. Un leggero velo di noia deve essersi soffuso sulla mia faccia perché si ferma di botto: "È stanco?". "Ma no, affatto", dico io. "Vede, il progetto che desidero sottoporre è talmente nuovo che questa premessa mi sembrava necessaria. Non volevo che lei pensasse ad una mia fantasticheria che non tenga conto dei precedenti". "Comprendo benissimo, i precedenti". "Il nostro, come lei sa, più che un partito politico è un movimento culturale. Ricorderà che il fascismo nacque come una costola del futurismo". "Una costola futurista, certo". "E anche di D'Annunzio". "Un movimento culturale". "Come noi". "Il Popolo della Libertà". "Il partito è il braccio amministrativo ma il ventaglio è più vasto". "Da Bondi alla Santanché". "Al centro di tutto c'è il federalismo". "Da Cattaneo a Calderoli".
Guardai l'orologio, era già passata un'ora. Lui notò questa mia diversione con quei suoi occhi mobilissimi che sembrano obbedire a pensieri estranei alle parole che pronuncia e ai gesti delle mani. Mi faceva un curioso effetto, affascinante a suo modo.
"Il federalismo", dissi io, "lei lo vede come una grande occasione?". "Il nostro sarà un federalismo diverso da tutti gli altri. Nulla a che vedere con i Länder della Germania, con i cantoni della Svizzera e meno che mai con gli Stati dell'America federale". "Fondato sulle Regioni. Allo stato solo compiti di supplenza". "Naturalmente", rispose, "ma qui sta la novità, qui sta il pensiero rivoluzionario: le Regioni non saranno soltanto territoriali. Ci saranno almeno altre sei e forse sette Regioni che chiameremo anonime". "Anonime", dissi io, "cioè senza nome. Regioni esistenti ma segrete". "No, lei non ha capito". "In effetti il termine anonime mi riesce oscuro". "Anonime, come le società anonime. Capito adesso?".
Confesso che ero molto interdetto ma cercavo di non farlo vedere. Perciò dissi: "Regioni anonime s.p.a., questa sì che è un'invenzione. Società per azioni con capitale pubblico, è questa l'idea?". "Fuochino, fuochino, quasi fuoco", disse lui con la sua vocina da bambino.
Il gioco mi prese. "Vediamo", dissi, "Regioni economiche quotate in Borsa". "Quasi fuoco, quasi fuoco. Coraggio". "Regioni quotate in Borsa, con capitale pubblico fornito dalle Regioni territoriali e dal personale dipendente". Mi si avvicinò, mi mise una mano sul braccio guardandomi negli occhi: "Sapevo", disse, "che lei avrebbe compreso. Però manca ancora un tassello, quello essenziale". "Quale? Me lo dica maestro". La parola maestro mi era scappata di bocca e mi ripresi subito: "Mi scusi, signor ministro". "Ma di che cosa? Mi fa un gran piacere. Il tassello è la partecipazione delle Regioni anonime al Senato federale. Per le questioni più delicate sulle quali il Senato federale dovrà decidere ci vorrà un voto di maggioranza qualificata per il quale sarà necessario l'accordo di almeno due delle Regioni anonime. Capisce la novità?".
(14 gennaio 2010) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #183 inserito:: Gennaio 24, 2010, 03:39:44 pm » |
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Politica
Ma la regina bussava per entrare in Parlamento
di EUGENIO SCALFARI
Una nuova imputazione (per truffa fiscale) contro Silvio Berlusconi da parte della procura di Milano per fatti accaduti in anni recenti e con effetti che si estendono fino al 2009. Riguardano l'acquisto di diritti di film proiettati dalle reti Mediaset. I prezzi, secondo la tesi della Procura, sarebbero molto al di sopra di quelli correnti sul mercato e Mediaset non avrebbe trattato con le case di produzione americane ma con un intermediario, rimettendoci anziché guadagnandoci. Ma l'intermediario avrebbe accantonato il super-profitto in conti misteriosi in paradisi fiscali e poi, dopo molti e complicati percorsi bancari, sarebbero infine arrivati nelle tasche di Berlusconi che avrebbe così creato una massa importante di fondi neri. La frode (sempre secondo la tesi della Procura) avrebbe danneggiato non solo il fisco ma anche gli azionisti di Mediaset, società quotata in Borsa, salvo ovviamente l'azionista di maggioranza che anzi ne sarebbe stato il beneficiario.
L'intera questione è stata già ampiamente raccontata sui giornali di ieri e non starò dunque ad occuparmene se non per un aspetto politico: quello immediatamente sollevato dall'avvocato Ghedini, grillo parlante del premier, che ha visto in questa incolpazione l'ennesimo intento persecutorio delle "toghe rosse" reso ancor più odioso dalla voluta coincidenza con la campagna per le elezioni regionali. In realtà quella coincidenza non danneggia affatto Berlusconi dal punto di vista politico; l'esperienza consolidata insegna che la veste di vittima gli ha sempre giovato, il danno se mai l'hanno subito le forze politiche che lo contrastano e che passano anch'esse come persecutorie e mandanti delle "malefatte" dei magistrati.
Ma in questo caso il "fumus" persecutorio è difficilissimo da sostenere. L'indagine giudiziaria è cominciata infatti nel 2005, in quello stesso anno la Procura ha disposto il sequestro conservativo di 100 milioni di dollari dell'intermediario.
Sono stati effettuati decine di interrogatori e acquisiti centinaia di documenti; l'attività istruttoria ha dato luogo a 45 mila pagine di verbalizzazioni nonostante che i sostituti procuratori lavorassero in condizioni disagiatissime, mancando perfino di segretari che li aiutassero nel disbrigo delle pratiche.
Nel frattempo si sono svolte in Italia varie consultazioni elettorali, nazionali e locali, senza che l'istruttoria in corso fosse usata per turbare ed influenzarne l'esito. Può essere spiacevole la coincidenza in quest'occasione, ma il vittimismo esibito dal solito Ghedini non ha alcun appiglio. I procuratori hanno ora concluso il loro lavoro e si accingono a chiedere al gip il rinvio a giudizio degli indagati. Il premier e i suoi supposti complici dovranno difendersi in giudizio, come accade ad ogni imputato che non sia protetto da leggi appositamente create dal governo e dalla sua ferrea maggioranza di replicanti.
* * *
Quest'ultimo punto - questo sì - è materia di dibattito di questi mesi e di questi giorni. è stata approvata tre giorni fa in Senato la legge sul "processo breve" che passerà ora all'esame e al voto della Camera. In quella sede è nel frattempo in discussione un altro disegno di legge sul "legittimo impedimento" che ha lo stesso fine di evitare che i processi pendenti contro il premier abbiano luogo fino a quando un terzo disegno di legge, in questo caso costituzionale, il cosiddetto Lodo Alfano numero 2, possa esentare interamente il premier da ogni responsabilità giudiziaria per tutto l'esercizio del suo mandato politico.
Aleggia infine una quarta possibilità, quella cioè di estendere e rafforzare l'istituto dell'immunità parlamentare. Si tratterebbe anche in questo caso d'un emendamento alla Costituzione vigente (articolo 68) che richiede un tempo più lungo d'una legge ordinaria; il testo di questo disegno di legge dovrebbe quindi essere varato al più presto e dovrebbe - nei piani del governo - avere l'appoggio di almeno una parte dell'opposizione per essere approvato con la maggioranza qualificata richiesta per le leggi costituzionali, in mancanza della quale si dovrebbe procedere al referendum confermativo il cui esito sarebbe molto incerto.
Il Partito democratico sta considerando il possibile contenuto di questo rafforzamento dell'immunità, con la quale non verrebbero protette soltanto le quattro maggiori cariche istituzionali ma tutti i membri del Parlamento. Il nostro giornale ha pubblicato ieri una lettera indirizzataci dall'onorevole Violante, nella quale è spiegato l'atteggiamento del Partito democratico sul tema dell'immunità; ad essa ha risposto Gustavo Zagrebelsky. Chi ha letto quei testi è dunque informato delle rispettive tesi dei due interlocutori. Su di essere farò qualche mia riflessione.
* * *
Comincio con un episodio che può chiarire il senso dell'immunità parlamentare. Avvenne nei primi anni Sessanta del secolo scorso. Ero andato a Londra per intervistare l'allora Cancelliere dello Scacchiere, un titolo che andrebbe a pennello al nostro Tremonti. Fatta l'intervista, il Cancelliere con grande cortesia mi fece accompagnare da un suo collaboratore alla Camera dei Comuni che avevo espresso il desiderio di visitare. Andammo a Westminster, visitai l'aula e i suoi dintorni, e il mio esperto accompagnatore mi raccontò alcune curiose liturgie che ancora venivano praticate pur essendo ormai puramente simboliche. La principale riguardava il discorso della Corona, unica occasione in cui la Regina entrava in quell'edificio. La carrozza arrivava a poca distanza da Westminster e un araldo del seguito entrava nell'aula per informare lo "speaker" che sua Maestà veniva a pronunciare il suo discorso. A quel punto lo speaker impartiva con voce stentorea l'ordine di chiudere il gran portone d'accesso.
Eseguito l'ordine il capo della Guardia reale bussava alla porta e annunciava che sua Maestà chiedeva di entrare e di incontrare "i fedeli Comuni d'Inghilterra". Lo speaker a quel punto ordinava di aprire il portone e la Regina faceva il suo ingresso lasciando la Guardia fuori dalla porta, scortata dalla Guardia della Camera dei Comuni. Nel Settecento questo era il modo simbolico per dimostrare la separazione dei poteri e l'assoluta indipendenza dei "fedeli Comuni" rispetto al Sovrano. Montesquieu proprio in quegli anni scriveva "L'esprit des lois" che fu la tavola fondativa dello Stato di diritto.
* * * Lo Stato di diritto, cioè appunto la separazione dei poteri e l'eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, precede la democrazia e si attua anche in presenza di monarchie dotate di ampi poteri. È la premessa necessaria anche se non sufficiente al pieno avvento dei regimi democratici, dei quali le Costituzioni rappresentano il coronamento.
Quanto all'immunità, essa fu istituita per proteggere il potere legislativo dalle interferenze dell'esecutivo e del giudiziario che, all'epoca, dipendeva dai poteri del Sovrano a nome del quale i giudici proclamavano le loro sentenze. Riguardava soltanto i reati che i membri del Parlamento potessero aver commesso nell'esercizio delle loro funzioni: l'arresto doveva essere autorizzato dal Parlamento a garanzia dell'autonomia dei propri membri.
Quando in Italia fu scritta la Costituzione del 1947, ci fu ampio dibattito sull'immunità. Venivamo da vent'anni di dittatura, con una magistratura fortemente condizionata dal governo. Relatore su quell'argomento fu Costantino Mortati. L'orientamento fu uniforme: il Parlamento doveva autorizzare l'inizio del processo, le perquisizioni domiciliari, le intercettazioni, l'arresto, salvo che avvenisse in flagranza di reato. Il Parlamento poteva impedire l'arresto anche se disposto dalla giustizia in esecuzione d'una sentenza passata in giudicato.
I pareri dei commissari e poi dell'aula furono quasi unanimi, con la sola eccezione dell'onorevole Leone che si dichiarò contrario all'autorizzazione necessaria anche per l'arresto in esecuzione di sentenze, ma rimase solo e il testo dell'articolo 68 approvò quelle decisioni. Il relatore espresse la certezza che la Giunta per le autorizzazioni a procedere valutasse attentamente il reato ad essa sottoposto e che il verdetto fosse sulla natura del reato cioè fosse connesso strettamente con l'attività parlamentare del supposto reo.
La prassi successivamente invalsa dimostrò purtroppo il formarsi di un clima omertoso in forza del quale - salvo eccezioni molto rare - l'autorizzazione a procedere fu negata sistematicamente trasformandosi in un privilegio. Nel 1993, in piena "Tangentopoli", l'articolo 68 fu modificato, la potestà parlamentare di poter negare l'arresto anche in casi di sentenze giudicate fu abolita; così pure fu abolita l'autorizzazione per l'inizio del procedimento giudiziario. Rimase invece per quanto riguarda le perquisizioni domiciliari, le intercettazioni telefoniche e l'arresto.
Questi poteri del Parlamento ci sono tuttora, né credo, nei progetti di riforma si preveda di reintrodurre l'autorizzazione per l'arresto in esecuzione di sentenze. Si vuole, invece da parte del governo, reintrodurre l'autorizzazione per l'inizio del processo.
Il Partito democratico è disposto ad esaminare queste proposte ma pone come condizione un limite di tempo: vuole che il rafforzamento eventuale dell'immunità sia valido per una sola legislatura che è quella in corso. Vuole inoltre una contropartita pertinente: una riforma della legge elettorale che ripristini in qualche modo il voto di preferenza sperando così che i parlamentari possano giudicare col proprio cervello non condizionati dal potere degli apparati e soprattutto del governo.
Nella sua risposta all'onorevole Violante, Zagrebelsky fa una premessa della massima importanza: rileva che il governo ha già in parte cambiato e ancor più cambierà la Costituzione senza alcun apporto dell'opposizione, trasformando la democrazia parlamentare in una democrazia di stile autoritario. Questo risultato è già in gran parte avvenuto e ancor più sarà perfezionato quando saranno passate le leggi in discussione, con la svalutazione sistematica dei poteri di controllo, a cominciare dallo stesso Parlamento, dalla magistratura, dalla Corte costituzionale e dal Capo dello Stato. In queste condizioni, sostiene Zagrebelsky, è questo il "trend" che occorre bloccare ed invertire; fintanto che ciò non avverrà è inutile favorire un accordo "bipartisan" sul rafforzamento dell'immunità anche se, aggiunge Zagrebelsky, "una riforma elettorale sarebbe non solo opportuna ma necessaria". Penso anche io (e l'ho scritto più volte) che bloccare la deriva verso un sistema autoritario, già molto avanzata, sia un preliminare necessario. Penso tuttavia che questo obiettivo sia difficilmente raggiungibile fino a quando il consenso popolare a Berlusconi resterà ancora ampio e compatto. Di fatto con poche alternative, dato lo stato incerto e altalenante dell'opposizione. Ci vuole un lavoro culturale oltre che politico per cambiare una situazione così pregiudicata.
Intanto l'attività parlamentare proseguirà e sarà ben difficile rifiutare il confronto sui temi di volta in volta in discussione. Bisognerà affrontarli con fermezza e chiarezza di idee.
Per quanto riguarda l'immunità, la limitazione ad una sola legislatura non ha molto senso e non otterrà alcun risultato. Assai più efficace mi sembra l'idea, lanciata dall'ex procuratore D'Ambrosio, di obbligare chi ha evitato i processi a causa dell'immunità, di affrontare i suoi doveri verso la giustizia e di fare del mancato rispetto di questa norma una condizione di ineleggibilità che duri fino a quando il processo non sia celebrato. Questa sì, sarebbe una contropartita sufficiente. Altre francamente non ne vedo.
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« Risposta #184 inserito:: Gennaio 31, 2010, 10:47:35 am » |
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IL COMMENTO
Lo Stato disossato e i pasticci elettorali
di EUGENIO SCALFARI
OGGI dovrei occuparmi delle elezioni regionali e infatti ne parlerò tra poco, ma prima c'è un tema che merita di esser posto come introduzione: si sta disossando lo Stato. Mentre si discute di riforme costituzionali, la struttura dello Stato sta infatti cambiando sotto i nostri occhi distratti: lo Stato si sta "esternalizzando" con conseguenze gravi sulla dislocazione del potere e sugli equilibri istituzionali.
Negli scorsi giorni, nella disattenzione generale, è stata approvata la creazione della "Difesa Spa" che centralizzerà gli acquisti e gli approvvigionamenti necessari al funzionamento di tutte le Forze armate in una società per azioni. Analoga operazione verrà discussa e probabilmente approvata in Senato mercoledì prossimo per la creazione della "Protezione Spa", responsabile di tutte le operazioni di qualsivoglia tipo effettuate dalla Protezione civile. Immaginiamo che altre società sorgeranno nei vari settori della Pubblica amministrazione. Le operazioni di queste nuove entità, la provvista dei fondi necessari, l'accensione di mutui bancari e tutto ciò che è necessario al loro funzionamento saranno disposti mediante ordinanze, veri e propri decreti legge che non approdano in Parlamento ma diventano immediatamente esecutivi. La loro firma spetta al ministro competente o addirittura al presidente del Consiglio e, oltre a scavalcare il Parlamento, scavalca anche il Capo dello Stato. La Corte dei conti interviene più come organo di consulenza che come organo di controllo.
Le somme in gioco sono enormi. Il capo della Protezione civile, che è al tempo stesso sottosegretario in attesa di esser elevato al rango di ministro, in un'intervista di qualche giorno fa al nostro giornale ha quantificato gli interessi che la Protezione civile paga annualmente sui debiti esistenti con le banche: 850 milioni. In termini di capitale si tratta di un debito tra i 20 e 25 miliardi di euro, una somma enorme decisa al di fuori della normale contabilità e dei normali controlli di forma e di merito. Per di più è scritta nel disegno di legge l'esenzione di ogni responsabilità penale del capo della Protezione civile il quale è esentato dal doversi sottoporre alle normali regole della Pubblica amministrazione per quanto riguarda appalti e commesse.
È superfluo segnalare che queste società sono amministrate da propri consigli d'amministrazione; lo "spoil system" ne risulta ampliato senza alcun controllo parlamentare sulle nomine e sugli eventuali conflitti d'interesse.
C'è dunque un mutamento vistoso in questo modo di gestione: rapidità nel decidere, impressionante rafforzamento del potere esecutivo. Berlusconi anticipa il suo ideale: l'uscita dalla Repubblica parlamentare e l'ingresso nella democrazia autoritaria; una legge elettorale blindata, una maggioranza parlamentare di "replicanti", gli organi di controllo ridotti a puro simbolo senza poteri. Faceva effetto vederlo l'altro giorno a L'Aquila abbracciato a Guido Bertolaso reclinando la testa sulle spalle del "protettore". "Che faremmo senza Guido?" ha detto mentre annunciava la sua promozione a ministro senza neppure averne informato i membri del governo e tanto meno il Capo dello Stato.
Già, che farebbe senza Guido che allo stato dei fatti è il controllore-controllato per eccellenza? Bertolaso è la sua protesi e così saranno i capi delle future Spa pubbliche. La prova generale (auspice Tremonti) fu fatta qualche anno fa con la Cassa Depositi e Prestiti. Perché - bisogna ricordarlo - i flussi finanziari che alimentano il sistema "esternalizzato" sfuggono a tutti salvo che al superministro dell'Economia. Giulio e Guido, un'accoppiata perfetta, con la differenza che Guido è una protesi di B., mentre Giulio lavora per sé. Lo Stato di diritto è a pezzi.
* * *
In questo contesto si preparano le elezioni regionali e quella per il comune di Bologna. Qui i protagonisti sono numerosi: Berlusconi ovviamente, Casini, D'Alema, Bersani, Vendola. Quella più interessante da esaminare è la situazione pugliese perché i suoi effetti hanno avuto ed avranno ripercussioni importanti sul quadro politico nazionale.
In Puglia andava infatti in scena uno dei punti essenziali del programma con il quale Bersani ha conquistato la guida del Partito democratico: l'alleanza tra le varie forze d'opposizione in vista di un'alternativa al centrodestra, ma in particolare l'alleanza con l'Udc, alla quale D'Alema attribuiva una importanza speciale. Finora Casini ha sempre escluso un'alleanza nazionale del suo partito con altre forze. Il centro non può che stare al centro, così ha sempre detto. Però fare alleanze in elezioni regionali e locali quando vi siano convergenze sui programmi e sui candidati, è possibile in diverse direzioni affinché si bilancino reciprocamente.
Il ragionamento è chiaro. Parrebbe tuttavia che negli ultimi tempi questo schema di lavoro sia cambiato sotto l'urto dei fatti. Parrebbe cioè che Casini consideri possibile un'alleanza con il Pd in vista delle elezioni politiche del 2013. Giudica irrecuperabile Berlusconi, giudica sempre più necessaria una riforma della legge elettorale in senso proporzionale, senza di che l'Udc sarebbe condannata all'irrilevanza.
In vista di questi obiettivi ancora remoti, il leader dell'Udc ha interesse ad una sconfitta ai punti di Berlusconi nelle prossime regionali. Su 13 Regioni in palio, spera che almeno 7 vadano alle opposizioni e non più di 6 allo schieramento governativo. Di qui le alleanze con il Pd in parecchie situazioni.
Il caso pugliese era il più significativo di tutti: è una regione importante nel Mezzogiorno continentale, economicamente dinamica, stava a cuore a Massimo D'Alema che è il maggior fautore dell'alleanza con il centro. Perciò la Puglia, ma non con Vendola candidato. Troppo a sinistra. Qualunque altro, ma Vendola no. E' andata male. Ora il candidato del Pd, dopo una serie di scossoni, marce avanti e marce indietro, primarie e non primarie, è proprio Vendola. Ma nonostante le profferte di Berlusconi, Casini non è passato dall'altra parte. Si presenterà da solo con un candidato forte che farà razzia di voti a destra. Indirettamente favorirà Vendola, sempre che Berlusconi non decida di confluire su Casini, ma sembra difficile che possa farlo. Più di questo il leader del centro, in questa tornata elettorale, non poteva fare. Il dopo si vedrà dopo.
* * *
Ci sono stati parecchi errori in Puglia, compiuti da Bersani e da D'Alema sull'altare dell'alleanza con l'Udc, da loro giudicata indispensabile per la vittoria elettorale. Una sottovalutazione di Vendola. L'accettazione del veto di Casini sul nome del governatore uscente. L'irre-orre sulle primarie. Ma l'errore principale e non scusabile è stato quello di schierarsi e fare campagna in favore di uno dei due candidati alle primarie impegnando così sulla sua vittoria o sconfitta la segreteria nazionale del partito.
Le primarie sono un metodo discutibile ma, una volta decise dagli organi regionali e accettate dalla direzione nazionale di un partito, è regola che il gruppo dirigente non si schieri con un candidato contro l'altro. Dovrebbe restare rigorosamente neutrale e poi appoggiare compattamente il vincitore che affronterà l'avversario del partito. Questa seconda mossa Bersani e D'Alema l'hanno fatta e sicuramente il loro appoggio a Vendola sarà pieno e - speriamo - efficace; ma la botta alla loro credibilità politica è stata tosta e ne porteranno i lividi per un bel po'. Anche perché quell'ondivago comportamento ha incoraggiato una sorta di ribellismo locale che non è sana autonomia e neppure dissenso politico rispetto alla linea che vinse il congresso del Pd, ma esplosione di ambizioni e vanità personali che sono esattamente il contrario della funzione di un partito politico. Si potrebbe dire che nel centrodestra avvengono fatti analoghi, ma questa constatazione non è affatto consolatoria.
La questione nel Pd riguarda in particolare Bersani. Sembra un cacciatore con il falcone D'Alema sulla spalla. Non è questo il segretario di cui il partito (ogni partito) ha bisogno. Il falcone parte prima del cacciatore, anzi è lui stesso che snida la preda e poi torna ad appollaiarsi sulla spalla del padrone. In un partito democratico questo meccanismo non può funzionare e infatti non funziona.
* * *
Ci sono nel Pd parecchi altri impacci elettorali ancora in corso. Altri altrettanto gravi ce ne sono nel Pdl. Berlusconi è nei guai in Puglia. Nel Lazio la partita è apertissima e il candidato risponde più a Fini che a lui. In Sicilia, anche se in questa regione non si vota, non ne parliamo. La competizione con la Lega è aspra in tutto il Nord.
Nonostante tutto, l'ipotesi di un risultato 7 a 6 in favore del centrosinistra è dunque ancora ipotizzabile. Ma poi bisognerà passare dalla tattica alla strategia.
Quella larga parte di italiani ai quali stanno a cuore le sorti del paese oltreché la propria, capiscono che non si può continuare così. Un capo di governo che in ogni luogo racconta barzellette e le comunica ai giornalisti affinché ne parlino sui loro giornali; un capo di governo che promuove un Bertolaso ministro dopo averlo pubblicamente censurato per le sue gaffe internazionali; un capo di governo che si occupa solo dei suoi guai giudiziari e degli affari delle sue società (private e pubbliche); un capo di governo che insulta ogni giorno i magistrati e prepara riforme a suo personale uso e consumo obbligando i magistrati ad una civilissima quanto gravissima manifestazione di protesta; un capo di governo che ogni mattina si fa dipingere i capelli in testa; un capo di governo che è una macchietta se non fosse una tragedia nazionale, ha l'aria d'essere arrivato alle ultime battute. Il suo declino potrà anche essere lungo ma è senz'altro cominciato.
Post Scriptum. Adriano Celentano in un articolo sul Corriere della Sera di giovedì scorso, dopo aver constatato che il governo non funziona e che i problemi dei cittadini restano da anni irrisolti, ha proposto che Berlusconi sia definitivamente liberato da tutti i suoi guai giudiziari ed abbia così il tempo di dedicarsi al bene comune. Nei programmi di Berlusconi campeggia anche la costruzione di 25 centrali nucleari. Il ragazzo della via Gluck avrebbe fatto un pandemonio per impedirlo. Adesso reclama un salvacondotto definitivo per il leader nuclearista. Caro Adriano, trent'anni fa eri "rock", adesso sei lento assai.
© Riproduzione riservata (31 gennaio 2010) da repubblica.it
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« Risposta #185 inserito:: Febbraio 01, 2010, 11:51:30 am » |
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Visione Avatar
di Eugenio Scalfari
Il film di Cameron è una grande innovazione ma occorrerà attendere una seconda o terza volta prima che il cinema decida di puntarvi tutte le sue carte
Sono andato a vedere il film di Cameron, 'Avatar', mi sono messo gli occhialetti e per poco meno di tre ore ho partecipato a quello spettacolo. La partecipazione ti viene imposta dalla tecnologia, non è una libera scelta ma un fatto necessario. Se il film ti piace ne ricaverai piacere, se non è di tuo gusto resti comunque incatenato alla tua poltrona per sapere come andrà a finire e non ti puoi distrarre o sonnecchiare perché quelle figure, quei paesaggi, quelle spore, quegli animali sono lì con te, danzano o si azzuffano sul tuo naso e tu sei con loro. Magari all'uscita tirerai un respiro di sollievo ma quelle tre ore ti saranno volate.
Avevo letto con interesse gli articoli che l'hanno presentato prima ancora che fosse messo in distribuzione. Ce ne erano di favorevoli, di neutrali e di decisamente contrari. 'Il Foglio', tanto per citarne uno, aveva lanciato una vera e propria campagna 'pro', Natalia Aspesi aveva analizzato i 'pro' e i 'contro' con la sua consueta intelligenza arrivando ad un saldo positivo. Roberto Faenza, da uomo del mestiere, pur riconoscendo i meriti tecnici e l'invenzione del regista e sceneggiatore, aveva dato l'allarme: un film costato 200 milioni di dollari funziona come una gigantesca pompa aspirante sul mercato; rastrella le risorse dei distributori, abitua il pubblico ad un prodotto che non può avere rivali, cancella gli attori, monopolizza per mesi le sale e successivamente le emittenti televisive. E soprattutto - così scrive Faenza - scaccerà l'elemento umano dal cinema. Resteranno soltanto il regista, il computer e gli effetti speciali.
Adesso che anch'io l'ho visto e tenendo conto che appartengo ad una cultura agli antipodi di quella che ha ispirato 'Avatar' pur non avendo perso la curiosità verso le cose nuove, faccio le seguenti considerazioni.
1. Faenza ha ragione quando prevede che se Hollywood si metterà su quella strada l'effetto sul mercato dei prodotti cinematografici sarà la nascita di un monopolio globale, esteso a tutto il pianeta. Il dialogo è infatti schiacciato dalle immagini, la struttura stessa di quel prodotto non prevede la necessità di traduzioni, le didascalie scritte in varie lingue sotto alle immagini sono più che sufficienti.
2. La constatazione che quel tipo di film cancella gli attori e ogni altro soggetto all'infuori del regista, del computer e degli effetti speciali è esatta solo in parte. Gli effetti speciali usati in quelle dimensioni richiedono eccezionali dosi di fantasia. La loro messa in scena non può essere affidata ad un piccolo gruppo di esperti artigiani: ci vuole un sovrappiù d'immaginazione collettiva e una realizzazione di disegni da animare che richiedono una rifinitura estremamente difficile. Infine il produttore, i manager, i distributori, i proprietari delle sale, le banche finanziatrici, saranno alle prese con cifre molto elevate e dovranno vigilare con estrema attenzione affinché un prodotto così costoso non si riveli un flop anziché un clamoroso successo commerciale. Il boom della prima volta significa poco, bisognerà attendere una seconda e una terza volta prima di puntare tutte le carte su quell'innovazione.
3. 'Avatar' mi ha ricordato il giornalino 'L'Avventuroso', che fu l'appassionante lettura della mia generazione quando eravamo tra i 10 e i 15 anni. L'impero di Ming, Gordon e la sua compagna (uomo e donna bianchi), un mondo di astronavi e di guerrieri armati di razzi modernissimi ma anche di archi e frecce all'antica; città sospese nell'aria; uomini-falchi e uomini-pesci. Non paragono un giornale per ragazzi degli anni Trenta del Novecento con un film tecnologico del 2010, ma la grammatica di base è la stessa e gli stessi sono gli stereotipi.
4. Oltre all''Avventuroso' mi è però venuto in mente anche il film 'Il soldato blu', d'una trentina di anni fa. Fu il primo della tradizione 'western' che rifece la storia della conquista del West mettendosi dalla parte dei vinti. In 'Avatar' è la stessa cosa: nel finale i 'marines' aggressori si ritirano disfatti e il 'soldato blu' che era uno di loro assume l'identità dello strano popolo che vive a Pandora, pacifico ma guerresco se deve difendere il proprio territorio e la propria indipendenza.
5. Ci sono messaggi filosofici in 'Avatar', messaggi culturali, messaggi religiosi. C'è il senso della trascendenza, la presenza d'una Grande Madre il cui ideale è quello della giustizia. C'è il sentimento amoroso. Un grande rispetto per la natura. Il messaggio è di amore e di pace, corroborato dal finale.
6. Ma 'Avatar' è un film d'azione per eccellenza e l'azione riposa inevitabilmente sulla guerra, altrimenti diventerebbe non un film ma un documentario del 'National Geographic'. Il messaggio pacifista c'è ed è forte, ma nove decimi del film raccontano una guerra di distruzioni e devastazioni. I morti sono pochissimi ma le rovine immense.
Concludo: 'Avatar' merita d'esser visto. Personalmente preferisco 'Il Gattopardo' e 'Casablanca', Louis Armstrong al 'rock'.
Ma io sono datato, perciò le mie preferenze vanno trattate con molta cautela.
(28 gennaio 2010) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #186 inserito:: Febbraio 07, 2010, 11:11:24 am » |
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IL COMMENTO
La bolla si sgonfia Bertolaso provvederà
di EUGENIO SCALFARI
LA BOLLA delle Borse si sta sgonfiando. Poco male. Le Borse sono il terreno di gioco degli speculatori e anche un serbatoio al quale attingono le imprese per rifornirsi di capitali, sempre che il risparmio vi affluisca. Da qualche tempo però il risparmio privilegia investimenti sicuri e possibilmente remunerativi. Per tutto il 2009 ha privilegiato i titoli emessi dagli Stati; negli ultimi mesi ha cambiato direzione preferendo i "bond" emessi da imprese solide. Che la bolla borsistica si sgonfi per loro non è un dramma: prima o poi si riprenderà. Ma attenzione: le Borse sono anche un termometro che segnala tendenze e aspettative. Da questo punto di vista i vistosi ribassi dei giorni scorsi, registrati sia in Europa sia a Wall Street, mandano messaggi sinistri che non possono esser sottovalutati.
Il significato è chiaro: il 2010 (ma anche l'11 e forse perfino il 12) sarà eguale se non peggiore del "terribile" 2009. Questa volta non si tratta d'una crisi immobiliare e bancaria: in prima fila ci sono i cosiddetti "fondi sovrani", cioè i deficit giganteschi accumulati dagli Stati del G7, cioè europei e nordamericani. È quello il ventre molle della crisi economica mondiale nell'anno secondo del suo percorso.
Berlusconi - non so se in buona o cattiva fede perché in lui le due cose coincidono - ha finora sostenuto che la crisi non c'era mai stata in Italia e che comunque ormai era finita in tutto il mondo. I suoi ministri e il coro dei "replicanti" della sua maggioranza parlamentare hanno ripetuto questi suoi esorcismi. Tutti tranne Tremonti.
Berlusconi è infuriato perché - dice - "Giulio è sempre di cattivo umore e a me tocca il compito di rassicurarlo, ma non ci riesco".
Lo credo. Tremonti conosce la realtà, che non è tale da suscitare allegria. Le barzellette del "boss" sulla Madonna potranno far ridere i frati di Betlemme ma non il responsabile dell'economia italiana.
* * *
Il reddito della Grecia rappresenta il 4 per cento del totale dell'Unione europea; quello del Portogallo anche meno. Quello spagnolo parecchio di più; vanno aggiunti i paesi baltici e l'Ungheria, anch'essi in pessime acque. Ma in teoria non si tratta di ordini di grandezza tali da affondare l'Europa. La seconda linea di resistenza è rappresentata dal Fondo monetario internazionale. Quindi i "default" di questi Stati non configurano un dramma. In teoria.
Certo la speculazione può trarre spunto da questa realtà per spingere il ribasso e far esplodere la bolla; in questo caso per puntare su un deprezzamento del cambio dell'euro nei confronti del dollaro. Se le banche centrali del G7 volessero tagliar le gambe alla speculazione ribassista potrebbero farlo agevolmente. In teoria.
In pratica le cose stanno diversamente. La Germania è decisamente contraria ad accollarsi l'onere di salvataggi altrui; quanto agli Usa il debito pubblico accumulato dal paese-leader di tutto l'Occidente è enorme, le misure finora previste da Obama sono ridicolmente insufficienti a invertire il "trend". In queste condizioni pensare che gli Usa possano esser parte attiva di interventi mirati a sistemare i default altrui è fuori da ogni ragionevole ipotesi.
In realtà il rischio maggiore proviene proprio dal debito interno americano, per riportare il quale a livelli di sicurezza entro il 2012 come promette Obama sarebbe necessaria una cifra da capogiro di 3.000 miliardi di dollari.
Questo è il vero spettro che grava sull'economia mondiale, aprendo paurosi scenari di inflazione accompagnata dal persistere di una recessione produttiva e dall'ulteriore contrarsi del commercio internazionale e dell'occupazione.
* * *
Brilla ancora una volta per la sua incompetente dissennatezza la sortita di ieri del nostro presidente del Consiglio che ha vantato la sua politica di "diminuzione del peso fiscale" e lo slancio della nostra economia "in fase di robusta ripresa".
Il peso fiscale è, al contrario, nettamente in aumento, lo dicono i dati ufficiali dell'Istat, della Banca d'Italia e dello stesso Tesoro. È in aumento il rapporto deficit/Pil (oltre il 5 per cento) ed è in aumento lo stock di debito pubblico che è già al 117 per cento del Pil e marcia speditamente verso il 120.
Quanto alla ripresa produttiva, dovremmo avere un aumento dell'uno per cento quest'anno, "rebus sic stantibus". Ma le cose non resteranno affatto ferme.
Peggioreranno. Per cause esterne ed interne. Scadranno in primavera importi molto consistenti di titoli pubblici che dovranno essere rinnovati. Con l'aria che tira e con analoghe massicce scadenze in Germania, in Gran Bretagna e in Usa, avremo un mercato internazionale in piena agitazione, con tassi di remunerazione in crescendo e relativi maggiori oneri per il servizio degli interessi sui debiti.
Il nostro premier meriterebbe d'essere interdetto per dissennatezza economica e demagogia politica. Tremonti è di cattivo umore e gli fa il broncio: una lite tra compari che si scaricano vicendevolmente comuni responsabilità.
Anche il nostro superministro dell'Economia ne dice di cotte e di crude rivaleggiando col suo Capo. Al G7 del Polo Nord ha proposto ieri che il Fondo monetario diventi un organo politico, guidato dai ministri dell'Economia e non dai tecnici ed ha annunciato che in primavera presenterà un piano d'azione mirato a questo obiettivo.
La casa continua a bruciare e lui si preoccupa di saldare i conti col governatore della Banca d'Italia. Ma da quale cielo ci sono piovuti addosso personaggi così calamitosi? Debbono aver colpe assai grandi gli italiani per esserseli meritati.
* * *
Come tutto ciò non bastasse, il governo ha trovato il modo di litigare pubblicamente anche con la Fiat che ha deciso di chiudere nel 2011 lo stabilimento di Termini Imerese. La lite verte sugli incentivi. La Fiat non li vuole, il governo è ben lieto di non darglieli più e si accende la polemica sul passato e sul futuro: la Fiat è stata un'azienda mantenuta dallo Stato? Che farà d'ora in poi senza quel mantenimento? Diventerà la donna onesta che non è mai stata?
Una polemica assurda. La Fiat è stata, dal 1948 in poi, il potere forte per eccellenza. La più grande azienda italiana insieme all'Eni di Enrico Mattei. I governi hanno sempre sponsorizzato la sua politica e la Fiat, in cambio, non ha lesinato i suoi finanziamenti alla Dc e alle sue correnti. I governi l'hanno spinta ad uscire dal Piemonte e decentrare nel Sud una parte delle sue produzioni. La Fiat l'ha fatto ricevendo in cambio i necessari finanziamenti a Melfi e a Termini. Questa è la storia, così sono andate le cose.
Ora la situazione è cambiata. La Fiat non è più un potere forte come un tempo. Quando Marchionne immaginò l'operazione Chrysler, sperando di abbinarvi anche l'operazione Opel, tutti la magnificarono con l'aggettivo di "conquistadora". Noi scrivemmo che si trattava di un'operazione difensiva che la Fiat faceva per sopravvivere e questa, come ora risulta chiaro a tutti, era la pura verità dei fatti.
Il problema di Termini è dolorosamente evidente: quello stabilimento è sempre stato antieconomico. In tempi grassi è sopravvissuto, in tempi magri non ce la fa più.
Gli incentivi non risolvono i problemi, li rinviano di qualche mese e probabilmente li aggravano. I governi hanno voluto industrie non economiche e ora se le trovano sulle braccia. Il mercato dell'auto nei paesi occidentali è vecchio, il prodotto è vecchio, la domanda è in discesa. I nuovi mercati per nuovi tipi di automobile sono all'Est. Termini Imerese non ha futuro. Ma c'è da domandarsi addirittura quale futuro abbia Mirafiori. Questo è il vero problema che Marchionne sta tentando di risolvere ed è incredibile che il governo non se ne renda conto. Ma chi dovrebbe? Scajola?
Una risorsa umana ci sarebbe e forse Berlusconi ci sta già pensando: si chiama Bertolaso, protezione civile Spa. Con quel gioiello in tasca si può affrontare qualunque emergenza. Forza Bertolaso, forza Italia. Con uomini come quelli non c'è emergenza che tenga.
Post scriptum. Ma come farà ad essere israeliano con gli israeliani e palestinese coi palestinesi? Ad affermare davanti a Netanyahu che bombardare Gaza fu una reazione giusta e due ore dopo, davanti ad Abu Mazen, che le vittime di Gaza sono paragonabili a quelle della Shoah? Zelig si limitava a cambiare forma a seconda dell'interlocutore da compiacere, ma questo è un uomo in grado di cancellare il tempo e lo spazio. Riesce a stare col pilota dell'aereo che sgancia le bombe e nel rifugio sotterraneo con i bombardati. In contemporanea e dispensando ad entrambi parole di comprensione.
Queste righe non sono mie, non le ho scritte io, le ha scritte sulla Stampa del 4 febbraio Massimo Gramellini. Io mi limito a trascriverle e, scusandomi con l'autore, a sottoscriverle, ponendomi anch'io la domanda: ma come fa? E come fanno gli italiani a sopportarlo? E il cardinal Bertone a benedirlo?
© Riproduzione riservata (07 febbraio 2010) da repubblica.it
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« Risposta #187 inserito:: Febbraio 12, 2010, 02:04:54 pm » |
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Irregolari e conformisti
di Eugenio Scalfari
E quelli che stanno a guardare.
Alcune riflessioni e un consiglio a Pierluigi Battista
Pierluigi Battista ha scritto un libro impegnativo fin dal titolo. L'ha pubblicato qualche settimana fa la Rizzoli. Si chiama 'I conformisti. L'estinzione degli intellettuali d'Italia'; 213 pagine dense di nomi, giudizi storici politici morali. I conformisti, o per esser più esatti gli intellettuali conformisti, sono quelli arruolati sotto una bandiera ideologica che hanno difeso a dritto e a rovescio anche a prezzo di dover ignorare la realtà dei fatti e quindi la verità. All'opposto dei conformisti ci sono, secondo l'autore, gli 'irregolari'. Sono quelli che hanno viceversa privilegiato la ricerca della verità anche a costo di dover abbandonare l'ideologia sotto le cui bandiere avevano fin lì militato. È ovvio che la simpatia dell'autore vada agli irregolari. Ed anche la simpatia del lettore, a cominciare dalla mia. Posto il problema come lo pone l'autore, da una parte chi cerca liberamente la verità e dall'altra chi la occulta per favorire la propria bandiera, non c'è gara possibile: stiamo tutti coi veritieri e contro i falsificatori.
Ma Pigi (è così che lo chiamano gli amici e così lo chiamai anch'io quando lo conobbi che aveva meno di diciott'anni) scopre l'esistenza di una terza categoria d'intellettuali: quelli che hanno fatto dell'irregolarità un abito mentale permanente: non hanno appartenenze da difendere, quindi sono irregolari in servizio permanente effettivo. Cercano la verità dei fatti e poi, di volta in volta, si dichiarano per la parte verso la quale li porta il vento della verità. Si tratta d'un vento alterno, a volte viene dal Sud, a volte dal Nord o da altri punti cardinali. Il proprio degli irregolari permanenti consiste in questa loro capacità di orientarsi nella rosa dei venti. Rappresentano la freccia che segnala il vento della verità su quel problema, su quella tesi, su quei fatti. Sono gli unici veri intellettuali degni del nome. Purtroppo ce ne sono rimasti pochi. Ovviamente Pigi è uno di loro. Ha scritto un bel libro, Pierluigi Battista, scorrevole, rievocativo, ma anche attuale. Racconta a larghe pennellate ciò che è accaduto nel Novecento, nella storia delle idee e delle ideologie dall'ultima guerra fino ai nostri giorni. Un bel libro completamente di parte, camuffato da libro imparziale. Ma conoscendo Pigi metto la mano sul fuoco affermando che l'autore non è affatto consapevole di aver camuffato la parzialità. Lui è convinto della tesi che sostiene. Perciò - come si dice - è in perfetta buona fede. Se c'è un peccato, un difetto, qualche lacuna nel suo ragionamento, si tratta di pecche colpose ma non dolose. Il che tuttavia non ne diminuisce ma semmai ne aumenta la pericolosità.
Vediamo dunque dove si annidano quelle pecche, partendo dai personaggi che rappresentano i punti di riferimento etico e politico dell'autore. I più importanti sono Albert Camus, George Orwell, Simone Weil, Georges Bernanos. Scelsero la verità e non tennero conto dell'appartenenza, anzi abbandonarono l'appartenenza originaria. I primi tre, in omaggio alla verità, abbandonarono la sinistra. Bernanos, che era un cristiano monarchico, lasciò cadere l'appartenenza monarchica ma non certo quella cattolica quando vide i massacri fatti dai franchisti nella guerra civile spagnola. Sono nomi di tutto rispetto, ai quali ne vengono affiancati altri, come Gide e Koestler, anch'essi passati dal comunismo all'anticomunismo. Ci furono anche trasferimenti dal fascismo alla sinistra, ma questi non mi pare abbiano incontrato il favore dell'autore. Ed a ragione: preferire un totalitarismo ad un altro significa soltanto modificare l'ordine dei fattori: il prodotto non cambia. Dov'è allora la pecca di Battista? Ne vedo un paio e mi permetto di segnalargliele.
La prima consiste nell'aver ristretto la questione al periodo della guerra fredda ed aver puntato l'obiettivo tra l'appartenenza all'ideologia comunista (conformismo) e la rottura con essa in nome della verità (irregolari). Non è uno schema e quindi semplicistico ridurre la realtà a due alternative? C'erano terze e quarte vie. Allora, forse, velleitarie data la brutalità dello scontro. E poi perché limitarsi agli intellettuali? Gli operai, i docenti, che dichiaravano di sentirsi comunisti non si esponevano a rappresaglie? Non venivano licenziati in tronco, non erano costretti a cambiar lavoro, sede, tenore di vita, a me non pare che possano definirsi conformisti quelli che affrontarono questo tipo di battaglia.
La seconda pecca riguarda gli irregolari permanenti, quelli che giudicano all'inglese, come si dice con molta approssimazione; caso per caso. Senza mettersi l'elmetto. Questa frase mi ha fatto drizzar le orecchie: è quella incessantemente ripetuta dal giornale sul quale Pigi scrive, anzi del quale è vicedirettore. Se si va a passeggiare in aperta campagna o sulla spiaggia o in giro per musei e cinematografi nella propria città e ci si mette in testa un elmetto, allora ci si merita di esser ricoverati per disturbi mentali. Ma se ci si trova in battaglia e sotto il fuoco avversario, non mettersi l'elmetto è da incoscienti. C'è un'altra ipotesi: la battaglia c'è, chi la combatte porta l'elmetto, chi non la combatte sta appollaiato in un lontano osservatorio (naturalmente senza elmetto) e aspetta di vedere a chi andrà la vittoria. Se tra i combattenti c'è una parte più forte e più armata dell'altra, quelli che osservano dall'alto registrano inevitabilmente il vento del potere e vorrebbero che i più deboli si levassero l'elmetto e li raggiungessero nell'osservatorio. A quel punto la battaglia sarebbe stata vinta dal potente di turno. Sono questi gli irregolari? A me non pare. Questo tipo di irregolari sono i veri conformisti.
Questi miei pensieri avevo deciso di tenerli per me, in fondo Pigi è un vecchio amico. Ma poi ho letto la lettera che Beniamino Placido scrisse alla figlia Barbara nel 1990, pubblicata da 'Repubblica' l'8 febbraio . Dove spiega che cosa fu il partito d'Azione. Chi furono i suoi eroi. Anticomunisti che combatterono insieme ai comunisti contro la dittatura nazifascista. Che fecero anni e anni di galera. O furono ammazzati dai fascisti. E seguirono il loro motto di 'non mollare', che significava continuare a tenersi l'elmetto in testa. Vorrei che Pigi leggesse la lettera di Beniamino. E ne cavasse qualche insegnamento e qualche eventuale autocritica sul suo modo di pensare la storia.
(11 febbraio 2010) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #188 inserito:: Febbraio 14, 2010, 10:23:10 pm » |
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L'EDITORIALE
Così hanno espropriato Costituzione e Parlamento
di EUGENIO SCALFARI
La prima parola che viene in mente è bordello, nel senso letterale e metaforico del termine già usato da Dante nella celebre apostrofe "Non donna di province ma bordello", cui si potrebbe aggiungere l'altro verso della stessa terzina: "Nave senza nocchiero in gran tempesta". Il padre della nostra letteratura, cioè della nostra storia, aveva scolpito ottocento anni fa uno dei connotati permanenti della nostra società, per fortuna non il solo, ma purtroppo quello più ricorrente.
Non c'è ritratto più adatto per descrivere l'impressione suscitata dall'ennesimo scandalo del nostro scandaloso presente, quello che si intitola alla Protezione civile, al suo capo, Guido Bertolaso e al suo massimo ispiratore e primo fruitore, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.
La popolarità di Berlusconi e il consenso che ancora compattamente lo sostiene poggia infatti su tre pilastri: la lotta indiscriminata e sapientemente alimentata contro gli immigrati, la celere raccolta dei rifiuti a Napoli, la tendopoli e le casette rapidamente allestite a L'Aquila dopo il terremoto. Gli ultimi due debbono il loro successo a Guido Bertolaso e questo spiega la difesa che Berlusconi ha assunto personalmente del suo capocantiere, detto anche "il protettore" in quanto capo della Protezione.
L'uomo del fare ha trovato due anni fa un altro uomo del fare e l'innamoramento è stato immediato e reciproco. Saper fare e voler fare sono requisiti positivi se il fare viene esercitato all'interno di limiti precisi, di regole chiare, di controlli rigorosi.
Più aumenta il potere degli uomini del fare e più dovrebbero aumentare i controlli, le regole, i limiti. Ma se i controlli vengono smantellati, allora il potere del fare diventa un requisito negativo e questa è appunto la situazione che due anni di dittatura del cosiddetto fare ha creato.
Lo scandalo della Protezione civile è dunque intimamente connesso al berlusconismo e alla sua visione della cosa pubblica. Alla sua concezione costituzionale. Da anni il premier si batte per instaurare un assetto autoritario, dove l'accrescimento dei poteri presidenziali sia accompagnato dall'indebolimento dei controlli e dei poteri di garanzia. Dove il potere legislativo sia confiscato da quello esecutivo, dove il disegno di legge sia sostituito dal decreto legge e il decreto dall'ordinanza. E dove infine l'ordinanza sia "esternalizzata" e affidata non più ad un dipartimento collocato all'interno della Pubblica amministrazione, ma ad una società per azioni di carattere pubblico in veste privatistica, che ha come unico referente il capo del governo, con tutto ciò che inevitabilmente ne consegue e che lo scandalo Bertolaso-Protezione civile ha portato ora sotto gli occhi di tutti i cittadini. Per fortuna lo scandalo è scoppiato prima dell'entrata in vigore della legge sulle intercettazioni che se sarà approvata così come il governo la vuole, metterà il bavaglio alla stampa (a quel che resta della libera stampa). Con quella legge vigente l'opinione pubblica non avrebbe saputo nulla di ciò che è accaduto, nulla dell'istruttoria in corso, nulla delle risate degli appaltatori allo scoppio del terremoto, nulla del raddoppio dei prezzi in corso d'opera, nulla degli intrecci familiari e amicali, nulla dei "benefit" percepiti dagli appaltanti, nulla dei conti segreti.
L'opinione pubblica sarebbe stata tagliata fuori dalla delicatissima fase dell'istruttoria e così lo sarà nel prossimo futuro se quella legge sarà approvata. E questo sarà il quarto pilastro per completare il disegno dello Stato autoritario. Il quinto pilastro è e sempre più sarà lo scudo immunitario per gli uomini del fare e per quelli dell'obbedire.
Tagliar fuori l'opinione pubblica e tagliar fuori la giurisdizione: questo è l'obiettivo. Lo scandalo della Protezione civile è salutare perché mette allo scoperto la giuntura principale di questo disegno mentre ancora la pubblica opinione e la giurisdizione sono in grado di conoscere e di giudicare. Dopo sarà troppo tardi.
* * *
Io non credo che Guido Bertolaso sia coinvolto in festini e se anche lo fosse non penso che sia questo il punto scandaloso della questione anche se intriga la prurigine pubblica, quella più appassionata ai "reality show" e al "Grande Fratello" in edizione televisiva.
Qualche giorno fa il sottosegretario Bertolaso mi ha indirizzato una lunga lettera in cui raccontava le difficoltà del suo lavoro, il valore dei suoi collaboratori, la bontà dei risultati ottenuti. Non ne voleva la pubblicazione; voleva che mi convincessi alla sua tesi del "tutto va bene e tutto andrà bene". Ricevetti la lettera poco prima che lo scandalo scoppiasse, tardai qualche giorno a rispondere, nel frattempo lo scandalo scoppiò.
La mia risposta è stata breve. Ho fatto i più sinceri auguri al capo della Protezione per l'esito dell'inchiesta a suo carico, e li ho fatti "nell'interesse suo, dei volontari che lavorano con zelo e disinteresse ai suoi ordini, e del Paese". Ma ho aggiunto che il mio giudizio sul sistema e sui poteri della Protezione è totalmente negativo e gli ho allegato il discorso pronunciato in Senato dal senatore Luigi Zanda sulla conversione in legge del decreto che istituisce la "Protezione civile Spa", dove i vizi e i pericoli della nuova istituzione sono puntigliosamente e lucidamente elencati.
Rivelo questo epistolario per dire che non ci muove in questa circostanza alcun intento moralistico e alcuna antipatia personale. Bertolaso sa fare il suo mestiere ma con un assai grave difetto: una brama di fare che si traduce inevitabilmente in brama di potere. Ho scritto su di lui che è una protesi di Berlusconi e questa è la pura verità.
C'è una frase che il capo della Protezione ha detto in una recentissima intervista: "Se sto correndo in macchina per salvare una vita e il semaforo segna il rosso, io passo nonostante il rosso".
Ha perfettamente ragione e noi abbiamo fervidamente applaudito quando ciò è avvenuto. Purtroppo l'area della Protezione civile si è enormemente accresciuta ed estesa ad eventi che non hanno niente a che fare con la vita delle persone e delle cose; eventi che non hanno nulla di catastrofico, appuntamenti che si svolgeranno tra mesi ed anni. Ma lui ha ottenuto di passare con il rosso sempre e dovunque. L'ha ottenuto e l'ha voluto. Ora dice che non poteva sorvegliare tutto, che nulla sapeva di appalti e di appaltatori, che forse è caduto in una trappola.
Io non credo che questa sua difesa corrisponda a verità; le intercettazioni della Procura di Firenze e le indagini della Guardia di finanza disposte dalla Procura di Roma prospettano una verità completamente diversa. Ma quand'anche Bertolaso fosse caduto in una trappola, è lui stesso ad essersela preparata. Non si possono guidare i lavori pubblici della Maddalena, quelli dell'Aquila, gli aiuti ad Haiti, la preparazione del Convegno eucaristico, le Olimpiadi del nuoto a Roma, i rifiuti a Napoli (ancora in corso), quelli a Palermo, le colate di fango a Messina, i Mondiali del ciclismo a Varese. Infine l'ondata di maltempo in tutta Italia che si avvicenda a siccità ed incendi secondo le settimane e le stagioni.
Questa è la trappola, alla quale ora si aggiunge la sua difesa nell'inchiesta che lo vede coinvolto. Spero per lui che abbia almeno il buon senso di dimettersi, ma purtroppo il sistema da lui pensato e da Berlusconi voluto resta in piedi. È quello che va smantellato anche perché è un sistema interamente incostituzionale. Ancora una volta è di incostituzionalità che si tratta.
* * *
Non starò a far l'elenco degli appaltatori (attuatori) e degli appaltanti tra i quali si segnalano Balducci, presidente del Consiglio dei Lavori pubblici, De Santis che lo coadiuva. Non starò a ripercorrere le filiere familiari e amicali del gruppo Anemone, i Piermarini, i Piscicelli, i Gagliardi, i Della Giovampaola; una lunga filiera di figli, cognati, fratelli, amici da una vita, con nello scorcio perfino un vecchio padre salesiano, emerito finanziatore di missionari e anche di qualche lestofante. Tutte persone, affari, intrecci, che hanno occupato le pagine di Repubblica e di tutti i giornali dei giorni scorsi.
A me interessa invece tornare su "Protezione civile Spa" e più in generale sul sistema delle ordinanze. La legge base sulla Protezione e sulle Ordinanze risale al 1992 ed è perfetta sotto ogni punto di vista, in raccordo con la giurisprudenza e con successive sentenze della Corte costituzionale. Quella legge autorizzava la Protezione civile "a passare col semaforo rosso" in caso di catastrofi naturali di importanza nazionale, fermo restando il controllo della Corte dei Conti sui rendiconti delle spese sostenute.
Vediamo anzitutto il numero delle ordinanze emesse dai successivi governi. A partire dal 1994 fino al 2001 sono state emanate un'ordinanza all'anno, al massimo due un paio di volte. Nel 2002 le ordinanze relative alla Protezione civile sono state 40, nel 2003 sono state 72, e poi 59 nel 2004, 99 nel 2005, 71 nel 2006, 87 nel 2008 e 79 nel 2009 fino al mese di settembre.
L'aumento va di pari passo con l'estensione dell'attività "protettiva" ai cosiddetti Grandi eventi al di fuori delle catastrofi naturali. Quest'estensione avvenne con le leggi del 2002 e del 2005. L'emissione di ordinanze non è più subordinata a criteri specifici ma a discrezione del Consiglio dei ministri, con una vera e propria confisca dei poteri legislativi e di controllo del Parlamento ed anche del Capo dello Stato perché le ordinanze sono esclusivo appannaggio del presidente del Consiglio in quanto atti puramente amministrativi. Ma puramente amministrativi non sono perché i veri atti amministrativi sono soggetti a regolari controlli della Corte dei Conti, dei Tar e del Consiglio di Stato. Si tratta cioè di amministrazione straordinaria, dove la straordinarietà è decisa dal Consiglio dei ministri con criteri eminentemente politici.
La Corte costituzionale aveva stabilito con una sentenza del 1956, più volte reiterata in casi successivi, che "le ordinanze debbono rispondere ai canoni dell'efficacia limitati nel tempo in relazione ai dettami della necessità, dell'urgenza e della adeguata motivazione".
Si è invece arrivati addirittura ad utilizzare l'ordinanza per affidare alla Protezione civile l'attuazione dei decreti legge anche prima della loro pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Nemmeno il Re Sole aveva i poteri che ha Berlusconi attraverso la Protezione civile. La quale si è occupata perfino della costruzione di un albergo sul lago Maggiore in concomitanza con i campionati di ciclismo e si occupa ora dell'Expo di Milano che avrà luogo nel 2011. Qui non si tratta più di sorpassare un semaforo rosso ma addirittura di puntare l'automobile dritto sul passante per metterlo sotto le ruote, là dove il passante è semplicemente la democrazia parlamentare e lo Stato di diritto.
Ultima ciliegia su questa torta maleodorante: il sottosegretario alla Protezione civile è anche direttore del Dipartimento della P. C.; sarebbe come se Gianni Letta, sottosegretario con delega ai servizi di sicurezza, fosse anche il direttore di quei servizi. È curiosa la difesa preventiva di Letta per il collega in difficoltà. Vuole forse anche lui mettersi al posto dei direttori dei servizi segreti conservando la carica politica? Perché non lascia ai magistrati di fare il loro mestiere? Va bene che è gentiluomo vaticano, ma anche Angelo Balducci lo è. (Sia detto tra parentesi: il cardinal Bertone dovrebbe forse esser più rigoroso nelle scelte dei suoi gentiluomini. Uno è finito in galera per corruzione e non è una buona pubblicità per la Chiesa).
* * *
A Guido Bertolaso vorrei porre qualche conclusiva domanda che ovviamente non riguarda la materia sotto esame dei tribunali.
1. Non si è accorto che l'estensione della Protezione civile ai Grandi eventi del tutto disconnessi dalle catastrofi causate dalla natura o dagli uomini, era al di sopra delle possibilità di un regolare servizio?
2. Se se ne è accorto, ha comunicato questa sua preoccupazione al Presidente del Consiglio? Ottenendo quale risposta?
3. Non si è reso conto che la creazione della Protezione civile Spa rendeva permanente quest'anomalia e confiscava ulteriormente i poteri legislativi del Parlamento?
4. Ha comunicato al presidente del Consiglio questa sua eventuale preoccupazione?
5. Si è reso conto che buona parte dei mutamenti apportati alla legge del 1992 potevano creare conflitti con l'ordinamento costituzionale?
6. Ha riflettuto sul fatto che le ordinanze relative a quegli eventi (tra le quali c'è anche l'attribuzione alla P. C. del finanziamento delle celebrazioni per l'Unità d'Italia) sono un modo per evitare la firma del capo dello Stato eludendo così il suo controllo di costituzionalità?
7. Ha informato di queste sue eventuali osservazioni il presidente del Consiglio? Quale risposta ne ha ottenuta?
8. Si è reso conto che, restando sottosegretario di Stato, esisteva un'incompatibilità assoluta con la carica di direttore del Dipartimento della P. C.? Questa incompatibilità è durata più di un anno. Per quale ragione?
9. Bertolaso è stato indagato per reati connessi alla gestione dei rifiuti di Napoli, insieme al suo vice dell'epoca (che è una donna a lui ben nota e a lui fedelissima). Il processo per il suo vice è in corso. Per quanto riguarda lui è stato invece stralciato e trasferito a Roma. Può dirci a che punto si trova questo processo?
10. Porgo queste domande a Bertolaso perché egli si è sempre proclamato un uomo al servizio dello Stato e non dei governi. Se fosse al servizio di questo governo e lo dichiarasse francamente, non porrei questi interrogativi. Ma se è al servizio dello Stato avrebbe dovuto porseli e quindi: perché queste domande non se le è poste da solo e non ne ha tratto le conclusioni?
© Riproduzione riservata (14 febbraio 2010) da repubblica.it
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« Risposta #189 inserito:: Febbraio 15, 2010, 05:00:31 pm » |
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LA LETTERA.
Bertolaso risponde alle dieci domande di Scalfari: "Dico basta a questo fango"
"Non è un mio problema considerare che per "Stato" si deve intendere l'Italia senza Berlusconi".
"Mai chiesta la patente di pirata e chi ha sbagliato deve pagare"
"Sono un servitore dello Stato". "Quando ci sono scadenze l'unico strumento che funziona è la Protezione civile"
di GUIDO BERTOLASO
Caro Scalfari, rispondo subito alle 10 domande che lei mi ha posto.
1. Non si è accorto che l'estensione della Protezione civile ai Grandi eventi del tutto disconnessi dalle catastrofi causate dalla natura o dagli uomini, era al di sopra delle possibilità di un regolare servizio? "Mi sono accorto del contrario e resto convinto delle ragioni che hanno portato il Governo Berlusconi prima, il Governo Prodi poi, ed infine l'attuale Governo Berlusconi a confermare al Dipartimento la gestione dei Grandi Eventi. La ragione: quella della Protezione civile è l'unica normativa che considera, in linea con le normative comunitarie relativamente alla accelerazione delle procedure, la variabile "tempo" come reale e cogente". "Quando ci sono scadenze, quando bisogna concludere qualcosa entro una data non procrastinabile, anche in relazione ad esigenze di sicurezza e di tutela degli interessi primari della collettività, l'unico strumento che funziona è la normativa citata. Ripeto: normativa, non anarchia o autorizzazione ad esercitare la pirateria a nome dello Stato, normativa per di più comprensiva di controlli e autorità di vigilanza, mai abrogate".
2. Se se n 'è accorto, ha comunicato questa sua preoccupazione al presidente del Consiglio? Ottenendo quale risposta? "Ho comunicato alla Presidenza più volte - e non solo durante questo Governo - la mia preoccupazione relativa all'aumento delle richieste di dichiarazione di grande evento da affrontare con la figura del Commissario Straordinario. A mio avviso c'era e c'è da domandarsi come mai continuano ad aumentare le richieste di dichiarare situazioni di ogni tipo particolari e diverse dalle altre, che siano grandi eventi, emergenze, o altre fattispecie. A me pare che ciò costituisca un segnale, inquietante, dell'aumento della difficoltà delle Amministrazioni a gestire in ordinario il territorio affrontando situazioni complesse. Nessuno, né in Parlamento né fuori, ha finora dato cenno di condividere la necessità di una revisione e di un ammodernamento della normativa, per poter consentire alle Amministrazioni di affrontare efficacemente in via ordinaria le problematiche del governo del loro territorio".
3. Non si è reso conto che la creazione della Protezione civile Spa rendeva permanente quest'anomalia e confiscava ulteriormente i poteri legislativi del Parlamento? "Come già Le ho scritto la settimana scorsa, il decreto legge non prevede affatto la trasformazione della Protezione Civile in società per azioni, la quale viceversa, con personale capace e preparato, continuerà nella sua missione. La Spa è uno strumento tecnico in più, che, con l'esperienza acquisita nelle emergenze, non ultima quella aquilana, rimette nella mani del "Pubblico" competenze da "general contractor" che la pubblica amministrazione ha perso negli ultimi decenni, rendendola nuovamente in grado di seguire giorno per giorno i lavori di cui lo Stato è committente e sottraendosi al ricatto del "mercato", all'ormai abituale ricorso ai vari modi di implementare i prezzi che azzerano nei fatti la sostanza stessa delle gare che si svolgono, oltre a provocare inevitabilmente il rinvio a tempi ignoti della consegna della commessa. Aggiungo, viste le circostanze, che tutto si gioca, come sempre, sulla scelta delle persone giuste nei posti giusti. Ho potuto farlo all'Aquila, mentre in precedenza ho lavorato con le massime autorità competenti per le opere pubbliche che ho trovato. Se queste persone già investite di ruoli importanti e delicati non erano all'altezza del loro compito, il chè deve ancora essere provato, posso solo dire, senza violare alcun segreto investigativo, che la prospettiva che si possa lavorare assumendo in pieno anche la responsabilità della scelta accurata dei collaboratori mi pare un passo avanti e una garanzia in più". 4. Ha comunicato al presidente del consiglio questa sua eventuale preoccupazione? "Rendere lo Stato efficiente non è una anomalia, non ho mai sottratto poteri legislativi al Parlamento - affermazione in sé ridicola - , credo che lo Stato non sia solo gioco partitico, in parlamento e fuori, ma anche responsabilità di operare delle amministrazioni. Per questa ragione non avevo proprio nulla da comunicare al Presidente del Consiglio su questo punto. Avrei dovuto chiedergli che mi concedesse di rinunciare alle uniche norme che consentono di operare con efficacia, come ho dimostrato in questi anni. Per quale ragione? Per restare fermo a tempo indeterminato, in attesa che il Parlamento affrontasse il problema della capacità di decidere e fare delle Amministrazioni, sul quale ad oggi non ci sono neppure proposte?"
5. Si è reso conto che buona parte dei mutamenti apportati alla legge del 1992 potevano creare conflitti con l'ordinamento costituzionale? "Non mi rendo mai conto di ciò che non c'è. Nessuna novità venuta dopo la legge del 1992 ha creato conflitti costituzionali. Nessuna norma è passata col parere contrario del Presidente della Repubblica, non ci sono state osservazioni neppure informali, non ci sono stati pronunciamenti della Corte Costituzionale né sono state sollevate fondate eccezioni di incostituzionalità. Da nessuno, tranne che da Lei oggi, neppure durante la discussione e l'approvazione della riforma del Titolo V della Costituzione, che ha dichiarato la Protezione Civile materia concorrente con le Regioni, con le quali per noi è normale coordinarsi, anche per i Grandi Eventi, come è avvenuto per il G8 con la Regione Sardegna e successivamente con la Regione Abruzzo".
6. Ha riflettuto sul fatto che le ordinanze relative a quegli eventi (tra le quali c'è anche l'attribuzione alla Protezione civile del finanziamento delle celebrazioni per l'Unità d'Italia) sono un modo per evitare la firma del capo dello Stato eludendo così il suo controllo di costituzionalità? "Se i Presidenti della Repubblica non hanno mai opposto il rifiuto o obiezioni alle leggi che consentono l'adozione delle ordinanze relative ai Grandi Eventi, se gli stessi non hanno mai espresso preoccupazioni di sorta al riguardo, confesso che non ho avuto stimoli per fare questa riflessione. Ricordo invece che i Presidenti della Repubblica hanno conferito due medaglie d'oro al valore civile al Dipartimento, mi hanno riservato rapporti personali diretti assolutamente cordiali, non hanno mai lesinato, in moltissime occasioni, i loro complimenti e il loro compiacimento per il mio operato. In occasione del G8 all'Aquila il Presidente Napoletano ha voluto pubblicamente manifestare il suo grande apprezzamento, a me e a quanti hanno lavorato con me, per l'organizzazione e la gestione dell'evento".
7. Ha informato di queste sue eventuali osservazioni il presidente del Consiglio? Quale risposta ne ha ottenuta? "Per la stessa ragione, e cioè la mia incapacità di vedere pericoli dove li vede solo Lei, non ho informato il Presidente del Consiglio, che invece ha potuto prendere atto in molte occasioni, senza bisogno di suggerimenti, delle tante cose concrete positive realizzate dal Dipartimento".
8. Si è reso conto che, restando sottosegretario di Stato, esisteva un'incompatibilità assoluta con la carica di direttore del Dipartimento della Protezione civile? Questa incompatibilità è durata più di un anno. Per quale ragione? "Sarei incompatibile se fossi sottosegretario alla Protezione Civile. Mi sono battuto sempre perché la competenza della Protezione Civile fosse propria del Presidente del Consiglio dei Ministri, risolvendo in questo modo il problema di evitare, nei tempi dell'emergenza, di affidarsi a forme di "coordinamento senza potere", esercitate da un Ministro pari grado di altri Ministri che dovevano accettare di farsi coordinare. Ho detto anche di recente che un conto è invitare i colleghi, un altro convocare le Amministrazioni e i loro titolari a riunioni a Palazzo Chigi. Questo vale in generale, a prescindere da chi sia l'inquilino di Palazzo Chigi. Sono stato sottosegretario per l'emergenza rifiuti in Campania dove ho anche operato come responsabile della Protezione Civile con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Risultati che dipendono dall'uso di quei poteri e normative di Protezione Civile, le uniche adeguate ad affrontare situazioni complesse e problemi dove il "tempo che passa" è determinante, che ora sembra Le creino insormontabili problemi di tenuta della democrazia. Anche adesso, comunque, non sono affatto sottosegretario alla Protezione Civile".
9. Bertolaso è stato indagato per reati connessi alla gestione dei rifiuti di Napoli, insieme al suo vice dell'epoca (che è una donna a lui ben nota e a lui fedelissima). Il processo per il suo vice è in corso. Per quanto riguarda lui è stato invece stralciato e trasferito a Roma. Può dirci a che punto si trova questo processo? "Per quanto riguarda il processo relativo a mie condotte inerenti la gestione dei rifiuti in Campania, al momento mi risulta che ci sia stata richiesta di archiviazione per i quattro reati più gravi di cui ero indagato, mentre è in corso l'accertamento da parte del Gip per un ultimo reato di natura contravvenzionale, per il quale la legge prevede soltanto un'ammenda".
10. Porgo queste domande a Bertolaso perché egli si è sempre proclamato un uomo al servizio dello Stato e non dei governi. Se fosse al servizio di questo governo e lo dichiarasse francamente, non porrei questi interrogativi. Ma se è al servizio dello Stato avrebbe dovuto porseli e quindi: perché queste domande non se le è poste da solo e non ne ha tratto le conclusioni? "Ripeto di essere un servitore dello Stato. Ho detto, anche nella ultima lettera che le ho inviato, che non sono servitore di questo o quel governo. Il che non vuol dire che non sia al servizio del Governo. Sarebbe assai originale e contraddittorio. Se la Sua vera domanda è: "si è reso conto che il suo operare ha creato situazioni che possono aver contribuito al consenso nel Paese dell'attuale Presidente del Consiglio?" rispondo di essermene accorto. Ho già detto che alcuni degli interventi che ho realizzato, a partire dalla fine della quindicennale emergenza rifiuti in Campania, sarei stato lieto di concluderli con il Presidente Prodi, che condivideva il mio Piano, mentre il Governo da lui presieduto non ne ha permessa la realizzazione. Non io, ma Napoli e l'Italia hanno perso più di un anno. Spiacente, ma non è un mio problema considerare che per "Stato" si deve intendere "l'Italia senza Berlusconi". Spiacente, è un problema del centro sinistra italiano, non dello Stato, non riuscire a fare a meno di questo Presidente perché unico collante buono a tenere insieme forze politiche che, quando non trovano accordo su questo comune bersaglio, danno regolarmente vita alla fiera del fuoco amico. Da servitore dello Stato, aspetto che questa congiuntura non brillante finisca, perché non aiuta nessuno a migliorare la qualità del servizio ai cittadini. Ma ciascuno si prenda le sue, di responsabilità. Un'ultima risposta la devo non ad una domanda, ma ad una sua affermazione. Personalmente ho grande considerazione per il lavoro della magistratura, credo indispensabile che esista una "macchina della giustizia" efficiente e responsabile, credo nel diritto dovere dei magistrati di fare il loro lavoro, prezioso per una società che vuole essere civile. Mi piacerebbe molto, invece, che i processi mediatici come quello che adesso si sta celebrando contro di me, che sono soltanto l'imputato pubblico di turno, scomparissero. Rispetto l'opinione pubblica, al punto da essermi fatto un punto d'onore nel meritare la fiducia dei cittadini, ma non credo le si renda servizio spargendo illazioni, informazioni non verificate, sospetti, teoremi di colpevolezza data per certa quando nessun giudice si è pronunciato. Questo sì, in violazione dei principi costituzionali. La libera stampa, se sviscera gli elementi di prova addotti dai giudici per una loro decisione, può rendere un servizio ai cittadini e al Paese. Quando spande fango, meno".
© Riproduzione riservata (15 febbraio 2010)
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Scalfari risponde alla lettera di Bertolaso
È difficile correre con le scarpe nel fango
EUGENIO SCALFARI
Egregio sottosegretario, la ringrazio per la pronta risposta alle mie domande. Osservo, tanto per cominciare questo mio commento alla sua lettera, che la sua rapidità le fa onore. Il presidente del Consiglio aspettò sei mesi prima di riscontrare le domande che il nostro giornale gli aveva posto e, dopo sei mesi, usò un libro di Bruno Vespa come strumento intermediario. Lei si presenta invece per quello che è, o almeno per quello che crede di essere o addirittura per quello che noi dovremmo credere che lei sia. Proverò dunque a districare l'essenza che sta dentro alle sue parole e cercherò di farlo con equanimità.
Quello che a lei soprattutto importa è il tempo. Lo dice varie volte nel corso della sua lettera. Scrive: "Quella della Protezione civile è l'unica normativa che considera la variabile "tempo" come reale e cogente". E più oltre: "Avrei dovuto forse chiedere al presidente del Consiglio che rinunciasse alle uniche norme che consentono di operare con efficacia? Per quale ragione? Per restare fermo a tempo indeterminato, in attesa che il Parlamento affrontasse il problema della capacità di decidere e di fare delle Pubbliche Amministrazioni?".
Lei mescola insieme due cose, egregio sottosegretario, che vanno invece tenute rigorosamente distinte, come infatti erano state distinte nella legge sulla Protezione civile del 1992 poi innovata dal governo Berlusconi. Una cosa è l'intervento della P. C. nel caso di catastrofe naturale (terremoti, inondazioni, frane, incendi, calamità meteorologiche eccetera) dove il fattore tempo è assolutamente cogente. Nel mio articolo di domenica scorsa le ho dato atto dei suoi pronti ed efficaci interventi ed ho scritto che in quei casi lei era autorizzato a "passare col semaforo rosso". Ma è cosa completamente diversa quella dei Grandi eventi diversi da quelli suddetti. Qui non c'è alcuna cogenza del fattore tempo. Si tratta di iniziative programmate a mesi o anni di distanza. A lei non piace star fermo. Leggendo la sua lettera e confrontandola con il suo modo di operare mi viene da pensare ad una sua natura ciclomotoria. Ma vorrà darmi atto che non può pretendere che le istituzioni debbano sovvertire i loro ordinamenti per soddisfare il suo desiderio di mobilità anche quando non ce n'è alcun bisogno.
Quanto all'ammodernamento della Pubblica amministrazione, il problema esiste ma non è un suo problema, oppure lo è come per qualunque cittadino. Istituzionalmente è un problema del Parlamento e del governo, non sta a lei motivare con esso la politica della Protezione civile. Apprendo dalla sua lettera che lei non è sottosegretario alla Protezione civile. Singolare notizia, anzi sorprendente. A che cosa è dunque delegato, signor sottosegretario? Qual è la sua funzione nel governo? Sarebbe molto interessante saperlo. Poiché di sottosegretari ce ne sono fin troppi e costano, lei potrebbe dimettersi visto che a Palazzo Chigi è uno sfaccendato. Perché non lo fa?
La Protezione Spa non è soltanto uno strumento tecnico posto al di fuori della Pubblica Amministrazione. Tra l'altro il decreto in discussione contiene una norma che vi sottrae da qualunque intervento della magistratura, con valenza addirittura retroattiva. Nessun controllo preventivo della Corte dei Conti e della giustizia amministrativa. Quanto è venuto a galla sulla gestione dei suoi appalti in Sardegna e in altri luoghi dovrebbe allarmare lei prima di ogni altro. Un verminaio, dove i vermi sono coloro che hanno beneficiato degli appalti destinati ad una ristretta e ben nota cricca. Lei scarica Balducci e De Santis (non in questa lettera ma in altre interviste rilasciate nelle ultime quarantott'ore a vari giornali). Ma il responsabile politico di tutta l'operazione è lei e insieme a lei il presidente del Consiglio che è - come lei dice - il suo unico referente. Non si possono rivendicare i successi e lavarsi le mani dal verminaio. Lei se ne rende conto, spero.
Lei è lusingato (lo scrive) per il fatto che molti anzi moltissimi chiedono di entrare a far parte dei Grandi eventi e si dice stupito di questa corsa verso la Protezione civile di chiunque debba portare avanti un suo progetto. Mi stupisco del suo stupore. La normativa che regola la P. C. dice infatti che la copertura delle vostre spese viene effettuata prendendo i denari dove ci sono, da qualunque capitolo di spesa, da qualunque fondo di riserva. Sempre in ottemperanza al criterio della velocità. Ma poiché ormai il ventaglio dei vostri interventi è diventato amplissimo e le spese sono altrettanto cresciute, questo stravolgimento delle poste di bilancio spiega il perché di tante attese riposte in lei. Ed è anche la spiegazione del vincolo a doppio filo che lega lei al premier e questi a lei: governate senza il Parlamento, senza i ministri competenti per materia, a cominciare da quello dell'Economia. Del resto è lei a scriverlo nella sua lettera: "Mi sono battuto perché la competenza della Protezione civile fosse propria del presidente del Consiglio risolvendo in questo modo il problema di evitare di affidarsi a forme di coordinamento senza potere esercitate da un ministro di pari grado ad altri ministri".
Dico la verità: lei, egregio sottosegretario senza deleghe, è formidabile. Le sfuggono dalla penna delle verità e degli obiettivi che dimostrano dove può portare l'ideologia del fare quando è affidata a forme preoccupanti di egolatria e megalomania. Lei è riuscito a dare al premier quel potere di fatto che l'ordinamento ancora non gli ha conferito. Avete insieme bypassato l'ordinamento vigente, potete modificare tra voi due le poste di bilancio, l'avete fatto e lo farete sempre di più, non solo per le catastrofi ma per tutto ciò che vi passerà per la mente o passerà per la mente dei vostri amici. Lei pensa che questo sia il modo di servire lo Stato? Lascio ai lettori e alla pubblica opinione di giudicare.
Non entro nelle questioni che riguardano le inchieste giudiziarie ma voglio assicurarla: a noi non piace affatto rimestare nel fango. Ma se il fango c'è è nostro dovere professionale raccontare chi c'è in mezzo a quel fango e che cosa ha fatto per esserne lordato. Spero vivamente che lei non sia di quelli ma si tratta purtroppo di suoi intimi amici.
© Riproduzione riservata (15 febbraio 2010) da repubblica.it
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« Risposta #190 inserito:: Febbraio 16, 2010, 10:48:16 am » |
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EDITORIALE
Ma adesso Bertolaso deve lasciare
di EUGENIO SCALFARI
COMMENTANDO ieri la lettera con la quale Guido Bertolaso rispondeva alle mie dieci domande ricostruendo a suo modo la verità dei fatti e la loro sostanza politica, ho volutamente tralasciato di approfondire la questione dell'atteggiamento del Quirinale di fronte all'ampliamento dei compiti della Protezione civile, alle normative che l'hanno resa possibile e alla loro costituzionalità. È una questione delicatissima poiché chiama in causa il Capo dello Stato, cioè la più alta istituzione della Repubblica.
Bertolaso non si è fatto carico di questa delicatezza ed ha tentato di coprire l'operato suo e del governo sostenendo che il Quirinale ha sempre appoggiato il suo fare e non ha opposto alcun limite al sistema delle ordinanze e alla creazione della Protezione civile Spa, che ne rappresenta il coronamento e l'esternalizzazione.
L'ho tralasciato perché su quell'aspetto della vicenda non si può andare a tentoni e per approssimazioni successive. Perciò ho raccolto i miei appunti in proposito, ho interpellato fonti qualificate ed ho riscontrato date, documenti e testimonianze dirette. Come sospettavo già a prima vista, la ricostruzione di Bertolaso è arbitraria e non corrisponde alla realtà. Ed ecco perché.
1. La legge del 1992, che di fatto è quella istitutiva della Protezione civile come servizio permanente della Pubblica amministrazione, limitava quel servizio alle catastrofi naturali.
2. Fu innovata con decreto del 2001, convertito in legge. C'era già in quella legge un primo allargamento di competenze della Protezione civile a grandi eventi sganciati dalle catastrofi naturali, purché ricorressero caratteristiche che rendessero necessaria un'amministrazione straordinaria per ragioni di necessità ed urgenza chiaramente indicate nella motivazione. Il Presidente della Repubblica dell'epoca varò la legge insistendo sull'importanza delle motivazioni come requisito essenziale.
3. A partire da quel momento il Quirinale non ha più avuto l'occasione di "intercettare" la normativa delle ordinanze e dei decreti della presidenza del Consiglio poiché si trattava di una produzione di carattere amministrativo. Una produzione, come abbiamo già sottolineato ieri, che è cresciuta su se stessa ad un ritmo velocissimo passando da una o al massimo due ordinanze nel periodo del governo Prodi ad una media di 80-100 nel periodo berlusconiano.
4. Il presidente Napolitano ha assistito con crescente preoccupazione all'estendersi del sistema delle ordinanze emesse dalla Protezione civile e l'ha detto in diverse occasioni. L'ha detto direttamente allo stesso Bertolaso in occasione d'una sua visita a L'Aquila subito dopo il terremoto. Si compiacque con lui per l'efficienza con cui la Protezione civile aveva fronteggiato l'emergenza post-terremoto ma elevò dubbi sul lavoro che quella stessa struttura avrebbe dovuto mandare avanti per completare le infrastrutture della Maddalena ed altre incombenze nel frattempo maturate.
5. Intanto gli impegni del sistema Bertolaso si moltiplicavano e l'albero della Protezione civile stava diventando una foresta. Leggiamo insieme quanto il Capo dello Stato ha detto nella cerimonia degli auguri di fine anno svoltasi lo scorso dicembre al Quirinale nella Sala dei corazzieri dinanzi alle Alte Magistrature dello Stato: "Il continuo succedersi di decreti legge - 47 dall'inizio di questa Legislatura - e il loro divenire sempre più sovraccarichi ed eterogenei nel corso dell'iter parlamentare di conversione, hanno continuato a produrre forti distorsioni negli equilibri istituzionali. Tutto ciò finisce per gravare negativamente sul livello qualitativo dell'attività legislativa. Non a caso gli studiosi si domandano se abbia finito per attuarsi, anche attraverso il crescente uso e la dilatazione di ordinanze d'urgenza, un vero e proprio sistema parallelo di produzione normativa". L'allarme del Presidente della Repubblica è netto ed esplicito e l'assemblea dinanzi alla quale è stato formulato lo rende ancora più solenne e preoccupante.
6. Si arriva così all'ultimo decreto legge, quello attualmente in discussione dinanzi alle Camere, nel quale viene promossa la creazione della Protezione civile Spa. Dalle mie informazioni molto attendibili risulta che Napolitano non ravvisava i requisiti di necessità ed urgenza, almeno per la parte dedicata alla Spa, e propendeva piuttosto verso la presentazione di un disegno di legge. Si trovò tuttavia di fronte (così dicono le mie fonti) ad una resistenza infrangibile opposta da Gianni Letta che avrebbe prospettato al Capo dello Stato l'ipotesi che Bertolaso potesse dimettersi dai suoi incarichi se il decreto non fosse stato autorizzato. Ipotesi che avrebbe creato un vuoto operativo di notevole gravità.
7. È accaduto tuttavia che nel corso dell'iter parlamentare al Senato il decreto venisse "stravolto" rispetto alla sua originaria stesura autorizzata dal Quirinale. Una decina di nuovi articoli e sessanta commi furono aggiunti sulla base di altrettanti emendamenti proposti dalla maggioranza parlamentare, allargando ancora di più il ventaglio delle competenze, la produzione di ordinanze, una sorta di scavalcamento nei confronti degli organi di controllo e di giurisdizione. Fonti non ufficiali ma attendibili segnalano che il Quirinale segue con estrema attenzione l'iter del decreto. Si dice (anche se si tratta d'una voce) che il Capo dello Stato avrebbe fatto pervenire al presidente del Consiglio il suo allarme per questa situazione. È noto che il Quirinale tace quando il Parlamento è all'opera, riservandosi di giudicare la costituzionalità della legge quando l'iter parlamentare sarà concluso. Questo è lo stato dei fatti, almeno prima che arrivasse la notizia dello stralcio. Il sottosegretario Gianni Letta ci aveva informato l'altro ieri che la Protezione civile rimane un Dipartimento della Pubblica amministrazione e che la Spa sarebbe stato soltanto un organo tecnico. Questo lo sapevamo.
È infatti della Spa che si sta discutendo poiché la sua istituzione svuoterebbe di fatto il Dipartimento di gran parte delle sue funzioni. La precisazione di Letta aveva dunque l'aria di voler frapporre una cortina fumogena che può annebbiare soltanto i gonzi e può servire ai vari Minzolini dell'informazione per celebrare la saggezza del governo nel momento in cui il governo si trova stretto da grandi difficoltà di fronte allo scandalo degli appalti e al verminaio che è stato scoperchiato.
Quanto al sottosegretario Bertolaso - sulla cui buona fede fino a ieri avevo sperato ma che a questo punto è diventata un'ipotesi di terzo grado - egli ha perso pochi giorni fa la carica di commissario ai rifiuti di Napoli. È proprio sulla base di quella carica che aveva ottenuto di diventare membro del governo anche se essa era in palese contraddizione con l'incarico esecutivo di commissario. Non avendo più la carica esecutiva, è venuta ora meno anche la ragione del suo sottosegretariato. Perciò le sue dimissioni non sono più un suo atto discrezionale ma un obbligo che sta diventando sempre più tardivo ogni giorno che passa.
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« Risposta #191 inserito:: Febbraio 21, 2010, 05:33:51 pm » |
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L'EDITORIALE
Come funziona il sistema Verdini
di EUGENIO SCALFARI
Adesso il problema sembra essere quello della corruzione generale. Di tutta la nazione. Di tutto un popolo "che nome non ha". Di tutta una gente che spunta alla rinfusa "dagli atri muscosi, dai fori cadenti". Una sorta di scena da teatro senza attori, solo comparse degradate che si sospingono a vicenda, una cenciosa opera da tre soldi dove vengono scambiate miserabili mazzette, abbietti favori, borseggi agli angoli delle strade. Ci sarà pure un Mackie Messer armato di coltello ma non si vede, dà ordini sottovoce all'ombra di quella plebaglia corrotta e corruttibile. La Corte dei Conti ha quantificato il degrado collettivo: da un anno all'altro la corruzione è aumentata del 229 per cento. Anche due giudici della Corte sono tra gli indagati. Anche un giudice della Corte costituzionale è lambito dall'ondata di fango. Anche un magistrato della Procura di Roma. I giornali dibattono l'argomento. Analizzano il fenomeno. Si tratta d'una nuova Tangentopoli a diciotto anni di distanza dalla prima? Oppure d'una situazione con caratteristiche diverse? Allora, nel 1992, si rubava per procurare soldi ai partiti e alle correnti; adesso si ruba in proprio ed è un crimine di massa. Meglio o peggio di allora?
Infine - ma questa è la vera domanda da porsi: la corruzione sale dal basso verso l'alto oppure scende dall'alto verso il basso? La classe dirigente è lo specchio d'una società civile priva di freni morali oppure il cattivo esempio degli "ottimati" incoraggia la massa a delinquere infrangendo principi e normative?
* * *
Berlusconi è preoccupato. Lo dice lui stesso in pubblico e in privato e molti suoi collaboratori trasmettono ai giornali il suo cattivo umore che del resto risulta evidente dalle immagini televisive e fotografiche.
"Se potessi scioglierei il partito, ma non posso". Una frase così non l'avevamo mai sentita prima. E' indicativa del livello cui il fango è arrivato.
Per quello che se ne sa, la sua preoccupazione proviene da sondaggi molto allarmati e soprattutto da previsioni pessimistiche sullo smottamento futuro del consenso. Emergono diverse faglie: quella dei moderati, quella dei cattolici, quella delle persone perbene senza aggettivi. Bertolaso è indagato, Verdini e Letta compaiono molte volte nelle intercettazioni giudiziarie.
Due differenti pulsioni si alternano nell'animo del "capo dei capi": rintuzzare gli attacchi, mantenere le postazioni e anzi contrattaccare; oppure cambiare strategia, abbandonare le posizioni più esposte e i personaggi più discussi, dare qualche soddisfazione ad una pubblica opinione stupita, indignata e trascurata per quanto riguarda le ristrettezze economiche che mordono ormai la carne viva del Terzo e del Quarto stato. La scelta tra queste due opzioni non è stata ancora fatta. A giudicare dalle parole e dagli atti sembrerebbe che il "capo dei capi" persegua contemporaneamente ambedue queste strategie col rischio di far emergere un'incoerenza che segnala una crescente difficoltà.
La legge in preparazione che dovrebbe inasprire le pene contro i reati di corruzione segna il passo. Il collega D'Avanzo ha spiegato ieri le ragioni del rinvio: il gruppo dirigente del partito non ci sta. Se alla fine la legge verrà fuori, sarà solo un placebo da avviare su un binario morto. Più efficace (se ci sarà) potrebbe essere il lavoro di pulizia delle liste elettorali; ma quel lavoro, per avere un senso, dovrebbe estendersi ai membri del governo e del Parlamento colpiti da sentenze o da condanne di primo grado con imputazioni di corruzione. Ma ne verrebbe fuori una decimazione: Dell'Utri, Ciarrapico, Cosentino, Fitto e almeno un'altra decina di nomi sonanti. Vi pare fattibile un'ipotesi del genere? Promossa da Berlusconi che dal canto suo ha schivato le condanne solo con derubricazione di reati e accorciamento dei tempi di prescrizione disposti dalle famose leggi "ad personam"?
* * *
Il caso Bertolaso-Protezione civile fa storia a sé. Il punto nodale della questione sta nella distinzione tra eventi causati da catastrofi naturali per i quali la necessità e l'urgenza autorizzano a derogare dalle norme vigenti; e gli eventi non connessi a tali catastrofi, per i quali le deroghe non sono né urgenti né necessarie. Qualche eccezione in questo secondo campo d'azione può essere ipotizzata ma deve essere dettagliatamente motivata e debitamente circoscritta. Così non è stato. La cosiddetta politica del fare è diventata una modalità permanente, la mancanza di controlli ha alimentato l'arbitrio, e l'arbitrio è diventato sistema. L'inchiesta giudiziaria in corso riguarda situazioni molteplici: appalti in Toscana, appalti alla Maddalena, appalti a Roma, appalti a L'Aquila, in Campania, a Varese, a Torino, a Venezia, seguirne il filo è stato scrupolosamente fatto dai giornali e lo do quindi per noto. Aggiungo qualche aggiornata osservazione.
1. Il giro degli appaltanti, degli attuatori e degli appaltatori è relativamente limitato. Le Procure (Firenze, Roma, Perugia, L'Aquila) li hanno definiti una "cricca". La parola mi sembra quanto mai adatta.
2. Gianni Letta (e Bertolaso) avevano escluso che imprenditori della cricca suddetta avessero mai lavorato all'Aquila, ma hanno poi dovuto ammettere di essersi sbagliati. Almeno due di essi (Fusi e Piscicelli) hanno avuto incarichi anche in Abruzzo. Agli altri e al gruppo Anemone in particolare, è stata data in pasto La Maddalena e molti altri luoghi, a cominciare da Roma.
3. La scelta iniziale di collocare il G8 nell'isola sarda fu un errore madornale. La pazza idea di ospitare i Grandi sulle navi creando una sorta di isola galleggiante fu rifiutata dalle delegazioni principali. Sopravvennero altre questioni di sicurezza di impossibile soluzione. Se non ci fosse stato il terremoto dell'Aquila, La Maddalena sarebbe stata comunque scartata ma questa impossibilità tecnica è venuta fuori quando il grosso dei lavori era già stato appaltato e portato avanti. La Protezione civile non si era accorta di nulla o, se se n'era accorta, non l'aveva detto a nessuno.
4. Il terremoto offrì una via d'uscita dall'"impasse" della Maddalena, ma a caro prezzo: furono costruiti dunque due G8, uno dei quali procedette di pari passo e negli stessi luoghi distrutti dal sisma. Da questo punto di vista la Protezione civile dette prova di grande efficienza. Il prezzo fu l'abbandono della Maddalena nelle mani di Balducci e della cricca e una soluzione edilizia, ma non urbanistica, che ha soccorso molte migliaia di aquilani ma ha messo in un binario morto la ricostruzione della città.
5. La figura di Angelo Balducci scolpisce nel modo più eloquente il funzionamento della cricca e gli arbitri che ne derivano. Uno dei casi più macroscopici riguarda la famosa sede del Salaria Sport Village sulle rive del Tevere. Terreno demaniale, zona preclusa ad ogni tipo di costruzione, parere negativo della conferenza dei servizi, della Regione, della Provincia e del Comune di Roma; tutti superati da un'ordinanza di Balducci con trasferimento della concessione all'imprenditore Anemone.
6. L'altra figura omologa che si erge alla guida della cricca è quella di Denis Verdini, coordinatore del Pdl e come tale persona "all'orecchio" del Capo. Verdini non si lascia intervistare, non vuole sottoporsi a domande imbarazzanti. In compenso ha scritto un diario, una sorta di comparsa a difesa, e l'ha fatto leggere ad un giornalista del "Corriere della Sera". Il quale ha fatto scrupolosamente il suo mestiere riferendo il testo senza poter interporre domande. Ne è risultata un'autodifesa vera e propria. Questo testo merita d'esser letto con attenzione. Ne riporterò qui qualche brano che ne dà l'idea.
* * *
"Il mio amico Riccardo Fusi è persona di cui mi fido, un vero imprenditore con tremila lavoratori alle sue dipendenze. Sono indagato per aver sostenuto una nomina che poteva interessare. Questo ha indotto i magistrati a pensare che ci fosse sotto un reato, ma non è così, non ho mai preso una lira, ma non nasconderò mai che a Riccardo ho presentato il mondo, tutti quelli che mi chiedeva di conoscere. Dimettermi da coordinatore? Non mi passa neanche per l'anticamera del cervello. Certe cose sono roba da asilo infantile. Siamo un sistema di potere? Scoperta dell'acqua calda. Quando c'è discrezionalità si apre la porta ad un sistema. Il punto è se è legittimo o illegittimo".
Questa frase è essenziale, fornisce la chiave autentica per decifrare ciò che sta accadendo. Verdini è uno dei pilastri del sistema. Evidentemente lo considera legittimo, più che legittimo per il bene del paese. Scrive in un'altra pagina del suo diario: "Io lavoro per Berlusconi che riesce a ottenere benessere e consenso da milioni di italiani". Lui non fa parte della cricca. Così dice, anche se gli amici per i quali si spende e ai quali procura appalti, nomine ministeriali, potere e danaro, sono i componenti della cricca. Ma lui no, lui non pensa di farne parte perché è collocato di varie spanne al di sopra. E non li favorisce per avere mazzette. Che volete che se ne faccia delle mazzette, lui che è agiato di famiglia? Lui gode di aver potere e di portare talenti e consensi al suo Capo. Talenti di malaffare? Può esser malaffare quello che porta consenso e voti a Berlusconi? Certo "quando c'è discrezionalità si apre la porta al sistema" e dunque portiamo la discrezionalità al massimo, sistemiamo gli amici nei posti che servono e chi non beve con noi peste lo colga. Non è questo il meccanismo? Non è questo che spiega la fronda di Fini e l'uscita di Casini dall'alleanza? Non è questo che divide Palazzo Chigi dal Quirinale? La magistratura da una concezione costituzionale che ricorda gli Stati assoluti?
Non prendono una lira, può darsi, ma hanno fatto a pezzi la democrazia. Vi pare robetta da poco?
* * *
Bertolaso è un'altra cosa. Nel 2001, poco dopo esser stato insediato da Berlusconi alla guida della Protezione civile, scrive una lettera all'allora ministro dell'Interno, Scajola, e al sottosegretario alla Presidenza, Gianni Letta. Dice così: "Il nostro Dipartimento è diventato dispensatore (assai ricercato) di risorse finanziarie e deroghe normative senza avere la minima capacità di verificare l'utilizzazione delle prime e l'esercizio delle seconde e senza avere alcun filtro utile sulle richieste. L'accavallarsi di situazioni di emergenza ha generato un flusso inarrestabile di ordinanze che a loro volta hanno comportato provvedimenti di assunzione di personale e autorizzazioni di spesa di non agevole controllo". Era il 4 ottobre del 2001. Sono passati nove anni ma sembra di leggere oggi un discorso di Bersani o di Di Pietro. Che cosa è accaduto?
Nonostante le apparenze Bertolaso è un uomo debole ma con una grande immagine di se stesso. Non ha il cinismo di Verdini e di Balducci, dei grandi corruttori. Adora i suoi volontari e ne è adorato. Pensate che qualcuno adori Verdini (tranne gli amici della cricca)? Qualcuno adori Balducci? Bertolaso è un mito tra i suoi, lavora con i suoi, si veste come i suoi. Vuole essere amato. In questo è l'anima gemella di Berlusconi: vogliono essere amati. Naturalmente senza condizioni. Le critiche li fanno impazzire di rabbia. Le regole sono un impaccio. "Posso star fermo in attesa che il Parlamento decida?" ha scritto Bertolaso pochi giorni fa rispondendo ad una mia domanda.
Quindi avanti con i grandi eventi, Unità d'Italia, campionati di nuoto, campionati di ciclismo, celebrazioni di Santi e di Beati, restauro del Donatello eccetera. Insomma Bertolaso non ha addomesticato il potere come sperava nella sua lettera del 2001, ma è la brama di potere che si è impossessata di lui. Quando è franata un'intera montagna sul paese di Maierato in Calabria, Bertolaso era alla Camera e poi a Ballarò per difendersi dalle intercettazioni che lo riguardano. La mattina dopo è volato a Maierato in mezzo ai pompieri che spalavano il fango. Bravo. Meritorio. Lo dico senza alcuna ironia, ma mi pongo una domanda: tra i compiti affidati alla Protezione civile non c'è anche quello importantissimo di prevenire le catastrofi e sanare il disastro idrogeologico del territorio?
Il grande meridionalista Giustino Fortunato cent'anni fa definì la Calabria "uno sfasciume pendulo sul mare". Allora non esisteva la Protezione civile, ma oggi c'è. Bertolaso sa benissimo che le montagne e le colline delle Serre nella Valle dell'Angitola sono uno sfasciume pendulo. Che cosa ha fatto per prevenire? Io so che cosa ha fatto: ha distribuito alle Regioni di tutta Italia la mappa idrogeologica del territorio segnalando i punti critici ed ha incoraggiato le Regioni a provvedere. Lui aveva altre cose di cui occuparsi. Le Regioni senza una lira non hanno fatto nulla. La supplenza toccava a lui che i soldi li ha e le forze a disposizione anche. Ma la prevenzione non è un grande evento, le televisioni non se ne occupano, nessuno ne sa nulla. Intanto lo sfasciume crolla sulle case abusive e sulle strade abusive. Così vanno le cose.
* * *
La corruzione è aumentata a ritmi pazzeschi. Non è Tangentopoli? Forse è peggio. Oggi si ruba in proprio ma quelli che rubano sono i protetti del potere e puntellano il potere. Quelli che rubano cadono in tentazione e qui mi sono tornate in mente le pagine dostoevskijane del "Grande Inquisitore", delle quali ho discusso a lungo un mese fa col cardinale Martini riferendone su queste pagine. Il Grande Inquisitore contesta a Gesù di avere promesso agli uomini il pane celeste mentre essi volevano il pane terreno. Gesù aveva dato agli uomini il libero arbitrio di cui essi avrebbero volentieri fatto a meno ed essi scelsero infatti di farne a meno pur di avere il pane terreno rinunciando ai miraggi del cielo. Gli uomini si allearono con lo spirito della terra, cioè con il demonio, ed anche i successori di Pietro si allearono con lo spirito della terra. Alla fine il mondo diventò pascolo del demonio e delle autorità che per brama di potere avevano sconfessato il messaggio di Gesù. Il Grande Inquisitore decide addirittura che Gesù sia bruciato e così si chiudono quelle terribili pagine.
Non so se Verdini o Letta o Bertolaso o Balducci o quelli che ridevano nel letto mentre L'Aquila crollava, abbiano mai letto i "Fratelli Karamazov". E se, avendoli letti, abbiano sentito muoversi qualche cosa nell'anima, un monito, un rimorso. Se l'hanno sentito, questo sarebbe il momento di seguirne l'impulso. Ma da quello che vedo, temo che siano sordi a questi richiami.
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« Risposta #192 inserito:: Febbraio 28, 2010, 08:22:45 pm » |
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L'EDITORIALE
Prescrizione o assoluzione sta a lui la scelta
di EUGENIO SCALFARI
È molto difficile immaginare lo sforzo e la tensione morale prima ancora che politica che il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, deve fare per arginare lo sconfinamento continuo, le provocazioni e gli insulti che Berlusconi lancia ogni giorno contro l'assetto istituzionale e costituzionale dello Stato. La lettera che Napolitano ha inviato ieri al vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura è l'ultima e più esplicita testimonianza di questa esondazione berlusconiana, arrivata al punto di definire "talebani" i magistrati inquirenti e giudicanti, rei ai suoi occhi di applicare le leggi alle quali egli vuole sottrarsi con tutti i mezzi a sua disposizione.
Del resto Napolitano non è il primo a dover fronteggiare questa situazione di estremo disagio in cui versa la Repubblica. Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi si sono anch'essi dovuti scontrare loro malgrado con analoghe difficoltà e analoghi travagli. Sono ormai quindici anni che il Quirinale deve ergersi come antemurale contro la furia berlusconiana; ma mai come in questa legislatura quella furia aveva raggiunto un'aggressività così pericolosa, esplicita, mirata ad abbattere ogni equilibrio, ogni garanzia, ogni ostacolo e lo spirito stesso della Costituzione repubblicana. Chi ha avuto la fortuna di poter osservare da vicino Scalfaro, Ciampi, Napolitano, ha conosciuto le loro angosce ma anche la loro tenace fermezza e la serenità con le quali si sono comunque mantenuti al di sopra delle parti, non avendo altro fine che la difesa della Costituzione, la lotta contro i privilegi, l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, l'equilibrio dei poteri previsto dallo Stato di diritto.
Ho scritto più volte che il vero bersaglio nel mirino di Berlusconi è il presidente della Repubblica, i tre presidenti della Repubblica che si sono succeduti al Quirinale. Verrà pure il momento che questa storia segreta dovrà essere scritta e si vedrà allora quanto gli italiani debbano a quei tre uomini che sono riusciti a preservare la libertà di tutti richiamando i principi di moderazione, rispetto reciproco e condivisione delle norme che stanno a fondamento della convivenza sociale. Non a caso il Quirinale è destinatario di un altissimo consenso da parte degli italiani; al di là e al di sopra delle preferenze politiche e degli steccati che ne derivano, i cittadini riconoscono unanimemente dov'è l'usbergo che tutela l'unità della patria e la coscienza morale della nazione. Questa compattezza ci infonde fiducia e ci stimola a superare il fango e le lordure che insozzano in modo ormai intollerabile la vita pubblica del nostro Paese.
* * *
L'episodio più recente che ha provocato l'ira funesta di Silvio Berlusconi è stata la sentenza della Cassazione che, a Sezioni unite, ha giudicato prescritto il reato di corruzione in atti di giustizia dell'avvocato Mills, lasciando aperto il processo per lo stesso reato nei confronti del presidente del Consiglio. La Cassazione ha dato torto alla Corte d'appello milanese che aveva condannato Mills a quattro anni e mezzo di carcere. Secondo le Sezioni unite il processo Mills era caduto in prescrizione da tre mesi e mezzo. Non così per Berlusconi, nei confronti del quale il processo continuerà fino a quando decadrà anch'esso per scadenza dei termini nella primavera del 2011. In un primo momento il premier sembrava aver gioito (e con lui tutti i suoi "replicanti") della sentenza delle Sezioni unite che "aveva dato torto ai giudici di Milano". Ma il giòito è durato poco di fronte all'evidenza: il processo continua per la semplice ragione che il reato è tuttora da giudicare ed è un reato di estrema gravità perché il premier è accusato di aver corrotto un magistrato e "comprato" una sentenza. Per Mills non c'è stata assoluzione ma prescrizione dei termini. Per Berlusconi sarà probabilmente altrettanto: nel marzo del 2011 sarà probabilmente prescritto ma non assolto e per un uomo politico che guida il governo nazionale questa situazione gli evita il carcere ma non cancella le macchie infamanti di quel reato.
Che può fare il premier per evitare questo scorno e cancellare quelle macchie? Alla ripresa del processo i suoi avvocati potrebbero decidere in suo nome di rinunciare alla prescrizione e chiedere al Tribunale di riconoscere la sua estraneità rispetto ai reati. Se si comportasse in questo modo acquisterebbe una credibilità della quale ha molto bisogno ed anche altre iniziative legislative in corso, come per esempio quelle preannunciate contro la corruzione, le guadagnerebbero. È infatti evidente a tutti quale valore si possa dare a inasprimenti di pena per reati di corruzione quando chi propone tali inasprimenti è lo stesso soggetto che si sottrae al suo processo utilizzando la prescrizione i cui termini sono stati abbreviati da 15 a 10 anni dalla legge Cirielli "ad personam".
Non dimentichiamo infine che sono attualmente all'esame del Parlamento due leggi rispettivamente già votata una alla Camera e l'altra al Senato, sul "legittimo impedimento" e sul "processo breve". Ambedue hanno la stessa finalità di estinguere i procedimenti in corso contro il premier per decadenza dei termini o per improcedibilità, senza mai poter arrivare a sentenza sul merito del reato, se sia stato commesso oppure no. Questo è il punto di fondo e dipenderà soltanto da Berlusconi se vorrà che sia dimostrata la propria innocenza o preferirà fuggire dal processo. Non sarebbe del resto la prima volta; tra il 1999 e il 2003 fu prescritto già quattro volte: nel lodo Mondadori, nell'illecito finanziamento del Psi per 21 miliardi di lire date a Bettino Craxi, nel falso in bilancio Fininvest e nell'acquisto del calciatore Lentini da parte del Milan, pagato in Svizzera con fondi neri della Fininvest. In nessuno di quei casi Berlusconi chiese di rinunciare alla prescrizione. Ora ne avrebbe l'occasione di farlo. Meglio tardi che mai. Lo farà? Lo spero, ma non ci credo.
* * *
Il bavaglio alla stampa è un'altra delle leggi mirate a diminuire il tasso di libertà e di opposizione al malaffare che imperversa. Si obietterà che giornali e giornalisti sono parte in causa e che quindi la loro (la nostra) opposizione a quel disegno di legge è di natura corporativa. Può darsi. Può darsi che inconsciamente dentro di noi questo sentimento vi sia. Ma noi possiamo invocare a nostro favore il fatto che la libertà di stampa è un principio tutelato dalla Costituzione che ne fa anzi uno dei requisiti principali della democrazia. La nostra opposizione del resto non riguarda il tema delle pene detentive minacciate contro i giornalisti che non ottemperino agli obblighi normativi. Nell'ultima versione di quel disegno di legge sembra che le pene detentive siano state tolte, ma la nostra opposizione resta fermissima.
Ci rendiamo ben conto che riferire intercettazioni (peraltro solo quando siano state rese pubbliche dai magistrati inquirenti) utilizzando i testi in modo parziale col rischio di fraintenderne il senso compiuto, può arrecare gravi danni alla privatezza delle persone intercettate e soprattutto a quelle casualmente coinvolte nelle conversazioni. Questi difetti possono essere rimossi con disposizioni intelligenti che obblighino i giornalisti a riferire i fatti con parole proprie e/o con brani virgolettati ma compiuti di senso. In questi casi il giornalista non potrà difendersi dietro il velo del virgolettato ma riferirà con parole proprie assumendosi la piena responsabilità di quanto scritto e dovrà difendersi in giudizio dall'eventuale querela per diffamazione. Si potrà anche (secondo me si dovrebbe) far cadere dinanzi al magistrato il diritto al segreto sulle fonti quando si riferiscano fatti e notizie ancora secretati.
Tutto ciò detto, vietare alla stampa ogni accesso alla fase istruttoria del processo è una pretesa inaccettabile e incostituzionale. La fase istruttoria è delicatissima poiché è in quella sede che si formano e si rassodano gli indizi di colpevolezza o di innocenza e i materiali probatori che poi saranno valutati e circostanziati nel corso del dibattimento. L'attenzione della stampa sull'operato delle Procure e della polizia giudiziaria è materia di primaria importanza perché il controllo dell'opinione pubblica su tutte le fasi del processo scoraggia e comunque rende note eventuali manovre di insabbiamento, sistematicità dei rinvii richiesti dai difensori, collusioni sempre possibili tra i magistrati che indagano e le parti indagate. La presenza della stampa è utile, oso dire più nella fase istruttoria che in quella dibattimentale. Le responsabilità di giornali e giornalisti debbono essere a loro volta accuratamente indicate e le sanzioni eventualmente inasprite, ma il divieto d'accesso non può essere accettato e il divieto di riferire radicalmente respinto.
Continuo a pensare che il bavaglio alla stampa violi un principio costituzionale che neanche il potere legislativo può cancellare. Né potrebbe farlo una legge di modifica della Costituzione trattandosi di un principio indisponibile. L'ipotesi ventilata sulla Stampa da Luca Ricolfi di creare un apposito organo di regolamentazione autonomo rispetto alla magistratura e cogente verso i giornali mi sembra una costruzione barocca che si infrangerebbe non appena si dovessero scegliere i modi per formare questo improprio tribunale, esso sì di natura corporativa. Quanto all'altra proposta dello stesso Ricolfi di consentire ai giornali l'accesso alle fonti in fase istruttoria e riferirne "a rotazione periodica" tra le varie testate, mi sembra una proposta che mi permetto di definire ridicola.
A volte il potere corrompe non le tasche dei probi ma i loro cervelli. E questo non è un rischio remoto ma estremamente attuale tra quelli che stiamo correndo.
© Riproduzione riservata (28 febbraio 2010) da repubblica.it
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« Risposta #193 inserito:: Marzo 03, 2010, 05:23:52 pm » |
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Il disagio della civiltà
di Eugenio Scalfari
È determinato, dice Freud, dal contrasto tra felicità individuale e responsabilità sociale. Ma la socievolezza non scaturisce solo dalla razionalità del Super-io. È una nostra pulsione primaria Quando Carlo Marx morì, Sigmund Freud aveva 27 anni e ne aveva 32 quando Nietzsche baciò il muso di un cavallo in una piazza di Torino e scrisse i biglietti della follia. Non risulta che abbia mai letto Marx, ma conosceva invece a fondo l'opera di Nietzsche. Pensando a Freud siamo abituati a considerarlo come un terapeuta e uno scienziato che, con la sua scoperta dell' inconscio e della sessualità come fondamento della vita psichica, ha rivoluzionato i modi di pensare della cultura moderna. Il parallelo con Marx è diventato automatico: il fondatore del materialismo storico ha posto alla base della civiltà moderna la dinamica delle forze economiche. Freud, in modo simmetricamente opposto, ha messo il fondamento della storia nelle pulsioni inconsce che emergono dalla psiche e si trasformano in comportamenti dominati dalla polarità tra la ricerca della felicità individuale e le restrizioni che la società le contrappone con i suoi comandamenti morali e le sue leggi coercitive.
Insomma due giganti contrapposti, due antitetiche concezioni del mondo, due modi di pensare la storia. Non c'è dubbio che Freud e le sue ricerche sulle figure psichiche sono una tappa essenziale di quella storia, un segnale che ne illumina un tratto del percorso. La terapia psico-analitica ha perso negli ultimi vent'anni una parte della sua forza propulsiva, ma il modo con cui Freud ha letto la storia della civiltà ha viceversa accresciuto il suo peso. Direi che il terapeuta delle nevrosi ha ceduto il posto al filosofo, il medico allo scienziato, lo scienziato al pensatore e allo scrittore. Nella vicenda personale di Freud questa evoluzione cominciò abbastanza presto. Il punto di svolta si può collocare nel 1908 con la pubblicazione de "La morale sessuale civile e il nervosismo moderno". Ma i primi segnali nella letteratura freudiana risalgono al 1897, quando la sua attenzione cominciò a spostarsi dalla psiche individuale alla psicologia collettiva. L'elaborazione raggiunge piena maturità con " L'avvenire di un'illusione" toccando il culmine con "Il disagio nella civiltà" pubblicato nel 1929 ed è appunto l'opera che qui segnalo: è da poche settimane nelle librerie con una lucida introduzione di Stefano Mistura, l'editore è Einaudi (pagine 93 più 56 di introduzione e appendice, prezzo euro 14,00).
Il disagio, scrive Freud, è determinato dal contrasto perenne tra felicità individuale e moralità. La figura psichica dell'Es, del "sé", presiede alla ricerca della felicità; la parola con la quale Freud nomina quella parte della personalità è Eros, amore. La moralità, nello schema bipolare di Freud, si richiama invece alla figura psichica del Super-io, mandatario vigilante in nome e per conto della società, con il compito di reprimere o almeno di limitare l'invadenza dell'Eros contrappponendole e proponendole l'etica della responsabilità sociale, la rinuncia ad una parte di felicità individuale a vantaggio di norme capaci di rendere possibile la convivenza. Semplificando ancora di più: l'irrazionalità che anima l'Es di fronte alla razionalità della quale il Super-io è il portatore in nome della socievolezza. Propongo a questo punto due osservazioni: la prima riguarda appunto la socievolezza. Freud sembra non essersi accorto che essa non scaturisce soltanto dalla razionalità del Super-io, ma è una delle caratteristiche che connotano la nostra specie, una pulsione primaria accanto alla ricerca della felicità. La nostra specie è certamente "desiderante", il desiderio è continuo e inestinguibile, dall'appagamento di un desiderio ne nasce immediatamente un altro. Ma è altrettanto vero che gli individui non sono e non vogliono essere solitari. Hanno bisogno dell'altro, degli altri, come dell'aria che respirano perché è soltanto nel rapporto con gli altri che possono costruire la figura psichica centrale, quella dell'Io.
Senza quella terza figura noi saremmo più vicini agli animali; senza di essa non avremmo nozione dell'inconscio, né memoria, né identità, né storia, né sentimento della morte: insomma non avremmo una mente riflessiva in grado di pensare il pensiero e di pensare se stessa. Affermo dunque che la socievolezza non nasce dalla ragione; la ragione, come fa per tutte le pulsioni che emergono dal "
sé", la razionalizza, ma la socievolezza costituisce una pulsione originaria dell'inconscio, esattamente come la felicità desiderante. La mia seconda osservazione riguarda il pensiero di Freud rispetto all' Io. Questa figura psichica ha costituito la base del Freud terapeuta, del Freud scienziato dell'analisi psichica. Ma è stata stranamente marginale nel Freud pensatore e filosofo. L' Io è la figura centrale, l'ho già detto, ma Freud pose tutta la sua attenzione nella polarità tra l'Es e il Super-io. Forse perché l'Io è in qualche modo la sintesi, il punto di equilibrio tra i due estremi? Del precario ma necessario equilibrio? Non ho la risposta, ma mi piacerebbe averla da quelli che hanno dedicato il loro tempo e la loro attenzione a studiare il pensiero freudiano
(26 febbraio 2010) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #194 inserito:: Marzo 07, 2010, 06:41:46 pm » |
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IL COMMENTO
Quel pasticciaccio di Palazzo Chigi un precedente contro le regole
di EUGENIO SCALFARI
CI SONO, nel decreto legge varato ieri notte dal governo, un pregio e una quantità di difetti. Ezio Mauro, nel suo editoriale di ieri ne ha già dato conto. Proseguirò sulla stessa strada da lui aperta e nelle considerazioni svolte dall'ex presidente della Corte Costituzionale, Valerio Onida. Ma c'è anche e soprattutto un indirizzo politico che emerge da quel decreto, che suscita grandissima preoccupazione.
Il pregio è d'aver dato al maggior partito di maggioranza e ai suoi candidati la possibilità di partecipare al voto regionale in Lombardia e nel Lazio, così da esercitare il diritto elettorale attivo e passivo. Quest'esigenza era stata sottolineata non solo dagli interessati ma anche dai partiti dell'opposizione. Bersani, Di Pietro, Casini, avevano dichiarato nei giorni scorsi di voler vincere disputando la loro eventuale vittoria "sul campo e non a tavolino". Il decreto consente che questo avvenga ed infatti avverrà se i tribunali amministrativi della Lombardia e del Lazio ne ravviseranno le condizioni sulla base del decreto già operativo nel momento in cui quei due tribunali si pronunceranno. Spetta infatti a loro - e non al decreto - stabilire se le prescrizioni previste saranno state correttamente adempiute.
I difetti - che meglio possono essere definiti vere e proprie prevaricazioni - sono molteplici. Alcuni di natura politica, altri di natura costituzionale. Cominciamo da questi ultimi. Esiste una legge del 1988 che vieta ogni decretazione in materia elettorale.
Ora è chiaro che un decreto interpretativo (come è stato definito quello di ieri) non può contravvenire ad una legge vigente e sostanzialmente abrogarla senza con ciò produrre un'innovazione. Cessa pertanto la natura interpretativa che risulta essere soltanto un'appiccicatura mistificante, e riappare invece un intervento che modifica anzi contraddice norme vigenti sulla stessa materia.
C'è un'altra questione assai delicata: l'intera materia elettorale riguardante le Regioni è di spettanza delle Regioni stesse. Le stesse leggi elettorali in materia di procedura differiscono in parecchi punti l'una d'altra. E' quindi molto dubbio che il governo nazionale possa entrare con una sua interpretazione su leggi che non sono interamente di sua diretta spettanza. Interpretazioni di tal genere spetterebbero ai consigli regionali i quali tuttavia sono scaduti in attesa del rinnovo elettorale.
Su tutte queste questioni saranno certamente proposti ricorsi e quesiti alla Corte. Ove questa li accogliesse mi domando quale sarebbe la validità e gli esiti degli scrutini del 29 marzo. Il Presidente della Repubblica aveva giustamente definito "un pasticcio" la situazione venutasi a creare. Purtroppo il decreto di ieri non risolve affatto il pasticcio anzi per molti aspetti lo aggrava.
Quanto alla scorrettezza politica, la più grave riguarda la mancata condivisione della sanatoria decretata dal governo con le forze d'opposizione. Il Presidente della Repubblica ne aveva ripetutamente sottolineato l'opportunità ed anzi aveva condizionato ad esso ogni statuizione. Il suo rifiuto dell'altro ieri ad autorizzare un decreto che modificasse le procedure elettorali ad elezioni in corso era motivato anche da questo.
Non solo la condivisione è mancata ma il premier ed i suoi collaboratori senza eccezione alcuna hanno incolpato l'opposizione d'aver reso impossibile l'esercizio del diritto elettorale. In particolare questa responsabilità dell'opposizione si sarebbe verificata a Roma, dove militanti radicali e di altri partiti avrebbero fisicamente bloccato i rappresentanti della lista Pdl impedendo loro di varcare la soglia dell'ufficio elettorale del tribunale. Questa circostanza, sulla quale i radicali hanno già sollevato denuncia di calunnia, dovrà comunque esser provata dinanzi al Tar del Lazio nell'udienza di domani. E' comunque grave un'inversione così macroscopica delle responsabilità, sulla base della quale i colpevoli vengono condonati e gli innocenti puniti.
* * *
Il presidente della Camera, Gianfranco Fini, ha definito il decreto del governo come "il male minore", distinguendosi ancora una volta con queste parole dalla linea di Berlusconi. Ma nel caso in questione Fini ha sbagliato per difetto. Il decreto interpretativo non è un male minore. E' un male identico se non addirittura peggiore d'un decreto innovativo.
Anzitutto non si può dare un'interpretazione diversa e così estensiva ad una procedura elettorale con effetto retroattivo. L'interpretazione, se retroattiva, diventa infatti un vero e proprio condono ed un condono è quanto di più innovativo vi sia dal punto di vista legislativo.
Ma c'è di peggio. Poiché nel diritto pubblico un precedente produce una variante valida anche per il futuro, questo precedente potrà essere invocato d'ora in poi per condonare qualunque irregolarità procedurale a discrezione del governo. Non bastava il sistema delle ordinanze, immediatamente esecutive e sottratte ad ogni vaglio preventivo di costituzionalità; ad esso si aggiungerà d'ora in poi il decreto interpretativo facendo diventare norma l'aberrante principio che la sostanza prevale sempre sulla forma, come dichiarò pochi giorni fa il presidente del Senato, Schifani, dando espressione impudentemente esplicita ad un principio eversivo della legalità. Esiste nella nostra lingua la parola "sprocedato" per definire una persona scorretta che si comporta in modo contrario ai suoi doveri. La esse è privativa, sprocedato significa appunto "senza procedura".
E bene, stabilire la prevalenza della sostanza sulla forma in materia di procedura non ha altra conseguenza che legittimare l'illegalità permanente nella vita pubblica, o meglio: far coincidere la legalità con il volere del capo dell'esecutivo, cioè stabilire la legittimità dell'assolutismo.
Un decreto interpretativo con potere retroattivo realizza questo gravissimo precedente. Non a caso Berlusconi lo ha preteso facendo balenare ripetutamente la minaccia di sollevare dinanzi alla Corte costituzionale un conflitto di attribuzioni tra il governo e il Capo dello Stato. Gianni Letta è stato il "missus dominicus" di questo vero e proprio ultimatum e - a quanto si sa - l'ha fatto valere con inusitata decisione. Questi gentiluomini del Papa ci stanno dando molte sorprese da qualche giorno in qua sui più vari terreni. Un Letta in armatura e lanciato a passo di carica non l'avevamo ancora visto anche se da tempo sotto il suo guanto appariva sempre più spesso l'artiglio di ferro.
Male minore, presidente Fini? Purtroppo non sembra.
* * *
Che fare? Chi ne ha titolo rappresenti al Tar i problemi che sono di sua competenza per quanto riguarda il giudizio di applicazione del decreto. (Il Tar lombardo ha già concesso a Formigoni la sospensiva dell'ordinanza dell'Ufficio elettorale e deciderà definitivamente nei prossimi giorni). E chi ha titolo sollevi i problemi di costituzionalità dinanzi alla Corte.
Le sortite "sprocedate" di Di Pietro nei confronti del presidente della Repubblica sono da respingere senza se e senza ma. Nella situazione data il Capo dello Stato è stato messo in condizioni di necessità e ha dovuto dare la precedenza all'esercizio del diritto elettorale, riuscendo anche a far togliere alcune disposizioni transitorie che riservavano l'applicazione del decreto alle sole Regioni di Lombardia e Lazio. Si sarebbe in quel caso creata una diseguaglianza tra gli elettori di fronte alla legge recando così un vulnus costituzionale di palese evidenza. Resta il pasticcio ed un precedente che accelera la trasformazione dello Stato dalle regole all'arbitrio del Sovrano. Gli elettori giudicheranno anzitutto i candidati e i programmi da essi sostenuti. Ma sarà bene che riflettano anche su questi aspetti politici di involuzione democratica. Non sarà un referendum pro o contro Berlusconi, ma certamente l'occasione per scegliere in favore di leggi valide per tutti o in favore delle "cricche" che hanno occupato le istituzioni usandole a favore dei loro privatissimi interessi. L'occasione per cambiare questo andazzo arriverà tra venti giorni. Errare è umano, ma perseverare nell'errore non lo sarebbe.
© Riproduzione riservata (07 marzo 2010) da repubblica.it
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