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Autore Discussione: Roberto Rossi - Promesse e proteste. La storia ambigua dei rigassificatori  (Letto 2280 volte)
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« inserito:: Dicembre 02, 2007, 07:07:39 pm »

Promesse e proteste. La storia ambigua dei rigassificatori

Roberto Rossi


Che siano un buon investimento lo dimostra il numero dei progetti pendenti (10) e le società (una ventina) pronte a metterci, in totale, dai 5 ai 6 miliardi di euro. Che l’Italia ne abbia bisogno per garantire una certa sicurezza energetica lo si è scoperto circa un anno e mezzo fa dopo una scaramuccia diplomatica tra Russia e Ucraina. Nonostante questo i rigassificatori sono ancora un oggetto misterioso. Sui quali grava un interrogativo: perché ne vorremmo costruire così tanti in Italia?

Per addentrarsi nel mistero rigassificatori serve un punto di partenza. Il nostro è la fame di gas. L’Italia è tra le nazioni europee quella che ne usa di più per la generazione di energia elettrica. Ogni anno ne impieghiamo 86 miliardi di metri cubi. In totale il gas copre il 50% del mix delle fonti utilizzate. In media l’Europa dei 15 si ferma al 22%. La Francia addirittura al 2%, visto la presenza di oltre 50 centrali atomiche. In Italia usa il gas il 62% delle abitazioni con riscaldamento centralizzato, oltre il 90% delle abitazioni con riscaldamento autonomo, il 68% delle abitazioni unifamiliari, il 75% degli ospedali.

Ma il gas in Italia non basta o, meglio, sembra non bastare. «Stiamo consumando più gas di quanto siamo in grado di importare. Stiamo intaccando le riserve» ha detto qualche giorno fa l’amministratore delegato di Enel, Fulvio Conti. Tutto vero. Anche se sarebbe più corretto dire che stiamo “utilizzando” più gas di quanto siamo in grado di importare. Anche perché non tutto il gas che arriva al nostro confine entra in Italia e non tutto quello che entra in Italia viene bruciato per generare elettricità sul territorio. Due anni fa, ad esempio, l’Eni, società statale quotata, ha stipulato un accordo per la vendita di un miliardo di metri cubi gas all’anno per otto anni alla società Electricité de France (Edf). L’anno scorso, invece, dopo che Mosca decise di chiudere i rubinetti dei gasdotti per una ritorsione contro l’Ucraina, costringendo anche il nostro paese a tirare la cinghia per pochi giorni, qualche operatore decise di bruciare il gas non per l’Italia ma per Francia o Germania, dove il prezzo dell’energia era più alto, incassando circa 5 milioni di euro al giorno.

La fame di gas, allora, è una buona base di partenza ma non serve da sola a completare il quadro. Avere nuovi approvvigionamenti è anche una questione politica. Il gas si trasporta o via tubo o via nave. In questo momento circa il 90% di quello che consumiamo viaggia attraverso gasdotti: dall’Algeria (il 35,6%), dalla Russia (29,1%), e poi dalla Libia, e sempre meno dalla Norvegia, dai Paesi Bassi e dalla produzione locale. In sostanza la nostra sicurezza energetica è affidata a due nazioni. Da qui l’esigenza di trovare alternative. Come i rigassificatori, appunto.

In un certo senso si aggira l’ostacolo. Invece che su tubi il gas viene trasportato con navi metaniere dalla Nigeria, dall’Arabia Saudita, dall’Indonesia. Le metaniere, tecnologicamente più sicure delle petroliere (in 40 anni mai un incidente) costano circa 160 milioni di euro e vanno affittate. Il gas viene trasportato in forma liquida con una temperatura di meno 163 gradi. Una volta scaricato il metano prende calore, e torna allo stato naturale.

Naturalmente per questa operazione servono impianti adatti. In Europa ne esistono già quattordici. Altri 8 sono stati approvati e 34 sono in corso di autorizzazione. La Spagna ne ha cinque e due in fase di costruzione. La Francia, parca di gas, ne ha due più altri quattro in elaborazione. Per costruirli servono almeno tre anni e circa 500 milioni di euro (ma i prezzi lievitano di anno in anno). L’Italia ne ha solo uno operativo, quello Eni (Snam Rg-Gnl Italia) di Panigaglia, a Fezzano di Portovenere (La Spezia), una potenzialità di 3,5 miliardi di metri cubi di gas l’anno. Gli altri, dieci in tutto, sono in fase di costruzione o di autorizzazione.

Nel primo gruppo rientrano il terminale Gnl Adriatico al largo di Porto Viro-Rovigo (di proprietà di Qatar Petroleum, ExxonMobil ed Edison) e quello a largo della costa fra Pisa e Livorno (Endesa, gruppo Iride, Asa Livorno, Golar Lng e Olt Energy Toscana). Il primo impianto (8 miliardi di metri cubi annui) è in avanzata fase di costruzione (oltre il 60%) in Spagna da dove verrà rimorchiato via nave e il prossimo anno sarà pronto. Il secondo, un terminale galleggiante da 3,75 miliardi di metri cubi, entrerà in funzione nel 2010.

Per gli altri l’iter è più lungo. Come, ad esempio, il terminale di proprietà di Endesa da 8 miliardi di metri cubi off shore, tra Grado, Trieste e Muggia, a 9 Km dalla costa slovena, dove la Regione autonoma del Friuli partecipa con una quota del 10% attraverso la società Friulia. A ridosso di Trieste (a Zaule) la spagnola Gas Natural vorrebbe piazzare un altro impianto da 8 miliardi di metri cubi. Vorrebbe, ma la Regione si è dichiarata favorevole a non più di un impianto sul proprio territorio.

Erg e Shell, invece, hanno un progetto per un terminale da realizzare in Sicilia, all’interno del polo industriale di Priolo, Augusta, Melilli, in provincia di Siracusa (capacità di 8 miliardi di metri cubi) in un territorio già segnato dal petrolchimico. Sempre in Sicilia Enel sta sviluppando il progetto del terminale (8 miliardi di metri cubi) di Porto Empedocle (Agrigento) l’unico in Europa ad adottare serbatoi interrati. Sempre in fase autorizzativa è l’impianto della Bp-Solvay-Edison a Rosignano, che dovrebbe aver luogo all’interno dello stabilimento Solvay (capacità da 8 miliardi di metri cubi), e quello Lng Med Gas Terminal (controllata da Iride e Sorgenia per una capacità da 8-12 miliardi) a Reggio Calabria, area San Ferdinando - Gioia Tauro. Infine a Taranto c’è il progetto degli spagnoli di Gas Natural (8 miliardi di metri cubi) che è in lizza con quello di Brindisi (British Gas). Una corsa che forse non vedrà nessuno vincitore. L’autorizzazione di Brindisi è stata sospesa in seguito al sequestro giudiziario, quella di Taranto potrebbe non arrivare mai visto che in zona esiste già la raffineria Eni che dovrebbe raddoppiare la propria capacità. Se tutti i progetti fossero realizzati, comunque, avremmo altri 80 miliardi di metri cubi di gas aggiuntivi. In pratica raddoppieremmo la nostra capacità. Se poi si considera che, in base a recentissimi accordi, nel giro di qualche anno avremo via tubo più gas dalla Libia, dall’Algeria (via Sardegna) dalla Russia (via Puglia), si potrebbe ipotizzare per l’Italia un surplus al limite della bolla. Facile pensare, allora, che tutto il gas in arrivo in Italia non raggiunga le nostre case, ma prenda altre destinazioni. E che, come per la fame di gas, anche il problema della sicurezza degli approvvigionamenti non serva a spiegare completamente il perché di tanti impianti.

Un’altra spiegazione ci sarebbe, però. Con 10 rigassificatori Italia potrebbe essere utilizzata come una gigantesca piattaforma. Un hub capace di creare un mercato alternativo al tubo russo e algerino. Niente di male se non il fatto che in questo nuovo ruolo l’Italia si accollerebbe un rischio: quello della sicurezza. È vero che in 60 anni ci sono stati solo 4 incidenti e che gli impianti sono tecnologicamente avanzati, ma è anche vero che la maggior parte dei siti italiani sorge in aree già industrializzate e che l’ultimo incidente (quello di Skikda in Algeria, 20 gennaio 2004, 27 morti e 74 feriti) non ha provocato una catastrofe solo grazie a un cambio di direzione di vento. Se la sicurezza il rischio il beneficio è dato dal prezzo finale del gas. L’equazione è: più rigassificatori (più gas), minor prezzi. Eppure il prezzo del gas, anche quello trasportato via nave, segue pedissequamente quello del petrolio. Con il petrolio che non arresta a fermarsi anche il metano costerà di più e i costi si scaricheranno sui prezzi. Ma, allora, il gioco vale davvero la candela?

Pubblicato il: 02.12.07
Modificato il: 02.12.07 alle ore 14.45   
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