Promemoria su “paese reale”, “paese legale” e “paese mediatico”
Alleanza Cattolica 14 anni fa
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Giovanni Cantoni, Cristianità n. 323 (2004)
“L’origine della parola italiana paese va ricercata nel latino pagus che voleva dire villaggio.
“Da pagus si è formato poi l’aggettivo pagensis, che indicava lo spazio circostante un borgo agricolo.
“Questo è il significato originario con cui la forma pagense è sopravvissuta nelle lingue romanze.
“Tra il XII e il XIV secolo, l’italiano paese significa infatti i dintorni di un centro abitato, oppure uno spazio geografico da abitare o coltivare.
“Paese indica infatti uno spazio più o meno grande dotato di alcuni elementi caratterizzanti: una regione, una porzione di territorio su cui si esercita un’autorità politica, ad esempio un feudo, una città o un regno.
“Da quest’ultimo valore politico deriva una delle due accezioni che la parola assume nella lingua contemporanea.
“Il significato di piccolo insediamento agricolo in contrapposizione alle grandi dimensioni della città compare soltanto a partire dal Quattrocento. Fino al XVIII secolo il termine paese è stato vicino e al tempo stesso distinto dal vocabolo nazione.
“Con paese si indicava infatti un territorio amministrativo, eventualmente organizzato in una forma statale.
“Con nazione invece si denotava un popolo con caratteristiche comuni, a prescindere dalle sue forme di sovranità politica.
“Nella seconda metà del Settecento, soprattutto con la Rivoluzione Francese, nazione iniziò ad assumere un forte senso politico.
“I due termini — nazione e paese — divennero sinonimi, e insieme alla parola patria passarono a qualificare un gruppo di persone legate da cultura, storia e lingua, e in grado di esprimere una volontà politica comune.
“Nell’età della Restaurazione il termine paese trova una nuova collocazione nel linguaggio politico.
“La monarchia francese di primo Ottocento permetteva infatti di votare soltanto ai cittadini in possesso di un certo censo.
“Si creò così una contrapposizione tra paese legale — il corpo elettorale ristretto — e paese reale — tutti gli altri cittadini che non potevano esprimersi liberamente.
“Da questo momento in poi la nozione di paese indica sempre più il paese reale, una comunità nazionale in grado di darsi forme politiche nuove e più aperte: la democrazia e la repubblica.
“All’inizio del nostro secolo [XX] infine, paese diventa quasi una parola distintiva, rispetto a nazione, dei movimenti politici democratici” (1).
Dunque, la storia di “paese”, nella preziosa ricostruzione dell’itinerario di significato fornita da Stefano Gensini, docente di Semiotica nell’università di Salerno, e da Giancarlo Schirru, docente di Geografia Linguistica nell’università di Cassino, in provincia di Frosinone, è straordinariamente illuminante, tale da meritare di essere riferita ampiamente, o almeno così mi pare. Soprattutto là dove viene segnalata la nascita della contrapposizione fra “paese reale” e “paese legale”, che in Italia avrà la sua espressione — felicemente ritardata dalle diverse Italie storiche, che prima dell’Unità avevano anche veste politica — quando, dopo la Rivoluzione nazionale, il cosiddetto Risorgimento, verrà introdotto lo stesso voto censitario ricordato a proposito della Restaurazione in Francia e avrà agibilità politica una percentuale di elettori, su una popolazione di circa 22 milioni di abitanti, pari all’1,9% (2); la stessa percentuale, grosso modo, degli italofoni (3).
Si tratta di una contrapposizione che, oltre la storia evocata, ha acquisito un significato strutturale: infatti — a questo punto cito da Il dizionario della lingua italiana di Giacomo Devoto (1897-1974) e Gian Carlo Oli —, se s’indicava con “P[aese]. legale, il corpo elettorale della Francia nel periodo della Restaurazione, contrapposto al p[aese]. reale, costituito dalla stragrande maggioranza del popolo escluso dal diritto di voto; oggi, con l’espressione p[aese]. reale si tende a sottolineare il distacco e la contrapposizione dei cittadini nei confronti delle forze politiche istituzionali che li rappresentano” (4).
Ma, come accade in genere nel caso delle contrapposizioni, il loro stesso carattere polemico induce a escludere, almeno in prima ipotesi e quasi per principio, altri eventuali significati dei termini — per così dire — coinvolti nella contrapposizione stessa, semplicisticamente — idealisticamente — applicando alla realtà una legge della logica, cioè della strumentazione per conoscere la realtà stessa: tertium non datur, “non esiste una terza possibilità”. Quindi, si è indotti a credere che gli unici due “paesi” possibili siano quello reale e quello legale.
Però mi pare che le cose stiano diversamente, almeno dagli anni 1920, quando è stata inventata la radio e ha avuto inizio un nuovo modo di comunicazione, giunto all’invadenza e alla pervasività oggi a tutti note e da tutti patite. Ma, nonostante tali invadenza e pervasività — o proprio a causa di esse, che le trasforma in condizioni percepite come “naturali” — non viene quasi colto quanto è accaduto, neppure nei termini, per altro decisamente esigui, con i quali sono culturalmente registrate l’invenzione della stampa nel secolo XVI e le sue conseguenze sulla vita sia individuale che sociale, dal campo della religione a quello della politica. Eppure, a partire dai citati anni 1920 è nato e si viene svolgendo un terzo paese, che propongo di denominare “paese mediatico”, cioè il paese così com’è rappresentato dai mezzi di comunicazione sociale: nello stesso tempo rappresentazione del mondo reale e di quello legale.
E questo “terzo”, comparso all’interno della contrapposizione fra paese reale e paese legale, e almeno non percepito come terzo, accresce l’incomprensione, cioè la non corrispondenza, quindi la “litigiosità” fra i due noti.
Quanto viene accadendo nella Repubblica Italiana, con un’accelerazione visibile a occhio nudo dopo la tornata elettorale per il Parlamento Europeo del 12 e 13 giugno 2004, mi ha suggerito la redazione di questo promemoria, che credo utile sia per ogni politico di professione che per ogni politico “periodico”, cioè per ogni cittadino. E forse, avendo l’avvertenza d’estendere anche alle istituzioni ecclesiastiche quanto rilevato a proposito di quelle politico-sociali, non inutile neppure per i servitori del popolo di Dio e i membri generici di esso (5). Allo scopo, che dichiaro, di suscitare opportuna diffidenza verso mediazioni per nulla “naturali”, ma assolutamente storiche, che trasformano la realtà in una sua rappresentazione necessariamente selettiva; e non si tratta di una selezione fatta da soggetti eletti, scelti o, comunque, certificati da un consenso, ma che s’impongono surrettiziamente piuttosto che proporsi. Forse, dunque, vi è ben di più del cosiddetto “conflitto d’interessi” e — soprattutto — di ben più strutturale. Che dice relazione alla cosiddetta “opinione pubblica”, cioè a quanto di più parziale e di più privato si possa immaginare, e a coloro che ne sono piuttosto i creatori che i promotori o, tantomeno, i “modesti” veicoli.
Giovanni Cantoni
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(1) <
www.educational.rai.it/lemma/testi/spazio/paese.htm>.
(2) Cfr. Alfredo Capone, Destra e Sinistra da Cavour a Crispi, vol. XX della Storia d’Italia diretta da Giuseppe Galasso, TEA, Milano 1996, pp. 186.
(3) Cfr. Tullio De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 43.
(4) Giacomo Devoto e Gian Carlo Oli, Il dizionario della lingua italiana, Le Monnier, Firenze 2004, sub voce, p. 1902.
(5) Cfr. il mio Per una corretta recezione del Magistero, contro il “nominalismo mediatico”, in Cristianità, anno XXXII, n. 322, marzo-aprile 2004, pp. 3-4.
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