LA-U dell'OLIVO
Marzo 29, 2024, 06:22:54 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Marx il suo pensiero è attualissimo (forse) ... ma non i marxisti come Cremaschi  (Letto 2433 volte)
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.754


Mostra profilo
« inserito:: Maggio 14, 2018, 11:58:01 am »

GIORGIO CREMASCHI - Buon compleanno Marx. Il suo pensiero è attualissimo

Il 5 maggio del 1818 nasceva Karl Marx, sono passati due secoli ed egli è oggi più attuale che mai. È sicuramente più attuale oggi che negli anni passati nei quali metà dell'Europa era governata da stati socialisti e l'altra metà dal compromesso tra capitale e lavoro, che aveva dato origine allo stato sociale. Il marxismo era la cultura egemone di un grande processo di emancipazione dei popoli in tutto il mondo, della liberazione dal colonialismo, della costruzione di società indipendenti ed in conflitto rispetto ai centri di potere del capitalismo mondiale. Paradossalmente questa forza politica e culturale del marxismo ne trascurava il nocciolo fondamentale, quello dello sfruttamento del lavoro come obbligo e caratteristica fondamentale della società capitalista. Solo minoranze radicali, poi diventate molto influenti con il movimento mondiale del 1968, avevano concentrato il proprio interesse sull'alienazione e sulla continua espropriazione che per sua stessa natura il capitalismo produce verso il lavoro. Eppure anche chi più si concentrava sul nucleo del pensiero di Marx ne trascurava una parte altrettanto importante. Il capitalismo per sua natura ha bisogno di accrescere continuamente lo sfruttamento del lavoro e di sottometterlo sempre di più alla propria organizzazione produttiva, e ha la necessità di farlo su scala mondiale. Ecco, questo punto che oggi noi chiamiamo globalizzazione, allora nel momento di massima egemonia culturale del marxismo, non veniva colto. Le ragioni erano ovviamente storico politiche, la rivoluzione sovietica e la sconfitta mondiale del fascismo avevano fermato l'espansione del capitalismo su scala mondiale. Così pure l'emancipazione del mondo coloniale. E poi le lotte operaie e sociali nei paesi più sviluppati avevano posto limiti, poi si disse lacci e lacciuoli, al potere del mercato capitalista. Quindi il Marx che descrive li meccanismo dello sfruttamento come una sorta di virus che non può che dilagare in tutto il mondo, bene quel Marx era considerato in fondo quasi come superato, da una realtà ove invece quel virus pareva circoscritto, certo ancora forte e pericoloso, ma in via di circoscrizione e persino di debellamento.
"Il bisogno di sbocchi sempre più̀ estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa si deve ficcare, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni.
Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi."
Con queste parole nel 1848, anche qui c'è un anniversario, nel Manifesto del Partito Comunista, Marx ed Engels annunciavano il mondo di oggi. 170 anni fa il capitalismo era insediato solo in poche regioni europee e degli Stati Uniti, la classe operaia era composta da poche decine di milioni di persone in una popolazione la cui grande maggioranza, anche in Europa, era dedita alla agricoltura. Eppure il genio di Marx e quello di Engels seppero cogliere dall'analisi minuziosa di queste parti, ancora relativamente piccole, delle società di allora il destino di tutto il pianeta: de te fabula narratur, aggiunsero poi a chi li accusava di esagerare con le loro visioni.
Fino agli anni 70 del secolo scorso il capitalismo sembrava in ritirata o comunque sotto crescente condizionamento, il mondo sembrava avviarsi verso un crescente imbrigliamento degli spiriti animali del mercato, lo faceva anche e soprattutto grazie a tutto ciò che il marxismo aveva promosso ed evocato, anche smentendo così le previsioni di Marx. Ma poi ci fu la reazione.
Nel 1973 il feroce colpo di stato in Cile attuato da Pinochet con il sostegno degli Stati Uniti, segnò un punto di svolta dei rapporti sociali ed economici mondiali. La dittatura cilena fu la prima cavia mondiale del ritorno al capitalismo spietato e selvaggio analizzato da Marx. Sul mare di sangue dei marxisti, proprio così venivano definiti i sostenitori del governo socialista di Allende, sullo sterminio del movimento operaio, fu costruito il primo esperimento liberista. Poi con Reagan negli Stati Uniti e con Thatcher in Gran Bretagna il capitalismo liberista dilagò nelle capitali del mondo occidentale e aggredì tutti i suoi avversari: le classi lavoratrici, i paesi a sistema socialista, quelli ex coloniali. Li aggredì e vinse. Contrariamente a quanto pareva cinquanta anni fa il capitalismo trionfante non era quello Keynesiano, quello del compromesso sociale, il neocapitalismo si diceva allora. No, era il veterocapitalismo più feroce quello che riprendeva il dominio del mondo.
"Del ritornar ti vanti e procedere il chiami". Così Giacomo Leopardi ne La Ginestra accusa il suo secolo "superbo e sciocco" cioè la restaurazione del primo ottocento dopo la rivoluzione francese. Allora come oggi un gigantesco processo tecnologico si accompagnava ad una regressione profonda sul piano politico e culturale. La restaurazione capitalista che oggi subiamo ha imposto il ritorno al sistema economico sociale di sfruttamento globale analizzato e combattuto da Marx.
Questa restaurazione su scala mondiale del capitalismo ottocentesco non è avvenuta per opera delle forze spontanee dl mercato, come invece vanta la sua propaganda. Sono stati l'azione della politica, l'intervento degli stati e le costruzioni istituzionali a liberare il capitalismo dai freni che gli erano stati imposti da cento anni di lotte e rivoluzioni. È l'uso dello stato a favore del mercato, teorizzato da Von Hayek, la privatizzazione del pubblico, che hanno ordinato il ritorno al capitalismo selvaggio e liberista, ciò che è stato chiamato ordoliberismo. E istituzioni burocratiche ed autoritarie come la Unione Europea son servite a smantellare le conquiste sociali nei paesi ad essa aderenti. E sotto il comando UE la Grecia è diventata la nuova cavia per i più feroci esperimenti sociali.
Lo stato, le istituzioni e la politica hanno svolto il lavoro sporco della restaurazione capitalista, fornendo ad essa gli strumenti materiali e la copertura ideologica. Il pensiero unico liberista è diventato il senso comune delle società devastate dalla restaurazione dello sfruttamento più feroce. Ed i governi sono tornati ad essere quei "comitati di affari della borghesia" del Manifesto del 1848.
La dittatura del mercato e del profitto sembra aver trionfato. Non ci sono alternative, ci spiegano ogni giorno dai massmedia da quarant'anni. Ma al mondo che oggi venera il peggio della filosofia di Adam Smith bisogna ricordare che Karl Marx è venuto dopo il teorico supremo del libero mercato, e ne ha smontato pezzo per pezzo la costruzione ideologica e politica. Proprio la restaurazione del capitalismo di Smith rende oggi Marx più attuale che mai. La sconfitta del socialismo, in tutte le sue versioni, nel secolo scorso è stata unicamente politica, è stata determinata dalla maggiore forza e violenza del capitalismo. È stata la lotta di classe mondiale a segnare la vittoria della borghesia. Per ora, perché la storia umana insegna che ciò che la politica, cioè l'agire umano, distrugge, la politica stessa può riedificare. Dopo decenni di restaurazione capitalista sono lo stesso perdurare ed aggravarsi della crisi mondiale che preparano il ritorno di una politica opposta a quella che ha sinora trionfato. Le cose possono e debbono cambiare perché le leggi del mercato nascondono in realtà rapporti tra persone, e quando le persone se ne rendono conto, beh allora il regime del profitto e dello sfruttamento svela tutta la sua mostruosità da abbattere.
Nella necessità del ritorno di una politica rivolta contro il dominio del mercato c'è tutta la forza e l'attualità di Marx. Buon compleanno a Marx, il suo pensiero è giovanissimo.

Giorgio Cremaschi
(11 maggio 2018)

Da - http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/?p=24981
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.754


Mostra profilo
« Risposta #1 inserito:: Maggio 15, 2018, 03:56:18 pm »

11 MAG/18

L’Ira antisistema ostile alla Libertà.

Intervista con Yascha Mounk – autore del volume «Popolo vs Democrazia» – di Benedetto Vecchi (manifesto 11.5.18) “Salone internazionale del Libro di Torino. Una radiografia della crisi dei sistemi politici liberali e della crescente disaffezione alla politica. Lo studioso di origine tedesca presenterà oggi il suo saggio alla kermesse editoriale di Torino

“” Tagliente nei giudizi, chiaro nell’esporre il suo punto di vista e capace di offrire una visione semplice di un mondo tuttavia complesso. Yascha Mounk ha dalla sua anche la giovine età che lo porta a disattendere convenzioni e modi d’essere dell’Accademia universitaria. Nel suo primo libro (Stranger in My Own Country. A Jewish Family in Modern Germany, Farrar Straus and Giroux) rende, ad esempio, pubblico il malessere di un giovane di origine ebraica che si sente straniero nel paese, la Germania, dove è nato. Un memoir dove il tema dell’identità è affrontato con disincanto, rifiutando tuttavia la facile strada della rivendicazione di una appartenenza senza tempo consapevole del fatto che nel paese di nascita non c’è stata mai una rielaborazione sul nazismo, ma solo una consolatoria e autoassolutoria condanna del Terzo Reich. Oppure hanno destato sospetto e discussione le tesi contenute nel suo libro The Age of Responsibility. Luck, Choice and the Welfare State (Harvard University Press) dove sostiene che la responsabilità, termine frequentemente usato da esponenti politici conservatori, deve diventare un concetto chiave nel lessico politico della sinistra dato che la responsabilità verso gli altri è stata la leva fondamentale nella costruzione del welfare state.
Mounk, che insegna negli Stati Uniti, si è schierato contro la candidatura di Donald Trump, sottolineando però che il suo populismo è tutto meno che un fenomeno politico e sociale folkloristico. Il populismo, per Mounk, va preso sul serio perché costituisce il pericolo maggiore per la democrazia. È questo il tema del suo libro Popolo vs Democrazia (Feltrinelli, pp. 333, euro 18), che sarà presentato oggi al Salone internazionale del libro di Torino (ore 15.30, sala Blu). E questo il tema dal quale ha preso avvio l’intervista avvenuta tra uno un appuntamento di lavoro tra Milano e la città piemontese.
Nel suo libro scrive della fine della grande illusione che ha tenuto banco dopo il crollo del Muro di Berlino. Il mondo, questa la retorica dominante, stava entrando in un periodo di benessere, mentre la democrazia sarebbe stato il destino politico per tutti i paesi. Lei sostiene che a quella illusione è subentrata un’era di tensioni, conflitti e dove la democrazia non è il destino manifesto dei sistemi politici….
Allora veniva affermato che la globalizzazione economica avrebbe consentito la crescita del benessere su tutto il pianeta. Superata una soglia di benessere, la democrazia sarebbe stata alla portata di tutti i paesi. La situazione è cambiata con la crisi economica e quando in paesi di recente democratizzazione ci sono state elezioni all’interno di un quadro di forte limitazione di libertà di stampa, di associazione. Mi riferisco a paesi come l’Ungheria, la Polonia. Ci troviamo di fronte a situazioni che potremmo definire di democrazia senza diritti. Qui la parola chiave è il popolo, che deve essere rappresentato nella sua organicità. Il populismo tuttavia non riguarda solo l’Europa. È infatti un fenomeno politico globale.
Molti commentatori dipingono il populismo come una cultura politica antisistema. Potrebbe, all’opposto, essere visto come una ciambella di salvataggio per sistemi politici in deficit di legittimazione e in crisi di rappresentanza….
Il populismo non è certo un fenomeno unitario, eguale sempre a se stesso. Podemos è cosa diversa dalle formazioni populiste dell’Europa del Nord. Ma tutti i populisti sono antiestablishment. O come dice lei antisistema. Non penso vada cercata una coerenza da parte dei partiti populisti. Spesso esponenti politici populisti esprimono posizioni antitetiche l’una con l’altro nell’arco della stessa giornata. Quel che rimane costante è la critica all’operato del governo perché corrotto; perché trama contro gli interessi del popolo. La critica riguarda anche i media, colpevoli di falsificare la rappresentazione della realtà. Il governo, i media e gli altri partiti politici sono cioè responsabili di soprusi, ingiustizie sistematiche. Non penso dunque che il populismo funzioni come ciambella di salvataggio.
Ho seguito con attenzione la diffusione di parole d’ordine populiste in Germania: la dominante era il terrore che il primato economico tedesco potesse essere messo in discussione. Il populismo era cioè declinato dentro una cornice nazionalista. In Italia, invece il declassamento del ceto medio, la crisi economica, l’impoverimento della popolazione è stato l’ordine del discorso che ha trovato un forte collante nella denuncia della corruzione, dei privilegi della casta. Qui i sentimenti dominanti sono stati l’ira cieca contro le ingiustizie, il risentimento.
Inizialmente, Beppe Grillo proponeva una idea di comunità tollerante, aperta, giovane: cosa diversa dall’establishment vecchio, egoista, corrotto e avido rappresentato dai vecchi partiti. Ma il movimento dei 5 Stelle ha poi veicolato una visione chiusa della comunità, alimentando una logica complottista in base alla quale tutti gli altri politici erano in combutta per annientare la voglia di libertà, di pulizia, di tutela dei beni comuni espressi dal popolo.
Nel suo libro, lei si sofferma sul fatto che la democrazia corre il rischio di rimanere ostaggio delle élite. Cita il caso del denaro necessario per essere eletti al Congresso e al Senato degli Usa….
Per essere eletti al Congresso o al Senato statunitense servono milioni di dollari. Per questo le èlite sono avvantaggiate. Spesso i candidati fanno già parte di circoli economici e finanziari che possono favorire il finanziamento della campagna elettorale . Fanno parte dell’élite anche i lobbisti È costume negli Usa che grandi imprese o grandi azionisti finanziano candidati in maniera tale da condizionare il loro operato una volta eletti. Anche qui i rischi della democrazia sono alti. Se invece guardiamo a paesi non democratici, scopriamo che le leadership funzionano come caste separata dal resto della società e che riproducono se stessi secondo logiche familiste.
La depoliticizzazione è un altro dei temi che lei affronta. La democrazia più che far crescere l’attenzione verso la gestione della cosa pubblica sembra favorire la depoliticizzazione. È così?
In tutto i paesi democratici c’è una caduta nella partecipazione alle elezioni. Spesso il numero dei votanti costituisce una minoranza della popolazione. I partiti perdono iscritti. Tutti i tentativi di rivitalizzare i partiti non funzionano come dovrebbero. La cosiddetta società civile privilegia gli affari privati, la logica amicale del piccolo gruppo che si incontra per condividere ansie e speranze che rimangono private. Il populismo non ferma la depoliticizzazione. Semmai l’accelera quando sostiene che i politici fanno parte di una casta che tutela solo i loro interessi.
Lei sostiene che i social media sono il vettore di propagazione del populismo che proponeva un futuro roseo. Eppure i social media prospettano più che un futuro un eterno presente….
I social media sono stati presentati dai tecno-ottimisti come il mezzo, lo strumento per una democratizzazione radicale dei media. Questo fino al 2010, 2011. Ci sono state anche dei tumulti, rivolte qualificate come twitter revolution. Poi è subentrato un pessimismo radicale sulle capacità liberatoria dei social media. Sono stati considerati una sorta di potente strumento di manipolazione dell’opinione pubblica che per di più istupidiva le persone. Certo i social media mettono in discussione il potere dei media tradizionali, ma rispondono comunque alla stesso logica economica. Per quanto riguarda il populismo, i social media sono stati un vettore per la sua diffusione. Da questo punto di vista il Movimento 5 stelle è stato un case study interessante per comprendere il potere di un nuovo media che fa della critica ai vecchi media il proprio marchio di origine.””

Da - http://www.iniziativalaica.it/?p=39298#more-39298
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.754


Mostra profilo
« Risposta #2 inserito:: Maggio 15, 2018, 04:03:31 pm »

13 MAG/18

Intervista a Amos Oz di Juan Carlos Sanz (Repubblica 13.5.18)

“” TEL AVIV Sembra lo stesso di tre anni fa, ma la sua voce si perde spesso nel registratore tra le fusa del suo gatto Freddie. «Le mie condizioni di salute mi permettono di viaggiare solo con la mia immaginazione», si scusa il più noto scrittore in lingua ebraica. Amos Oz parla nella sua casa di Tel Aviv sugli zeloti, gli estremisti e i settari che preferiscono affrontare un mondo complesso nel modo più semplice, ma finisce col riconoscere che il suo ultimo libro, “Cari fanatici”, è in realtà un lascito: «L’ho dedicato ai miei nipoti. Ho concentrato ciò che ho imparato nella vita, come una storia. La cosa più pericolosa del XXI secolo è il fanatismo. In tutti i suoi aspetti: religioso, ideologico, economico… perfino femminista. È importante capire perché ritorna ora. Nell’islam, in certe forme di cristianesimo, nell’ebraismo… »
Lei scrive della tua terra. Il Medio Oriente è la culla del fanatismo?
«È un’idea comune, ma non penso sia vero. L’ascesa del fanatismo e del razzismo negli Stati Uniti è molto più pericolosa. C’è il fondamentalismo in Russia e nell’Europa orientale. Ed è pericoloso anche il fanatismo nazionalista nell’Europa occidentale».
Condividiamo questo peccato originale?
«Penso che in ognuno di noi, forse, ci sia un gene di fanatismo. È la tendenza dell’essere umano a voler cambiare gli altri. Diciamo ai bambini: “Devi essere come me”. È una cosa molto comune».
Come si cura il fanatismo?
«Bisogna essere curiosi. Mettersi nei panni dell’altro. Anche se è un nemico. La ricetta è immaginazione, senso dell’umorismo, empatia. Ma non per compiacere l’altro. Io cerco di immaginare che cosa fa sì che l’altro si comporti in un certo modo».
Lei è fuggito dal clima che si respira a Gerusalemme, la città dove è nato. È difficile non diventare un fanatico in quella città?
«Amo Gerusalemme. Ma ho bisogno di mantenere una certa distanza. È troppo conservatrice, in termini ideologici e religiosi. A Gerusalemme quasi tutti hanno una loro formula personale per ottenere la salvezza o la redenzione. Cristiani, musulmani, ebrei, pacifisti, atei, razzisti, tutti.
Una caratteristica di Gerusalemme?
«Di Israele in generale, anche se è più evidente a Gerusalemme. Una fermata dell’autobus può diventare un seminario. Persone del tutto estranee discutono di politica, morale, religione, storia o di quali sono le vere intenzioni di Dio. Ma nessuno vuole ascoltare l’altro, tutti pensano di avere ragione.
Nello Stato ebraico, dove la religione è un segno di identità, come vive un laico, un ateo?
«Il mio problema non è la religione, ma il fanatismo religioso. Non è il cristianesimo, ma l’Inquisizione.
Non è l’Islam, ma il jihadismo. Non è il giudaismo, ma gli ebrei fondamentalisti».
Un governo ultraconservatore in Israele, Trump alla Casa Bianca: un periodo storico favorevole all’intransigenza?
«La maggior parte del mondo si sta muovendo velocemente da una prospettiva complessa a una molto semplicistica. Succede anche nella sinistra radicale».
Il nazionalismo, il conflitto palestinese, non hanno condizionato questa visione in Israele?
«È naturale. Quando un conflitto dannato e crudele dura più di cento anni ci sono ferite da entrambe le parti. Immagini cupe dell’altro. Ci sono persone sentimentali in Europa che credono che si possa risolvere tutto parlando e andando a prendersi un caffè. Una piccola terapia di gruppo e amici più di prima. No. Ci sono conflitti che sono molto reali. Quando due uomini amano la stessa donna. O due donne lo stesso uomo. C’è uno scontro che non può essere risolto andandosi a bere un caffè. Il conflitto tra israeliani e palestinesi è reale».
Ci vuole un divorzio: due Stati?
«Fondamentalmente, si tratta di questo. La casa è molto piccola.
Dobbiamo fare due appartamenti.
Israele e, nella porta accanto, la Palestina. Poi dovremo imparare a dirci “buongiorno” per le scale. Più avanti saremo in grado di farci una visita. E perfino di cucinare insieme: un mercato comune, una federazione o confederazione… ma prima bisogna dividere la casa. In fondo, tutti sanno che l’unica soluzione possibile è quella dei due Stati. Anche se non gli piace. Per i palestinesi e gli israeliani è come un’amputazione, come perdere una parte del proprio corpo.
In Israele, c’è chi la considera un fanatico della formula dei due Stati.
«L’altra soluzione funziona solo in Svizzera. In Jugoslavia finì in un bagno di sangue. Ci fu un divorzio pacifico nell’ex Cecoslovacchia. Chi può pensare che israeliani e palestinesi debbano andare a letto insieme e fare l’amore e non la guerra? Dopo un secolo di massacri non è possibile.
Non sembra che la leadership israeliana abbia fretta di trovare una soluzione.
«Questo è il cuore del conflitto, la mancanza di una leadership.
Nessuno ha il coraggio che ebbe De Gaulle quando concesse l’indipendenza all’Algeria».
Né gli israeliani, né i palestinesi?
«Nessun leader del mondo. Per esempio non vedo leader coraggiosi a Madrid o Barcellona. Una nuova frammentazione dell’Europa non mi fa piacere. Non capisco perché, ma se in Catalogna c’è una maggioranza di cittadini che vuole vivere per conto proprio, lo farà.
Può darsi che sia un grande sbaglio.
Ma non puoi forzare due persone a condividere un letto se uno dei due non vuole. Persino la Scozia vuole uno Stato».
Dunque, viviamo in un’epoca di vigliacchi e di fanatici?
«È un’epoca di semplificazioni. La gente si aspetta risposte semplici e non teme più di sembrare estremista. 80 anni fa avevamo paura di Hitler o di Stalin».
Se l’immunizzazione provocata dalla seconda guerra mondiale non funziona più, ci vorrà un nuovo vaccino?
«Non voglio un altro bagno di sangue. Ma il rischio c’è: il fanatismo porta alla violenza. Il mio libricino contiene un milligrammo di vaccino: tolleranza e curiosità.
Sorridere, anche ridere di se stessi.
Non ho mai visto un fanatico dotato di senso dell’umorismo».“”

Inserito in: Fondamentalismo e laicità, pensiero critico

Da - http://www.iniziativalaica.it/?p=39311#more-39311
Registrato
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.754


Mostra profilo
« Risposta #3 inserito:: Maggio 15, 2018, 04:15:28 pm »

La filosofia intesa come amore per la conoscenza ci insegna che la Storia è patrimonio di tutta l’umanità e ci aiuta a capire che la vita individuale e collettiva trascorre attraverso il tempo. Questo significa amare la conoscenza che essa racchiude, conoscere i fenomeni che si sviluppano attraverso il tempo, in sintesi voler sapere cosa è successo all’umanità attraverso il tempo.

Possiamo per questo definire la Storia come memoria dell’umanità e per lo stesso motivo gli antichi romani la definivano Maestra di Vita, una serie di scenari differenti di cui spesso ci sfuggono le finalità, che però capiamo quando le azioni si compiono e danno vita a degli effetti. Il contatto con il tempo e con la storia fanno emergere la coscienza. La storia ci parla di guerre, di amore, odio, infermità, crimini, di nascita, crescita, morte di civiltà di popoli.

L’incontro con la storia ci trasforma perché ci permette di entrare in relazione con il passato per capire da dove veniamo, con il presente per capire chi siamo e qual è il nostro ruolo nella vita, nella società, con il futuro per capire cosa dovremo fare.

La storia ci permette di capire che l’uomo di oggi non è un essere separato dall’uomo di ieri o di domani, perché il presente è il risultato del passato e il futuro del presente. Tutto questo è molto naturale perché si riferisce a una delle tante leggi della Natura, la legge di causa ed effetto o se si preferisce di azione e reazione. Esiste un detto popolare che dice chi semina raccoglie, questo significa che ciò che ognuno di noi semina raccoglie e se abbiamo seminato grano raccoglieremo grano e non mais e da questo verrà fuori un tipo di farina e non un’altra.

La storia quindi è come un filo invisibile ad occhio nudo che unisce l’umanità e aiuta l’uomo ad evolversi ad ampliare la propria coscienza. Chi infatti studia la storia, o l’attento osservatore, sa riconoscere le cause e gli effetti. Non distribuisce colpe o meriti ma ciò che cerca di fare è tirar fuori qualcosa di valido dall’esperienza vissuta anche se non in modo diretto ma raccogliendone gli effetti.

E’ naturale fare degli errori quando si fa storia, cioè quando si agisce, ma ciò che è importante non è recriminare, rinnegare ma correggere, recuperare, rinnovare ogni esperienza storica.

Come dicevamo prima l’uomo tende a rinnegare il passato, a dimenticarlo, ad ignorarlo. Un esempio di ciò è la distruzione di statue, opere artistiche e letterarie, per annullare una parte della storia che ci appartiene, anche se il suo ricordo in alcuni casi causa dolore.

Il saggio orientale Buddha affermava che il dolore è veicolo di coscienza. E' il dolore che ci fa porre domande. Se mi pongo una domanda devo cercare una risposta, capire la causa di questo dolore e superarla.

Con la caduta dei regimi per esempio le statue che rappresentavano i dittatori vennero abbattute come a voler cancellare quel periodo storico. Non è cancellando che si fa storia, né recriminando, ma ricordando, migliorando, affermando ciò che di valido c’è stato, impegnandosi a non ripetere lo stesso errore.

Se il passato è la memoria dell’umanità, il futuro è il risultato dell’esperienza assimilata.  Quando condanniamo le guerre e i crimini del passato e continuiamo con le guerre e i crimini, cadiamo in contraddizione. Manca la coscienza storica, manca l’esperienza assimilata.

Nuova Acropoli si definisce una Scuola di Filosofia alla maniera classica che è differente da una scuola di filosofia classica.

Infatti ciò che Nuova Acropoli promuove e vive sono i valori del mondo classico e non il mondo classico. Per valori del mondo classico intendiamo quei valori che appartengono all’uomo di ogni tempo e luogo, come per esempio la dignità, la generosità, la tolleranza, l’eroicità intesa come capacità di non lasciarsi sopraffare dalle situazioni, ma di saper reagire con intelligenza e non con aggressività né con indifferenza.

Altro valore che incontriamo è l’azione, quella che mette in movimento la storia, attraverso un sano protagonismo.

Nuova Acropoli propone un volontariato operativo e culturale, con la finalità di essere utili dove necessita, ampliando la propria coscienza e non dando spazio alle lamentele e alle critiche. Propone un'azione costruttiva che insegni ad avere chiarezza del proprio essere volitivo e costruttivo, per essere migliore non a parole ma attraverso l’esempio del saper fare e del saper volere.

Questo è ciò che ci racconta la storia come memoria dell’umanità, ricordandoci che abbiamo il dovere morale di trasformarci in agenti della storia per un cammino di evoluzione individuale e sociale.

Un grande oratore romano di nome Cicerone diceva che tutti gli uomini, anche se differenti tra loro, hanno un destino comune: quello di evolversi e migliorarsi. Ecco perché la storia è Maestra di Vita, perché ci educa con il tesoro dell’esperienza. In noi sta la capacità di assimilarla per trasformarla in uno strumento valido.

Quando vengono riportati alla luce dei pezzi archeologici gioiamo, quindi, non solo per il fatto che sono dei pezzi di valore sicuramente molto belli, ma soprattutto perché sono di aiuto ai nostri studiosi per ricostruire la storia. Contribuiscono così a far luce su molti punti oscuri o male interpretati per mancanza di fonti, aggiungendo un tassello in più alla storia della nostra umanità dandole una unità ed una direzione, senza separazioni tra popoli, ma seguendo il suo ciclo che costantemente si rinnova e apporta rinnovamento e chiarezza su ciò che l’uomo deve costruire.

L’uomo che fa storia è un uomo generoso, si mette al servizio dei suoi simili, e ciò che lo differenzia dal vivere in maniera anonima è il fatto che ha la consapevolezza di partecipare alla comunità, e che il suo intervento può contribuire al miglioramento della società, per i giovani e le generazioni future. Infatti l’uomo che consapevolmente fa storia sviluppa una capacità di previsione per il futuro, non restringe la visione del futuro alla sua propria vita, ma considera anche quella di chi lo circonda. Questo per esempio è quanto mi sono sempre chiesta: perché le opere che costruirono 2000 anni fa ci sono ancora e grazie all’archeologia le abbiamo recuperate, e per le nostre si prevede che non dureranno più di 200 o 300 anni. Stiamo agendo con previsione del futuro?

Dobbiamo essere intelligenti, generosi, tolleranti, attivi per fare storia, per tracciare un sentiero di crescita di tutta l’umanità.

Da - http://www.nuovaacropoli-cultura.it/i-grandi-eventi/le-origini-roma-prima-giornata/la-storia-come-magistra-vitae-giulia-cardinale-direttrice-di-nuova-acropoli-roma/
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!