Umberto Minopoli @uminopoli ·
17 maggio 2018
La crisi dell’Ilva ci dice quanto sia arretrato l’M5S
Hanno irresponsabilmente deciso di agitare l’utopia velleitaria della fine della fabbrica, della produzione di massa e dell’avvento dell’economia soft, del turismo, delle produzioni leggere
Scampata l’insidia – l’impossibile e spericolato patto di governo Pd/5 Stelle – chiediamoci pacatamente: sarebbe, veramente riuscito il Pd nell’impresa, vagheggiata da alcuni, di correggere, riequilibrare, “costituzionalizzare” (come pomposamente si è detto) la natura e i propositi del movimento grillino? C’è da dubitarne.
Lo spettacolo di questi giorni ha dimostrato l’insostenibilità di questo generoso proposito. Non è bastata la sbianchettatura dei programmi elettorali, nei loro aspetti più cervellotici, per colmare il gap evidente tra il programma di governo di cui l’Italia avrebbe bisogno oggi- per consolidare la ripresa economica, irrobustirla e completare le riforme avviate dai governi del Pd- e l’allarmante agenda populista. Che realizza, purtroppo, le peggiori profezie: la paura dei mercati, la diffidenza dei nostri partners, il timore di un peggioramento di tutti gli indici, la compromissione dell’avviata ripresa dovuta all’azione dei governi del Pd.
Ma c’è un motivo più di fondo che rende poco plausibile, anzi pressoché inverosimile e velleitario, il proposito vagheggiato di una supposta funzione pedagogica e correttiva del Pd in un governo con i 5 Stelle: una parte della sinistra avrebbe contrastato questo sforzo. E avrebbe, ne sono sicuro, spalleggiato e supportato i 5 Stelle nella resistenza a non farsi cambiare e ad imporre la propria agenda. E’ allarmante dirlo. Ma il Pd farebbe bene a guardare in faccia ad un fenomeno che si va manifestando e che è parte dell’astruso dibattito, quasi una cristologia, sulla presunta natura di sinistra dei 5 Stelle.
C’è una parte di questa – politica, sindacale, di governo locale, di opinione – che, in qualche modo, si è già arresa ai paradigmi populisti, ne ha introiettato analisi, visioni, narrazioni della realtà. Ne ha sussunto i linguaggi, i codici di lettura politica, le agende. E’ qualcosa, a mio avviso, che può dividere ancora a sinistra. Ma, stavolta, in modo persino più grave della stessa sciagurata scissione del 2017. Perché tocca la prospettiva del Paese, del suo futuro economico e di potenza industriale. Stavolta è peggio. Non si tratta più, come nel caso della scissione, del vagheggiamento nostalgico e minoritario dei riti antichi, del perenne fantasticare, del consueto refrain, massimalista e conservatore, del “passato che non passa” della sinistra eterna. No. Oggi c’è qualcosa di più: un cambio culturale, una mutazione genetica, una permuta, una variazione di pelle.
C’è una posizione diffusa a sinistra che accredita l’equivoco populista, lo comprende e, in qualche caso lo sostiene. Questa posizione sopravvivrà alla sciagurata, e per fortuna abortita, ipotesi di un governo Pd/5 Stelle. E costituirà, temo, un problema – ma forse il problema – del confronto nel Pd sulla ripresa del partito.
E, speriamo di no, condizionerà la stessa condotta della nostra opposizione al governo dei populisti. Esagero? Prendiamo il caso dell’Ilva. E’ la metafora, il paradigma del cambiamento in atto in una parte della sinistra. E non solo di quella antica e nostalgica.
C’è, purtroppo, un mondo articolato – di sinistra politica, sindacale, di opinione, di ceto di governo locale – che, nella vicenda Ilva ha mostrato una sostanziale accettazione, ormai, dei valori, dei codici interpretativi, delle priorità programmatiche del populismo pentastellato. Uno su tutti: la detronizzazione del lavoro industriale, la deposizione della sua centralità, in nome di altre gerarchie (la salute, l’ambiente), la presunta incompatibilità tra industria e ambiente.
Sull’Ilva si è giocata una partita emblematica, espressione di due approcci, diversi e alternativi, al tema dell’industria, del lavoro e dell’ambiente. E in un’area del Mezzogiorno che vede crescere disoccupazione e desertificazione industriale. Da un lato, l’approccio riformista – la scommessa sul rilancio della fabbrica, il punto fermo della natura progressiva e migliorativa della presenza della grande industria, come motore di sviluppo e fattore propulsivo, la facilitazione concessa agli interventi di grandi gruppi privati che, nel caso di Ilva, garantiscono quantità e qualità degli investimenti, il risanamento ambientale dei processi produttivi attraverso le tecnologie, la tenuta dei livelli occupazionali e dei trattamenti retributivi – dall’altro un approccio di indifferenza, di fastidio e di sostanziale rigetto del rilancio industriale. Una parte di sindacato e di sinistra ha scelto di giocare un’altra partita. Che non è quella di scommettere sull’Ilva.
Il colosso siderurgico di Taranto (ma anche di Genova ed altre località) è oggi è un abisso di perdite (30 milioni al mese). Arretra progressivamente in termini competitivi. Eppure resta un settore promettente dell’export nazionale, un fattore significativo del Pil del Paese (quasi 4 miliardi nel 2013) in un comparto, quello metallurgico e siderurgico, pervasivo e pro-attivo per l’intera economia nazionale, in termini di prezzi e garanzie delle forniture. Ilva, inoltre, è il cuore di un subsistema occupazionale calcolato in 50.000 addetti collegati, in vari modi, al ciclo produttivo di Taranto. Salvare si può.
Le scelte dei due ultimi governi hanno garantito il contesto ottimale del rilancio dell’Ilva: la disponibilità di risorse per raggiungere gli standard ambientali e la gara competitiva per selezionare un grande gruppo privato in grado di realizzare gli investimenti necessari alla ricollocazione di Ilva sul mercato internazionale dell’acciaio. Quale contesto migliore, in una realtà pericolosamente compromessa, per esercitare un ruolo attivo del sindacato, della sinistra politica, dei governi locali? E, invece, una parte del sindacato, della sinistra politica e di governo locale, ha spregiudicatamente operato perché saltasse questa prospettiva. Prima agitando inesistenti, velleitarie e impossibili alternative- la nazionalizzazione dell’Ilva, la cervellotica conversione a gas (mentre si contesta il Tap) del ciclo di alimentazione del siderurgico- poi frapponendo ostacoli e resistenze alla chiusura delle trattative. Con quale alternativa? Domanda inevasa.
Per la prima volta un grande sindacato (con la lodevole eccezione della Fim Cisl) ha scelto di compromettere un disegno industriale, di salvataggio e rilancio, di un grande gruppo, di correre il rischio dell’abbandono degli investitori privati, di rinunciare a condizioni (occupazionali e di reddito) già acquisite, per un’altra prospettiva. Quale? Non è dato sapere ma si può intuire.
E’ la scommessa sull’avvento dei 5 Stelle alla guida del paese come una sorta – incredibile a dirsi – di governo amico: un esecutivo formato da un partito che considera il Mezzogiorno un’area di spreco da disciplinare e da un altro, i 5 Stelle, che considera la fabbrica siderurgica un mostro inquinante da chiudere. E che considera prioritario, nel Sud, la distribuzione di redditi da mantenimento a salari che paghino un lavoro. Una parte della sinistra e del sindacato hanno messo in conto tutto questo.
Hanno, irresponsabilmente, deciso di giocare l’alternativa all’industria (ma, vedrete il ragionamento si estenderà alle grandi opere, alle infrastrutture, ai grandi lavori), di agitare e titillare l’utopia velleitaria della fine della fabbrica, della produzione di massa e dell’avvento dell’economia soft, del turismo, delle produzioni leggere.
E’ il mito grillino della riconversione: dall’industria ai fasti (presunti) della decrescita felice. Sciocchezze. E tragiche. Si tratta di un progetto, al contrario, molto infelice. Un incubo per Taranto e il Mezzogiorno.
Senza quella grande fabbrica il motore di Taranto (e non solo di essa) si fermerà. Non ci sarà risanamento ambientale (se non trainato dagli investimenti migliorativi sui processi di Ilva). Non ci saranno risorse per reindustrializzare l’area. Che conoscerà una mortificante e prolungata agonia. Di certo il governo amico a 5 Stelle dovrà assicurare un reddito di cittadinanza, un sussidio a vita a decine di migliaia di “pensionati della storia” (Gramsci).
Non sarà poi questo il vero sogno nel cassetto, il vagheggiamento nascosto del sindacato e della sinistra della decrescita? Il sospetto è forte.
Da -
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