Con gli italiani nella terra di Al Shabaab. “La lotta sarà lunga, c’è bisogno di noi”
Tra check point, clan in guerra ed esuli dell’Isis fino a Yaaqshid, regno degli islamisti. Ma a Mogadiscio i giovani cercano il riscatto: calcio in spiaggia e selfie sulle terrazze
Al mercato di Mogadiscio è possibile contrattare per l’acquisto di squali pescati nell’oceano Indiano e si fa criminosa incetta delle carni di testuggini spesso ancora vive
Pubblicato il 21/04/2018 - Ultima modifica il 21/04/2018 alle ore 07:59
FRANCESCO SEMPRINI
MOGADISCIO
Il rumore metallico della sbarra segna il passaggio nel «wild west». La colonna di automezzi «Lince» procede a passo spedito facendosi strada tra gli sciami colorati dei tuc tuc Piaggio.
Dieci, cento, mille, una distesa infinita che congestiona le strade di asfalto deflagrato, fango e fogne a cielo aperto. Ieri notte è piovuto a Mogadiscio, per i somali è di buon auspicio. I «Lince» proseguono la marcia mentre gli uomini a bordo si tengono in contatto via radio. Sono gli Angeli Neri, il plotone di «Rangers» Alpini-Paracadutisti, l’unità di protezione che ci accompagna nel wild west. Così viene soprannominato tutto ciò che è al di fuori del Mogadiscio International Airport (Mia), un dedalo di basi, ambasciate e strutture di ogni genere. Una città nella città, la zona protetta nel cuore di tenebra dell’Africa orientale.
Paese dal cuore di tenebra
La Repubblica federale di Somalia è stata a lungo considerata lo Stato fallito, disintegrato da guerre e conflitti interni. Uno Stato non Stato, dove la logica dei clan prevale sul principio nazionale e istituzionale, causando avvicendamenti compulsivi di leadership. Il presidente Mohamed Abdullahi Farmajo, un passato come conducente di autobus durante gli studi in Usa, ha di recente azzerato lo Stato maggiore con le dimissioni di 19 generali. Mentre lo speaker della Camera alta, Muhammad Cusmaan Jawaari, ha dovuto lasciare sulle pressioni del primo ministro Hassan Khayra, nell’ambito di dispute «claniche» e di spartizioni di risorse. Denaro, appunto, di cui la Somalia viene inondata per cooptare chi conta, come i 9,6 milioni di dollari intercettati in una valigetta diplomatica proveniente da Abu Dabi. «Le vicende somale sono anche riflesso della crisi del Golfo», spiega l’ambasciatore Luciano Pezzotti, inviato speciale della Farnesina per il Corno d’Africa. Da una parte ci sono sauditi (primi partner commerciali) ed Emirati, pronti a fare incetta di porti per evitare la concorrenza a Dubai, dall’altra i qatarini allineati con Ankara, l’attore più audace. Parla da sola l’ambasciata turca sul porto, adiacente al minareto di ottomana memoria. Se si aggiunge la penetrazione commerciale della Cina e le insidie di Mosca, che tratta il riconoscimento dell’indipendenza del Somaliland in cambio di una base militare, si capisce come le soluzioni proposte dall’Europa abbiano forza limitata. Oltre ai vuoti interni che mettono il Paese alla mercé di trafficanti e terroristi. Al Shabaab, appunto, eredi delle Corti islamiche che parlano il linguaggio delle bombe e della mafia: raccolgono tasse, amministrano la giustizia, assicurano protezione. C’è poi l’Isis della «jihaspora», quasi trecento miliziani arroccati tra le montagne di Possasso, nel Puntland.
Nel regno di Al Shabaab
«Attenzione, camion sospetto», pericolo Shabaab. L’allarme arriva dal pick-up dove quattro guardie armate di Kalashnikov scortano la jeep civile su cui siamo a bordo. Il timore di autobomba è elevatissimo in questo tratto di strada vicino al ministero degli Esteri, dove il 14 ottobre 2017 un kamikaze si è fatto esplodere polverizzando sei palazzine e causando oltre 500 morti, il più sanguinoso attacco della storia della Somalia. Sulle tracce del terrore arriviamo in prossimità del Check point pasta, oggi Pasta Factory, teatro di battaglia per i militari italiani in quel fatidico 2 luglio 1993. Si trova in una delle zone ad alta intensità Shabaab, i militari italiani qui non c’entrano, vi arriviamo protetti dai «contractor» di Peace Security. Con loro ripercorriamo la storia, quella delle tante proprietà terriere italiane sparse per il Paese, riconosciute dal governo somalo ma non utilizzabili. E quella di Mogadiscio, la «Torino africana», ispirata alla planimetria urbanistica del capoluogo piemontese. Nei distretti di Waaberi e Hamar Weyne tutto parla tricolore, dall’arco di Umberto di Savoia al Milite ignoto, una rassegna dell’architettura coloniale di cui gli inglesi e le guerre hanno fatto scempio. Al mercato, sul pavimento fetido, si contrattano squali e si fa criminosa incetta delle carni di testuggini ancora vive. La cattedrale ridotta a scheletro ha crocifisso e affreschi ancora vivi, piantonati dalle colonne. «I jihadisti hanno provato a farle saltare in aria, inutilmente», spiega Shakur, esperto della sicurezza. Con lui arriviamo alle porte di Yaaqshid, il regno degli Shabaab animato da colonne di fumo e sentinelle velate, segnali di morte: «Oltre non si va». Ci lasciamo alle spalle il cuore di tenebra per cercare un po’ di luce nella Mogadiscio del riscatto. Quella dei ragazzi che giocano a calcio sulla spiaggia del Lido, dove il cappuccino si paga via cellulare con Hormoud, compagnia telefonica che ha il controllo di tante attività nella capitale. Quella dei selfie sulla terrazza dell’Hotel Dolphin che rimbalzano su WhatsApp o Instagram, in uno strano connubio tra tradizione e progresso raccontato dai vistosi make up incastonati nel velo delle giovani somale, che sotto il dirac indossano tacchi vertiginosi.
La sfida dell’Europa
All’International Village, all’interno del Mia, si celebra l’ottavo compleanno della missione militare europea in Somalia denominata Eutm-S, che ha l’obiettivo di fornire non solo capacità, ma un sistema di addestramento che diventi il modello di riferimento per il futuro. Ci sono gli Alpini che garantiscono la sicurezza degli addestratori e le attività di consulenza e supporto ai vertici delle forze armate e alla Difesa per armonizzare e coordinare gli sforzi. Occorre costruire uno staff, una struttura, cosa che manca in Somalia, dove vige il principio clanico «uno comanda tutti». «Le istituzioni locali si stanno tirando su dopo 25 anni di anarchia», spiega il generale Pietro Addis, comandante della missione. Ufficiale incursore, con un passato somalo nel 1994, Addis spiega come il Paese abbia oggi tanti giovani che non hanno riferimenti del passato, di uno Stato funzionante. E che i fallimenti locali generano flussi di migranti anche verso il Mediterraneo. Ecco l’importanza di assistere ed essere presenti per l’Italia, nazione leader di Eutm-S, che svolge una missione diversa da quella prettamente anti-terrorismo degli americani, tale da renderla più vicina ai somali. «Da parte loro c’è grande disponibilità e grande richiesta di italianità, perché ricordano tutti con ammirazione i periodi trascorsi con l’Italia, perché sono fieri di parlare italiano e di avere rapporti con il nostro Paese - chiosa il generale -. C’è una grande richiesta di maggior coinvolgimento italiano e di maggiore attivismo». «Le cose vanno meglio grazie al contributo europeo - conferma il colonnello somalo Mohamed Hassan Buney -. Ma per favore rimanete qui, abbiamo bisogno del vostro supporto, la lotta agli al-Shabaab durerà ancora a lungo».
Italiani in prima linea
Monica parla italiano, è la responsabile del distretto di Shibis, con i militari dialoga costantemente su progetti congiunti. Come il «Mother and child health center», dove gli italiani hanno restaurato la struttura e donato materiale sanitario, perché è anche questo lo sforzo del Paese in Somalia. Uno sforzo che porta il nome Cimic, la Cellula di Cooperazione Civile e Militare del National Support Element IT guidato a Mogadiscio dal tenente colonnello Pino Rossi: «Si tratta di sostegno alle autorità locali, tramite interventi sul terreno con progetti specifici su sicurezza, sanità, istruzione e supporto umanitario». Come la ricostruzione della stazione di Polizia di Boondheere e del piccolo ambulatorio pediatrico adiacente. O il MCH, appunto, che ha da poco inaugurato un consultorio per aiutare le vittime di abusi domestici. Al nosocomio Forlanini, struttura del Ventennio, i militari italiani hanno dato supporto alla cura di malattie mentali e a piccoli interventi strutturali, come un pozzo in corso d’opera. La responsabile è Fadumo, cittadina americana figlia della diaspora che l’ha portata a Boston, dove ha lasciato i quattro figli per tornare ad aiutare il suo Paese. Anche lei parla italiano: «Alcuni ospiti sono affetti da patologie con alto livello di aggressività». Sono giovanissimi, come Ahmed: indossa la maglia della Juventus, piange, ride, ci fa il segno di vittoria. «Le uniformi italiane sono la speranza di questi ragazzi, il buon auspicio di questo Paese dimenticato - ci ripete Fadumo - lo dica». I Lince si rimettono in marcia, il rumore della sbarra accompagna il passaggio delle nuvole al tramonto. Questa notte a Mogadiscio è tornata la pioggia.
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