Confcultura lascia Confindustria per Confimi e volano lettere al vetriolo.
Al centro, lo scontro di potere con Luigi Abete
Giuseppe Oddo
Stavolta è un’associazione ad avere rotto i ponti con Confindustria, non una singola azienda. Una piccola associazione di imprese, Confcultura, costituita nel 2001 dopo che con la legge Ronchey sono stati aperti ai privati i servizi “aggiuntivi” per i musei: ristorazione, caffetteria, vendita di biglietti, visite guidate, librerie, audioguide, mostre. Ma l’addio di Confcultura a Viale dell’Astronomia ed il suo recente approdo a Confimi (di cui fanno parte 28mila piccole e medie aziende per lo più fuoriuscite da Confindustria) non dà conto soltanto dell’emorragia di iscritti che colpisce l’organizzazione presieduta da Vincenzo Boccia. Dietro le quinte di questa storia si è consumato uno scontro la cui posta in palio è un mercato da 200 milioni l’anno. E parliamo soltanto dei servizi museali.
Confcultura – cui aderiscono società come Artem, Best Union, D’Uva Workshop, Enjoy Museum, Giunti, Mondo Mostre, Ticketone, che hanno in gestione musei, siti archeologici e luoghi della cultura – è stata presa di mira nel vano tentativo di estrometterne dalla presidenza Patrizia Asproni per rimpiazzarla con qualcuno di stretta obbedienza confindustriale.
La Asproni ha un curriculum di tutto rispetto. Dopo avere presieduto la Fondazione Torino Musei è stata nominata presidente del Museo Marino Marini di Firenze e nello stesso tempo dirige la divisione beni culturali della Giunti, cui fa capo la gestione dei musei fiorentini, tranne Palazzo Vecchio, per un totale di 8 milioni di visitatori l’anno. Proprio il gruppo Giunti figura con Mondadori tra i soci fondatori di Confcultura, la cui giunta esecutiva (segretario generale Filippo Cavazzoni dell’Istituto Bruno Leoni) ha deliberato prima l’ingresso in Confindustria, nel 2006, e poi l’adesione a Csit (la federazione confindustriale delle imprese per i servizi innovativi e tecnologici). Dalla collaborazione tra Confindustria e Confcultura è nato tra l’altro il libro bianco dei beni culturali, da cui appare evidente come un oligopolio di concessionari tiene in pugno la gestione dei musei su scala nazionale.
Spiega la Asproni a Business Insider: “Confcultura è divenuta interlocutore delle istituzioni: dal ministero dei Beni culturali a quello dell’Università e delle Ricerca; dalle commissioni Cultura di Camera e Senato all’Unione europea”.
Forse questa intraprendenza è risultata indigesta a chi puntava a dettare la linea nei rapporti con il governo e la pubblica amministrazione: per esempio, all’ex presidente di Confindustria Luigi Abete, imprenditore tra i più in vista del settore, da sempre in competizione con Confcultura.
Sono passati anni prima che la famiglia Abete aderisse a Confcultura e ne occupasse due posti in giunta attraverso Gebart, l’azienda presieduta da Giancarlo Abete (l’ex numero uno di Federcalcio, fratello di Luigi), che ha in gestione prestigiosi musei romani come Galleria Borghese. Abete avrebbe voluto contare di più nei rapporti tra Confcultura e il settore pubblico, forse aspirava a presiedere l’associazione, ma gli è andata buca. Ed è uno smacco per chi occupa un posto in prima fila nel sistema di potere romano ed è in sella da quattro lustri alla presidenza di Bnl (la banca di Bnp Paribas che ha finanziato l’Istituto Luce, cioè lo Stato, perché rilevasse, da una società in crisi di cui Abete è socio e amministratore, gli studi di Cinecittà).
La sfera d’influenza del cavaliere del lavoro Abete nell’industria culturale capitolina non si limita a Gebart. Egli è amministratore delegato e azionista di peso di Italian Entertainment Network insieme al Fondo Italiano d’Investimento (Cassa Depositi e Prestiti) e all’imprenditore Diego Della Valle: gruppo che spazia dalla produzione audiovisiva all’entertainment culturale, dalla gestione di eventi internazionali alla valorizzazione commerciale di marchi. Ed è al tempo stesso presidente e azionista di Civita Cultura Holding, che fa capo a Ien ed è attiva, anche tramite partecipate come Opera Laboratori Fiorentini, nella gestione di musei e siti archeologici e nell’organizzazione di mostre ed eventi.
Il consiglio d’amministrazione di Civita Cultura Holding è un tipico esempio di capitalismo all’italiana, dove più che il capitale contano le appartenenze e le relazioni. Vi siedono, fra gli altri: tre rappresentanti della famiglia Abete (Luigi, suo figlio Antonio e il solito Giancarlo), l’amministratore delegato di Vision Distribution Nicola Maccanico (figlio dell’ex ministro Antonio Maccanico) e Albino Ruberti (figlio dell’ex ministro Antonio Ruberti), che di Civita è amministratore delegato. Organizzatore di grandi eventi romani, Ruberti è il nuovo capo di gabinetto del presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti – ruolo leggermente in conflitto con quello in Civita – e percepisce per i suoi vari incarichi 441mila euro di compensi lordi.
Luigi Abete partecipa inoltre al comitato di presidenza di Associazione Civita, che sta in cima a questo intricato organigramma di società e di persone. E’ l’intramontabile Gianni Letta a presiedere l’ente non profit per la promozione della cultura fondato dal banchiere Gianfranco Imperatori. E accanto ad Abete ritroviamo nel comitato di presidenza dell’Associazione i soliti Ruberti e Maccanico (nell’ordine segretario generale e vicepresidente vicario) e un lungo elenco di manager e imprenditori: da Emmanuele Emanuele a Fabio Gallia, da Bernabò Bocca a Ugo Brachetti Peretti, da Gabriele Galateri a Fabio Cerchiai, da Catia Tomasetti a Patrizia Grieco, da Ivan Lo Bello a Pietro Guindani, da Mauro Moretti a Giampaolo Letta (altro figlio d’arte, amministratore delegato di Medusa Film), fino a Gianni Puglisi, rettore dell’università di Enna ed esponente dichiarato del Grande Oriente d’Italia.
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Lo scontro con Confindustria arriva al culmine sul finire del 2016, alla vigilia dell’assemblea di Confcultura del 22 dicembre che ha all’ordine del giorno il rinnovo della giunta; lo documenta uno scambio epistolare pervenuto a Business Insider.
La sera prima dell’assemblea la Asproni apprende per iscritto dal direttore dell’area sistema associativo di Confindustria, Federico Landi, di non avere più i requisiti per essere rieletta. La tesi di Landi è che, pur aderendo in modo indiretto a Confindustria (tramite Csit), Confcultura debba sottomettersi alle regole della casa madre che impongono la rotazione delle cariche sociali. Landi riunisce il collegio speciale dei probiviri confederali con i quali decide che la giunta uscente di Confcultura dovrà espungere dall’ordine del giorno il punto sul rinnovo delle cariche, presentando una mozione che impegni l’assemblea ad adeguare lo statuto di Confcultura “ai nuovi principi organizzativi di Confindustria”. Landi pretende l’insediamento di una “Commissione di designazione” per “l’individuazione di uno o più candidati alla carica di presidente di Confcultura”. In caso contrario “si renderà indispensabile una risposta organizzativa a livello confederale coerente con la puntuale osservanza delle regole inderogabili del sistema”.
Morale: la Asproni deve togliersi di mezzo, anche se risulta gradita ai propri associati che da lì a qualche mese la rieleggeranno puntualmente. Un aut aut che provocherà la rottura.
Nella missiva con cui comunica a Boccia l’uscita dal sistema confindustriale, la Asproni dichiara fallito “l’obiettivo di costruire un solido legame tra cultura e mondo dell’impresa nel segno di una forte innovazione e liberalizzazione”. E accusa Viale dell’Astronomia di avere escluso l’associazione “da scelte e decisioni che hanno poi avuto importanti ricadute sul nostro settore” e che hanno provocato “pesanti ingerenze da parte di rappresentanti di Confindustria nella governance e nell’organizzazione”. L’allusione alla lettera di Landi non potrebbe essere più scoperta: “Non vi è bisogno di molte parole per evidenziare la inconciliabilità di simili toni … con il rispetto dovuto all’autonomia di un’associazione aderente a Confindustria – ma che non costituisce un socio diretto – peraltro su un adeguamento statutario che sappiamo bene molte delle federazioni e associazioni non hanno ancora applicato”.
Fine della storia? Neanche per sogno. Dopo l’irrimediabile strappo Landi scrive ai dirigenti dei Beni culturali per avvertirli che l’associazione “non è più abilitata ad esprimere posizioni ed azioni di rappresentanza che possano essere ricondotte … ad orientamenti e volontà dell’organizzazione confederale”. E conclude: “Vi preghiamo, perciò, di tener conto di questa importante novità che incide, in maniera significativa, sulla legittimazione rappresentativa di Confcultura, anche in considerazione delle criticità associative interne dopo la decisione di abbandonare il perimetro confederale”.
Come dire che, fuori da Confindustria, Confcultura non sarebbe legittimata a rappresentare i propri iscritti.
Dichiara la Asproni a Business Insider: “Hanno schierato i cannoni per sparare a una mosca considerato che il nostro bilancio annuo è di appena 50mila euro. Hanno scavalcato quella che era la nostra federazione di riferimento, la Csit, mettendo il suo presidente dinanzi al fatto compiuto. Evidentemente facevamo ombra a qualcuno. E’ la riprova che in Confindustria le piccole e medie imprese creative non hanno patria”.
Ora Landi organizza riunioni con le imprese di Confcultura per cercare di recuperare terreno e fondare un’associazione concorrente. Solo che ormai i buoi sono fuggiti dalla stalla, riacchiapparli non sarà semplice. Anche perché le federazioni di categoria di Confindustria tendono a bilanciare le minori entrate derivanti dal calo di iscritti con l’aumento di prezzo delle quote associative, così favorendo l’esodo di nuove aziende dal sistema confederativo.
Da -
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