14APR2018
La solitudine d'Israele
Alberto STABILE
BEIRUT – L'attacco contro la Siria? “Molto rumore per nulla”, ironizza Haaretz, il giornale dei liberal israeliani, deluso tanto quanto i likudnik conservatori dalla scelta di Trump di adottare la linea prudente del Segretario alla Difesa, Mattis, accantonando, almeno in questa occasione, i temerari suggerimenti del nuovo Consigliere per la Sicurezza Nazionale, il superfalco John Bolton, instancabile sostenitore dell'invasione americana dell'Iraq anche dopo i disastri che ne sono scaturiti, nonché fautore, per la Siria, di un bombardamento massiccio in grado di cambiare l'equilibrio delle forze in campo, favorevole al regime di Assad. E per soprammercato lo stesso Haartez da spazio alle voci provenienti da una Capitol Hill sempre più nel caos secondo cui gli scontenti nell' entourage neocon del presidente, “tra cui molti amici d'Israele”, avrebbero già sussurrato all'orecchio di Trump di spingere Mattis verso l'uscita, per manifesta inadeguatezza, come avrebbero fatto appena qualche settimana fa con l'ex Segretario di Stato, Rex Tillerson licenziato dal boss con un tweet mattutino.
Questa delusione si spiega col fatto che Israele si aspettava molto di più da Trump, considerato il più vicino agli interessi israeliani “di tutti i precedenti presidenti americani” ( un titolo, per la verità, che i governanti israeliani avevano già assegnato pr4ima a Clinton e poi a George Bush), nel senso che l'incidente del presunto bombardamento chimico contro la Duma, agli occhi di Netanyahu, avrebbe potuto fornire a Trump il pretesto per un'azione punitiva ben più severa nei confronti del Rais di Damasco in grado di metterne in discussione la leadership e di (almeno) ostacolare se non arrestare il corso degli eventi in Siria. Eventi che, con la sconfitta dei ribelli, segnano il consolidamento del ruolo di Assad e dell'alleanza militare tra Russia, Iran e milizie sciite mobilitate da Teheran cui il rais di Damasco deve la sua sopravvivenza al potere. Ora, è la presenza in Siria dell'Iran, attraverso i Guardiani della Rivoluzione, e di Hezbollah, la milizia sciita libanese creata negli anni 80 da Teheran, contro cui l'esercito israeliano è impegnato in un duello trentennale alla frontiera con il Libano, che Israele considera una minaccia inaccettabile.
Scuserà il lettore se dovrò ancora affidarmi a fonti giornalistiche, ma in Israele il giornalismo è lo specchio fedele del paese. Nei giorni scorsi, leggendo i giornali israeliani, era difficile sfuggire alla sensazione che fra Trump e la dirigenza israeliana s'era prodotta una divaricazione profonda dopo l'annuncio del presidente americano di voler ritirare tutti i soldati americani dal teatro bellico siriano. Gli Stati Uniti hanno soltanto duemila marines nel Nord-Est della Siria a sostegno dell'autonomia di fatto della regione curda, Rojava. Ma sono in grado di mobilitare importanti forze aere, di stanza in Qatar e Arabia Saudita.
Netanyahu ha cercato di convincere Trump delle gravi implicazioni che poteva avere la scelta di abbandonare la Siria, in pratica regalando alla Russia ( ai suoi alleati) il monopolio nei cieli e sul terreno. Ma Trump è rimasto sulle sue convinzioni. E anche nel breve discorso agli americani, a proposito della “mission accomplished”, ha ribadito che il “destino della regione (Mediorientale) riposa nelle mani della sua gente”.
Poi, nella notte sul 7 Aprile, c'è stato il presunto attacco chimico contro Duma (a proposito, che senso ha far scattare la rappresaglia missilistica contro Assad quando gli ispettori dell'Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche stanno giungendo a Damasco per svolgere la loro indagine a Duma?). E a quel punto gli strateghi israeliani hanno deciso che era giunto il momento di bombardare per la seconda (la prima volta era successo il 10 Febbraio) la Base aerea siriana di Tyias detta anche T4, a sud di Palmira, dove, dicono i commentatori militari israeliani, l'Iran stava ricostituendo la sua squadriglia di droni, vale a dire gli aerei senza pilota come quello entrato, il 10 febbraio, appunto, in territorio israeliano e immediatamente intercettato e abbattuto. Nel bombardamento di Tyias muoiono sette pasdaran iraniani, tra cui a quanto pare il comandante della missione e la stessa guida spirituale, Alì Khamenei, minaccia la ritorsione: “Questo crimine non resterà impunito”. Soltanto allora Israele scioglie il giallo che durava dal 10 febbraio sulla missione del drone iraniano abbattuto: il drone, dice il portavoce militare, secondo le analisi eseguite e la nostra intelligence, era pieno di esplosivo e si stava dirigendo contro una struttura militare.
E qui entrano in campo i giornali. Tutti concordi ad incitare gli Stati Uniti all'azione e a sottolineare l'assoluta determinazione d'Israele a condurre la sua battaglia contro quella che viene definita la minaccia iraniana. “Sappiamo di esser soli in questa lotta – scrive una dei commentatori più autorevoli, Ben Caspit – ma non abbiamo altra scelta che andare avanti”. E ancora: “Israele ha superato la soglia della paura e accetta di trovarsi in rotta di collisione contro l'Iran e Assad (nella migliore delle ipotesi), o contro l'Iran, Assad, Hezbollah e la Russia (nella peggiore). E se questo implicherà una deflagrazione maggior, “così sia”. Nonostante una telefonata di Putin a Netanyahu, i rapporti con Mosca, un tempo considerati un asset di tutto riguardo della diplomazia israeliana sono in caduta libera. L'attacco aereo alla base T4 viene fermamente condannato.
Se questi erano gli umori e le attese della viglia, il bombardamento una tantum ordinato da Trump contro le infrastrutture militari di Assad non può che aver deluso l'opinione israeliana. Il discorso televisivo, venerdì sera, del leader Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha aggiunto ulteriore motivo di sconforto. Nasrallah ha definito la decisione di bombardare la base T4 una “grande sciocchezza” e un “errore storico” che mette Israele “a diretto confronto” con l'Iran. Parole interpretate anch'esse come una minaccia.
Domanda: come può Israele uscire da questa condizione di pericoloso isolamento? A rendere ancora più complessa la risposta è il fatto, che in Israele non c'è più una forza politica rilevante, come un tempo era il Partito Laburista, disposto ad investire su una soluzione diplomatica del conflitto. Pochi si rendono conto che l'abbandono del processo di pace, inevitabile conseguenze dell'ascesa dell'estrema destra nazionalista e religiosa al potere, non ha implicato soltanto lo svilimento della questione palestinese, ormai ridotta nella coscienza pubblica israeliana a livello di una mera questione di ordine pubblico, o di polizia, ma ha comportato anche l'abbandono di una filosofia politica basata sulla ricerca del compromesso considerata ormai fallimentare. E non basta vantarsi delle convergenze segrete raggiunte con l'erede al trono saudita, Mohammed Bin Salman, perché queste intese con MBS passano comunque attraverso la comune ostilità verso l'Iran, mentre forse bisognerebbe pensare a come rompere il circolo vizioso della guerra.
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