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Autore Discussione: Michele SALVATI -  (Letto 37586 volte)
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« inserito:: Dicembre 01, 2007, 11:17:36 pm »

 PARTITI E LA CONCERTAZIONE

Scontentare è governare


di Michele Salvati


Con il voto di fiducia sul disegno di legge che recepisce il protocollo firmato a luglio da governo e parti sociali, mercoledì scorso si è chiuso alla Camera un importante round di concertazione all’italiana. Un round che, con alterne vicende, ha occupato gran parte dell’anno. Al Senato i margini della maggioranza sono assai più stretti e la sorte del provvedimento è del tutto incerta, a seguito di defezioni individuali imprevedibili. I partiti dell’estrema sinistra hanno combattuto per mesi per ottenere significative modifiche del protocollo nelle direzioni da loro preferite. Alla fine, però, hanno accettato la mediazione- diktat del presidente del Consiglio, che sostanzialmente ribadiva il testo originale, ed è molto improbabile che ricominci il tiramolla in Senato. Ora minacciano che, passata la Finanziaria, potrebbero sfilarsi dalla maggioranza. Appunto, «passata la Finanziaria », il che assomiglia un poco alle minacce di quei bambini i quali, avendo avuto la peggio in una baruffa in classe, si rivolgono a chi li ha picchiati frignando: «Ci vediamo fuori».

Si avvia dunque a passare una manovra complessa, che implica una maggior spesa di circa 2 miliardi per il 2008 e contiene importanti modifiche nei regimi pensionistici e nella legislazione del lavoro. Il giudizio mio (e dimolti economisti) è che il governo si sia comportato in modo abile: con questa maggioranza, le cose potevano andar peggio. Ma potevano andar meglio, se non ci si rassegna al realismo politico. Meglio come? È sufficiente rileggere i numerosi editoriali e commenti che questo giornale ha pubblicato per rendersi conto delle critiche e delle proposte, motivate non solo in termini di rigore e sviluppo (come ci si potrebbe attendere da un giornale «borghese ») ma anche, e forse soprattutto, in termini di equità, di miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle persone meno difese, dei giovani, delle donne. Invece di ripetere cose già dette, oggi, in una situazione di forte turbolenza e innovazione politica, è forse più opportuno rivolgere alcune semplici richieste ai grandi partiti che domineranno la politica futura di questo Paese.

Per bocca del suo segretario, il Pd ha espresso posizioni in larga misura condivisibili. La domanda è: come pensa di poterle attuare in un governo di coalizione di cui sia parte importante la sinistra più estrema? Ancora. Quali rapporti il Pd cercherà di instaurare col sindacato? Cercherà ancora una «concertazione » così vincolante come quella che si è attuata in questa prima fase del governo Prodi? Ancor più semplice è la domanda al futuro Partito del popolo delle libertà. Finora il centrodestra si è avvalso del privilegio dell’opposizione, di criticare senza proporre. Ma la memoria fresca della sua prova di governo, in cui di iniziative liberalizzatrici se ne sono viste poche e la spesa pubblica è aumentata di 2 punti percentuali sul Pil—e questo nonostante un’ampia maggioranza e un governo di legislatura — non gli consente di godere a lungo di questo privilegio. Fare proposte, e soprattutto attuarle — insomma, governare — vuol dire scegliere e scontentare qualcuno. Può Berlusconi tollerare questa idea?

01 dicembre 2007

da corriere.it
« Ultima modifica: Marzo 22, 2008, 09:39:58 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 22, 2007, 11:36:29 pm »

L’ITALIA E LA POLITICA

L’illusione del dittatore

di Michele Salvati


Di fronte a problemi la cui soluzione richiede tempi lunghi, fermezza di indirizzo, provvedimenti impopolari—tutte cose difficilmente compatibili con una democrazia come la nostra—ogni tanto gli scienziati sociali fanno l’ipotesi del benevolent dictator, del dittatore illuminato. Un personaggio mitico che consentirebbe loro di mettere in atto e tener ferme le misure che quei problemi risolverebbero. Abbiamo buoni motivi per dubitare della benevolenza del dittatore e fors’anche della saggezza degli scienziati sociali. Ma ci sono pochi dubbi che esistano problemi difficilmente trattabili in democrazia e che proprio da questi, purtroppo, dipenda il declino del nostro Paese e la sfiducia che lo pervade.

Giorgio Napolitano fa solo il suo dovere di Presidente quando si riferisce alla vitalità del popolo italiano, in risposta alla tristezza evocata dal New York Times. E Giuseppe De Rita fa solo il suo mestiere di ottimista quando, di fronte alla «poltiglia » sociale che non può non riconoscere, accentua il ruolo delle «minoranze attive». Minoranze, appunto, perché i dati d’insieme sono impietosi. Lo sono quelli economici, che da molti anni denunciano la più bassa crescita in Europa del reddito e soprattutto della produttività: il sorpasso spagnolo ne è stata una prevedibile conseguenza. E lo sono quelli sui principali funzionamenti istituzionali, con l’eccezione forse della sanità: si può dubitare delle «classifiche» sintetiche elaborate da diverse organizzazioni internazionali, non del fatto che tutte ci collochino molto al di sotto dei Paesi civili con i quali amiamo confrontarci.

L’euro era inevitabile e la globalizzazione è una realtà. Ma questo ha cambiato radicalmente il contesto di politica economica al quale il nostro Paese si era assuefatto negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso. Tra i Paesi ricchi, e noi lo siamo ancora, oggi crescono vigorosamente solo quelli che tengono i conti in ordine; e soprattutto quelli che sono in grado di sfruttare al massimo le risorse intellettuali, tecnologiche, organizzative e culturali di cui sono potenzialmente dotati. Negli anni delle svalutazioni facili e della vitalità selvaggia della piccola impresa — è probabilmente a questa che si riferiva il nostro Presidente citando il Keynes degli animal spirits—non soltanto avevamo sfasciato i conti pubblici, ma non avevamo neppure fatto una buona manutenzione delle risorse cui prima mi riferivo.

Con grande fatica, e tirandoci appresso un enorme debito pubblico, a metà degli anni Novanta siamo riusciti a rimettere i conti in un ordine precario. In confronto agli altri Paesi, tuttavia, le nostre infrastrutture si sono deteriorate, la nostra scuola si è degradata, l’università e la ricerca non tengono il passo, la giustizia civile ha tempi incompatibili con un’economia avanzata, la pubblica amministrazione nel suo insieme è inefficiente. E in un’area troppo vasta del Paese ancora non si sono create condizioni economiche, sociali, istituzionali, e soprattutto legali, idonee a garantire uno sviluppo capitalistico autonomo e vigoroso. Insomma, sempre le solite due vecchie tare, pubblica amministrazione e Mezzogiorno.

Le loro conseguenze sono però oggi più gravi che in passato: nelle più aspre condizioni competitive che la globalizzazione ha provocato abbiamo bisogno di tutte le risorse, al Nord e al Sud, e di un uso più efficiente delle stesse. Sulle misure da adottare, se vogliamo tornare a crescere, l’area di accordo è potenzialmente molto ampia: settore per settore occorrono certo misure diverse, ma tutte ispirate a imperativi di legalità, efficienza, concorrenza, merito. Si tratta di un’impresa impopolare e di lunga lena, volta a ripulire il paese da sacche di rendita grandi e piccole, da corporazioni che proteggono interessi particolari, da culture e mentalità che rafforzano lo status quo. Impopolare e di lunga lena: due caratteri che rendono l’impresa difficile in ogni democrazia, perché i voti arrivano se si assecondano gli interessi e le mentalità prevalenti.

E ancor più difficile nella nostra: la democrazia «proporzionale» della prima repubblica ha posto le premesse del declino; la democrazia «maggioritaria» della seconda ha creato coalizioni di governo incoerenti e incapaci di porvi rimedio. Il dittatore illuminato è una figura mitica, una finzione. Ai tanti ingeneri istituzionali che si affannano al capezzale della seconda repubblica l’arduo compito di inventare un equivalente democratico del benevolent dictator, che renda possibile la formazione di governi autorevoli, capaci di affrontare misure impopolari e di sostenerle nel lungo periodo. Capaci soprattutto di riconoscere che occorre un progetto di rinascita del Paese condiviso nei suoi tratti essenziali da gran parte delle élites politiche e che gli slogan populistici e delegittimanti con i quali si raccattano voti («comunista», «berlusconiano») non fanno che ostacolarlo.

22 dicembre 2007

da corriere.it
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 06, 2008, 03:00:19 pm »

L'analisi

Il vincitore non farà sconti

di Michele Salvati


Marini ha gettato la spugna e si andrà ad elezioni in aprile con la legge elettorale in vigore. Non è una buona notizia.
La legge con la quale si voterà tende a creare due schieramenti incoerenti e l'un contro l'altro armati, che non hanno alcun interesse a rappresentare in modo serio la difficile realtà in cui viviamo e poi, una volta ottenuta una vittoria elettorale, nessuna possibilità di attuare le misure che da quell'analisi conseguono. Perché dovremmo credere che, chiunque vincerà, sarà questa volta in grado di governare meglio che nelle passate legislature? Per chi votare? Ma, soprattutto, perché votare con questa legge?

Il centrodestra non nega che i problemi del Paese siano gravi e che uno stile di governo meno partigiano e più consensuale sarebbe utile. Né nega che riforme elettorali e costituzionali siano necessarie e debbano essere approvate da un'ampia maggioranza. Ma afferma che il nuovo stile potrebbe affermarsi dopo le elezioni, dopo che questo governo è stato spazzato via dal voto popolare. Si fa fatica a crederci. Sia perché non c'era bisogno di nuove elezioni per avere un governo diverso da quello di Prodi. Sia e soprattutto perché è probabile che nuove elezioni — con gli scontri frontali alimentati dal sistema elettorale — spengano sul nascere quegli accenni a una logica consensuale di cui siamo stati testimoni nelle scorse settimane e che Berlusconi sta rafforzando in questi giorni.

Se il Partito democratico sarà sconfitto dalla coalizione degli avversari, Veltroni farà molta fatica a sostenere un progetto come quello che Mario Monti auspicava sul Corriere del 3 febbraio: inevitabilmente esso sarebbe visto come il cedimento al «nemico», che prima ha imposto la sua volontà e poi graziosamente concede un dialogo secondo le proprie convenienze. Non ho dubbi che Veltroni sia convinto della necessità per il Paese di una strategia consensuale vicina, nel merito, a quella di Monti. Dubito però che, alla guida di un partito appena nato e di cui non ha il pieno controllo, in cui molti vivono ancora nel clima di demonizzazione del recente passato, riuscirà ad imporre queste sue convinzioni. E saremmo alle solite.

Un governo di stile bipartisan, con obiettivi importanti ma limitati, con una scadenza ragionevolmente breve, lo si poteva fare sotto il «velo d'ignoranza» che precede le elezioni. Sarà difficile farlo come concessione che il vincitore (se così sarà) fa allo sconfitto. Inoltre, con una legge elettorale che non rendesse convenienti coalizioni forzate, il nuovo stile auspicato da Berlusconi sarebbe stato assai più facile da attuare anche dopo le elezioni. Ma questa occasione l'abbiamo persa.

E poi, quale stile bipartisan? Una cosa èla Grosse Koalition dei tedeschi, tra due partiti normalmente bene assestati in una logica bipolare, ma di cui nessuno era in grado di governare, da solo o con alleati congeniali, dopo le ultime elezioni: è concepibile che Forza Italia e Partito democratico formino un governo di coalizione, in condizioni quasi paritetiche, abbandonando i loro tradizionali alleati? Una cosa assai diversa è lo stile Sarkozy, in un caso in cui dalle elezioni era emerso un vincitore evidente, di centrodestra. Un vincitore che ha inserito nel suo governo eminenti personalità di centrosinistra, nello sconcerto e con l'opposizione dei loro partiti di provenienza, e con forti mugugni anche nel proprio. Come patron del Milan, Berlusconi ha fatto delle ottime campagne acquisti. Dubito che riesca a farne in politica.


06 febbraio 2008

da corriere.it
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 12, 2008, 10:49:33 am »

Le scelte del Pd

Veltroni-Pannella, il patto possibile

E la difesa della laicità


A cominciare dai diretti interessati, molti in questi giorni manifestano sorpresa o rammarico per la riluttanza del Partito democratico ad associare alla sua lista elettorale il partito radicale: non si potrebbe candidare il suo stesso leader, invece di cercare di staccare Emma Bonino dalle sue radici? Allarghiamo un poco l'orizzonte: perché non associare i socialisti di Boselli, figli dello stesso sangue e della stessa storia dei Ds e del Pd?

Uscendo da questa storia, perché non associare addirittura il partito di Di Pietro? Molte ragioni, alcune buone altre un po' meno, militerebbero per queste associazioni. In via generale, tutti questi partiti si collocano vicini al centro dello schieramento politico e non comprometterebbero l'immagine — di centrosinistra — che il Pd vuole dare di se stesso. In particolare, per lo Sdi, le ragioni è persino inutile elencarle: a me risulta tuttora incomprensibile che Boselli abbia rifiutato di partecipare al processo costituente, dopo essere stato uno dei motori dell'Ulivo e avere espresso un forte interesse per la trasformazione dell' Ulivo in partito. Sia per i socialisti, sia per i radicali, un' eccellente ragione è poi la strenua difesa della laicità: un qualche contrappeso alla posizione dei teodem alla Binetti non sarebbe inutile. Quanto a Di Pietro, è pur vero che poco «ci azzecca» con il lignaggio del Pd e che non si tratta di un alfiere del garantismo, diciamo così, ma che sia un alfiere del principio di legalità è sicuro e il Pd, nel suo Statuto e nel suo codice deontologico, ha fatto della legalità uno dei suoi principi di fondo. Ci sarebbero dei problemi, naturalmente: si tratta di partiti piccoli, ma con identità molto nette e leader spigolosi. È dunque comprensibile che il Pd si ponga il problema se un'associazione con uno o più di questi partiti non crei più danni che vantaggi. Credo che la riluttanza del Pd si basi su due argomenti. Il primo è che questi partiti non hanno voluto attraversare le forche caudine di un processo costituente, dello scioglimento e della fusione in un partito nuovo.

Quelle forche, e con fatica, le hanno attraversate i Ds e la Margherita, attenuando le loro divergenze, venendo a patti su molti temi, cercando di costruire una nuova immagine dell'insieme. Perché i piccoli partiti laici di cui parliamo non hanno fatto lo stesso? Se così fosse avvenuto, ovviamente, le loro identità si sarebbero appannate, i loro leader sarebbero al più divenuti dei capi-corrente, ma proprio questo è il punto: oggi non si porrebbero come soggetti estranei e parzialmente antagonistici rispetto al Pd. Il secondo argomento rafforza il primo. Un'associazione significa che la lista elettorale in cui si presenta il Pd dovrebbe aggiungere, accanto al suo simbolo, anche i simboli dei partiti con cui si associa. Se così avvenisse, dove andrebbe a finire la «vocazione maggioritaria» sulla quale il partito insiste? Come sarebbe giudicata la promessa di Veltroni di «andare da soli»? Come potrebbe il Pd proclamare la sua differenza rispetto allo schieramento avversario, dove probabilmente ci saranno in lista più partiti? Oppure — quand'anche ci fosse il simbolo di uno solo — questo sarebbe il frutto di una affrettata congiunzione tra Forza Italia e Alleanza nazionale e non di una fusione vera e coinvolgente come quella che ha dato origine al Pd? (Per carità, meglio di niente, meglio che presentare liste differenti: la «fusione vera» può avvenire anche dopo. Ma intanto la differenza resta.)

 Si tratta di argomenti seri, che potrebbero forse (ma è molto tardi) essere superati da un impegno di scioglimento dei piccoli partiti di cui parliamo e di una loro confluenza nel Partito Democratico: dopo di che i leader forti e spigolosi di cui dicevamo giocherebbero la loro partita negli organismi definiti dal nuovo statuto e potrebbero avere un posto nelle liste elettorali del Pd. Se però questo non avviene, mi sembra difficile che Veltroni sia disposto a barattare l'immagine dell'andare da soli, della coerenza di un programma presentato da un unico partito, con il dubbio vantaggio di una coalizione con piccoli soggetti orgogliosi e indipendenti. Cosa del tutto diversa è dare diritto di tribuna a un grande tribuno come Marco Pannella, a una persona cui la Repubblica deve molto, inserendolo nelle candidature del Partito Democratico. In questo caso, però, che cosa avverrebbe del partito radicale? Si presenterebbe alle elezioni in modo indipendente? E Pannella come si comporterebbe, come «democratico» o come «radicale»? Comunque la si metta, mi sembra una cosa molto difficile da attuare in modo limpido.

Michele Salvati
12 febbraio 2008

da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Marzo 26, 2008, 09:28:14 am »

La battaglia del centro

di Michele Salvati


In un Paese che da dieci anni non cresce, male amministrato, afflitto da problemi cui non si riesce a dare risposta, il governo uscente e le forze politiche che l'hanno sostenuto partono con un pesante handicap quando si arriva alle elezioni. E questo avviene anche se le vere cause dell'insoddisfazione dei cittadini risalgono a molto più addietro o a circostanze esterne avverse. All’handicap per chi ha governato corrisponde ovviamente un vantaggio per lo sfidante: il problema per chi sta all' opposizione è solo di amministrarlo con abilità. Abilità che certo non manca a Berlusconi: per lui la campagna elettorale è in discesa. E' invece in salita per la principale forza corresponsabile del governo passato, il Partito democratico, ed è a Veltroni che è richiesto un sovrappiù di capacità innovativa reale e di virtuosità mediatica.

Veltroni era partito bene, con la mossa del corriamo da soli. Essa corrisponde a un’esigenza reale del nostro sistema politico, correggere il rissoso e incoerente bipolarismo di coalizione in cui stiamo vivendo da metà degli anni Novanta. E i suoi effetti positivi si sono visti subito, con la costituzione del Popolo della Libertà: per il momento una semplice lista elettorale, in futuro, forse, un vero e proprio partito. Ma la proclamazione del corriamo da soli aveva anche un vantaggio di breve periodo, di natura elettorale. Se il centrosinistra si fosse presentato tutto insieme, come replica della vecchia Unione, non solo non si sarebbe fatto alcun passo in avanti per risolvere il problema di coalizioni di governo incoerenti, ma una sconfitta elettorale sarebbe stata inevitabile. Tanto valeva allora rischiare. Senza rinnegare di aver fatto parte del precedente governo, il Pd doveva cercare di convincere gli elettori che, presentandosi da solo, la causa principale delle difficoltà di cui quel governo aveva sofferto era stata eliminata. Convincerli che, se il Pd prevalesse nelle prossime elezioni, il Paese avrebbe un governo di centrosinistra moderno e coerente, alla Blair e Zapatero, per intenderci.

La sfida era e rimane formidabile. Si trattava (e si tratta) di erodere quella spaccatura in due dell' elettorato italiano che quasi 15 anni di bipolarismo ideologico ed esagitato hanno prodotto e che sembra essere tuttora molto stabile. Di cercare elettori mobili e disposti a credere in un centrosinistra moderno, sia sul lato destro sia sul sinistro della collocazione politica in cui il Pd si è posto. Entrando la campagna elettorale nella sua fase decisiva, qual è il bilancio che possiamo redigere? I sondaggi sembrano dire che la vecchia spaccatura resiste, che, sul lato destro, né Veltroni né Casini sono riusciti per ora a erodere sensibilmente il vantaggio del Pdl. Né sembra che, sul lato sinistro, il Pd sia riuscito a intaccare la fortezza Arcobaleno. Ma alle elezioni mancano ancora 18 giorni e tutti ricordiamo la spettacolare rimonta di Berlusconi nelle elezioni del 2006.

La battaglia cruciale si gioca al centro: se il vantaggio del Pdl iniziasse seriamente a ridursi, la resistenza della sinistra tradizionale comincerebbe a cedere.

La testimonianza della propria identità di forza antagonistica, la polemica contro i vicini più moderati, è a costo zero solo quando si è convinti che vincerebbe Berlusconi in ogni caso e non ci sarebbe «voto utile» che potrebbe rovesciare la situazione. Se il vantaggio del Pdl cominciasse a ridursi i voti utili potrebbero fare la differenza tra Berlusconi e Veltroni e non pochi, nella sinistra tradizionale, potrebbero riconsiderare le loro scelte. E' dunque al centro, contro il Pdl, che Veltroni condurrà l'offensiva principale ed è probabile che lo scontro sarà più duro e diretto di quanto sia stato sinora. Il Pd deve ancora giocare la sua carta migliore, la sua maggior coerenza rispetto a una coalizione che vede insieme An e Lega: basta ripescare da internet il programma della Lega (le tre macroregioni, il 90% delle risorse fiscali destinate alle regioni d'origine…) per provocare serie preoccupazioni nel Mezzogiorno. E la stessa idea della cordata nazionale per Alitalia, se duramente contrastata sul piano della serietà, può rivelarsi un boomerang per chi l'ha proposta.

Sono solo esempi di confronto diretto e duro e tanti altri potrebbero aggiungersi. Siamo a una svolta ed è probabilmente un Veltroni diverso, più aggressivo, quello che vedremo in azione nei prossimi giorni. Sarà un bello scontro.

26 marzo 2008

da corriere.it
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« Risposta #5 inserito:: Aprile 03, 2008, 05:31:51 pm »

IL PERCORSO VERSO IL 2015

Milano, l'Expo e le virtù trasparenti

di Michele Salvati


C’è stata grande e sincera soddisfazione in tutte le parti politiche, a destra e a sinistra, per la scelta di Milano come sede dell’esposizione universale del 2015. Nulla di strano in un Paese civile: se c’è un progetto importante e nella sostanza condiviso, i partiti attenuano i loro conflitti e le istituzioni da essi controllate cooperano. E tutti gioiscono del successo, anche se questo avvantaggia maggiormente — in un calcolo grettamente partigiano — uno dei partiti in gioco. In questo Paese di Guelfi e Ghibellini, di confusione di competenze e di gelosie tra le istituzioni, la vicenda che ha condotto alla vittoria di Milano è però stata straordinaria, e spero esemplare per il futuro: Comune, Provincia, Regione e governo, e dunque le diverse forze politiche che guidano queste istituzioni, hanno cooperato come meglio non si poteva per il successo dell’impresa. Tutte hanno capito che la vittoria di Milano era nell’interesse della città e del Paese. Tutte si sono rese conto che la natura dell’impresa non era di quelle in cui hanno senso confitti di principio, tra Destra e Sinistra. Nessuna ha tratto profitto dalla confusione istituzionale, dal proprio potere, per ostacolare il successo. La cooperazione è stata più che leale: è stata un elemento di spinta, ciò che era necessario per superare i molti ostacoli che si frapponevano ad un esito positivo. E questo illustra le due prime virtù: bipartisanship e capacità di coordinamento inter-istituzionale.

Ci aspettano sette lunghi anni prima dell’inaugurazione dell’Expo: la designazione di Milano è solo una prima, indispensabile tappa. Il successo vero lo si misurerà alla fine: non tanto dal numero di visitatori, quanto dalla qualità e utilità delle opere che l’Expo lascerà in eredità alla città e alla regione, dalla spinta all’attività economica e all’occupazione, dalla soddisfazione dei cittadini, dal clima politico e culturale che contribuirà a instaurare. Le due virtù di cui abbiamo detto saranno messe a dura prova, specialmente nei prossimi mesi, quando si dovrà definire il piano dettagliato degli interventi, quando il disegno prenderà forma, e poi, subito dopo, quando i compiti, le commesse, gli appalti dovranno essere attribuiti. Finora, in confronto, la collaborazione inter- istituzionale, i buoni rapporti tra parti politiche diverse, sono stati facili: il difficile viene ora e tutto dipenderà dalla saggezza e dall’equilibrio di quel nucleo (necessariamente) ristretto di persone che dirigerà il progetto. Per ottenere una collaborazione più che leale bisognerà coinvolgere, e il coinvolgimento, se non è ben organizzato, può contrastare con la rapidità delle decisioni che è necessaria per avviare le opere e chiuderle entro una scadenza fissa. Di nuovo, lo ripeto, non è questione di Destra o Sinistra, in quanto opzioni ideologiche, ma degli ambienti e delle culture con cui esse sono di fatto collegate, delle persone che esse possono mobilitare. Ma basta con le due prime virtù, la cui importanza spero sia evidente.

Finora abbiamo parlato della parte organizzata della società milanese e lombarda (e nazionale, non dimentichiamolo mai: si svolgerà a Milano, ma l’esposizione è italiana, è una vetrina internazionale dell’Italia, e la si allestisce con le risorse di tutto il Paese).

Una parte importante del successo, il successo di clima, il lascito sugli atteggiamenti e la cultura, dipendono però dalla partecipazione effettiva della parte non organizzata e largamente maggioritaria della nostra cittadinanza. Una parte spesso sospettosa e critica (e non di rado giustamente) nei confronti di quanto fanno «quelli in alto, quelli che decidono». La partecipazione democratica è difficile, specie per imprese di questa dimensione, e con forti conseguenze extra-locali. Ma una cosa è facile, è in ogni caso utile, e costituisce la premessa necessaria per sollecitare tutta la partecipazione possibile: la trasparenza, la completa trasparenza, quella che gli anglosassoni chiamano total disclosure. Perché non allestire subito un grande portale, ben fatto, con varie possibilità di blog e di forum, in cui riversare documenti, proposte e relative giustificazioni, decisioni prese e in corso di discussione, indicazioni di chi fa che cosa e perché è stato scelto per farla, così stimolando una interazione continua con i cittadini? Sono in giro tanti quattrini: guai se si diffondesse l’impressone che le scelte adottate non hanno giustificazioni difendibili. A seguito di questa iniziativa anche altre e più tradizionali forme di pubblicità e partecipazione verrebbero più facili: incontri, conferenze, convegni, manifestazioni.

Concludendo. Quattro virtù: bipartisanship, cooperazione inter-istituzionale, partecipazione dei cittadini, trasparenza. Non ho parlato delle cose da fare, dei contenuti, e non l’ho fatto intenzionalmente perché ci sarà tempo per farlo. Se le nostre virtù «metodologiche» saranno scrupolosamente osservate, ai contenuti penserà Milano, con le risorse culturali che è in grado di esprimere essa stessa e di attrarre dall’Italia e dal mondo.

03 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 22, 2008, 12:18:59 pm »

LE DUE ITALIE

Le due Italie, la lobby del Sud e il ruolo del Pd


di Michele Salvati


Nei commenti dopo il voto sulla grande stampa — ma anche prima, durante la campagna elettorale — non si può dire che si sia prestata molta attenzione al Mezzogiorno: la cosiddetta «questione settentrionale» l'ha fatta da padrona. Prima del voto, i «fucili » di Bossi hanno colpito assai di più di quelli di Lombardo, pur trattandosi, in entrambi i casi, di fucili di legno, di fanfaronate. Dopo il voto, il trionfo della Lega al Nord è stato sottolineato assai più di quello del Pdl al Sud, e in entrambi i casi non si tratta certo di novità: la Lega è tornata ai livelli degli anni 90 e, per il Sud, si tratta di una tendenza già osservata a schierarsi con il presunto vincitore e a contribuire al suo successo. Partendo da un’apparente irrazionalità del voto meridionale, vorrei sostenere una tesi semplice: l'irrisolta questione meridionale—l'unica vera «questione», una tragica spaccatura nella nostra storia unitaria—ha generato negli ultimi due decenni una reazione di rigetto nel Nord che è destinata a rimanere.

Questione antica e reazione recente oggi danno vita a un grave problema nazionale, per il quale non sembra che i partiti a vocazione maggioritaria (e nazionale) abbiano risposte chiare. Per ora, almeno. Irrazionale lo spostamento verso il Pdl di tante regioni meridionali? Apparentemente sì: l'alleanza del Pdl con la Lega è strategica e la Lega non ha mai fatto mistero delle sue intenzioni di ridurre, e di molto, le risorse che lo Stato trasferisce al Mezzogiorno. Ciò sta scritto a chiare lettere nel programma elettorale di questo movimento politico e, per liquidare ogni dubbio, basta scaricare la proposta di attuazione dell'articolo 119 della Costituzione (federalismo fiscale) approvata il 19 giugno scorso dall'Assemblea regionale lombarda: è un documento ufficiale, non un manifesto elettorale. Se la proposta lombarda diventasse legge dello Stato — e questa sembra essere l'intenzione comune di Lega e Pdl — il taglio di risorse che affluiscono verso il Sud sarebbe forte e la stessa finalità di fornire ai cittadini dell'intero Paese servizi pubblici in quantità e qualità simili sarebbe negata per principio.

E allora perché una gran parte del ceto politico e dei cittadini meridionali hanno scelto il Pdl? Faccio fatica ad accettare un'ipotesi di irrazionalità e propongo una spiegazione alternativa. Da molto tempo i ceti politici meridionali hanno constatato che disporre di voci influenti e di molti parlamentari nella coalizione che sostiene il governo (e un po' per effetto di An, un po' per l'esito delle ultime elezioni, il gruppo parlamentare del Pdl si è notevolmente meridionalizzato) giova ai trasferimenti pubblici verso il Mezzogiorno: se poi giovi al Mezzogiorno, alla soluzione della «questione meridionale», è cosa del tutto diversa. Tale constatazione equivale a scommettere che le bellicose intenzioni della Lega resteranno intenzioni, e saranno frustrate da una potente lobby meridionale: il federalismo fiscale che uscirà fuori dal tritacarne governativo e parlamentare non sarà per nulla simile al disegno approvato dal consiglio regionale lombardo.

Questo devono aver pensato gli elettori meridionali e il ceto politico che ha indirizzato il loro voto. Se la scommessa sia realistica, non lo so. So soltanto che sul federalismo fiscale (e, più in generale, sulla riforma costituzionale) si giocherà una partita di straordinaria importanza: una partita da cui dipende la stessa tenuta del nostro Paese come nazione. La domanda del Sud di livelli e qualità simili nei servizi pubblici, nonché di trasferimenti addizionali a scopo di sviluppo—questo afferma l’articolo 119 della Costituzione —è fondata su un condivisibile principio di solidarietà nazionale. Ma incorpora anche la richiesta di continuare con l’andazzo di oggi, di usare servizi e trasferimenti in modo inefficiente e clientelare, senza alcuna ricaduta positiva in termini di sviluppo. E la domanda di autonomia fiscale del Nord sicuramente è motivata da insofferenza per il vincolo di solidarietà nazionale (politici siciliani: che cosa intendete quando parlate di «autonomia»? Essa vuol dire una cosa chiara—fare da soli—per una regione con un prodotto pro capite superiore alla media nazionale; una cosa alquanto diversa per una regione i cui consumi sono sostenuti da trasferimenti provenienti dal resto del Paese).

Ma contiene, la domanda del Nord, anche la sacrosanta richiesta di controllare che le risorse provenienti dalle loro regioni siano utilizzate in modo efficiente, per promuovere sviluppo. Sono conciliabili queste due domande? Se prendiamo le loro motivazioni buone, certamente sì. Ma per conciliarle occorrono visione e idee forti su come innescare sviluppo autonomo nel Mezzogiorno: insomma un ceto politico e tecnico di grande qualità. E qui si apre una straordinaria occasione per il Partito democratico. Ci saranno ovviamente tensioni tra la Lega e la parte meridionale del Pdl. Se il Pd ha veramente vocazione maggioritaria, se veramente antepone gli interessi del Paese a quelli del partito, non ceda alla tentazione di esasperare le fratture nella coalizione di governo, ma si impegni in Parlamento a trovare una mediazione alta, una soluzione che salvaguardi l’unità nazionale componendo le «parti buone» delle domande che provengono dal Nord e dal Sud.

22 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Maggio 05, 2008, 12:38:46 pm »

DESTRA, SINISTRA E LIBERISMO

La protezione del territorio


di Michele Salvati


Semplificando molto, un partito di centrodestra solitamente si colloca, e non di rado oscilla, tra due polarità ideologiche. Una polarità liberal- conservatrice, tuttora preoccupata degli effetti destabilizzanti della democrazia, ma figlia del razionalismo e dell'individualismo del secolo dei Lumi. E una polarità tradizionalistica, figlia della reazione all'Illuminismo: una polarità nella quale la società (comunità) prevale sull'individuo e lo stare insieme è assicurato dall'autorità e dalla tradizione, da «Dio, Patria e Famiglia ». Gli esempi abbondano, da George W. Bush a Nicolas Sarkozy, anche se la miscela più efficace di liberismo conservatore e di tradizionalismo patriottico resta quella di Margaret Thatcher.

Simmetricamente, un partito di centrosinistra si colloca e oscilla anch'esso tra due polarità, dopo l'esito tragico dell'esperienza comunista: una polarità liberal-progressista, in cui la democrazia non induce preoccupazione e il messaggio liberale è inteso come effettiva libertà di perseguire i propri piani di vita per il maggior numero di individui; e una polarità socialdemocratica, in cui l'accento è posto non sugli individui e i loro diversi piani di vita, ma su soggetti collettivi che si suppongono relativamente omogenei — classi, «blocchi sociali» —, soggetti rappresentati, organizzati, talora costruiti dal sindacato e dal partito. Anche qui gli esempi abbondano: Tony Blair e Zapatero sono vicini alla polarità liberale e la socialdemocrazia tedesca, che con Schröder vi si era avvicinata, ora sta tornando verso quella socialdemocratica con il suo nuovo leader Beck.

L'Italia non fa eccezione a questa grezza tassonomia. Partiamo dal centrodestra. Come non avvedersi che questo è passato dal messaggio liberale del Berlusconi prima maniera (almeno fino alle elezioni del 2001) al messaggio prevalentemente tradizionalistico delle elezioni di quest'anno? Il vero manifesto elettorale è stato il libro di Tremonti, «La paura e la speranza», in cui è immediato scorgere accenti anti individualistici e anti illuministici (e dunque anti liberali, anche se l'autore li chiama anti mercatisti) che sembrano presi di peso da Renan, se non da De Maistre. Bossi, se si eccettua la sua fase ormai lontana di critica alle gerarchie ecclesiastiche, ha sempre sostenuto un messaggio neotradizionalista: la sua tradizione, la Padania, è totalmente inventata, ma così sono anche altre tradizioni, e tutte, all'inizio. E Fini? Il suo civile messaggio di investitura come presidente della Camera è imbevuto di tradizionalismo: che poi la Nazione di Fini non sia quella di Bossi creerà certo problemi, ma ciò non toglie che per entrambi il riferimento alla comunità, al territorio, al Blut und Boden, sia molto forte.

Berlusconi, dall'alto, non bada a queste sottigliezze e li lascia dire.E il centrosinistra? Il messaggio con cui è nato il Partito democratico è un buon esempio di liberalismo progressista, con due significative qualificazioni. La prima, dovuta alla storia del movimento operaio di cui il Pd è l'erede, è la grande attenzione e cautela nei confronti del sindacato. Per un liberale puro e duro il sindacato è un gruppo di interesse come gli altri; non può essere così per chi viene dalla tradizione socialista e ricorda il grande movimento di emancipazione di cui il sindacato è stato (lo è tuttora?) l'espressione organizzata. La seconda è dovuta all'influenza di Margherita, un partito a forte prevalenza cattolica: attraverso di essa, attraverso la dottrina sociale della Chiesa, sono entrate nel patrimonio genetico del nuovo partito significative tracce tradizionalistiche. E vi sono entrate anche per l'intransigenza con cui Benedetto XVI ha ripreso la polemica contro l'individualismo liberale e il «relativismo ».

Insomma, si tratta di un liberalismo meno limpido di quello di Blair o di Zapatero.
Nella vittoria del centrodestra hanno giocato tanti fattori, e soprattutto il giudizio dato dagli elettori sull'esperienza del governo Prodi: un'esperienza dalla quale Veltroni non poteva smarcarsi e che non costituiva certo un buon esempio del programma liberale con il quale voleva essere identificato. Ma anche se gli elettori avessero creduto alla sua sincerità, alla sua voglia e alla sua possibilità di voltar pagina, alla sua intenzione di sciogliere lacci e lacciuoli, di promuovere il merito e abbattere le rendite diffuse ogni dove, è probabile che un messaggio tradizionalistico e difensivo, legato alla protezione dei territori e delle imprese del Paese, sarebbe stato comunque più efficace. Il messaggio del centrodestra era perfettamente adatto a un Paese che ha «paura», parola chiave del libro di Tremonti. Paura non soltanto della Cina e degli immigrati, ma anche delle riforme necessarie a convivere con successo con la Cina e con gli immigrati: in condizioni di lento declino si aborre dal cambiamento, gran parte dei cittadini stanno abbarbicati alle proprie consuetudini e alle proprie rendite, piccole o grandi che siano. Senza quelle riforme, tuttavia, il Paese è destinato a declinare ulteriormente: Francesco Giavazzi, sul Corriere di mercoledì scorso, ha perfettamente ragione. E' dunque ad esse — e non a misure protezionistiche — è legata la «speranza », l'altra parola chiave di quel libro. Passate le elezioni, portato a casa il risultato, speriamo che il governo ne tenga conto.


05 maggio 2008

da corriere.it
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 21, 2008, 05:41:04 pm »

Lo Stato assente


di Michele Salvati


Sotto l'onda di indignazione provocata dall'incendio dei campi rom di Napoli si è aperta sui giornali una cateratta di commenti, alimentati anche dalle critiche che ci sono arrivate in sede internazionale. Molta attenzione è stata dedicata a come centrodestra e centrosinistra hanno affrontato e affrontano il problema, alle pulsioni xenofobe della Lega, alle incertezze del Partito Democratico: trattandosi di un problema con risvolti politici evidenti, e di cui si sono viste le ripercussioni nei risultati elettorali di un mese fa, questa attenzione è comprensibile. Attenzione minore ha però ricevuto un aspetto del problema che a me sembra ovvio, e sicuramente molto importante: che il problema rom — le reazioni insofferenti e occasionalmente violente che essi suscitano — sono anche la conseguenza dell'inefficienza dello Stato, dell'incapacità delle pubbliche amministrazioni, delle istituzioni centrali e locali, degli organi rappresentativi, nello svolgere compiti che in altri Paesi vengono svolti con maggiore competenza ed efficacia. Sotto questo aspetto, si tratta di un problema generale, che si manifesta in molti altri campi in cui lo Stato svolge male compiti che dovrebbe svolgere bene: nella scuola, nelle infrastrutture, nel controllo del territorio. Insieme con il Mezzogiorno, si tratta della grande «questione » del nostro Paese.

Detto in altre parole: mi rifiuto di credere che i nostri concittadini siano più intolleranti e xenofobi di quelli di altri Paesi di recente e rapida immigrazione: della Spagna, ad esempio, quella che ci ha criticato, e che ospita una popolazione rom maggiore della nostra. Anche altrove l'insofferenza è diffusa, e comprensibile, specie nei ceti più poveri, quelli che si trovano a maggior contatto con l'ondata migratoria: nel mercato del lavoro, nella scuola, negli ospedali, negli alloggi. E anche altrove ci sono movimenti politici che trovano un facile mercato nel rappresentarla e nell'alimentarla. Ma altrove, da un lato, il sistema politico mette al bando coloro che incitano un confuso e pericoloso «fai da te» da parte dei cittadini e punisce duramente i colpevoli di violenze contro gli immigrati. Dall'altro, ed è l'aspetto che voglio sottolineare, i disagi per i cittadini sono ridotti da uno Stato che funziona, che segue una linea politica meno oscillante e improvvisata, che riesce a controllare meglio gli ingressi, che predispone campi d'accoglienza civili, che reprime con efficacia comportamenti illegali, che assicura rapidamente i delinquenti alla giustizia.

Insomma, la xenofobia non si sviluppa perché i cittadini si sentono protetti. Per raggiungere gli standard di altri paesi europei, una lunga catena di decisioni politiche e soprattutto di pratiche ammini-strative dev'essere programmata e messa in atto rapidamente. Anzitutto la distinzione del problema rom (in larga misura cittadini comunitari) da quello più generale dell'immigrazione clandestina ed extracomunitaria: e qui è coinvolta anche la politica internazionale. Poi un riparto efficace di competenze tra organi periferici dello stato centrale (questure, prefetture, polizie) o organi rappresentativi locali, i comuni soprattutto: lo scaricabarile del not in my backyard —i campi non devono star qui ma altrove — dev'essere risolto. Infine, e soprattutto, una interazione rapida ed efficiente tra polizia e potere giudiziario. La polizia deve intervenire rapidamente, i fermati vanno trattenuti e processati in tempi brevi, se trovati colpevoli devono essere messi in grado di non nuocere: poche notizie suscitano l'indignazione dei cittadini come quella di un colpevole accertato che viene subito lasciato libero.

Qui sono coinvolte riforme legislative, amministrative e finanziarie. Occorrono risorse, certo: come le nozze, una politica dell'accoglienza adeguata non si fa coi fichi secchi. Ma soprattutto occorrono coordinamento ed efficienza. Non credo che sia troppo chiedere al governo una proposta dettagliata, e basata su informazioni serie e studi comparativi, che riguardi l'intera catena il cui mancato funzionamento alimenta l'insofferenza dei cittadini. Non singoli anelli o decisioni ad hoc, ma un disegno complessivo, un piano, che necessariamente deve coinvolgere diversi ministeri, gli organi periferici dello stato e gli enti locali. E non è troppo chiedere all'opposizione di misurarsi nello stesso compito con proposte costruttive.
E poi, naturalmente, c'è il «problema Napoli », una città in cui si bruciano campi rom con la stessa facilità con cui si bruciano immondizie. Napoli è problema «speciale», e oggetto di legislazione e interventi «speciali», da quando il nostro Paese è diventato uno stato unitario. A Napoli si sommano e si potenziano reciprocamente le due grandi «questioni» di State building che il nostro Paese non è riuscito a risolvere nel secolo e mezzo della sua esistenza: la «questione meridionale » e la questione dell'amministrazione pubblica. Sono già all'opera comitati che predispongono i festeggiamenti dei centocinquant'anni dell'unità d'Italia: temo che questa ricorrenza non annovererà tra successi del nostro Paese la soluzione dei problemi di quella bellissima e disgraziata città.


19 maggio 2008

da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Giugno 07, 2008, 10:54:16 am »

VISTO DAL SUD

Il federalismo è una risorsa


di Michele Salvati


Ha fatto bene Dario Di Vico, nel suo editoriale sul Corriere del primo giugno, a segnalare l'apertura sul «federalismo fiscale» tra i molti argomenti contenuti nelle «Considerazioni finali» del Governatore della Banca d'Italia. Si tratta di un riconoscimento importante e che viene dal cuore dell'establishment. Un establishment
«romano» che ha sempre considerato il federalismo, e di conseguenza le sue implicazioni fiscali, come una concessione fatta a malincuore alla Lega, da lesinare il più possibile o addirittura da rovesciare qualora si presentasse l'occasione. A coloro i quali tuttora pensano che col federalismo ci siamo sbagliati, che è stato un grave errore cedere alle pressioni della Lega, che sarebbe meglio tornare indietro, il Governatore dice implicitamente di rassegnarsi: il federalismo è destinato a restare, it's here to stay, è una scelta costituzionale irreversibile. Ed è nell'ambito di questa scelta che vanno disegnate norme e istituzioni idonee a rendere i trasferimenti verso il Mezzogiorno più efficaci nel promuovere sviluppo di quanto sia avvenuto sinora.

Pochi giorni prima della relazione del Governatore, la Svimez — la benemerita Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno, che ebbe per tanti anni come presidente Pasquale Saraceno e ora è presieduta da Nino Novacco — aveva indirizzato a tutti i parlamentari della Repubblica una lunga lettera in cui si faceva il punto sulla disgraziata situazione in cui si trova oggi il Sud del Paese. L'analisi contenuta nella lettera è in buona misura condivisibile — quanto male pensi la Svimez delle proposte che circolano in tema di federalismo fiscale lo si capisce meglio da precedenti pubblicazioni, ad esempio dal Quaderno Svimez n. 12 del dicembre dello scorso anno — ma una cosa colpisce il lettore: ci sono comprensibili rivendicazioni relative allo sforzo finanziario richiesto per affrontare la questione meridionale, ma pochissimi cenni al problema sul quale invece Draghi insiste, allo sforzo di efficienza, di controllo, di valutazione, di rendicontazione che deve necessariamente accompagnare la spesa affinché essa dia i risultati attesi. È vero, come lamenta la Svimez, che molte spese le quali dovevano essere aggiuntive e straordinarie sono invece andate a sostituire spese ordinarie che non sono state finanziate. Ma l'entità complessiva dei trasferimenti è approssimata dal semplice calcolo macroeconomico che Draghi riporta nella sua relazione: la differenza tra una spesa pubblica grosso modo proporzionale alla popolazione ed entrate fiscali assai inferiori. A seguito soprattutto del minor reddito pro capite e delle minori basi imponibili, certo; ma anche di una maggiore evasione. E si tratta di una entità considerevole. Perché ha dato frutti così scarsi?

In termini di sostegno allo sviluppo dell'economia e al benessere delle popolazioni la spesa pubblica dell'intero Paese, al Nord e al Sud e in quasi tutti i suoi comparti (dalle infrastrutture alla scuola, dal welfare ai servizi alle imprese, dalla giustizia alla pubblica sicurezza, dallo smaltimento dei rifiuti ai servizi idrici, dai trasporti locali alla fornitura di energia...), lascia molto a desiderare in un confronto internazionale, sia per efficacia sia per efficienza, ovvero di costo per unità di servizio. Ma nel Mezzogiorno la differenza è abissale e il caso dell'immondizia napoletana ne è solo un esempio particolarmente vistoso.

Per molti servizi si spendono gli stessi quattrini che nel Nord, ma con risultati solitamente più scadenti. Altro esempio: la scuola non è «regionalizzata », è statale, grossomodo dotata delle stesse risorse e soggetta agli stessi ordinamenti al Nord e al Sud: per quale ragione i quindicenni meridionali ottengono risultati inferiori ai settentrionali nei test periodici promossi dall'Ocse?

Invece di rimpiangere il buon centralismo antico, credo che i ceti dirigenti meridionali, dopo aver duramente contrattato per i quattrini, per il fondo perequativo, dovrebbero vedere nel federalismo fiscale una risorsa, se ben disegnato e accompagnato da organi di valutazione e di controllo, da incentivi e sanzioni, che migliorino l'efficienza della spesa pubblica.
La frase ipotetica è d'obbligo: non è difficile pensare a forme perverse di federalismo fiscale in cui il sistema di valutazione e controllo ricade nella contabilità degli scambi politici: chi se ne frega se Lombardo o Bassolino usano male le risorse che provengono dal resto d'Italia e dall'Europa, tanto sono dei «nostri» e ci danno i voti che servono per vincere. Alla Svimez e ai meridionalisti di buona volontà che essa coordina, ai ceti dirigenti meridionali, agli italiani tutti sta il compito di vigilare affinché questa forma perversa, ma purtroppo ben possibile, di federalismo fiscale non sia quella che verrà nei fatti attuata.


07 giugno 2008

d corriere.it
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« Risposta #10 inserito:: Giugno 21, 2008, 05:11:19 pm »

Caro Romano, ripensaci                      di MICHELE SALVATI
 
Caro Romano, aggiungo il mio agli inviti che da più parti ti arrivano affinché tu ritiri le dimissioni da presidente del Partito democratico. Il mio invito non è motivato da un interesse politico-organizzativo diretto: resto fedele all’intuizione originaria, ma siano altri a portarla avanti. Questo è anche il tuo atteggiamento, mi sembra, e ciò comporta l’inevitabile conseguenza che il modo in cui altri portano avanti l’intuizione politica che fu tua e di Beniamino Andreatta può discostarsi da quello in cui l’avremmo portata avanti noi. Domanda: è così diverso, questo modo, da rifiutarsi di riconoscere una continuità tra il progetto dell’Ulivo e quello del Pd? Da sostenere che tra i due c’è uno iato e dunque che esiste un percorso politico il quale esprime la “vera” intuizione originaria dell’Ulivo? In questo caso le tue dimissioni avrebbero una giustificazione politica: ti rifiuti di avallare con una presenza simbolica un progetto che non è il tuo. Ma se una radicale differenza non esiste – ed è questo che credo e cerco di spiegare nella mia lettera – le tue dimissioni potrebbero essere fraintese e dar adito a interpretazioni meschine.
E il tuo silenzio, lungi dall’essere interpretato nel modo che generosamente lo motiva – di non danneggiare con altre polemiche il già debole campo del centrosinistra – non farebbe che confermare quel fraintendimento: se Prodi pensasse che l’intuizione dell’Ulivo sarebbe meglio espressa da un progetto radicalmente diverso dal Partito democratico, perché non dice esplicitamente di che cosa si tratta? Perché non combatte per realizzarlo? Sul modo in cui si è realizzato il Pd io credo di aver critiche e riserve non minori delle tue –se sono vicine alle tue quelle espresse nell’intervista di Arturo Parisi a Repubblica del 7 giugno o nell’articolo di Mario Barbi sul Riformista del 10. Sono critiche e riserve che in buona misura condivido, ma che non mi sembra ammontino all’accusa di radicale alterità dell’attuale Pd rispetto al progetto dell’Ulivo. E soprattutto sono critiche che non mi sento di rivolgere ad altri, come se noi, “i veri credenti”, ne fossimo immuni. Esse hanno proprio a che fare con il progetto originario dell’Ulivo, con il suo sviluppo nel Partito democratico, con le difficoltà che l’Ulivo e il Pd avrebbero incontrato e di cui dovevamo essere consapevoli.
Cominciamo dall’origine per poi venire più vicino a noi.
Il progetto dell’Ulivo nasce nel 1995/96 da un calcolo elettorale cui D’Alema e Marini danno subito la loro convinta adesione (un “non-ex-comunista” e un “non-politico” come candidato premier) e da una scommessa più profonda, nei confronti della quale per lunghi anni chi disponeva di reale potere nei partiti si dimostra ostile o scettico: la possibilità di fondere in una federazione e poi in un partito i riformismi democratici italiani, in primis i maggiori, quello socialista ed ex-comunista e quello cattolico ed ex-democristiano. Questa è la scommessa di Andreatta e Prodi e, si parva licet, anche la mia. Ma sapevamo benissimo che si sarebbe trattato di un’impresa difficilissima, sostenuta dall’ubris di voler tagliare e ricomporre culture politiche radicate; sapevamo che avremmo dovuto combattere contro l’incredulità e il dileggio, ancor prima che contro path dependence, vischiosità, trascinamenti dal passato. E il tuo grande merito, caro Romano, è stato proprio quello di insistere su questa scommessa, di aver fatto valere il peso della tua insostituibilità in momenti cruciali.
Da ultimo con le primarie dell’ottobre 2005: è lì che nasce il Partito democratico, perché le primarie che incoronano Veltroni, due anni dopo, ne sono la diretta conseguenza.
Però non possiamo meravigliarci se le vecchie culture e mentalità rimangono, se la miscelatura dei militanti e dei dirigenti è incompleta, se rischi di scissione sono sempre incombenti, se problemi non risolti (a quale gruppo aderire nel parlamento europeo) continuano a tornare. Di fronte a questi rischi e problemi, gravissimi e –ripeto e sottolineo – totalmente interni al nostro progetto, perché prendersela con Veltroni? Possibile che non si riesca a distinguere tra problemi (e nemici) principali e problemi (e nemici) secondari? Tra chi vuole andare avanti, sia pure tra molti errori, e chi vuol tornare indietro? Altra grande questione, strettamente legata alla precedente: il progetto per l’Italia, l’immagine che l’Ulivo e poi il Partito democratico volevano e v o g l i o n o dare agli italiani. Come hanno mostrato le ultime elezioni, le prime in cui il centrosinistra non ha proposto un’ammucchiata di tutti coloro che sono contro Berlusconi, questo progetto e questa immagine sono risultati meno credibili di quelli dello schieramento avversario. Anche di questo vogliamo dare la colpa solo a Veltroni e al gruppo dirigente che ha affrettatamente costruito intorno a sé? Di fatto, il programma elettorale per queste ultime elezioni è stato – dal punto di vista di un’analisi alla crisi dell’economia e della società italiane e delle risposte democratiche possibili – di gran lunga il migliore tra quelli presentati dallo schieramento di centrosinistra dal 1996 ad oggi. Ma le elezioni, com’è ben noto, non si vincono con i programmi, ma con le immagini e con il framing, su come questi “leggono” l’attività del governo in carica, e qui il centrodestra ha dominato.
Errori ci sono stati, certo, a cominciare dalle alleanze (Di Pietro e radicali) per finire con le candidature: è questa la causa della sconfitta? A me non sembra: la causa sta nell’immagine e nel framing e in quell’ambito va cercata la risposta. Ma se la risposta è quella di elaborare una diversa immagine, un’immagine che convinca gli italiani almeno quanto li convince l’immagine del centrodestra, questo a me sembra il compito centrale cui deve dedicarsi il Pd, che l’Ulivo non ha affrontato ai tempi delle ammucchiate antiberlusconiane, ed è un compito dal quale i “veri credenti” non possono tirarsi indietro.
E vengo all’ultimo problema, quello che probabilmente ha provocato in te la maggiore delusione: la polemica – quasi mai aperta, ma ben percepibile sottotraccia – contro il governo Prodi durante la campagna elettorale. Personalmente ti capisco: una fatica boia, sostenuta dalla convinzione che alla fine della legislatura “gli italiani avrebbero capito”, e la sensazione che il primo a non capirti è il principale partito che ti deve sostenere.
Visto dal di fuori, il problema era però molto semplice: il Pd si è formato con troppa fretta e in un momento sbagliato, come parte di una coalizione di governo incoerente dalla quale doveva –ripeto e insisto: doveva – distinguersi, se si voleva presentare agli italiani con una immagine chiara. Ma così facendo criticava e danneggiava il g o v e r n o , proprio come il governo e la coalizione che lo sosteneva danneggiavano l’immagine che il Partito democratico voleva dare di sé. Toni sbagliati, certo, forse vicende personali sgradevoli che non conosco: ma all’interno di un contesto che non consentiva scelte molto diverse. A meno che tu non sia convinto che la scelta migliore fosse quella di riproporre la coalizione che sosteneva il governo: è questo che pensi? Io non ho dubbi che il rapporto con la sinistra radicale, o parti di essa, tornerà a proporsi.
E che il problema delle alleanze sia un problema reale.
Ma per allearsi un partito deve avere una propria identità e il momento di darsela era proprio la prima occasione nella quale si presentava alle elezioni.
La lettera è già troppo lunga.
Il succo è che il Pd è il figlio e l’erede dell’Ulivo, per quanto complicata e difficile sia stata la gestazione. Che le difficoltà della gestazione erano tutte interne al progetto originario e gli ulivisti non possono imputarle ad altri: dovevano sapere che il parto sarebbe stato faticoso.
Che tu, Romano, sei il padre dell’Ulivo (c’è un problema con questa metafora: chi è la madre?).
Che le tue dimissioni verrebbero interpretate come un disconoscimento di paternità: e in politica, purtroppo, un’analisi del dna è impossibile.
Che all’interno del Pd coloro che la pensano grossomodo come te (e vogliono impegnarsi in battaglie come quelle nelle quali Parisi o Barbi o Andreatta o Monaco o anche molti “veltroniani” sono già coinvolti) sarebbero molto danneggiati dal tuo disconoscimento di paternità. Insomma, le tue dimissioni non avrebbero una motivazione politica difendibile; e però avrebbero conseguenze politiche pesanti. Ripensaci, ti prego.
 
17/6/08

da europaquotidiano.com
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 22, 2008, 04:31:06 pm »

VISTO DAL SUD

Il federalismo è una risorsa


di Michele Salvati


Ha fatto bene Dario Di Vico, nel suo editoriale sul Corriere del primo giugno, a segnalare l'apertura sul «federalismo fiscale» tra i molti argomenti contenuti nelle «Considerazioni finali» del Governatore della Banca d'Italia. Si tratta di un riconoscimento importante e che viene dal cuore dell'establishment. Un establishment «romano» che ha sempre considerato il federalismo, e di conseguenza le sue implicazioni fiscali, come una concessione fatta a malincuore alla Lega, da lesinare il più possibile o addirittura da rovesciare qualora si presentasse l'occasione. A coloro i quali tuttora pensano che col federalismo ci siamo sbagliati, che è stato un grave errore cedere alle pressioni della Lega, che sarebbe meglio tornare indietro, il Governatore dice implicitamente di rassegnarsi: il federalismo è destinato a restare, it's here to stay, è una scelta costituzionale irreversibile. Ed è nell'ambito di questa scelta che vanno disegnate norme e istituzioni idonee a rendere i trasferimenti verso il Mezzogiorno più efficaci nel promuovere sviluppo di quanto sia avvenuto sinora.

Pochi giorni prima della relazione del Governatore, la Svimez — la benemerita Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno, che ebbe per tanti anni come presidente Pasquale Saraceno e ora è presieduta da Nino Novacco — aveva indirizzato a tutti i parlamentari della Repubblica una lunga lettera in cui si faceva il punto sulla disgraziata situazione in cui si trova oggi il Sud del Paese. L'analisi contenuta nella lettera è in buona misura condivisibile — quanto male pensi la Svimez delle proposte che circolano in tema di federalismo fiscale lo si capisce meglio da precedenti pubblicazioni, ad esempio dal Quaderno Svimez n. 12 del dicembre dello scorso anno — ma una cosa colpisce il lettore: ci sono comprensibili rivendicazioni relative allo sforzo finanziario richiesto per affrontare la questione meridionale, ma pochissimi cenni al problema sul quale invece Draghi insiste, allo sforzo di efficienza, di controllo, di valutazione, di rendicontazione che deve necessariamente accompagnare la spesa affinché essa dia i risultati attesi. È vero, come lamenta la Svimez, che molte spese le quali dovevano essere aggiuntive e straordinarie sono invece andate a sostituire spese ordinarie che non sono state finanziate. Ma l'entità complessiva dei trasferimenti è approssimata dal semplice calcolo macroeconomico che Draghi riporta nella sua relazione: la differenza tra una spesa pubblica grosso modo proporzionale alla popolazione ed entrate fiscali assai inferiori. A seguito soprattutto del minor reddito pro capite e delle minori basi imponibili, certo; ma anche di una maggiore evasione. E si tratta di una entità considerevole. Perché ha dato frutti così scarsi?

In termini di sostegno allo sviluppo dell'economia e al benessere delle popolazioni la spesa pubblica dell'intero Paese, al Nord e al Sud e in quasi tutti i suoi comparti (dalle infrastrutture alla scuola, dal welfare ai servizi alle imprese, dalla giustizia alla pubblica sicurezza, dallo smaltimento dei rifiuti ai servizi idrici, dai trasporti locali alla fornitura di energia...), lascia molto a desiderare in un confronto internazionale, sia per efficacia sia per efficienza, ovvero di costo per unità di servizio. Ma nel Mezzogiorno la differenza è abissale e il caso dell'immondizia napoletana ne è solo un esempio particolarmente vistoso.

Per molti servizi si spendono gli stessi quattrini che nel Nord, ma con risultati solitamente più scadenti. Altro esempio: la scuola non è «regionalizzata », è statale, grossomodo dotata delle stesse risorse e soggetta agli stessi ordinamenti al Nord e al Sud: per quale ragione i quindicenni meridionali ottengono risultati inferiori ai settentrionali nei test periodici promossi dall'Ocse?

Invece di rimpiangere il buon centralismo antico, credo che i ceti dirigenti meridionali, dopo aver duramente contrattato per i quattrini, per il fondo perequativo, dovrebbero vedere nel federalismo fiscale una risorsa, se ben disegnato e accompagnato da organi di valutazione e di controllo, da incentivi e sanzioni, che migliorino l'efficienza della spesa pubblica.
La frase ipotetica è d'obbligo: non è difficile pensare a forme perverse di federalismo fiscale in cui il sistema di valutazione e controllo ricade nella contabilità degli scambi politici: chi se ne frega se Lombardo o Bassolino usano male le risorse che provengono dal resto d'Italia e dall'Europa, tanto sono dei «nostri» e ci danno i voti che servono per vincere. Alla Svimez e ai meridionalisti di buona volontà che essa coordina, ai ceti dirigenti meridionali, agli italiani tutti sta il compito di vigilare affinché questa forma perversa, ma purtroppo ben possibile, di federalismo fiscale non sia quella che verrà nei fatti attuata.


07 giugno 2008

da corriere.it
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« Risposta #12 inserito:: Luglio 19, 2008, 07:25:14 pm »

LE MISURE ECONOMICHE


La ricetta dell'efficienza


di Michele Salvati


In Italia si sovrappongono, e sovrapponendosi si aggravano, due grandi problemi. Un problema ormai vecchio: da più di dieci anni la nostra economia quasi non cresce e quasi non cresce la produttività, il prodotto per occupato, una delle due fonti (l'altra è l'occupazione) della crescita del reddito. E un problema più recente, ma che minaccia di durare a lungo: i prezzi del petrolio, dei prodotti agricoli e di gran parte delle materie prime sono aumentati vertiginosamente e questo implica, per un Paese che non produce queste merci, un forte trasferimento di risorse all'estero. Non è una bella notizia per famiglie già provate da una scarsa crescita dei loro redditi, in larga misura dovuta al primo dei problemi che ho ricordato. E non è una bella notizia per il governo, il quale deve convincere queste famiglie che stringere la cinghia è necessario e che sta attivando tutte le misure per farla stringere il meno possibile, specie per coloro che già ce l'hanno stretta. Partiamo dal secondo problema, il più semplice (si fa per dire). Dobbiamo far fronte al rincaro di importazioni indispensabili alle famiglie e alle imprese con maggiori beni prodotti ed esportati, e/o con minori consumi e importazioni: tutto qui. Vie illusorie per addolcire la pillola ci sono: le abbiamo tentate sia dopo il primo che dopo il secondo shock petrolifero del secolo scorso, tra la metà degli anni 70 e i primi 80 (rafforzamento della scala mobile e crescita del disavanzo pubblico), ma hanno prodotto disastri. L'unico addolcimento possibile, anche se costoso, è una forte riduzione delle imposte sui redditi da lavoro più bassi, integrato da misure di welfare per «incapienti» (per soggetti così poveri che non pagano tasse) un po' più serie della social card, i 200 euro che il governo si propone di trasferire quest'anno ai pensionati a basso reddito. Addolcimento costoso, dicevo: se si vogliono mantenere gli attuali livelli di spesa pubblica e non accrescere il disavanzo, bisogna aumentare le tasse da qualche altra parte. Oppure, misura ottimale ma politicamente ancor più difficile, bisogna tagliare seriamente la spesa pubblica. Di fronte a questi costi e difficoltà il governo ha deciso di non far nulla: la pillola per i più poveri resta amara.

Tutto sarebbe più semplice se la nostra economia si trovasse da tempo, e stabilmente, su un ritmo di crescita più sostenuto, invece di ristagnare, e qui torniamo al primo dei problemi che ho ricordato. Spero che gli ultimi interventi della Banca d'Italia (il Bollettino appena pubblicato, la relazione del Governatore all'assemblea dell'Abi, la sua audizione sul Dpef in Parlamento) abbiano convinto anche coloro che manifestano maggiore ottimismo sulle capacità di crescita autonoma dell'economia italiana che è necessario intervenire, e seriamente. È vero, c'è un pezzo importante di industria italiana che ha reagito alle sfide della concorrenza, che compete, produce ed esporta. Ma anche nell'industria è un pezzo limitato. E poi ci sono i settori protetti dalla concorrenza, nell'industria e nel terziario. E poi c'è quasi l'intero settore pubblico, che non è in grado di fornire a imprese e famiglie servizi essenziali.

Insomma, il pezzo del sistema Italia che funziona è troppo piccolo per sostenere la crescita di un Paese così grande e non desta meraviglia che i dati d'insieme per il prodotto e la produttività siano così deludenti. L'intero sistema dev'essere esposto allo stimolo della concorrenza, laddove è possibile, e a una cura drastica di efficienza, laddove possibile non è, come non lo è in gran parte del settore pubblico. Cosa che non soltanto è politicamente costosa, ma ha anche rendimenti molto differiti, che difficilmente possono essere incassati dal governo in carica.

Il governo ha messo in tavola le sue carte, non certo entusiasmanti.
Questo dovrebbe facilitare il compito di una buona opposizione che, al di là delle critiche a singoli provvedimenti (dall'Alitalia alla Robin Tax, dalla social card ad altre misure criticabili) dovrebbe concentrarsi sui due grandi problemi cui ho accennato in questo articolo.

Come difendere i cittadini meno abbienti dal necessario rincaro dei beni e servizi che incorporano materie prime importate, senza provocare rincorse inflazionistiche o disavanzi pubblici, ma anzi riducendo la pressione fiscale. E come stimolare concorrenza ed efficienza ovunque, nei settori privati e in quelli pubblici, premessa indispensabile per una ripresa della crescita. Insomma, che cosa farebbe l'opposizione, in concreto, se fosse al governo?


18 luglio 2008

da corriere.it
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 02, 2008, 03:31:05 pm »

BILANCIO DEGLI ESAMI DI STATO

La maturità centralizzata


di Michele Salvati


Come sono valutati gli esami che concludono la scuola media superiore, gli esami di Stato, quelli che una volta si chiamavano esami di maturità? Le commissioni d'esame sono composte da un presidente, che proviene da una scuola diversa da quella in cui si svolge l'esame, e da sei membri, tre professori dell'ultimo anno della scuola e tre provenienti da altre scuole. Un controllo «esterno», sia pur parziale, dunque esiste. Le valutazioni di queste commissioni hanno lo stesso valore legale: un 80 o un 100 ottenuto nell'istituto X della città A hanno lo stesso «valore» di un 80 o un 100 nell'istituto Y della città B.

Ma tutti sanno che ciò non corrisponde alla realtà. Presidente e professori esterni normalmente provengono da scuole vicine a quella in cui si svolge l'esame, e dunque da contesti socio- culturali analoghi. E quand'anche un esterno avesse standard rigorosi e volesse adottarli in una scuola dove si sono stabilizzati da tempo standard più bassi, normalmente non riuscirebbe a far prevalere la sua opinione, in presenza di docenti interni che «difendono» i loro studenti e di un presidente che cerca di sedare i conflitti e raggiungere rapidamente un risultato. Insomma, in alcune realtà didattiche locali, la scuola è una cosa seria, seri i commissari interni e esterni, seri i risultati degli esami di Stato. In altre realtà le cose non stanno così: gli 80 e i 100 ottenuti nelle due realtà corrispondono a livelli di competenze e conoscenze profondamente diversi. Due anni fa, commentando su questo giornale il dibattito che si svolge a metà agosto in Gran Bretagna, quando vengono pubblicati gli esiti degli esami che concludono la scuola media superiore e danno accesso all'Università (A level), avevo suggerito di introdurre anche in Italia il sistema di correzione centralizzata adottato in quel Paese.

Più esplicitamente è recentemente intervenuto in materia Andrea Ichino sul Sole 24 Ore e sono d'accordo con la sua analisi e le sue conclusioni. Prima domanda e risposta: serve un esame di Stato come quello italiano? No, non serve. Serve poco per promuovere uno sforzo addizionale di docenti e studenti, allo scopo di raggiungere risultati migliori: in molte situazioni l'esperienza insegna che si può intascare il certificato d'esame, e con buoni voti, anche con prove scadenti. Se così stanno le cose, non serve a chi voglia basarsi su quel certificato per valutare chi ha superato l'esame al fine di attribuire un lavoro, una borsa di studio, l'ammissione a un corso universitario con numero chiuso: gli stessi voti corrispondono a capacità e conoscenze molto, troppo, diverse. E non serve allo Stato, che è il responsabile del sistema dell'istruzione pubblica e dunque deve curarne la qualità: per farlo deve sapere quali sono le scuole buone o mediocri, e con il sistema di valutazione oggi in vigore non può certo scoprirlo.

Seconda domanda e risposta: è migliorabile l'impianto attuale di tantissime commissioni indipendenti distribuite sul territorio? Miglioramenti o peggioramenti sono sempre possibili: il regolamento odierno è probabilmente migliore di quello introdotto dalla ministra Moratti, che aveva abolito i commissari esterni. Le considerazioni che abbiamo svolto ci fanno però optare per una risposta negativa. Se entrambe le risposte sono convincenti, ne discende che le alternative sono due. Si aboliscano del tutto gli esami di Stato e si evitino sprechi e inutili fatiche: valgono, per quel che valgono, i voti dell'ultimo anno, e chi deve valutare gli studenti per ulteriori passaggi nella loro carriera (le università, i datori di lavoro, chi concede borse di studio...) stabilirà sistemi di accertamento e di valutazione propri. Oppure si proceda verso prove d'esame tutte scritte e valutate centralmente, com'è il caso del Regno Unito e di alcuni altri Paesi. E' una soluzione che presenta problemi organizzativi non facili (ma risolvibili, visto che altri Paesi li hanno risolti), che non dà risultati perfetti e va tarato in continuazione.

Ma è una soluzione che riduce drasticamente le discrepanze oggi esistenti nel significato dei medesimi voti. E soprattutto farebbe emergere un grande problema della nostra scuola, una varietà regionale dei risultati didattici inaccettabile in un Paese che si pretende unito. Un esame di stato corretto centralmente non è che un gigantesco programma di valutazione, simile a quello che svolge l'Ocse (il famoso «Pisa», Programme for International Student Assessment) e che ci vede drammaticamente indietro rispetto a gran parte degli altri Paesi, soprattutto a seguito dei risultati infimi di alcune regioni. La valutazione sarebbe fatta a 18 anni invece che a 15; si svolgerebbe solo in Italia, dove però non sarebbe attuata su un campione ma sull'intera popolazione. Temo che i risultati sarebbero simili a quelli del «Pisa», ma l'impatto sull'opinione pubblica e sulle forze politiche sarebbe ben superiore e forse indurrebbe queste ultime a intervenire. O almeno così è lecito sperare.

02 agosto 2008

da corriere.it
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« Risposta #14 inserito:: Agosto 26, 2008, 10:54:43 am »

ECONOMIA SOCIALE DI MERCATO

Le regole liberali e la tutela dei soggetti deboli


di Michele Salvati


Nei convegni, nelle feste, nelle numerose iniziative che a fine estate cercano di fare il punto sui grandi scenari dell’economia e della politica—le vacanze non sono del tutto finite e la politica istituzionale non è ancora ricominciata — la lunga intervista a Mario Monti di Carlo Bastasin sul Sole 24 Ore di venerdì scorso meriterebbe un forte rilievo. Per l’importanza dei temi trattati; per l’equilibro dell’argomentazione e la franchezza del giudizio; per il garbo e l’understatement che sono tipici dell’intervistato. Sono quattro gli argomenti di riflessione. Primo: le conseguenze economiche del signor Bush. Ovvero, e più in generale, come gli Stati Uniti abbiano male esercitato un compito di governo che loro spettava come potenza egemone: essi avevano scatenato, quasi trent’anni fa, quella fase di liberalizzazione economica e finanziaria nella quale tuttora viviamo, la «globalizzazione»; a loro spettava il compito di governarla, non solo nel proprio interesse, ma del mondo intero.

Egemonia e responsabilità devono andare insieme e così era avvenuto nel precedente regime economico internazionale, quello disegnato a Bretton Woods, quando spesso gli Usa si comportarono da «egemoni altruisti» (l’espressione è di Bhagwati). La conseguenza che Monti paventa è il discredito dell’economia di mercato, della visione liberale dell’economia, nonché il via libera a un confuso interventismo statale: se la liberalizzazione è intesa come sinonimo della «mercatizzazione » di Tremonti, se una liberalizzazione ben regolata e ben governata non è possibile, perché no? Ma una liberalizzazione ben regolata e ben governata è possibile: questo è il secondo tema.

L’esempio potenziale è l’Unione Europea: l’architettura del suo modello di governance—in particolare la Bce e la politica della concorrenza, da integrare con una politica della vigilanza rafforzata — possono consentire un governo della liberalizzazione planetaria che non corre i rischi in cui sono incorsi gli Stati Uniti. Esempio potenziale, perché Monti è il primo a sapere che l’Unione, come entità politica in cerca di sovranità e di egemonia, è ancora a uno «stadio infantile» rispetto agli Stati Uniti. E che solo evolvendo a uno stadio adulto, pienamente politico, potrà contestare il liberismo impiccione (l’espressione ovviamente non è di Monti) del «signor Bush» e mostrare i meriti del suo modello di governance. Un modello radicato nella filosofia che impregna i trattati dell’Unione e deriva da quella concezione di «economia sociale di mercato» che Monti da sempre cerca di importare in Italia.

Questo è il terzo tema dell’intervista e culturalmente il più importante: socialità è una cosa; statalismo, intervento discrezionale dei poteri pubblici, colbertismo variamente declinato, sono cose ben diverse. Il mercato ha regole che vanno rispettate e le eccezioni (Alitalia, servizi pubblici locali e quanto passa il convento del nostro Paese) vanno escluse, se non passano il test di una giustificazione rigorosa. «Socialità» alla Ludwig Ehrard vuol dire che, nel pieno rispetto del mercato e della concorrenza, e con politiche fiscali universalistiche, i ceti più deboli devono essere protetti dalle peggiori avversità del ciclo economico. Liberalismo, sì, ma assai diverso da quello americano, per il quale consiglio l'impressionante lettura di Supercapitalismo, di Robert Reich. Un liberalismo, quello auspicato da Monti, meno tollerante nei confronti di divaricazioni estreme nella distribuzione del reddito e delle chances di vita; ma anche meno interventista, discrezionale e distorsivo rispetto alle regole di mercato.

Chi è il più liberale? Rimaneva poco spazio a Monti e ne rimane ancor meno a me, per affrontare il quarto tema: siccome lo stesso Tremonti preannuncia per settembre una discussione sull'economia sociale di mercato, come si confronta con questo ideale l'effettiva azione di governo? Monti riconosce agevolmente i meriti del ministro dell'Economia nell'impostare e far rispettare una disciplina di bilancio rigorosa. Manifesta dubbi nei confronti della strategia di sviluppo che si intravede nei provvedimenti del governo, e che non escludono confusione di ruoli tra Stato e mercato, politica e impresa. Non è questo, aggiungo a quanto dice Monti, il significato proprio dell'aggettivo «sociale» che qualifica «economia di mercato». Un vero provvedimento «sociale» sarebbe stato, nelle attuali condizioni dell'economia italiana, una forte riduzione della pressione fiscale sui redditi più bassi, i più colpiti dal ristagno e dall'inflazione. Ovviamente compensato da ancor maggiori risparmi di spesa. Ma forse, per quanto forte in termini numerici, la coalizione di governo non è forte abbastanza da potersi attenere ai principi di una vera economia sociale di mercato. Ammesso che voglia attenervisi.

25 agosto 2008

da corriere.it
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