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« Risposta #15 inserito:: Settembre 15, 2008, 11:31:39 am » |
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SENZA FONDI E PROGETTI
L'università nell'ombra
di Michele Salvati
Ha fatto bene il Corriere a dare tanto rilievo all'edizione 2008 del Rapporto Ocse sull'istruzione. Non perché racconti una storia molto diversa da quella del 2007 o metta a disposizione dati ignoti a chi si occupa di queste cose. Ma perché ogni occasione è buona, e questa era ottima, per mettere in allerta l'opinione pubblica su un tema di grande importanza per lo sviluppo economico, il benessere dei cittadini, la giustizia sociale, la qualità della società civile e della stessa democrazia. Di questo si tratta quando si parla di istruzione. E per questo è grande lo sconforto nel constatare che il nostro Paese occupa un posto così basso nelle classifiche che l'Ocse compila sui più diversi indicatori. E quando il posto non è basso, come non lo è per il numero di insegnanti o la spesa per allievo nella scuola media, lo sconforto è ancor maggiore perché l'efficacia dell'insegnamento misurata attraverso esami confrontabili ci fa di nuovo ripiombare negli ultimi posti della classifica. Limito il commento all'Università, che è il segmento che conosco meglio e sul quale il rapporto Ocse concentra le maggiori critiche. A differenza della scuola, è quello in cui la spesa per studente è inferiore alla media; il tasso di abbandono è superiore; la capacità di attrazione di studenti stranieri è infima; gli iscritti sono sì molto cresciuti, ma lo è assai meno la percentuale di laureati sulle fasce d'età più giovani: in ogni caso siamo sempre ben al di sotto degli altri Paesi avanzati. Un pessimo risultato per una grande nazione europea, la culla della civiltà occidentale come i politici amano ricordare, sempre aggiungendo che l'istruzione è la migliore carta che possiamo giocare per stimolare la crescita. A queste affermazioni corrispondono poi disegni, programmi, azioni concrete?
Lascio da parte una valutazione del precedente ministro dell'Università: negativa, anche se a sua scusante può invocare la fragilità del governo di cui era parte e la sua breve durata. Il governo in carica è però robusto e sembra destinato a durare: qual è il disegno del ministro Maria Stella Gelmini? Per ora vediamo azioni, previste in alcuni articoli del super-decreto legge tremontiano di finanza pubblica, il ben noto 112/88: azioni gravide di conseguenze, ma di un disegno di lungo periodo neppure l'ombra. Il fondo di finanziamento ordinario delle università viene progressivamente ridotto e le assunzioni di personale tagliate: insomma, le «bestie-atenei» vengono affamate. Dove possono rivolgersi per nutrirsi? Si trasformino in Fondazioni di diritto privato — questa è la risposta dell'articolo 16 —, diventino più efficienti e cerchino risorse nella società civile: hanno voluto l'autonomia? La usino. «Maestà, il popolo non ha pane (pubblico). E allora si nutra di brioches (private)»: come non ricordare la famosa battuta attribuita a Maria Antonietta di fronte a questa operazione?
Non vorrei suscitare equivoci. Tagli erano inevitabili, soprattutto nella scuola, dove non possiamo permetterci un rapporto docenti/studenti così elevato. Ma nell'università la situazione è semmai squilibrata in senso opposto e occorreva essere cauti nell'affamare: di inedia si può morire, se le brioches delle Fondazioni non funzionano. Funzioneranno? Come facciamo a saperlo se non ci viene presentato un programma di legislatura che disegni un percorso di transizione dalla situazione attuale ad una futura e più soddisfacente? Una road map, come si dice adesso. Non ce l'ho per principio contro l'idea delle Fondazioni, avanzata tempo addietro da due stimabili colleghi, Gianni Toniolo e Nicola Rossi. Né ce l'ho contro l'idea di immettere «più privato» nell'istruzione superiore: il gatto sia pure rosso o nero, purché prenda i topi. Ma in un Paese serio una grande riforma è sempre preceduta da una discussione di merito approfondita e razionale, spesso avviata da un documento ministeriale di un certo impegno: un libro verde, o qualcosa di simile, come Maurizio Ferrera non si stanca di ripetere.
L'ha fatto Sacconi per il welfare, non poteva farlo Gelmini per l'Università e per la scuola? Per la scuola poteva partire dall'eccellente «quaderno bianco» dei ministeri dell'Economia e dell'Istruzione del precedente governo. Molti materiali ufficiali sono disponibili anche per l'Università e delle riflessioni di alcuni tra i più noti studiosi del problema fa una buona rassegna il libro di Moscati e Vaira, pubblicato quest'anno dal Mulino. Forse non sono gli studiosi cui il ministro fa riferimento, forse preferisce le tesi più radicali esposte da alcuni noti economisti della Bocconi. In via generale, ma soprattutto in questo caso, ci dia un'idea del percorso, passo per passo, prendendo posizione sul gran numero di problemi sui quali dovrà intervenire per arrivare ad una meta così distante dalla situazione attuale. Solo così saremo in grado di distinguere le resistenze conservatrici che ogni riforma importante incontra, e che devono essere superate, dalle obiezioni che devono essere discusse seriamente e sulle quali le forze politiche devono prendere posizione.
15 settembre 2008
da corriere.it
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« Risposta #16 inserito:: Settembre 25, 2008, 12:07:15 pm » |
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LE REGOLE CHE MANCANO
Stato, mercato e idee confuse
di Michele Salvati
Non vorrei che la crisi finanziaria in corso negli Stati Uniti e l'affannoso intervento pubblico che sta provocando in quel Paese alimentassero nel nostro un clima di «più Stato» altrettanto superficiale — ma gravido di conseguenze politiche — del clima di «più mercato» che dominava fino a un anno fa: condivido la preoccupazione espressa da Mario Monti nel suo editoriale di domenica scorsa.
È vero, il Tesoro americano sta impiegando risorse immense per attenuare le conseguenze della crisi. Ma si tratta di una risposta d'emergenza: il problema all'origine delle difficoltà attuali non è di quelli che si risolvono buttandogli quattrini (pubblici) addosso. È un problema di insufficiente e cattiva regolazione dei mercati, dal quale consegue un rischio di instabilità finanziaria, una elevata probabilità di crollo dell'immane piramide di debiti e crediti che si è lasciata costruire negli ultimi anni su basi insicure. Un rischio di cui le autorità statunitensi erano consapevoli — una parte dei tanto vituperati economisti non si è mai stancata di richiamarlo — ma sul quale non sono intervenute in tempo. Un po' perché, quando le cose andavano bene, ci guadagnavano tutti e occorreva grande forza politica per spegnere l'«esuberanza », anche se «irrazionale». Ma soprattutto perché quelli che ci guadagnavano di più (molto di più) disponevano di grande influenza presso le autorità preposte alla regolazione.
Se gli interventi di emergenza risulteranno efficaci e poi, e soprattutto, in che tempi le autorità riusciranno a costruire un assetto regolatorio e di vigilanza capace di restituire ai mercati finanziari la fiducia di cui hanno bisogno, non è possibile prevedere. Ci riusciranno, certamente, ma dopo aver fatto pagare costi altissimi in termini di benessere agli Stati Uniti e al mondo intero. Vorrei solo sottolineare che parlare in modo generico di «più Stato» per quanto sta avvenendo in America confonde solo le idee. Essenzialmente si tratta di un fallimento della politica, una politica inquinata da legami troppo stretti con i grandi interessi privati, che non ha saputo imporre regole adeguate al sistema dei mercati finanziari. Regole che avrebbero consentito di avere insieme una finanza competitiva e innovatrice — nella misura necessaria allo sviluppo dell'economia reale — con condizioni di stabilità e fiducia. Che avrebbero evitato le inefficienze e le ingiustizie connesse all'impegno di risorse pubbliche cui il Tesoro degli Stati Uniti è stato ora costretto.
Confondere le idee può essere pericoloso in un Paese come il nostro, che con le regole non ha mai avuto un rapporto facile, in cui i rapporti tra politica e affari sono sempre stati assai stretti, in cui lo stesso capitalismo privato, nei suoi piani alti, è largamente un capitalismo di relazione, non di mercato. Un Paese in cui il conflitto di interessi è ancor più endemico, direbbe Guido Rossi, che negli Stati Uniti. Un disegno di regolazione efficace è sicuramente un intervento pubblico, ma non è «più Stato» nello stesso senso in cui lo è pasticciare discrezionalmente con Alitalia. Anzi, è il suo esatto contrario: regole contro discrezionalità, distanza contro vicinanza con gli interessi privati, statualità contro politica. Di «più Stato» nel primo significato avremmo grande bisogno, soprattutto per tornare a crescere nel lungo periodo. In un Paese fermo, nel quale la politica deve dare l'impressione di fare qualcosa, e con effetti immediati, temo che sarà il secondo significato a prevalere.
25 settembre 2008
da corriere.it
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« Risposta #17 inserito:: Ottobre 03, 2008, 10:27:31 am » |
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LA BUFERA FINANZIARIA E L’ITALIA La crisi e le riforme di Michele Salvati Negli ultimi otto anni, i primi di questo secolo, il tasso di crescita della nostra economia è stato circa il 60% di quello dell'Eurozona. Forse dovremo augurarci che questi rapporti continuino a valere anche in un prossimo futuro di recessione, se consideriamo i tassi in valore assoluto: crescere allo 0,60 quando gli altri crescono all'uno è un male; decrescere allo 0,60 quando gli altri decrescono all'uno è un male minore. E' una battuta, ovviamente, perché è assai più probabile che la regola sin qui seguita si inverta quando si inverte il segno della crescita: dunque che i nostri tassi di decrescita siano superiori a quelli altrui in valore assoluto. Ma la battuta mette in evidenza tre cose importanti: che siamo alle soglie di una recessione; che c'è un rapporto stretto tra la crescita o decrescita europea e la nostra; che le nostre difficoltà di crescita hanno anche un'origine strutturale. La crisi finanziaria scatenatasi in America ha compromesso il bene fondamentale sul quale si basano le economie moderne: la fiducia, la ragionevole aspettativa che i debiti saranno onorati. Di conseguenza i canali del credito - quelli che si irradiano tra banche e istituzioni finanziarie, e poi tra entrambe e le imprese e le famiglie- si sono inariditi. Il che si riflette inevitabilmente sulla spesa - sui consumi e gli investimenti- in buona misura finanziati a credito. E potrebbe trasformare la recessione incombente in una depressione, se i livelli di attività economica e occupazione ne risentissero in modo significativo, perché in questo caso la potenziale solvibilità di famiglie, imprese, istituzioni finanziarie e banche precipiterebbe in una spirale cumulativa. Non avverrà così, probabilmente, perché le autorità americane stanno intervenendo in modo massiccio: ma basta un passo falso perché la situazione sfugga al controllo. E poi l'onda di piena della crisi finanziaria non è ancora arrivata in Europa e le istituzioni europee sono meno attrezzate ad affrontarla, come spiega in modo semplice ed efficace Francesco Daveri su www.lavoce.info (L'Europa che non c'è, 30/09 2008). E in Italia? Sono di ieri le notizie di un intervento rassicurante del Presidente del Consiglio; della sospensione delle vendite allo scoperto delle azioni di banche e assicurazioni decisa dalla Consob; di un comunicato concertato del Ministro dell'Economia e del Governatore della Banca d'Italia: quanto potrà essere fatto sul piano interno e nei rapporti coll'Europa per affrontare la crisi finanziaria sarà fatto da autorità che si muovono all'unisono. Ma l'Italia è il Paese in cui sinora è stata vera la mediocre regola del 60 per cento ed è per affrontare questa debolezza strutturale che, a partire dalla crisi dell'estate del 1992, si è intrapreso un ambizioso indirizzo di riforma di cui sono state parti centrali la forte riduzione della proprietà pubblica nell'economia, un (incompleto) programma di liberalizzazioni, il disegno di nuove regole che favorissero la concorrenza nei mercati dei fattori e dei prodotti. Qual è l'atteggiamento del governo nei confronti di questo indirizzo, sinora sostenuto da entrambe le coalizioni politiche che si sono alternate al potere in questi sedici anni? Il clima è cambiato. Se vogliamo abbattere il muro del 60%, sarebbe però esiziale se di questo si profittasse per fare di ogni erba un fascio, per abbandonare programmi di liberalizzazione che nulla hanno a che fare coll'assenza di regole che ha provocato la crisi finanziaria, per favorire il ritorno di quello Stato impiccione che tanto piace alla politica. 02 ottobre 2008 da corriere.it
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« Risposta #18 inserito:: Ottobre 14, 2008, 08:39:24 am » |
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Caute previsioni
di Michele Salvati
Se da questa crisi finanziaria usciremo in tempi ragionevoli e con danni limitati — è un esito possibile, forse il più probabile, nonostante la gravità della situazione — quale sarà il modello di capitalismo nel quale entreremo dopo la crisi? Circolano in questi giorni le previsioni più estreme: nuove Bretton Woods, vincoli alla libera circolazione dei capitali, ri-regolazioni incisive dei singoli capitalismi nazionali. Insomma, un modello di capitalismo radicalmente diverso. Per quel che vale (è una previsione, non un auspicio) la mia è più cauta: il modello in cui ci ritroveremo a vivere dopo la fase acuta della crisi non sarà molto diverso da quello che è prevalso in quest'ultimo quarto di secolo, un modello neoliberale, come alcuni lo chiamano.
Nella sua forma più estrema, si tratta di un modello nel quale i capitali sono liberi di cercare i massimi rendimenti scorrazzando per il mondo intero; i mercati dei prodotti e dei fattori sono deregolati quanto è possibile; le imprese si fanno una concorrenza intensa e i grandi investitori istituzionali premiano quelle che garantiscono nel breve periodo il massimo valore per gli azionisti; le banche e le istituzioni legali e finanziarie assecondano questa «creazione di valore» — chiamiamola così — con strumenti sempre più sofisticati; i grandi manager sono pagati come calciatori e stelle del cinema, perché, al pari di loro, fanno guadagnare molto chi li impiega; la politica, come sempre, è legata a filo doppio all'economia, da cui ricava risorse per campagne elettorali sempre più costose, e non si sogna certo di contrastare il modello prevalente, finché le cose vanno bene. Insomma, è il modello che Robert Reich descrive nel suo recente Supercapitalismo.
Perché una previsione così cauta di fronte a una crisi così grave? Non certo perché ritenga che il capitalismo abbia giocato o debba giocare sempre con le stesse regole. O che quelle con le quali ha giocato negli ultimi anni, soprattutto in America, siano in qualche modo regole ottimali, se giudicate per i loro esiti di benessere. Di fatto, a livello mondiale, il capitalismo ha giocato con regole molto diverse: per rendersene conto basta confrontare i trent'anni successivi alla seconda guerra mondiale — l'«età dell'oro» — con la fase di deregulation e globalizzazione che è seguita alla presidenza Reagan, il modello neoliberale, appunto. E poi tuttora esiste una grande varietà di «capitalismi» nazionali: quello che abbiamo sommariamente descritto prima, il capitalismo anglosassone, è sicuramente il modello dominante, ma non è affatto esclusivo, neppure tra i Paesi occidentali o a questi assimilabili. Ed è infine controverso quale di questi modelli sia «migliore» dal punto di vista del benessere dei cittadini: quello americano è sicuramente eccellente dal punto di vista della libertà, dell'innovazione, dell'efficienza, della creazione di occasioni di lavoro. Lo è anche dal punto di vista della sicurezza e della distribuzione del reddito?
Il motivo che mi induce ad una previsione cauta, pur nel contesto degli aggiustamenti di cui si sta discutendo in questi giorni e del ruolo che i poteri pubblici stanno (provvisoriamente?) assumendo, è presto detto: non sono in discussione reali alternative nelle modalità profonde di regolazione del capitalismo. Per quanto fosse prevedibile, questa crisi ha preso in contropiede sia gli economisti, sia le classi dirigenti, economiche e politiche, dei principali Paesi occidentali: persino le sinistre si erano rassegnate a convivere col supercapitalismo e la globalizzazione. Se invece guardiamo all'esperienza del secolo scorso, ai due grandi cambiamenti di modello che allora avvennero — dall'economia liberale all'economia keynesiana negli anni 30 e 40; e poi da questa all'economia neo-liberale e alla globalizzazione negli anni 70 e 80— ci rendiamo conto che essi sono stati accompagnati/ provocati sia da crisi economiche profonde, sia da ri-orientamenti ideologici, culturali, teorici e, da ultimo, politici, altrettanto profondi. Quella keynesiana fu una vera rivoluzione, teorica e culturale ancor prima che politica; e fu una rivoluzione (alcuni direbbero una controrivoluzione) anche quella monetarista e neo-liberale, negli anni 70 e 80 del secolo scorso, anch'essa teorica e culturale, prima che politica. Nulla di questo è visibile oggi, anche se uno degli ingredienti di un cambiamento di modello — la gravità della crisi — sembra essere presente. Si potrebbe obiettare che anche nel '29 le risposte politiche e teoriche non furono subito a portata di mano e si dovettero aspettare i Roosevelt e i Keynes. Faccio però fatica ad assimilare quella congiuntura storica a quella attuale e a vedere in Barack Obama, nel caso dovesse vincere, un nuovo Franklin Delano Roosevelt. Per non dire dell'assenza di un nuovo Keynes. E dunque ricordo, a chi prevede (o auspica) radicali mutamenti, la risposta della sentinella di Isaia a chi domandava quanto sarebbe durata la notte: «Verrà il mattino, ma è ancora notte; se volete domandare, tornate un'altra volta».
14 ottobre 2008
da corriere.it
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« Risposta #19 inserito:: Ottobre 27, 2008, 03:55:00 pm » |
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CRISI E DISUGUAGLIANZE
La morsa dei redditi
di Michele Salvati
Le previsioni economiche, come quelle meteorologiche, vanno lette con cautela. Anche quando è nell'aria un punto di svolta, anche quando si è certi che presto o tardi ci sarà un momento di rottura, è difficile indovinare quando esattamente avverrà: se così non fosse non si spiegherebbero i guadagni e le perdite che gli speculatori fanno in questi casi. Ma quando la svolta è avvenuta, gli sviluppi successivi sono più facili da prevedere, perché le forze all'opera e le conseguenze della loro interazione sono meglio note agli economisti. Proprio come sono note ai meteorologi le conseguenze sul tempo in Italia di un anticiclone sull'Atlantico, una volta che si è stabilmente installato lì: difficile è prevedere quando si stabilizzerà. Purtroppo appartengono al genere delle previsioni relativamente affidabili quelle che stanno circolando sulle prospettive della crescita americana ed europea: siamo in recessione, che in alcuni Paesi potrà implicare trimestri di crescita negativa e almeno un paio d'anni di difficoltà serie per tutti. E siccome l'economia italiana cresce nettamente meno della media europea, ci aspettano tempi duri. Più duri che nel resto dell'Europa. Perché?
In parte la risposta va cercata nel deperimento relativo delle nostre strutture economiche e istituzionali: i cattivi governi di un lontano passato ci hanno lasciato in eredità un settore pubblico e un settore privato meno efficienti e competitivi di quelli altrui. In parte le nostre maggiori difficoltà derivano dalle scarse risorse mobilitabili per alleviare i numerosi punti di sofferenza che la crisi produce. Con un debito pubblico superiore al Pil — anch'esso conseguenza dei cattivi governi del passato — dobbiamo dedicare una frazione maggiore del prelievo fiscale al pagamento degli interessi e sono minori le possibilità di sostenere disavanzi in un caso di emergenza, com'è quello che incombe. Di alzare ulteriormente la pressione fiscale neppure si discute: non solo perché è già molto elevata, ma perché in casi di domanda fiacca è controproducente. E' probabile che l'Unione chiuderà un occhio sul rispetto della regola del disavanzo se la situazione si farà veramente grave; ma ne chiuderà due per Paesi che hanno rapporti Debito/ Pil assai inferiori al nostro. E poi, da ultimo, neppure si tratta delle regole europee, ma del giudizio che dei nostri disavanzi, del nostro debito, della nostra affidabilità complessiva daranno i mercati.
Dunque, risorse scarse e numerosi punti di crisi. Come verranno scelti quelli sui quali intervenire? C'è già un impegno del governo sul sistema bancario e c'è solo da sperare che questo se la cavi con risorse proprie. Si è accennato anche a interventi nel caso di difficoltà delle grandi imprese, le poche che ci sono rimaste, e c'è un precedente pericoloso, quello di Alitalia. Ma il nostro è un Paese di piccole imprese e di distretti: come intervenire nel caso si creassero situazioni di sofferenza?
Non sono le imprese, semplici entità giuridiche, ma le persone, i lavoratori, quelli che soffrono e bisognerà finanziare ampiamente la Cassa integrazione straordinaria, nel caso di crisi aziendali. Non basterà, perché a perdere il posto saranno soprattutto lavoratori che non hanno diritto alla Cassa integrazione e giustamente il governo ha messo in cantiere un piano di ammortizzatori: sarà sufficiente? E' ben congegnato? Alla base di tutto c'è il problema dei bassi redditi, delle famiglie che faticano ad arrivare alla quarta settimana: detassare gli straordinari o la contrattazione integrativa va bene per incentivare la produttività, ma non è la risposta più efficace in un momento di crisi, quando di straordinari o di contrattazione di secondo livello se ne fanno di meno. E questo ci porta al più grave difetto d'impianto della manovra economica, la mancata detassazione dei redditi più bassi e, più in generale, l'assenza di misure universali a loro sostegno: non era necessario attendere il recente rapporto dell' Ocse per sapere che il nostro, in Europa, è uno dei Paesi in cui le disuguaglianze sono maggiori e, soprattutto, si stanno aggravando. E non è necessario essere degli economisti per rendersi conto che le diseguaglianze mordono di più quando il reddito complessivo diminuisce.
I punti di sofferenza, come li abbiamo chiamati, sono ben più numerosi. Aggiungere a questi il Mezzogiorno è quasi imbarazzante per la sua evidenza — quando si parla di povertà si parla soprattutto di Mezzogiorno — e preoccupa la mancanza di risorse dei Comuni, i più esposti sul fronte di interventi di assistenza immediata: non credo che, se avesse previsto la crisi, il governo avrebbe eliminato subito l'Ici sulla prima casa. Ma recriminare è inutile. Ora c'è bisogno di un indirizzo politico che, riconoscendo la gravità della situazione, concentri le poche risorse disponibili sui punti di maggiore sofferenza. Che ne impedisca la dispersione in mille rivoli, a seconda di chi grida più forte o ha le connessioni migliori, siano essi i produttori di frigoriferi o di parmigiano reggiano. Che non approfitti dell'emergenza per abolire o stravolgere le regole alle quali è affidata, nel lungo periodo, una risposta alle nostre difficoltà di crescita.
27 ottobre 2008
da corriere.it
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« Risposta #20 inserito:: Dicembre 13, 2008, 12:46:08 am » |
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Politica Una ricerca del Mulino sui fattori che hanno determinato l' esito delle ultime elezioni
Pd, quelle due verità su Prodi
Prospettive Non ha funzionato l' idea di sfondare al centro, ma resta valida la scelta di un forte rinnovamento culturaleLa discontinuità del nuovo partito rispetto al governo uscente e la scelta di correre da soli senza stringere alleanze a sinistra
Per fare una buona analisi di una elezione nazionale occorre tempo. Passato questo tempo l' elezione non è più una notizia: i suoi risultati e le sue conseguenze sono stati digeriti dai media e la politica au jour le jour prosegue inarrestabile il suo corso. Sarebbe però un vero peccato se questo comprensibile effetto mediatico attenuasse l' interesse per Il ritorno di Berlusconi, la ricerca Itanes (acronimo per Italian National Elections Studies dell' Istituto Carlo Cattaneo di Bologna) sulle elezioni del 13-14 aprile, da poco pubblicata dal Mulino. I prodotti periodici di questo gruppo di lavoro sfidano le leggi della stretta attualità, fissano interpretazioni difficilmente confutabili e soprattutto identificano problemi che continuano a riemergere e contro i quali gli attori del gioco politico continuano a sbattere la testa.
Così è stato per le ricerche dedicate alle precedenti elezioni politiche, del 2001 e del 2006, e a maggior ragione lo è per quelle di quest' anno: un vero cataclisma, che ha visto una drastica riduzione dei gruppi politici presenti in Parlamento (da 15 a 9, rispetto alla precedente legislatura); la scomparsa della sinistra estrema, dei verdi e dei socialisti; un divario di quattro milioni di voti tra i due poli del nostro bipolarismo, che erano grosso modo equivalenti nelle elezioni del 2006.
Che cosa spiega questo cataclisma? Prima dei tentativi di spiegazione l' Itanes assolve un compito di descrizione accurata dei risultati elettorali: il centrosinistra ha perso perché i suoi precedenti elettori si sono astenuti di più di quelli del centrodestra; perché gli elettori guadagnati dal Partito democratico per effetto del voto utile, molti, hanno ovviamente un effetto nullo sul totale del centrosinistra essendo stati strappati ad altre componenti di questo stesso schieramento; perché il Partito democratico non è riuscito a guadagnare verso il centro e il centrodestra ed anzi perde a favore dei partiti del polo avverso circa il 10 per cento di coloro che nel 2006 avevano votato per l' Ulivo, soprattutto nel Sud.
Questi i dati principali, peraltro noti da tempo.
Ma l' Itanes combina i dati elettorali con un' indagine campionaria svolta nelle settimane successive alle elezioni e li confronta con i risultati di indagini precedenti: da questo insieme nascono gli spunti interpretativi più interessanti. Sulla persistenza e variazione delle tradizioni politiche regionali. Su come ha giocato la percezione di insicurezza, e di quali tipi di insicurezza. Sul voto dei cattolici praticanti.
Sulla disaffezione verso la politica. Sugli orientamenti in tema di Stato/mercato in campo economico e di tradizionalismo/individualismo in campo etico. Sulla personalizzazione dell' offerta politica e l' effetto leader. L' analisi di questi spunti dobbiamo lasciarla ad una lettura più dettagliata di quella che è possibile svolgere qui. Ora vorrei limitare il mio commento a un solo problema, sul quale le riflessioni conclusive del rapporto possono provocare qualche perplessità. Poco prima delle elezioni, da poco costituito il Partito democratico, Walter Veltroni calava sul piatto l' asso dell' «andare da soli» (con Di Pietro, in realtà); a questa mossa Berlusconi rispondeva con il «Popolo della Libertà» - un patto organico con Alleanza nazionale in vista della costituzione di un nuovo partito - e con un' alleanza elettorale con la Lega.
Sono state queste mosse a produrre la semplificazione dei gruppi parlamentari, perché i partiti in precedenza inclusi nell' alleanza di centrosinistra, costretti ad andare da soli, non sono riusciti a superare la soglia di sbarramento.
Anche se quest' ultimo esito non era prevedibile, Walter Veltroni non poteva non sapere che la macchina da guerra rapidamente messa insieme da Silvio Berlusconi era poderosa: persino sulla base dei risultati delle precedenti elezioni, sfavorevoli per il centrodestra, questo schieramento prevaleva nettamente su Ds e Margherita, ora fusi nel Partito democratico; inoltre, dato il discredito del governo (meritato o immeritato che fosse) e la traumatica interruzione della legislatura, i suoi consensi erano in forte crescita.
In queste condizioni «il Pd è sceso in campo cercando di trovare un difficile equilibrio tra la necessità di non dissipare il patrimonio di voti dell' area della sinistra allargata e di presentarsi come una formazione in grado di ampliare al centro il proprio bacino elettorale».
Nessuno dei due scopi è stato raggiunto.
Persuaso che il giudizio negativo sul governo Prodi fosse irreversibile, Walter Veltroni ha insistito soprattutto sulla discontinuità del Partito democratico rispetto alla precedente coalizione di centrosinistra, nella convinzione che la popolarità di cui personalmente godeva potesse essere la risorsa strategica della campagna elettorale.
Ora, sostiene il rapporto sulla base dei dati di sondaggio, l' impopolarità del governo Prodi non era in realtà maggiore di quella del governo Berlusconi alle soglie delle elezioni del 2006.
E il tentativo di affermare una discontinuità allettante per gli elettori del centro non ha funzionato. Assai più efficace era stata la campagna di Silvio Berlusconi del 2006, largamente basata su una orgogliosa rivendicazione dei risultati del suo governo: la vittoria gli sfuggì per un soffio.
La domanda implicita è: perché Walter Veltroni non ha fatto lo stesso?
Dopo tutto i risultati del governo Prodi erano almeno altrettanto difendibili (o indifendibili) di quelli del governo Berlusconi e dal passato non ci si può staccare con una semplice ridefinizione di contenitori politici (il Partito democratico) e con una pura operazione di immagine.
Ma è veramente confrontabile il Berlusconi del 2006 con il Veltroni del 2008? È confrontabile - per solidità, coerenza, e soprattutto forza della leadership - l' alleanza di centrodestra con quella di centrosinistra?
E quale alternativa era disponibile per il Partito democratico: un' alleanza tipo Unione, ma questa volta tutta sbilanciata a sinistra?
Forse la sconfitta sarebbe stata meno bruciante, ma non si sarebbe annullato ogni elemento di novità culturale e programmatica del neonato partito?
Senza affrontare problemi di questo genere la critica alla strategia elettorale del Partito democratico - implicita ma ben percepibile - non può essere sostenuta sulla base dei soli risultati della ricerca e rischia di dare al capitolo conclusivo un' accentuazione partigiana, da dibattito interno al Pd, che per fortuna è assente nel resto della ricerca.
L' analisi Itanes sul voto S' intitola «Il ritorno di Berlusconi. Vincitori e vinti nelle elezioni del 2008» (Il Mulino, pagine 224, 14) il volume che contiene il rapporto sul voto dello scorso aprile elaborato dall' Itanes, centro studi legato ad alcuni atenei e all' Istituto Cattaneo
Salvati Michele
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« Risposta #21 inserito:: Dicembre 30, 2008, 10:04:35 am » |
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GOVERNO E OPPOSIZIONE
La distensione necessaria
di Michele Salvati
Le esortazioni all’ottimismo del presidente del Consiglio sempre più assomigliano agli «allegria, allegria!» di Mike Buongiorno. C’è poco da stare allegri. Come tutti i Paesi sviluppati, anche il nostro è preso nel vortice della più grave crisi economica del dopoguerra. Ma soffrirà più degli altri: cresceva di meno quando gli altri crescevano, probabilmente arretrerà di più mentre gli altri ristagnano o decrescono.
La ragione di ciò risiede in guasti antichi, mai riparati, delle nostre strutture economiche, sociali e istituzionali: risiede in un terzo del Paese che è tuttora incapace di sviluppo autonomo; in un assetto produttivo che, pur non mancando di punti di forza, non è in grado di compensare la debolezza dell’insieme; in essenziali servizi pubblici—scuola e giustizia sono nel mirino, ma non si tratta solo di questi — che funzionano male; in un’etica pubblica e in un grado di civismo al di sotto degli standard di un Paese progredito; in livelli di corruzione — in tutti i casi in cui il pubblico si incontra col privato — che sono invece superiori a quelli dei Paesi cui ci confrontiamo; per non dire di un sistema criminale che in molte aree ha sostituito lo Stato come monopolista della violenza, della capacità di sanzione.
Non mancano disegni condivisi per riparare questi guasti antichi, premessa indispensabile per soffrire di meno durante la crisi internazionale e tornare a crescere quando sarà finita. Alcuni sono stati attuati con successo nella fase di riforme che seguì alla crisi della Prima Repubblica, tra il 1992 e il 1998, quando l’emergenza premeva, gli obiettivi macroeconomici (il risanamento e l’euro) erano chiari, e la politica politichese aveva allentato la sua morsa. L’azione riformatrice non venne però perseguita con la stessa intensità dai governi successivi: le riforme strutturali contrastano con interessi tenaci e bisogna insistere, con pazienza e per lungo tempo, prima di scorgere risultati apprezzabili. Pazienza, capacità di contrastare interessi, attenzione al lungo periodo sono virtù deboli in ogni sistema democratico, costretto a frequenti riscontri elettorali. Ancor più deboli nel nostro, per alcuni caratteri che esso venne acquistando dopo la crisi politica dei primi anni ’90. Si verificò infatti un fenomeno singolare: proprio quando erano crollate le ideologie e superati i conflitti internazionali che avevano giustificato lo scontro di sistema della Prima Repubblica; proprio quando un avvicinamento, e un avvicendamento, su una piattaforma riformistica largamente comune sembravano a portata di mano, la riforma della legge elettorale e la «discesa in campo» di Silvio Berlusconi contribuirono a creare un sistema politico bipolare caratterizzato da un’intensità polemica tra i due schieramenti, e da una pratica di reciproca demonizzazione, sconosciute in altri Paesi.
Come se all’attenuazione dei motivi che ovunque distinguono una piattaforma politica di centrodestra da una di centrosinistra — e di solito hanno a che fare con le politiche economiche e sociali — si fosse reagito esasperando motivi di contrasto —sul ruolo della magistratura, sul conflitto di interessi, su un disegno di grandi riforme costituzionali— che in altri e più fortunati Paesi non sussistono proprio e comunque non dovrebbero avere a che fare con la distinzione tra i due principali schieramenti politici. Una situazione di reciproca demonizzazione, di lotta esasperata, di raccolta di tutte le forze che consentono di battere l’avversario e conseguire il premio elettorale, non contribuisce a formare governi coerenti e a creare un’atmosfera in cui è agevole affrontare le riforme strutturali di cui il Paese ha bisogno: riforme che spesso esigono la condivisione o quantomeno la tolleranza da parte delle opposizioni. Condivisione e tolleranza oggi più facili, per l’attenuazione dello scontro ideologico, e premessa indispensabile affinché l’azione riformatrice possa essere proseguita sugli stessi binari nel caso che l’opposizione dovesse prevalere nella successiva tornata elettorale.
Auspicare che l’esasperazione polemica si attenui non è solo un innocuo buon proposito di fine anno. In molti campi — in materia di federalismo, di pubblica amministrazione, nella stessa istruzione pubblica e in altri ancora — ci sono forze della maggioranza e dell’opposizione che già stanno cooperando al fine di definire le riforme di cui il Paese ha bisogno. E nello stesso Partito democratico lo "spirito del Lingotto" sembra aver ripreso a soffiare. Sta soprattutto al Presidente del Consiglio indirizzare l’azione di governo in modo tale da favorire una reciproca distensione. Predicare ottimismo è doveroso. Ma affinché queste prediche abbiano una consistenza un po’ maggiore degli "allegria" di Mike Buongiorno sarebbe opportuno non alimentare sospetti e preoccupazioni nell’opposizione, sempre tentata da uno scontro frontale, con annunci estemporanei di possibili riforme costituzionali in senso presidenziale, o con altre uscite di simile tenore.
30 dicembre 2008
da corriere.it
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« Risposta #22 inserito:: Gennaio 20, 2009, 09:22:22 am » |
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Non sarà una vera svolta
di Michele Salvati
Nel secolo scorso gli Stati Uniti hanno conosciuto due regimi di politica economica, uno a bassa e uno ad alta regolazione pubblica. E due svolte di regime: da bassa ad alta, dopo il trauma della grande depressione, negli anni 30; e da alta a bassa, negli anni 80, dopo le turbolenze inflazionistiche del decennio precedente.
I presidenti che hanno accompagnato queste svolte sono stati Roosevelt, per la prima, e Reagan, per la seconda. Domanda. Sarà Obama un presidente di svolta o un presidente di continuità? Per restare in campo democratico, sarà più simile a Roosevelt, o più simile a Clinton? Prima di tentare una risposta, due precisazioni. Per «regime» non intendo soltanto obiettivi e strumenti di politica economica, nonché le teorie che collegano gli uni agli altri: obiettivi di stabilità dei prezzi, strumenti soprattutto monetari e di supply side nei regimi a bassa regolazione; obiettivi di alta occupazione e di controllo del ciclo, strumenti monetari e fiscali di sostegno della domanda, nei regimi ad alta regolazione. Intendo anche l'atmosfera culturale, le visioni della società, i sistemi di valori che circondano il nucleo di politica economica: Free to choose, il pamphlet ideologico di Rose e Milton Friedman, è stato altrettanto importante dei lavori teorici del secondo.
E' per questo che metto insieme gli anni 20 con quelli che abbiamo appena trascorso: sono due periodi molto diversi, ma molto simile è la grande disuguaglianza nella distribuzione del reddito e proprio la stessa è l'atmosfera di enrichissez vous: solo che il grande Madoff di oggi, a differenza del grande Gatsby di allora, non ha ancora trovato il suo cantore, il suo Fitzgerald. La seconda precisazione riguarda il ruolo della politica, e in particolare delle personalità dei presidenti, nella svolta da un regime all'altro. Reagan vince dopo un quindicennio di lavoro preparatorio, diciamo così, di economisti e ideologi neoliberali, e dopo che le turbolenze degli anni 70 avevano intaccato la credibilità delle risposte «keynesiane»: il programma era già scritto.
Più creativo il ruolo di Roosevelt nel 1934, che viaggiava su un terreno allora sconosciuto. L'entità del disastro economico, la durata della depressione e il fallimento delle politiche tradizionali gli lasciavano però un ampio campo di manovra, anche se va sempre ricordato che la costruzione di un solido consenso teorico, ideologico e politico su un nuovo regime ad alta regolazione avvenne gradualmente e si affermò solo nel dopoguerra. E Obama? La crisi finanziaria e la recessione sono state repentine e sono avvenute in un contesto in cui le voci critiche nei confronti del regime dominante erano scarse e isolate: l'ortodossia dei mercati finanziari autoregolantisi dominava sovrana sino a pochi mesi fa e la stessa sinistra ne era stata parzialmente conquistata. Inoltre la situazione internazionale è assai meno grave che nel periodo di rivalità imperialistiche tra le due guerre: l'egemonia degli Usa è ancora indiscussa, gli accordi con i grandi Paesi sviluppati e in via di sviluppo sono faticosi ma possibili, e la simbiosi tra un'America consumatrice e una Cina produttrice e risparmiatrice ha ancora spazio per svilupparsi.
Infine Keynes non ha predicato invano: i nostri Paesi dispongono di forti stabilizzatori automatici e di assicurazioni sociali sviluppate. E anche governi ispirati da una filosofia neoliberale si dedicano oggi con spregiudicatezza a salvare banche e industrie, oltre che a sostenere i consumi privati, col rischio di appesantire i loro bilanci ed essere costretti ad aumentare le imposte. Un uso strumentale di misure keynesiane, un aumento temporaneo del ruolo dello Stato nell'economia, non sono ancora una svolta verso un nuovo regime: se lo sviluppo si riavvia in tempi non troppo lunghi, i consiglieri economici di Obama saranno soddisfatti di tornare alla «normalità», il regime neoliberale del quale sono stati tra i principali protagonisti. Certo, ci saranno riforme per controllare un po' meglio le conseguenze indesiderate della deregolazione del sistema finanziario, e anche dell'incisività di queste è possibile dubitare se la situazione migliora in tempi abbastanza brevi.
Ma sicuramente sarà difficile aggredire alcuni squilibri di fondo dell'economia e della società americane, sui quali Obama ha promesso di intervenire: l'estrema polarizzazione nella distribuzione del reddito e lo scandalo di un sistema sanitario costosissimo e ingiusto, per dire i principali. Difficile perché in entrambi i casi si tratterebbe di misure molto impegnative e le finanze pubbliche si troveranno appesantite dagli interventi di emergenza. Più simile a Clinton o più simile a Roosevelt? A meno che Obama abbia in serbo capacità di leadership e di visione che vanno oltre il pur grande carisma dimostrato nella campagna elettorale; e a meno che la situazione economica si aggravi ulteriormente e rischi di trasformarsi in un ristagno durevole, mi sembra difficile che il nuovo presidente riesca a incidere in una ragnatela di interessi molto fitta e in un consenso teorico e ideologico sul regime neoliberale ancora molto solido. E non è certo il caso di augurarsi che la recessione sia più grave, allo scopo di stimolare un maggior sforzo riformatore.
20 gennaio 2009
da corriere.it
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« Risposta #23 inserito:: Febbraio 04, 2009, 10:45:05 am » |
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L'EMERGENZA E LE RIFORME
Lo scambio difficile
di Michele Salvati
Da più parti — anche su questo giornale, si veda Francesco Giavazzi l'8 gennaio scorso — si propone uno scambio tra misure di sostegno dei redditi e dell' occupazione nell'immediato con riforme strutturali che consentano risparmi di spesa e maggiore crescita in un prossimo futuro. La necessità di uno scambio ha due motivazioni principali.
La prima è che, nelle nostre condizioni di finanza pubblica, con un rapporto debito/Pil che è il più alto tra i Paesi europei ed è comunque destinato a crescere, se i mercati non fossero convinti che l'aumento del disavanzo dovuto a misure anticicliche non sarà invertito in tempi brevi da efficaci riforme strutturali, la nostra situazione diverrebbe finanziariamente insostenibile: già ora, e nonostante la relativa modestia delle misure di sostegno varate o annunciate dal governo, la valutazione del nostro debito è notevolmente peggiorata rispetto a quella di Paesi considerati più affidabili e ci costringe a pagare interessi più elevati sulle nuove emissioni. La seconda motivazione è che le riforme strutturali cui siamo chiamati, o almeno alcune di esse, sono dei beni in sé, misure richieste da ragioni di efficienza o di equità che avremmo dovuto attuare in passato e che aumenteranno la nostra capacità di crescita in futuro. A queste due motivazioni principali talora se ne aggiunge una terza: le riforme che non si riescono a fare in condizioni normali a volte è possibile farle in condizioni di emergenza. Brevemente, una per una.
La prima è ineccepibile: tanto maggiore è l'ammontare delle misure di sostegno dei redditi e dell'occupazione, e dunque del disavanzo aggiuntivo che ad esse conseguirebbe, tanto più rigorose e credibili devono essere le riforme strutturali da cui ci si attende un ritorno all'equilibrio. Tremonti ha ragione quando sottolinea l'importanza del problema e la nostra natura di sorvegliati speciali, con il debito pubblico che ci ritroviamo: il rischio di un declassamento è sempre incombente. Ma anche in queste condizioni qualcosa di più e di meglio di quanto sta facendo il governo si può fare: forse si potrebbe arrivare a un punto di Pil in misure di sostegno, se solo si convincono i mercati che quel punto sarà recuperato e più che recuperato da minori spese o maggiori entrate in un futuro prossimo, o da una maggior crescita del reddito quando la recessione allenterà la sua morsa. E la convinzione dei mercati discende sia dal disegno delle riforme, sia dalla fiducia che saranno effettivamente attuate, dunque dalla forza politica di chi le propone e le sostiene.
Veniamo allora alla seconda motivazione, il disegno delle riforme strutturali. Se il nostro Paese si impegna in un programma di sostegno dei redditi — ad esempio un sistema di ammortizzatori sociali esteso a tutti i lavoratori e misure di sostegno dei redditi minimi un po' più robuste della social card e del bonus— lo scambio più evidente per garantirne la sostenibilità è quello di prelevare le risorse laddove ci sono ed è possibile farlo in tempi brevi: mediante una riforma del sistema pensionistico.
Questo scambio sarebbe apprezzato dai mercati finanziari, perché i calcoli sono relativamente semplici e perché si tratterebbe di un buon indicatore della forza politica del governo, della sua capacità di attuare misure impopolari. E lo scambio non contrasterebbe con l'equità, perché un allungamento della vita lavorativa è necessario a seguito dell'aumento della speranza di vita. Un altro scambio che solitamente è apprezzato dai mercati finanziari, anche se meno diretto di una riforma pensionistica e non facilmente calcolabile nei suoi effetti sulla crescita, riguarda la legislazione del lavoro e le relazioni industriali: queste ultime sono l'oggetto del contendere nell'accordo firmato il 22 gennaio sulla riforma della contrattazione; e sulla legislazione del lavoro è tornata recentemente alla carica Confindustria, coll'idea da tempo discussa di un contratto unico a tutele crescenti nel tempo.
Ho menzionato apposta queste vicende, al confine tra economia e politica, per introdurre la terza motivazione addotta al fine di giustificare il nostro scambio: riforme efficienti ed eque, che non si riescono a fare in momenti ordinari, si possono imporre in momenti di emergenza. Vorrei poterlo credere. Né Tremonti, né Sacconi sembrano intenzionati a toccare la previdenza, forse perché chi tocca le pensioni, come chi tocca i fili, muore.
L'opposizione, dopo aver sostenuto che le misure del governo sono insufficienti e occorre una riforma universalistica degli ammortizzatori sociali, si avvale poi del suo diritto al silenzio su come finanziarla. Sulla riforma della contrattazione e della legislazione del lavoro sono poi ben pochi, Pietro Ichino è il più noto, coloro i quali cercano di stabilire ponti all'interno dell'opposizione, del sindacato e di Confindustria, e tra questi e il governo. La realtà è che anche in condizioni di emergenza— a meno che essa raggiunga proporzioni che nessuno si augura — il nostro sistema politico blocca riforme giuste e utili, ma impopolari: ci sono sempre elezioni in un prossimo futuro e nessuno vuole perdere voti.
04 febbraio 2009 da corriere.it
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« Risposta #24 inserito:: Febbraio 20, 2009, 03:41:10 pm » |
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L'ASSEMBLEA COSTITUENTE DEL PD
Diritto a un chiarimento
di Michele Salvati
Sabato 21 febbraio, domani, è convocata alla Fiera di Roma l'Assemblea Costituente del Partito Democratico per «adempimenti statutari a norma dell'articolo tre, comma due», come dice l'unico punto dell'ordine del giorno. Traduco: avendo Veltroni dato le dimissioni prima della fine del suo mandato, l'assemblea si riunisce per decidere se «eleggere un nuovo segretario per la parte restante del mandato ovvero determinare lo scioglimento anticipato dell'assemblea stessa». In questo secondo caso, l'elezione di un nuovo segretario e di una nuova assemblea devono avvenire secondo la complicata procedura dell'articolo 9: la presentazione e una prima selezione delle candidature a segretario, e dei membri dell'assemblea a lui collegati, davanti agli iscritti al partito, e poi l'elezione-ballottaggio mediante primarie cui partecipano tutti gli elettori registrati in un apposito albo.
Traduco ancora l'alternativa: prendere tempo nominando un reggente o cercare subito un nuovo segretario legittimato dal voto popolare? Uno più malizioso di me ritradurrebbe: prolungare l'agonia o incidere il bubbone? Come capita in molti casi che riguardano persone, in scelte dolorose che alcuni lettori avranno purtroppo dovuto compiere per i loro cari, ci sono buoni motivi sia per l'una che per l'altra soluzione. L'agonia, il prendere tempo, potrebbe condurre a continue sofferenze e alla morte, ma anche ad una guarigione o ad una stabilizzazione della malattia: fuor di metafora, ad una ripresa dei consensi o ad una stabilizzazione delle perdite già subite — la discesa al 24/25% — nelle prossime elezioni europee.
Si aggiunga che le dimissioni di Veltroni hanno colto il partito di sorpresa e in molte realtà impreparato rispetto agli adempimenti statutari previsti (liste di iscritti e albi di elettori); che devono essere scelti nelle prossime settimane i candidati per le elezioni europee e in alcune realtà anche per importanti elezioni locali.
Un complicato processo elettorale, il tempo che assorbirebbe, i conflitti che susciterebbe nel partito, interferirebbero pesantemente con le campagne elettorali, dando agli elettori un'immagine di affanno e di disunione. Altro che stabilizzazione della malattia! I consensi potrebbero calare di molto, se pure al termine del processo di elezione del segretario e dell'assemblea esisterà ancora un Partito Democratico capace di raccoglierli. Tutto comprensibile, tutto ragionevole. Ma di ragionevolezza, in situazioni di emergenza, si può anche morire. Se un segretario con un'investitura plebiscitaria si è sentito soffocato dalla cupola dei capi-corrente, come può il suo vice — persona che stimo ma che non ha ricevuto un'investitura popolare — riuscire a stabilizzare o a rilanciare il partito nell'immagine degli elettori?
Sarebbe soltanto il portavoce delle mediazioni — sulle candidature, sulla linea politica da adottare in parlamento e nelle realtà locali, sull'immagine del partito — che i capi-corrente raggiungono nelle segrete stanze, e così apparirebbe agli elettori. Il Pd è nato da un grande progetto: dalla convinzione che un sistema bipolare — in cui i partiti non fanno e disfano i governi in parlamento, ma sono gli elettori a sceglierli — è un sistema più democratico di quello della Prima Repubblica, dove avveniva il contrario; e dalla scommessa che era possibile fondere in un partito vero, con un'anima e una forte identità, le tradizioni riformistiche laiche e cattoliche la cui passata divisione tanti danni aveva prodotto alla società e all'economia di questo Paese.
È del tutto legittimo, forse persino ragionevole, non credere in questo progetto, come non ci credono Tabacci e Casini, o non ci credono Ferrero o Vendola. Ma costoro stanno in altri partiti, mentre molti che la pensano nello stesso modo sono influenti capi-corrente del Partito Democratico: esattamente come i leader dell'Udc e del Prc, non credono né al bipolarismo, né alla possibilità di fusione. Non ci credono e, tramite continue polemiche e pretesti — e soprattutto esasperando il conflitto laici-cattolici — inducono anche il popolo di centrosinistra a non crederci. Di qui la confusione, la mancanza di identità. Di qui lo smottamento dell'elettorato, uno smottamento che si accentuerebbe con una reggenza assediata da capi-corrente. Credo che gli elettori, il popolo di centrosinistra, abbia diritto ad un chiarimento. Non voglia aspettare di essere «rimandato a ottobre». Un ottobre dove si troverà di fronte un'altra pappa plebiscitaria preconfezionata dai capi-corrente, com'è stata quella di Veltroni, che però, almeno, al progetto credeva.
Naturalmente un congresso è rischioso: rischio di spaccatura o rischio, ancor peggiore, di mancato chiarimento. Ma ai politici è sempre bene ricordare l'apologo brechtiano del Gotama Budda e della casa in fiamme: «Maestro — accorrono trafelati i discepoli — la casa è in fiamme ma gli abitanti non vogliono uscire: perderebbero i loro beni e poi fuori fa freddo». Risponde il Budda: «Chi non si accorge del pericolo, merita di morire».
20 febbraio 2009 da corriere.it
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« Risposta #25 inserito:: Marzo 10, 2009, 09:31:07 am » |
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I RISCHI DELLO STATALISMO
La notte del mercato
di Michele Salvati
Nell’ottobre scorso concludevo un editoriale sulla crisi economica con la famosa risposta della sentinella, nella profezia di Isaia, a chi domandava quanto sarebbe durata la notte: «Verrà il mattino, ma è ancora notte; se volete domandare, tornate un’altra volta». Se tornassimo a domandare oggi, otterremmo la stessa risposta. Anzi, la notte della recessione si è fatta ancor più profonda e il mattino della ripresa è sempre lontano. Sono però passati cinque mesi da allora e comprendiamo un po’ meglio in quale notte siamo immersi: fuor di metafora, quali siano la gravità, l’origine e la natura di questa recessione.
Le diagnosi sulle origini della crisi stanno infatti convergendo. Negli stessi Stati Uniti, i principali responsabili, si ammette che negli ultimi vent’anni non si sono contrastati, si sono anzi favoriti, squilibri macroeconomici a livello mondiale alla lunga insostenibili, tra un Paese egemone — consumatore e debitore — e Paesi produttori, risparmiatori e creditori. E si ammette che si è lasciato sviluppare il sistema finanziario in modo abnorme, nell’illusione che non fosse possibile un suo collasso per un battito d’ali di farfalla, com’è stata la crisi dei mutui ipotecari. Ne consegue che il sistema dev’essere riformato, per renderlo idoneo a sostenere senza gravi intoppi il processo di crescita reale in un mondo strettamente interconnesso.
E che gli squilibri macroeconomici mondiali vanno ridotti a dimensioni sostenibili. Ma questi sono problemi di lungo periodo, che prenderanno tempo per essere risolti. Il problema urgente — e anche su questo c’è consenso — è riavviare il motore, ricreare rapidamente fiducia, indurre le banche a prestare, le imprese a produrre e investire, i consumatori a consumare. A questo punto si incontrano però preoccupazioni crescenti di «statalismo » espresse da varie forze politiche e da numerosi commentatori di fronte ai massicci interventi del settore pubblico in tutti i Paesi, in alcuni casi a vere e proprie nazionalizzazioni. Sono preoccupazioni comprensibili, ma vanno qualificate. La prima qualificazione riguarda il contesto politico- culturale attuale rispetto ai tempi della grande depressione: basta confrontare le dichiarazioni di Barack Obama con quelle di Franklin Delano Roosevelt per rendersi conto della differenza.
Nessuno si lascia oggi sedurre da disegni di economia regolata, diretta dalla superiore saggezza dello Stato, dai quali molti Paesi furono sedotti durante gli anni Trenta del secolo scorso e oltre. Che ai fallimenti del mercato possano corrispondere fallimenti dello Stato altrettanto e anche più gravi è oggi convinzione comune: trent’anni di egemonia culturale neoliberale non sono passati invano e vedere in Gordon Brown, o in Obama e nei suoi consiglieri economici, dei pericolosi statalisti fa sorridere. Si può discutere dell’opportunità o dell’efficacia di singole misure d’intervento, ma si deve riconoscere che esse sono dettate da ragioni di emergenza e non da una improvvisa conversione di liberisti conclamati ad una filosofia statalista.
Detto questo —e passiamo alla seconda qualificazione —è del tutto ragionevole essere più preoccupati dell’intervento statale in Paesi che non dispongono di una cultura di mercato altrettanto robusta di quella esistente nel Regno Unito o negli Stati Uniti. Preoccupati, in particolare, per il nostro Paese, nel quale la conversione a quella cultura è stata piuttosto recente ed è tuttora contrastata da una lunga tradizione di assistenzialismo, corporativismo e interventismo pubblico discrezionale. In Italia è sicuramente maggiore il rischio che una situazione di emergenza, la quale esige un maggior intervento dello Stato, possa ridar fiato a forze che non sono mai state realmente sconfitte e sono presenti sia nel governo che all’opposizione, sia a destra che a sinistra. La soglia di attenzione dev’essere dunque più alta.
La terza qualificazione ci riporta negli Stati Uniti, dai quali dipende in larga misura il successo di una strategia di uscita dalla crisi: la Cina sta facendo quanto può, ma l’Europa, come al solito, sta a guardare, nella speranza di agganciarsi a un treno che partirà altrove. Il programma presentato il 26 febbraio scorso consente ora di comprendere il disegno d’insieme di Barack Obama. Un disegno che è nello stesso tempo un poderoso tentativo di rilancio dell’economia, con un intervento pubblico che porterà l’anno prossimo oltre il 12 per cento il rapporto tra il disavanzo e il reddito, ed un netto cambiamento negli orientamenti politici dominanti da trent’anni, dai tempi di Ronald Reagan.
Se il disegno avrà successo e verrà mantenuto, si tratterà di una delle grandi svolte che sono tipiche di quel Paese, di quelle periodiche oscillazioni tra eguaglianza e disuguaglianza, tra predominio della ricchezza e spinte democratiche (populistiche, direbbero i critici), che Kevin Phillips ha mirabilmente descritto in Ricchezza e Democrazia (Garzanti, 2006). Obama sembra infatti voler profittare della crisi per affrontare problemi sociali e politici che erano maturi da tempo e che le presidenze Clinton non erano riuscite ad aggredire, primo fra tutti quello dell’assistenza sanitaria, nello stesso tempo costosa, inefficiente e ingiusta. Obama e i suoi ministri naturalmente sostengono che tra i due aspetti del programma— il rilancio dell’economia e la giustizia sociale— non esiste contrasto, ma anzi piena sinergia.
Altrettanto naturalmente i repubblicani sostengono il contrario. Liberi i commentatori di sostenere l’una tesi o l’altra, purché si tengano nettamente distinte le proprie simpatie politiche —che fanno vedere con favore o sfavore le proposte di Obama, in quanto orientate a sinistra — dalla valutazione del loro impatto sulla fiducia dei consumatori e degli investitori e dunque sul decorso della crisi. L’annuncio del programma non è stato sinora accolto con favore dai mercati, è vero. Ma forse è ancora troppo presto per giudicare. Giudicheremo tra alcuni mesi, quando torneremo a chiedere alla sentinella «a che punto è la notte».
10 marzo 2009 da corriere.it
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« Risposta #26 inserito:: Marzo 25, 2009, 08:44:19 am » |
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Ritorno a sinistra
di Michele Salvati
La profonda recessione economica nella quale siamo incastrati dimostra che il modello di «sregolazione » — adottato e imposto dagli Stati Uniti a partire dagli Anni ’80 del secolo scorso e diffusosi in seguito in (quasi) tutto il mondo—non funziona bene. Funziona male, quanto meno, per il settore finanziario, la cabina di regia dell’intero sistema. Questa è ormai convinzione diffusa, accettata obtorto collo anche da coloro che fino a ieri sostenevano che le banche e le istituzioni finanziarie in genere sono imprese come tutte le altre e devono essere lasciate libere di scorazzare per il mondo e farsi concorrenza con il minimo impaccio regolativo, alla ricerca del massimo valore per i loro azionisti. Da questa convinzione segue che occorre impegnarsi — parlo sempre per il settore finanziario — in un poderoso sforzo di ri-regolazione, la cui intensità e i cui contorni sono delineati al meglio dalla «Turner Review» (A Regulatory Response to the Global Banking Crisis) presentata pochi giorni or sono al governo inglese da Lord Adair Turner, presidente della Financial Services Authority, e che costituirà uno dei documenti di base del prossimo G20.
Quale che sia la loro forma giuridica, banche e istituzioni finanziarie non sono imprese «come le altre»: gli Stati nazionali e le istituzioni internazionali devono vincolarle in un assetto regolativo più rigoroso di quello imposto al settore reale. Le stesse banche centrali e i ministeri dell’Economia— soprattutto la Federal Reserve e il Tesoro americani, che regolano la principale moneta di riserva mondiale — devono seguire indirizzi assai più cauti di quelli che hanno consentito, se non provocato, la irrational exhuberance del recente passato. Un’esuberanza che ha travolto l’intero sistema. Quale occasione migliore per la sinistra? La sinistra — e mi riferisco ovviamente alla sinistra riformista, alla sinistra di governo — non ha forse sostenuto da sempre che il mercato può creare disastri e va strettamente regolato dallo Stato? In particolare, e più di recente, non ha forse criticato come eccessivi, dannosi e forieri di ingiustizia il neo-liberalismo e la deregolazione che hanno dominato in questi ultimi trent’anni?
Non dovrebbe allora disporre di buone credenziali per convincere gli elettori, duramente colpiti dalle conseguenze della crisi, che ha le carte migliori per governare questa fase? Sfortunatamente per la sinistra, le cose non stanno proprio così e, anche se così stessero, il successo elettorale dipende da fattori assai più numerosi e complicati che non il semplice posizionamento dal lato del mercato o da quello dello Stato dei principali partiti che competono per il governo. Le cose non stanno così perché una buona parte del centrosinistra europeo — il partito laburista di Tony Blair e Gordon Brown, la Spd ai tempi di Schröder, il Psoe di Zapatero, correnti significative dei partiti socialdemocratici di altri Paesi e, da noi, dell’Ulivo e poi del Pd—negli ultimi dieci anni si è spostata parecchio verso il lato del mercato, e non sarebbe difficile trovare espressioni di alcuni leader del centrosinistra, e dei loro consiglieri, che esaltano i fasti di questa istituzione con l’entusiasmo che solo un neofita può provare.
In altre parole, buona parte del centrosinistra è stata presa in contropiede dalla crisi, proprio mentre stava attuando una svolta liberale per molti aspetti benemerita, ma che le impedisce di presentarsi in modo univoco come partito dei critici del capitalismo, come partito della regolazione e dei controlli, lasciando al centrodestra la (oggi) scomoda posizione di partito del laissez faire, ostile all’intervento dello Stato. Ma il centrodestra europeo è poi veramente composto da partiti che sostengono il laissez faire e sono contrari all’intervento dello Stato? Basta pensare a Sarkozy e Merkel e, da noi, a Fini e a Tremonti, per dare una risposta negativa a questa domanda. Gran parte dei partiti appartenenti a quest’area dello spettro politico, accanto ad una debole componente liberale, dispongono di una robusta componente tradizionalistica— per intenderci, Dio, Patria, Comunità, Famiglia — che si presta molto bene ad essere giocata in tempi di difficoltà e paure: i politici più abili la giocano su piani e con toni diversi — Tremonti non è Bossi — ma indubbiamente con molta efficacia.
Se tutto ciò è vero, ne segue che la grande crisi in cui siamo immersi difficilmente può essere usata come arma elettorale di uno schieramento progressista e quando lo è stata — nel caso degli Stati Uniti — essa si è limitata a rafforzare la posizione dello sfidante Obama contro il rappresentante del partito di un presidente in carica profondamente impopolare. La sinistra liberal, la sinistra «presa in contropiede», si riunirà questo fine settimana in Cile—per il Pd italiano ci saranno Franceschini, Rutelli e Fassino — e i toni dei materiali preparatori dell’incontro non sembrano proprio quelli del «avevamo ragione noi» o del «una gloriosa stagione ci attende». Se vuole tornare a vincere, è probabile che il centrosinistra, se è all’opposizione, debba sfruttare in questa fase gli errori e l’impopolarità dei governi o argomenti locali, diversi da Paese a Paese. Una strategia unificante, com’è stata quella della Terza Via di Tony Blair e Tony Giddens alla fine degli anni ’90, sembra al momento fuori dalla sua portata.
25 marzo 2009 da corriere.it
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« Risposta #27 inserito:: Agosto 24, 2009, 11:23:20 am » |
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PERCHE’ NON C’E’ DIALOGO TRA I POLI
Il bipolarismo all'italiana
Da un po’ di tempo mi pongo questo problema: gli aspetti negativi del bipolarismo all’italiana — l’esasperazione e la rissa che caratterizzano il confronto tra centrodestra e centrosinistra — sono soltanto una conseguenza della speciale figura di Silvio Berlusconi? E in particolare del modo aggressivo in cui egli ha gestito quel confronto e del modo analogo in cui il centrosinistra — sventurata monaca di Monza — ha risposto? Oppure quegli aspetti permarrebbero anche con un leader dello schieramento di centrodestra meno «speciale» e con un centrosinistra meno disposto a farsi imprigionare nella trappola della delegittimazione reciproca? Detto in altre parole. In un Paese i cui problemi strutturali non ammettono risposte di destra o di sinistra, ma un difficile e continuo sforzo di riforma su un programma sostanzialmente condiviso, sarebbe in grado un bipolarismo senza Berlusconi di promuovere quello sforzo collettivo, di sollecitare la condivisione necessaria all’attuazione di quel programma?
Centrodestra e centrosinistra rimangono orientamenti politico-culturali che danno risposte diverse su molti problemi importanti. Ma su quelli che più contano per fare del nostro un Paese più civile e più capace di crescita le soluzioni adeguate possono essere in larga misura condivise sia a destra che a sinistra. Sono soluzioni difficili, che si scontrano con pratiche e mentalità diffuse, con istituzioni radicate in una lunga storia e che pertanto esigono un consenso molto ampio nelle élite tecniche, culturali e politiche. Un consenso che induca il governo a non disfare quanto di buono ha fatto il precedente, solo perché di diverso colore, e a cercare l’accordo con l’opposizione quando non esistono — e molto spesso non esistono — contrasti ideologici insanabili. Che induca l’opposizione a collaborare con il governo se giudica le riforme proposte sostanzialmente adeguate, anche se potrebbe mobilitare contro di esse i ceti e gli interessi danneggiati allo scopo di ottenere un facile vantaggio partigiano. In molti casi, più che un conflitto tra orientamenti ideologici di destra e di sinistra, esiste un contrasto — interno agli schieramenti — tra innovatori e conservatori, tra politici più lungimiranti e politici più sensibili al consenso elettorale di breve periodo.
Un paio d’anni fa, quando venne pubblicato il Rapporto Attali («per la liberazione della crescita francese») rimasi colpito dal fatto che più di trecento dettagliate riforme in materie economiche e sociali venissero presentate come «né partigiane, né bi-partigiane, bensì non partigiane». L’affermazione di Attali è sorprendente ed eccessiva, ma se penso ai grandi problemi che ostacolano la crescita o la qualità civile del nostro Paese faccio fatica a inserire le soluzioni ragionevoli nelle categorie di destra o di sinistra.
Si pensi, ad esempio, al sottosviluppo meridionale o all’inefficienza di tante amministrazioni pubbliche; agli scadenti livelli di istruzione o all’intollerabile evasione fiscale; all’assenza di ammortizzatori e sostegni al reddito per chi si trova in condizioni di disoccupazione e di povertà o alla produttività stagnante del nostro sistema economico.
Si tratta di soluzioni difficili, che possono contrastare con gli interessi di diversi gruppi sociali e con gli insediamenti elettorali dell’una o dell’altra coalizione, ma che non contrastano con i principi professati da una sinistra riformista e da una destra sensibile alla coesione sociale. Anche quando esiste un serio contrasto di principi, il dialogo e il compromesso fanno bene alla democrazia: chi non ne è convinto si legga il grande libro di Cass Sunstein, «A cosa servono le Costituzioni», appena tradotto dal Mulino. A maggior ragione dialogo e compromesso sono essenziali quando conflitti di principio non esistono, i problemi di riforma sono strutturali ed ostici, e la loro soluzione sarebbe molto facilitata da uno sforzo concorde e durevole dei principali partiti politici.
Di qui viene l’interrogativo che ponevo all’inizio: il modo assai poco dialogante e compromissorio che caratterizza oggi i rapporti tra i due schieramenti è conseguenza del trauma iniziale della Seconda Repubblica e dell’anomalia Berlusconi o è destinato a rimanere anche quando Berlusconi uscirà dal campo in cui è entrato con tanto clamore? In altre parole: si tratta di un carattere di questa fase iniziale di bipolarismo, o di un carattere che — nel nostro Paese di guelfi e ghibellini — è connaturato al bipolarismo stesso, anche quando sarà impersonato da leader meno speciali di Silvio Berlusconi? Se riteniamo più verosimile la prima risposta — io continuo a pensarla così — è giusto sostenere un sistema politico bipolare, per i suoi aspetti di governabilità e di scelta del governo da parte degli elettori. Se ci sembra più verosimile la seconda, questi vantaggi del bipolarismo sarebbero più che compensati dagli svantaggi derivanti dalla sua tendenza a inasprire lo scontro politico e a ostacolare le mediazioni e i compromessi necessari a sostenere le riforme strutturali necessarie al nostro Paese.
Michele Salvati 24 agosto 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA
da corriere.it
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« Risposta #28 inserito:: Ottobre 02, 2009, 11:02:30 pm » |
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LA SFIDA TRA BERSANI E FRANCESCHINI
Le due anime di un Pd scosso
Circolo dopo circolo, si stanno concludendo le votazioni tra gli iscritti del Partito Democratico e il 25 ottobre i tre candidati — Bersani, Franceschini e Marino — saranno presentati al voto degli elettori e dei simpatizzanti: in pratica di chiunque manifesti l'interesse a influire sulla scelta delle cariche direttive del partito. Gia in quella data, o al più un paio di settimane più tardi se sarà necessario un ballottaggio, sapremo chi è il nuovo segretario del Pd. Prima di discutere del significato di questa scelta, tre commenti di natura generale.
Il primo è che hanno partecipato al voto, sinora, circa 350.000 persone, più della metà degli iscritti: non una piccola prova di democrazia, in un momento in cui gran parte dei commentatori danno per spacciato, e con buone ragioni, il ruolo democratico dei partiti. E a questa occorrerà aggiungere la consultazione del 25 ottobre. Il secondo commento è che laddove il partito è maggiormente radicato, nelle regioni rosse e nelle grandi città, nell'ambito dei circoli si è svolto un dibattito serio tra i sostenitori delle diverse candidature: questa volta, a differenza di precedenti investiture pilotate dall'alto, prima del voto gli esiti erano realmente incerti. Oggi il risultato è noto: Bersani ha ottenuto circa il 56%, Franceschini circa il 36 e Marino il restante 8. Ma l'incertezza permane per il voto degli elettori, il 25 ottobre, perché gli iscritti e i simpatizzanti generici sono due popolazioni abbastanza diverse. Il terzo commento è che la linea di divisione tra le posizioni politiche espresse dalle tre candidature non è più quella delle diverse provenienze partitiche, gli ex Ds ed ex Dl: per ognuna di esse il sostegno è molto misto, e segnala un processo di osmosi piuttosto avanzato. Se la linea di divisione non è questa, qual è?
E' abbastanza facile dirlo per Marino, il vero outsider di questo congresso. Egli è portatore di un messaggio fortemente critico nei confronti delle ambiguità del Pd, che imputa in parte ad un'analisi sbagliata del fenomeno Berlusconi — … come se si trattasse di un avversario politico normale — in parte ad una eccessiva tolleranza per le posizioni clericali o integralistiche che ogni tanto emergono tra gli esponenti cattolici del partito. Questa è l'analisi ribadita ogni giorno dai giornali più letti dal popolo della sinistra e non meraviglia il buon successo della mozione nelle grandi città, tra i giovani e le persone istruite. Insistendo su queste critiche, proclamando una politica della decisione e della nettezza, del 'Sì-sì' 'No-no' di evangelica memoria, Marino si stacca nettamente dagli altri due candidati e si avvicina alla posizione dell'Idv di Di Pietro, una permanente tentazione per il Partito Democratico.
Più difficile distinguere le altre due mozioni, quelle degli insider, di Bersani e Franceschini, e non è di grande aiuto leggere attentamente i testi, sottolineare frasi più o meno felici, reticenze o silenzi più o meno sapienti: entrambe dicono cose simili, generiche e gradite al popolo di centrosinistra chiamate a votarle. La mozione di Bersani è sicuramente la più critica nei confronti della breve storia del Pd di Veltroni. Critiche alla segreteria Veltroni implicitamente le muove anche Dario Franceschini, ma il dubbio che suscita la posizione di Bersani è che le critiche non riguardino solo le scelte tattiche del recente passato, ma lo stesso disegno strategico, lo stesso impianto culturale sul quale l’Ulivo prima e il Pd poi sono stati costruiti. In altre parole: il dubbio è che un Pd guidato da Bersani — per ora costretto in un contesto bipolare dalla legge elettorale voluta dal centrodestra — sarebbe ben disposto a mutarlo qualora se ne presentasse l’occasione. In questo caso il senso della storia di cui parla Bersani, il suo possibile esito, sarebbe un ritorno al proporzionale, dove un Pd più nettamente «laico» e «di sinistra » lascia il compito di conquistare gli elettori più moderati a un rinnovato partito centrista, neo-democristiano, confidando poi in una alleanza di governo.
Si tratta di una posizione politica più che legittima, ma è l’esatto opposto della scommessa da cui era partito l’Ulivo e sulla quale si è formato il Partito democratico: quella di un partito di ispirazione democratico-liberale, che nutre l’ambizione di governare il Paese a capo di una coalizione di cui è la componente maggiore e politicamente egemone. Un partito che non vuole nascondersi dietro una forza politica e a un presidente del Consiglio centristi, e rifiuta come scoraggiante e sbagliata l’idea che un partito di centrosinistra non riuscirà mai, in un contesto bipolare, a governare un Paese «organicamente» di centrodestra. Credo che spetti a Bersani chiarire, di fronte a ragionevoli dubbi, se la sua critica al progetto originario del Pd è così radicale. Se lo è, il confronto con Franceschini acquisterebbe un senso molto più chiaro di quello che è possibile desumere dalla lettura delle due mozioni.
Michele Salvati 01 ottobre 2009© RIPRODUZIONE RISERVATA da corriere.it
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« Risposta #29 inserito:: Gennaio 04, 2010, 05:41:46 pm » |
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Quando il politico promette troppo
Il federalismo delle clientele
Mettiamoci nei panni di un politico. Il suo obiettivo non cambia a seconda dei luoghi in cui opera: farsi eleggere o rieleggere. Ma cambiano i modi in cui può essere raggiunto. Là dove l’economia privata e la società civile non producono posti di lavoro e occasioni di reddito in quantità sufficiente, come in molte regioni meridionali, la domanda degli elettori si riversa sul settore pubblico e sono premiati i politici che tali «posti» e occasioni creano, o danno l’impressione di creare. Anche posti improduttivi — puri stipendi — e anche occasioni finte: in questo ha ragione il ministro Roberto Maroni («Il Sud chieda lavoro», Corriere del 2 gennaio), come mostra l’articolo di Sergio Rizzo di ieri («Ma in Campania la Finanziaria è "creativa"»). Le cose stanno diversamente quando i posti e le occasioni li creano l’economia privata e la società civile: qui gli elettori staranno un po’ più attenti alla qualità dei servizi erogati dal settore pubblico, nazionale e locale (non abbastanza, purtroppo, perché anche nel Nord essi sono spesso distratti da richiami ideologici che coll’efficienza amministrativa poco hanno a che fare).
Queste cose si sanno da tempo. Il problema che non si riesce a risolvere è come bloccare la risposta impropria dei politici alla domanda impropria degli elettori. Se si riuscisse a bloccarla, se si riuscisse a costringere i politici a far bene e soltanto il loro mestiere di amministratori, a fornire servizi nazionali e locali almeno con la stessa efficienza del Nord — che poi non è molta — a poco a poco gli elettori si convincerebbero che non ci sono finti posti, finte pensioni, finte indennità da ottenere. Insieme con una repressione severa della criminalità e dell’illegalità, l’eliminazione della risposta impropria dei politici è una pre-condizione necessaria a qualsiasi strategia di sviluppo si voglia tentare nel Mezzogiorno.
Già, ma come fare? Come spezzare il circolo vizioso tra domanda sociale e offerta politica improprie? L’ultima speranza forse risiede in una versione severa del nostro regionalismo e in forti meccanismi di controllo sulla qualità della spesa pubblica e sull’efficienza amministrativa, con sanzioni effettive e assenza di «salvataggi» per le amministrazioni che sgarrano. Il regionalismo del Titolo V della Costituzione è venuto per restare e il suo principio di fondo è quello sturziano, l’autonomia. Ma autonomia vuol dire responsabilità: sei libero, sei autonomo, ma poi sei valutato. Se la valutazione degli elettori è insufficiente, occorrono meccanismi di controllo più potenti di quelli che operano ora. Se mai faremo le riforme costituzionali di cui tanto si chiacchiera, perché non dare a questi meccanismi un forte rilievo costituzionale e collegarli strettamente all’attività della Camera (o Senato) delle autonomie?
Michele Salvati
04 gennaio 2010© RIPRODUZIONE RISERVATA DA corriere.it
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