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Autore Discussione: Francesco VERDERAMI  (Letto 133932 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Settembre 24, 2008, 12:31:34 pm »

Berlusconi: «Mi astengo da interventi pubblici per non irrigidire le posizioni»

La mossa del Cavaliere

Accordo con i piloti e Lufthansa

Il retroscena. An media. E i tedeschi chiedono la «pace sociale»


MILANO - Altro che mediare con la Cgil. Per uscire dalle secche dei veti incrociati e salvare così Alitalia, Berlusconi ha deciso di sparigliare puntando sui piloti e derubricando il ruolo di Veltroni e di Epifani.

È un colpo a sorpresa quello del premier, l'estremo tentativo di evitare il fallimento della compagnia di bandiera, che verrebbe preceduto dallo scioglimento della Cai, la cordata a cui aveva lavorato. Perché durante l'incontro a palazzo Chigi con Gianni Letta, Colaninno e Sabelli non hanno ceduto di un millimetro sul «piano Fenice », hanno solo ribadito l'interesse per Az, a condizione però che i sindacati accettino il progetto presentato. Diversamente alcuni soci sarebbero pronti a ufficializzare già domani l'uscita dalla cordata. Il Cavaliere resta convinto di riuscire nell'impresa, ritiene che «l'Italia debba continuare ad avere una compagnia aerea », e che «questo risultato si raggiungerà». «Ce la faremo, sono fiducioso», ha detto ai suoi ministri. Non ha spiegato in che modo, ma si è lasciato sfuggire un dettaglio: «Mi sto frenando a fare interventi pubblici, perché non vorrei che tutto ciò irrigidisse ulteriormente le posizioni».

«Interventi pubblici» Berlusconi in effetti non ne ha compiuti, incontri riservati sì. Fonti accreditate riferiscono infatti di contatti diretti con i rappresentanti dei piloti, ai quali Berlusconi avrebbe illustrato il percorso per arrivare all'intesa. Se è vero che il nodo principale è il partner industriale, il premier avrebbe sottolineato che Lufthansa è «interessata» ad un rapporto con Alitalia, «ma solo in caso di pace sociale ». Il «matrimonio» tra Cai e la compagnia tedesca, che entrerebbe come socio di minoranza, si potrebbe celebrare pertanto «dopo» un accordo tra la nuova società e i sindacati. E servirebbe tempo. Non è dato sapere se il capo del governo sia riuscito a rompere il muro dell'intransigenza, è certo che sui piloti — e da settimane — si muovono i ministri di An, da Matteoli a Ronchi, a La Russa. E ieri perfino il presidente della Camera Fini si è speso a sostegno della mediazione. È sui piloti che il governo (e non solo) punta per sbloccare la fase di stallo, e le parole di Sacconi «porremo attenzione ai problemi specifici delle alte professionalità», rappresentano un ulteriore indizio.

Per il resto è difficile stabilire se la giornata del premier sia stata infastidita di più dalla sciatica o dalla lettera che gli ha inviato Veltroni. Raccontano che il leader del Pd abbia chiamato Gianni Letta in serata per sapere se sarebbe arrivata la risposta di Berlusconi. Il sottosegretario si è speso in tal senso. «No, non insistere, non gli darò questa importanza », ha glissato il Cavaliere, che ha lasciato al suo portavoce, Bonaiuti, il compito di commentare: «Veltroni ha scoperto l'acqua calda». Peraltro era stato proprio Letta a mettere Berlusconi sull'avviso, notando la «coincidenza » delle richieste del segretario democratico con quelle giunte riservatamente la sera prima da Epifani. «È la prova provata — ha commentato il premier — che Veltroni ha usato la Cgil come uno strumento politico. Roba da irresponsabili. Ma è roba passata ».

Non si sa a cosa alludesse il Cavaliere parlando di «roba passata». Si dice che prima di recarsi a palazzo Chigi, ci sarebbe stato un colloquio tra Colaninno e Veltroni, dal quale il presidente della Cai avrebbe chiesto e ottenuto garanzie sull'appoggio politico al «Piano Fenice». Anche per questo ieri sera Berlusconi si mostrava fiducioso, mentre autorevoli esponenti del Pd ammettevano che la lettera di Veltroni serviva a cancellare l'immagine del «disfattista » e ad agevolare il rientro in gioco di Epifani. «Avevo ragione — ha chiosato Berlusconi — quando dicevo che quella era una questione tutta interna al centrosinistra».

Battuta maliziosa, che richiama alle divergenze nel Pd sulla vendita di Az a Cai. Ma al di là dell'ottimismo il premier non può per ora andare. La partita su Alitalia resta ad alto rischio, e il fallimento della compagnia segnerebbe il suo governo. E ha ragione Veltroni quando — al vertice del Pd di ieri — ha detto che «durante la trattativa con Air France Berlusconi cavalcò la tigre della Cisl e dei piloti». Però è altrettanto vero quel che ha detto subito dopo Enrico Letta, assai critico con Epifani: «Il suo errore durante il negoziato è stato gravissimo. Se Alitalia fallisse, avrebbe offerto un alibi politico al Cavaliere». Ma il Cavaliere è certo di farcela.

Francesco Verderami
24 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #31 inserito:: Settembre 25, 2008, 12:04:19 pm »

Dietro il caso alitalia

La fine del «Veltrusconismo» tensioni tra il premier e il leader Pd, media solo Letta

Del «Veltrusconi» ormai non c'è più traccia, la breve stagione del dialogo tra il Cavaliere e il leader del Pd è alle spalle e forse i due continueranno a non parlarsi.


«Con l'irreale intervista al Tg1 — ha commentato ieri sera il portavoce del premier, Bonaiuti — Veltroni conferma che con questa sinistra non si può discutere». Ma nelle istituzioni, nel governo e persino dentro Forza Italia, c'è chi continua a perseguire l'obiettivo del confronto tra Berlusconi e il capo dei Democratici. Gianni Letta non ha mai smesso di crederci e in questi giorni di trattative su Alitalia si è speso per un riavvicinamento: «Almeno rispondiamo alla sua lettera», ha chiesto invano al Cavaliere martedì, visto che Veltroni aveva infine appoggiato la «cordata italiana» voluta e creata da Berlusconi. Niente da fare.

Raccontano che ieri mattina il sottosegretario alla Presidenza fosse depresso, o forse solo stanco. Sta di fatto che in una delle tante riunioni convocate per salvare la compagnia di bandiera, si è lasciato andare: «Sono una persona che affronta i problemi con l'intento di risolverli, pensando all'interesse generale, senza farmi mai strattonare. Invece questa vicenda si è svolta in un quadro politico che non ha aiutato». Si riferiva a Epifani, all' «interesse politico» che il leader della Cgil aveva fatto prevalere inizialmente nella vertenza: «Ma devo dire che alla fine Veltroni ha agevolato ». Nelle stesse ore, alla riunione del governo ombra, il leader del Pd si faceva sfuggire un apprezzamento per il braccio destro del Cavaliere: «Se non ci fosse stato lui...».

Insomma, Letta e Veltroni continuano a coltivare un rapporto, quasi facessero da contraltare ad altri equilibri ed altri attori. Almeno così s'intuisce dal ragionamento che il democratico Morando ha sviluppato lunedì al coordinamento del Pd: «L'assenza di Tremonti dalla trattativa su Alitalia è il segno dello scontro nel governo tra la linea di Gianni Letta e quella del ministro dell'Economia». Con tanto di maliziosa nota a margine sull'intervista di D'Alema al Sole 24 Ore, in cui c'era più di un riferimento al titolare di via XX settembre. Al pari di Letta, anche il presidente del Senato lavora perché il Cavaliere e Veltroni inaugurino la stagione del «confronto». Schifani si è prodigato già questa estate, durante un pranzo con il segretario democratico.

C'era anche la sua collaborazione nell'intesa sottoscritta sulla Rai, e sancita durante il colloquio informale al Quirinale dell'11 settembre, quando Berlusconi, Letta e i presidenti delle Camere avevano discusso con Veltroni sui nuovi equilibri nella Tv di Stato. È stato allora che Schifani ha ribadito al premier «l'utilità» di un rapporto con il capo del Pd. Anche in quel caso il Cavaliere si è ritratto, additando l'avversario per gli «attacchi personali che mi rivolge»: «Non ho dimenticato la lettera che ha scritto al Foglio », e in cui Veltroni l'aveva «screditato» sotto il profilo morale. Dopo quanto è accaduto su Alitalia e sulla Rai, Berlusconi ritiene di aver avuto ragione a non fidarsi. I pontieri ammettono che gli «atteggiamenti ondivaghi di Veltroni non aiutano», ma non per questo demordono. Verdini, per esempio, coordinatore di Forza Italia, continua a ricercare punti di mediazione con il capo del Pd su temi spinosi come la legge elettorale. E c'è un motivo se tutti insistono nell'intrapresa: il Cavaliere non li sostiene apertamente, ma non li ha mai nemmeno sconfessati. Un giorno magari il loro lavoro tornerà utile. Anche perché Confalonieri, l'amico di cui più si fida, gliel'ha detto: «Silvio, tra D'Alema e Veltroni meglio Veltroni».

Francesco Verderami
25 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #32 inserito:: Settembre 26, 2008, 12:58:46 pm »

L'intervista

Confalonieri: gran lavoro di Letta ma anche Walter ha contribuito

Il presidente di Mediaset: Silvio è stato l'artefice di tutto.

Ora trovi il modo di dare soldi a chi fatica a finire il mese


ROMA — «Gianni... Gianni Letta, intendo... Su Alitalia ha fatto un grandissimo lavoro. Poi, in un Paese in cui tutti salgono sul carro del vincitore, riconosciamo comunque a Walter Veltroni di aver contribuito a risolvere il problema». Nell'inner circle del Cavaliere nessuno può permettersi di pensare ciò che Fedele Confalonieri dice. Il presidente di Mediaset non ha picchi nel tono di voce, si tiene distante dalle polemiche politiche di giornata, dalla corsa ad accaparrarsi i meriti per il lieto fine del «caso Az».

Ed è solo all'apparenza sorprendente il modo in cui derubrica il ruolo del governo nella vicenda, e si limita a citare il sottosegretario alla presidenza del Consiglio: «È chiaro che è stato Berlusconi l'artefice di tutto. Lui ha avuto l'idea e poi la forza di salvare la compagnia di bandiera con una cordata italiana, ma il capo dell'opposizione ha evitato che nella fase finale della trattativa la Cgil prendesse una deriva... và, lasciamo stare. Sono accadute cose incredibili». Sarebbe un processo alle intenzioni scorgere un pizzico di malizia dietro questi complimenti al segretario del Pd, eppoi non è un mistero che il patron del Biscione preferisca la strada del confronto con il Partito democratico alla strategia del muro contro muro. Così, sebbene il premier abbia interrotto i rapporti con Veltroni, Confalonieri non desiste: «Io penso che serva un'opposizione costruttiva, non quella di chi nel momento più difficile della trattativa è andato ad arringare all'aeroporto di Fiumicino». Non cita il nome di Antonio Di Pietro, il riferimento al leader dell'Idv è solo un inciso nel racconto della fase più complicata del negoziato su Alitalia. «In questi giorni ho letto sul Financial Times il tentativo di paragonare la vicenda della nostra compagnia di bandiera a quella dei minatori inglesi all'epoca del governo di Margaret Thatcher. A parte il fatto che Berlusconi non è la Thatcher, per fortuna in Italia abbiamo evitato di vivere una storia drammatica come quella. Ma se è possibile fare un accostamento con quegli avvenimenti, allora spero che per il nostro Paese il caso Alitalia sia il momento della ripartenza».

Dal modo in cui affronta la questione, s'intuisce la volontà di tenere un profilo basso. Sarà perché non intende sfoggiare toni trionfalistici o forse perché vuole celare le preoccupazioni che il Cavaliere deve avergli confidato prima dell'accordo: il timore di un fallimento nella trattativa, il crac della compagnia, le ripercussioni sul sistema nazionale e soprattutto sul governo: «In principio molti pensavano che Berlusconi non sarebbe riuscito nemmeno a presentare una cordata. Invece la cordata si è materializzata, ed è stata bipartisan». Fin troppo per alcuni, persino nel governo, dove c'è chi è rimasto sorpreso dalla presenza e dal ruolo di Roberto Colaninno. Sono passati dieci anni da allora, ma nessuno ha dimenticato lo scontro tra Berlusconi e l'allora patron di Telecom, che rispose a muso duro nella polemica con il Cavaliere, invitando il leader del Polo e i suoi alleati a «non starnazzare». Confalonieri copre con un cerotto quel vecchio sbrego: «Gli imprenditori — dice — sono persone ruvide e pragmatiche, non sono fini dicitori come i politici e i sindacalisti che parlano in modo forbito e sono abituati a farlo in pubblico». Poggia dunque sul pragmatismo il patto stretto tra il premier e il numero uno di Cai: «In fondo — spiega Confalonieri — Berlusconi è un imprenditore e usa il linguaggio degli imprenditori, non si attarda sulle colorazioni politiche. Pensa: c'è un problema da risolvere? Troviamo una soluzione, il resto non conta». Non è così, almeno non è solo così. Perché è evidente che l'operazione Alitalia è anzitutto un'operazione politica, la prima vera operazione berlusconiana da quando il Cavaliere è sceso in campo. «Una svolta c'è stata», risponde infatti Confalonieri, che riconosce come — dopo la vittoria elettorale — si stia ridisegnando la mappa del potere in Italia. E oggi il leader del centrodestra è diventato un punto di riferimento. Nulla è più come in passato, «in passato — ricorda il presidente di Mediaset — avevano guardato a Berlusconi con un misto di sufficienza e di ostilità. Ma lui è un leader, la leadership è una dote. Poi bisogna saperla esercitare e ora la sta esercitando». In un passato più recente Confalonieri accostò «l'amico Silvio» a Lenin e a Mozart, ma erano momenti in cui il Cavaliere si trovava in difficoltà, e in tanti scommettevano su un suo imminente tramonto politico. Ora non è più così, perciò «Fidel» non usa paragoni, dice che «Berlusconi non è la Thatcher».

E d'un tratto si capisce il motivo per cui ha adottato il profilo basso: «Il nostro Paese deve recuperare il senso dell'ordinarietà, deve cancellare l'idea in base alla quale sia una cosa straordinaria togliere i rifiuti dalle strade di Napoli, o salvare l'italianità della compagnia di bandiera, affidandola a un gruppo di imprenditori e riducendo al massimo gli esuberi». Non c'è enfasi, «l'enfasi non serve». Berlusconi è «Berlusconi», «un premier che vuol fare dell'Italia un Paese normale, per usare un'espressione coniata da altri. La gente l'ha capito e lo sta premiando». Ma non è tempo di specchiarsi nei sondaggi, «il governo deve dare ora ai cittadini un po' di soldi». Confalonieri è consapevole che le casse dello Stato sono vuote e che il ministro dell'Economia Giulio Tremonti le ha blindate. Tuttavia sprona Berlusconi, «pensi lui come fare, ma trovi il modo. Perché non sarà il problema della terza o della quarta settimana, ma è chiaro che gli italiani faticano ad arrivare a fine mese. Bisogna aiutarli. E a volte non servono grandi riforme o un'eccessiva produzione di leggi. Penso al ministro dell'Istruzione, a Mariastella Gelmini, alla reintroduzione del grembiule e del sette in condotta nelle scuole. Penso a un Paese normale».

Francesco Verderami
26 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #33 inserito:: Settembre 27, 2008, 05:36:42 pm »

Settegiorni - il ruolo del sottosegretario

Il metodo Letta incanta la sinistra

«Il compagno L» - definizione di Francesco Cossiga - è ormai diventato il «check point Charlie» del bipolarismo italiano

 
 
Ci sarà un motivo se dall'altro ieri il braccio destro di Silvio Berlusconi è diventato «il compagno Gianni Letta», se da Walter Veltroni a Guglielmo Epifani la sinistra ha preso ad elogiarlo. Non è solo un segno di gratitudine per l'atteggiamento che il sottosegretario alla presidenza del Consiglio sta tenendo nella fase più delicata del negoziato su Az. È piuttosto la dimostrazione che «il compagno L» - definizione di Francesco Cossiga - è ormai diventato il «check point Charlie» del bipolarismo italiano, il punto di contatto tra due leader divisi da un Muro che non cade. Sbaglierebbe Veltroni se davvero pensasse di separare Gianni Letta dal Cavaliere, perché il «compagno L» è l'essenza del berlusconismo, il suo alter ego.

Pare fosse un altro il messaggio che il capo dei Democratici abbia voluto lanciare, sostenendo che «in questo esecutivo Letta è poco più di un libero professionista»: l'obiettivo - secondo autorevoli dirigenti del Pd - era quello di alludere alle due linee che dividono il governo. Dal confronto estivo sul federalismo fiscale, Letta era parso uscire un po' ammaccato, dopo che Berlusconi in Consiglio dei ministri aveva preso le parti di Giulio Tremonti. Ma il caso Az l'ha riconsegnato al ruolo di protagonista. Cossiga dice che «Gianni è determinante nelle trattative. Sa accontentare tutti, sa benedire come un monsignore e contemporaneamente salutare da compagno con il pugno chiuso. Non che la faccenda Alitalia si sia risolta, anzi. I problemi maggiori devono venire. E siccome il ministro dell'Economia ne è consapevole - chiosa malizioso il Picconatore - ha deciso di non esporsi».

È una tesi che nel Pd sostengono da tempo. Paolo Gentiloni non a caso sottolinea «l'assenza del Tesoro dalla trattativa» prima di omaggiare Letta: «È onnipresente, è dialogante, è cultore delle istituzioni e delle mediazioni. Peccato stia di là». «Di qua», cioè dal loft veltroniano, sanno di avere nel «compagno L» più che un interlocutore affidabile. Una sponda. Goffredo Bettini lo chiama «il decisivo»: «Chiamatemi il decisivo per favore». È successo ancora giovedì. Non è chiaro se dovesse parlargli di Alitalia o di Rai, è certo che il sottosegretario ha risposto, e sebbene in sottofondo si avvertissero voci concitate, Letta ha discusso al telefono con il dirigente del Pd, confidandogli infine di sentirsi «un po' stanco»: «Sono cinque notti che non dormo». Con oggi fanno sei. Roberto Colaninno, che da una settimana condivide la stessa sorte, dopo averlo visto all'opera da vicino ne ha tessuto le lodi sull'Unità. È vero, il patron di Cai ha elogiato tutti, Veltroni ma anche Berlusconi, «che non mi ha mai fatto mancare il suo incoraggiamento e ha sempre creduto al successo della cordata italiana ». Tuttavia, se la trattativa è arrivata al passaggio decisivo, «è per merito di Gianni Letta»: «Non ha mai mollato».

Quanto ad Epifani, Cossiga arriva tardi. È da tempo che il segretario della Cgil ha fatto outing. Due anni fa andò in televisione e dichiarò: «Se potessi, strapperei Letta al centrodestra ». A dirla tutta, una settimana fa, e sempre in tv, Epifani ha ringraziato anche Altero Matteoli «per l'atteggiamento che ha tenuto durante la trattativa». «In altri tempi - ha sorriso il ministro di An guardando la trasmissione - l'avrebbero cacciat o dalla Cgil». Sarebbe però un errore ritenere che Letta sia un mediatore accomodante. In Consiglio dei ministri, nei giorni dello strappo di Epifani, il sottosegretario alla presidenza espresse giudizi severi verso il sindacalista e i dirigenti democratici: «Sono false e inaccettabili le accuse che vengono dalla Cgil e dal Pd. Ho letto le dichiarazioni dell'onorevole Piero Fassino, le trovo infondate». E nel ricostruire le fasi della trattativa, rivelò un dettaglio: «Non è vero che si sia lavorato per spaccare le organizzazioni del lavoro. Perché, quando è stato necessario, non ho esitato - cosa per me insolita - ad alzare la voce con il ministro Sacconi in presenza dei rappresentanti sindacali, per dimostrare che c'era e resta la volontà di dialogare». Ecco perché Letta era e resta il braccio destro di Berlusconi. E al premier non dispiace che sia diventato il «compagno L». Se è vero che è il suo alter ego, ne trarrà beneficio.

Francesco Verderami
27 settembre 2008

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« Risposta #34 inserito:: Ottobre 03, 2008, 06:03:09 pm »

Riforme

Il Pd spera ancora nel metodo Letta

«Noi siamo pronti»



Persino nelle strategie di comunicazione hanno preso ormai strade contrapposte. E se ieri Berlusconi ha invitato i rappresentanti del governo all'astinenza televisiva, in vista del 25 ottobre Veltroni ha chiesto a centodieci dirigenti del Pd — uno per ogni provincia — di trasformarsi in altrettanti cameraman, per filmare la manifestazione e riversare il materiale all'emittente del partito: Youdem tv.

Berlusconi e Veltroni sono divisi su tutto. Ma l'invito rivolto dal capo del governo ai presidenti delle Camere per riformare i regolamenti parlamentari, evoca la stagione del dialogo, il vecchio patto tra il Cavaliere e il leader del Pd. «Il tema è lo stesso», spiega il senatore democratico Tonini: «Dare al Paese nuove regole. Ma l'approccio è diverso: allora Berlusconi aveva la mano tesa, oggi mostra il pugno e lo brandisce come una minaccia ». In questa fase è scontato che si scarichino sull'avversario le colpe della rottura, «è chi sta al governo che determina il clima politico». Tuttavia, nonostante la durezza dello scontro e l'approssimarsi della manifestazione di partito, Tonini — uno dei più fidati consiglieri di Veltroni — evita di aggiungere un altro mattone al muro che divide i due schieramenti. Anzi, «mi auguro si possa riaprire un confronto sulle riforme. Ma perché ciò possa avvenire — precisa — bisogna capire se il premier ne è intenzionato». Sarà anche un modo di addebitare a Berlusconi le responsabilità del fallimento, però s'intravvede un segnale quando dice che «noi sulla necessità di cambiare le regole e di cambiarle insieme al centrodestra ci stavamo e ci stiamo ancora. Perché quel confronto più che utile è necessario. Potrà ripartire se il premier cambierà toni e atteggiamento. Se non c'è rispetto per l'interlocutore, se il governo procede a forza di strappi, non può esserci dialogo. Il galateo istituzionale non è questione di forma ma di metodo».

L'incrocio tra il concetto di «galateo istituzionale» e la parola «metodo» porta Tonini a ricordare quanto è accaduto durante la trattativa su Alitalia, «nella quale il Pd ha avuto un ruolo importante perché il negoziato finisse positivamente». E subito il discorso vira sul sottosegretario alla presidenza del Consiglio, sul «metodo Letta»: «Quel metodo ha funzionato, ed è quel metodo che va adottato». Dunque Gianni Letta era e resta il punto di riferimento di quanti non si rassegnano al muro contro muro. «E noi — prosegue Tonini — non siamo quelli del tanto peggio tanto meglio, siamo dell'idea che si debba lavorare nell'interesse del Paese, restiamo convinti che le riforme servano e che serva farle insieme, nella chiarezza dei ruoli, separando il terreno del confronto sulle regole, dallo scontro duro e senza sconti sulle politiche del governo».

 È vero che il 25 ottobre sarà una data importante per il Pd, ma il 26 lo sarà ancor di più. E il dirigente veltroniano fa capire quale può essere un tratto del sentiero. Sta però al Cavaliere la prima mossa, «sulle riforme eravamo pronti e lo siamo ancora. Ma deve ritornare lo spirito che aleggiava in Parlamento nei giorni del dibattito sulla fiducia al governo. Berlusconi ha sconfessato se stesso, ha precipitato il Paese e la politica in un clima di contrapposizione. Torni indietro, la smetta con i colpi di mano». Lo «spirito di maggio» è lontano, lo scontro tra chi viene accusato di puntare a «un sistema putiniano» e chi viene definito «un leader inesistente» non sembra destinato a cessare. Però è bastato che Berlusconi chiedesse la riforma dei regolamenti parlamentari — in una giornata segnata dal diverbio con il presidente di Montecitorio sull'uso dei decreti — per capire che solo con un'intesa sulle regole si può arrivare al cambio di sistema auspicato dal Cavaliere. Serve un'intesa con l'opposizione per modificare i metodi di lavoro delle Camere, «e il Pd — sottolinea Tonini — lavora perché il Paese abbia una democrazia decidente. Perché proprio una democrazia che non decide apre la strada a decisioni senza democrazia. In Parlamento è giusto dare al governo una corsia preferenziale per i suoi provvedimenti, in modo da decidere rapidamente. E al tempo stesso serve uno statuto che garantisca l'opposizione. Sono proposte che insieme ad altre abbiamo presentato alle Camere ». Secondo il senatore del Pd tocca al Cavaliere dare una svolta. Il «metodo Letta» è la strada per ristabilire un contatto: «In quel caso — conclude Tonini — noi saremo pronti. Per noi la porta del confronto sarà aperta. A chiuderla è stato Berlusconi».

Francesco Verderami
03 ottobre 2008

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« Risposta #35 inserito:: Ottobre 05, 2008, 12:24:45 am »

Sulla riforma tra gli industriali a Capri prevale lo scetticismo

Federalismo, gli imprenditori e «l’alleanza degli spreconi»

La Guidi: rischio di costi duplicati. Quadrino: no agli errori di quando si fecero le Regioni

Sarà certamente una «riforma di portata storica», come dice Giulio Tremonti, ma sul federalismo fiscale il mondo dell’imprenditoria si mantiene assai prudente.



Gli imprenditori riconoscono la bontà del progetto e tuttavia attendono di verificarne gli effetti, perché temono che invece di ridurre spese e tasse finisca per aumentarle. Da anni Confindustria studia la materia, la bozza di un documento—ancora riservato— è nelle mani di Luca Garavoglia, presidente di Campari. E l’analisi svolta ieri sul Riformista dal professor Luca Ricolfi non è passata inosservata, specie quando il politologo ha previsto «un punto in più di spesa pubblica» per effetto dei costi nel comparto sanitario. L’appellativo con cui ha ribattezzato la riforma, «federalismo assistenziale», sarebbe a suo giudizio la conseguenza di uno «scambio tra la Lega e le regioni del Sud», una sorta di «alleanza degli spreconi», basata sul fatto che «tutti vogliono più soldi». A Capri, dove i giovani industriali sono riuniti, la presidente Federica Guidi dà voce alle preoccupazioni degli imprenditori, perché «in linea di principio il progetto è cosa buona, imporrà agli amministratori locali una gestione più oculata. Ma c’è il rischio che la riforma produca duplicazioni nei costi, e che alla fine tutto si scarichi sui contribuenti». Ecco il motivo per cui permangono delle «criticità», perché «da parte nostra resta alto il livello di attenzione », accresciuto dalla «preoccupazione che destano i bilanci degli enti locali», minati non si sa fino a che punto dal «virus» della finanza creativa adottata negli ultimi anni. La scommessa «è legata alla prospettiva di un uso virtuoso delle risorse e di un miglioramento dei servizi pubblici», su questo il presidente di Bnl Luigi Abete non ha dubbi: «Restano però i dubbi sulla sorte di alcune regioni del Sud, e su un aumento della spesa». È vero, come spiega il presidente degli industriali siciliani Ivan Lo Bello, che «in Parlamento arriverà solo una legge quadro» e che «bisognerà attendere la stesura dei decreti delegati » per avere una «visione complessiva» della riforma: «Sarà allora che si scatenerà la guerra tra le regioni, che ci saranno vincitori e vinti. Esiste però la preoccupazione che gli amministratori interpretino il federalismo fiscale come la soluzione dei loro problemi di bilancio. Il pericolo—conclude—è che alla fine si vogliano accontentare tutti. Sarebbe un disastro, vorrebbe dire allargare le maglie della spesa». C’è un «precedente» che allarma il mondo imprenditoriale, è Umberto Quadrino ad evocarlo, «e tutti ricordiamo cosa accadde con la nascita delle regioni, quando la spesa pubblica aumentò a dismisura»: «L’esperienza passata — prosegue l’amministratore delegato di Edison—autorizza a pensar male. Servono regole severe per non ripetere quegli errori». E siccome rispetto al passato non sarebbe più possibile scaricare sullo Stato le gestioni clientelari e assistenziali del territorio, «con la situazione debitoria in cui versano regioni, province e comuni, sarebbero i cittadini a pagar dazio con nuovi balzelli».

Si avverte un clima di preoccupazione, e non è chiaro se si tratti solo di diffidenza verso l’ignoto o piuttosto di timori circostanziati dagli studi di Confindustria. Perché forse le «criticità» di cui parla la Guidi sono contenute nel documento degli imprenditori. D’altronde la «storica riforma» nasce in una fase altrettanto storica, lo spettro del ’29 paventato da Tremonti si è incarnato nel tracollo dell’economia mondiale. «Ci sono banche—spiegò due anni fa il superministro—che nei loro forzieri hanno solo degli algoritmi». E non si fa illusioni sul prossimo futuro, anzi è convinto che «il peggio non è ancora arrivato»: questo ha spiegato a Silvio Berlusconi alla vigilia del viaggio a Parigi per il «G4». Il premier si era già fatto un’idea lunedì scorso, quando — come ha raccontato ad un amico—aveva ricevuto una telefonata da George W. Bush. Era il giorno del suo compleanno, ma soprattutto era il giorno in cui il Congresso americano aveva bocciato il piano da 700 miliardi di dollari deciso dalla Casa Bianca, e nei ragionamenti del presidente statunitense si erano materializzati scenari drammatici che Wall Street aveva vissuto solo l’11 Settembre. Il voto di ieri a Washington ha allontanato quei fantasmi, ma i timori restano. Ci sarà tempo prima che nasca l’Italia del federalismo fiscale, e il tempo servirà anche per capire come verrà disinnescata la vera bomba su cui è poggiato il Paese, e che potrebbe far saltare la riforma: il debito pubblico. «Ecco il vero nodo», dice l’amministratore delegato di Invitalia, Domenico Arcuri: «Da come verrà affrontata e risolta la questione si capirà se andremo verso un autentico federalismo fiscale o verso un surrogato. Il debito pubblico che ora è centralizzato, sarà spartito tra le regioni? Perché non si possono suddividere solo i ricavi. Ma se il debito venisse federalizzato, il rischio di un aumento delle tasse sarebbe altissimo. E un aumento della pressione fiscale vorrebbe dire condizionare lo sviluppo di alcune regioni del Sud, come la Puglia. Per altre, come la Calabria, sarebbe uno sforzo insostenibile ».

Francesco Verderami
04 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #36 inserito:: Ottobre 18, 2008, 11:37:05 am »

Per il 25 era pronta una raccolta di firme pro riforma

E Berlusconi fermò i gazebo

Recuperiamo i sindacati»

Il sostegno del Colle al ministro: ma niente più decreti



Non c'è ministro dell'Istruzione che non abbia subìto una contestazione. Mariastella Gelmini chieda a Beppe Fioroni, suo predecessore, che ogni mattina offriva brioche e cappuccino a un sindacalista piazzato fisso sotto il dicastero. Eppoi ieri gli slogan dei manifestanti erano in buona parte meno aspri delle battute che Umberto Bossi gli dedicò nei giorni in cui varava la riforma della scuola.

Paradossalmente, infatti, il titolare dell'Istruzione all'inizio del mandato ha avuto più sostegno da avversari come Luigi Berlinguer e Franco Bassanini che dalla Lega e da Giulio Tremonti. Il democratico Fioroni sostiene addirittura che «sul suo provvedimento avremmo potuto trovare l'intesa in due minuti se il ministro dell'Economia non avesse imposto tagli draconiani». Ma non avendo intenzione né interesse a rinverdire il duello che contrappose Letizia Moratti a Tremonti, la Gelmini ha fatto di necessità virtù, e con il tempo è riuscita a invertire la tendenza. Nei rapporti con Tremonti e nei rapporti con l'opinione pubblica. Come ha scritto il Riformista, a fronte della piazza che la contesta, i sondaggi hanno preso a premiarla. Dalla sua può vantare l'appoggio di Silvio Berlusconi, la protezione di Gianni Letta, il tifo di uno spettatore come Fedele Confalonieri e soprattutto la stima — ricambiata — di Giorgio Napolitano. L'ultima volta che l'ha ricevuta al Quirinale, il presidente della Repubblica teneva sulla scrivania il libro bianco di Fabrizio Barca, un dossier sulla spesa pubblica che l'economista aveva scritto ai tempi del governo Prodi e in cui era sottolineata la necessità di ridurre e riqualificare la spesa scolastica.

Con la Gelmini, Napolitano è stato finora comprensivo e incoraggiante, in pubblico, come ieri, e in privato: «Mi raccomando però — le ha detto — niente più decreti ». La strada del ministro resta difficile, le iniziative del Carroccio e i limiti di bilancio, incrociano le richieste di Regioni e sindacati. Perché la verità non sta mai da una parte sola, persino il Cavaliere ne è convinto. Non a caso mercoledì ha voluto parlare della riforma scolastica mentre si trovava a Bruxelles, stretto tra la crisi economica e il braccio di ferro sulle misure per il clima. E c'è un motivo se il suo messaggio si è concentrato sull'occupazione e sulle garanzie alle famiglie per il tempo pieno. Nelle pieghe del decreto ci sono ambiguità che vanno chiarite, anche per tenere aperto il dialogo con il sindacato. Sono parole che Berlusconi ha pronunciato ieri in Consiglio dei ministri, «va recuperato il dialogo con il sindacato che non è ideologizzato». Ovvero, va recuperato il rapporto con Cisl, Uil e Ugl per evitare che la Cgil li costringa allo sciopero generale del 30 ottobre.

Già la prossima settimana la Gelmini potrebbe convocare le confederazioni, anche perché sul pubblico impiego Tremonti pare disposto ad aprire i cordoni della borsa, cosa assai complicata se la richiesta non fosse venuta dal premier. Il fatto è che Berlusconi non vuole dare appigli agli avversari, il suo timore — in prospettiva — è che la scuola possa offrire un varco all'offensiva dell'opposizione, che le rigidità sulla spesa si trasformino in un tallone d'Achille del governo, finora inattaccabile a detta dei sondaggi. Il Cavaliere non rifarà errori come quello sull'articolo 18, ed è forse per prudenza che ha deciso di far sospendere un'iniziativa per il 25 ottobre, giorno in cui il Pdl avrebbe dovuto presentarsi nelle piazze d'Italia con i gazebo per raccogliere firme a favore della riforma scolastica: ha preferito non misurarsi con la manifestazione organizzata da Walter Veltroni.

In fondo, una ricerca commissionata da Berlusconi proprio sulla Gelmini ha dato «risultati eccellenti». Nel report si legge che «l'Italia profonda» concorda con la riforma della scuola, il gradimento arriva anche dai genitori i cui figli sono scesi in strada a manifestare: il grembiule viene identificato con «l'ordine», voto in condotta e maestro unico con il «rigore». «Dobbiamo andare avanti, dare una scossa. Bisogna innovare la scuola », ha commentato il Cavaliere. Che, manco a dirlo, ha aggiunto un altro settore: «... La scuola e la giustizia. Anzi, la scuola pubblica è messa peggio della giustizia. Perché, malafede a parte, i magistrati sono più preparati degli insegnanti ». Per sua fortuna la Gelmini non è Guardasigilli.

Francesco Verderami
18 ottobre 2008

da corriere.it
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« Risposta #37 inserito:: Novembre 01, 2008, 10:03:40 am »

Tremonti stringe rapporti con i leader sindacali contrari alla «deriva massimalista» Cgil

Silvio, i sondaggi e il «novembre caldo»

La linea del capo del governo: ora varare provvedimenti che smorzino la tensione


Per la prima volta nei sondaggi Silvio Berlusconi accusa un calo nel gradimento personale, «perché la faccia sui tagli ce la metto io», perché è lui il premier, ed è su di lui che si scaricano le tensioni sociali, le incertezze di un Paese che non sa come e quando uscirà dalla crisi. Sapeva che sarebbe andato incontro a un autunno caldo e a un inverno rigido per i morsi dell'emergenza economica, l'aveva messo in conto già in campagna elettorale. Ma se ieri fosse saltata la trattativa su Alitalia, il Cavaliere avrebbe «perso la faccia», come ha detto Umberto Bossi, e le ripercussioni sul governo sarebbero state pesanti. Perché sull'italianità della compagnia di bandiera aveva scommesso, e il fallimento di Az avrebbe provocato un pericoloso cortocircuito politico, amplificato mediaticamente — agli occhi dell'opinione pubblica — dagli scioperi della scuola, degli statali e dei metalmeccanici.

Raccontano che nelle ore più convulse Berlusconi abbia voluto capire se una «manina politica» si fosse inserita nei delicati equilibri della vertenza tra Cai e sindacati, e che l'incontro con Roberto Colaninno sia servito proprio a dissipare quei dubbi: il sospetto di «una trappola» scattata quando non ci sarebbe più stato il tempo per rimediare. Dubbi e sospetti che albergavano anche nella mente di Gianni Letta, a cui il premier aveva affidato il dossier. Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio si attaccava al telefono, furente con «i sindacati confederali che fanno i furbi» e con quei «banchieri e industriali che ora si lamentano» per gli equilibri ai vertici della compagnia: «Ora, solo ora, dopo mesi che discutiamo...».

Nulla lasciava presagire simili rischi, se è vero che nei giorni scorsi Berlusconi aveva affrontato l'argomento con Bossi, offrendo «garanzie» sul partner straniero di Alitalia. «Anche Letizia Moratti è della stessa idea, bisogna puntare su Lufthansa», aveva chiesto il capo del Carroccio, e il Cavaliere lo aveva rassicurato. Insomma, non era questo il fronte che lo preoccupava, ed ormai erano lontani i giorni in cui nel governo aveva suscitato scalpore l'assenza di Giulio Tremonti dal tavolo della trattativa. «Se mi fossi seduto lì — aveva spiegato il ministro dell'Economia — avrei accreditato l'idea che lo Stato potesse intervenire per acquistare la compagnia». Erano e restano altre le emergenze che deve fronteggiare il premier, chiamato a dare risposte al Paese e alla sua maggioranza sulla crisi. Perciò non sono state casuali ieri le sortite dei capigruppo del Pdl, con Maurizio Gasparri che ha definito «prioritaria la difesa del potere d'acquisto per le famiglie» e Fabrizio Cicchitto che ha parlato di «misure allo studio da parte del governo».

Un classico gioco delle parti, con cui si punta a sgretolare il muro issato da Tremonti a tutela dei numeri della Finanziaria. Un'operazione combinata e assecondata da Berlusconi, convinto che l'unico modo per rispondere all'offensiva di piazza della Cgil e del Pd sia «varare misure che smorzino la tensione». È ormai chiaro che nel centrodestra si confrontano due modi diversi di approcciare la crisi, e Tremonti — conscio dell'accerchiamento — non è rimasto fermo. Da qualche tempo ha stretto rapporti con i leader sindacali contrari alla «deriva massimalista» della Cgil, ed è con loro che ha ragionato sul «nuovo mondo»: «Con il crollo del sistema siamo entrati in un mondo sconosciuto. L'impatto della crisi sul comparto produttivo sarà pesante e noi dovremo salvare il patrimonio umano».

Evocando i lavoratori, Tremonti ha fatto presa sugli interlocutori, assicurando risorse al ministro del Welfare Maurizio Sacconi per la cassa integrazione. E Sacconi, insieme a Tremonti, è stato ospite del convegno organizzato dalla fondazione Nuova Italia di Gianni Alemanno per un dibattito sull'economia sociale di mercato. Chissà se il titolare di via XX settembre ha illustrato la sua visione del futuro anche a Massimo D'Alema, con cui coltiva un intenso rapporto culturale, è certo che ai sindacati ha promesso di impegnarsi a favore delle fasce più deboli, come i non auto-sufficienti. Renata Polverini dell'Ugl confida che «arrivino risposte concrete»: «Il confronto è utile, ed è importante che le proposte siano condivise prima».

Tremonti è pronto alla contromossa, la prova sta nel breve intervento pronunciato ieri in Consiglio dei ministri: «Nel 2009 persino la Germania non crescerà. È con questo che dovremo fare i conti. Perciò, se pensassimo di muoverci con l'intento di invertire il ciclo economico, sappiate che il ciclo non lo invertiremo. Diverso è il ragionamento se volessimo muoverci per far vedere che cerchiamo di dare un po' di respiro alle famiglie, ai lavoratori». È il richiamo al «patrimonio umano da salvare». Ecco il modo in cui Tremonti mira a spezzare l'accerchiamento.

Francesco Verderami
01 novembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #38 inserito:: Novembre 08, 2008, 10:02:29 am »

Sette giorni

Silvio, il lupo, il leone e la volta che Bush non rise

Le «frizioni» con Chirac e gli ultimi scontri con l’«amico» Sarkozy su clima e Petrella


Ieri sera la telefonata di Obama a Berlusconi ha salvato l’Italia da una polemica davvero surreale. La speranza è che per lunedì, quando si saranno sentiti anche il futuro vicepresidente americano Biden e Frattini, non ci sia più traccia di questo scontro politico in Italia.

Uno scontro che ha impegnato le energie del premier, del governo, di maggioranza e opposizione, e che non ha avuto per oggetto la crisi economica ma è ruotato attorno a un aggettivo. Non c’è dubbio che il Cavaliere fosse in buona fede quando ha dato dell’«abbronzato » al prossimo presidente degli Stati Uniti. Forse era spinto da un moto d’invidia e ammirazione per la giovinezza e lo charme di Obama, ma come gli ha ricordato Bossi non si può vivere fuori dai codici della diplomazia.
Invece Berlusconi ha continuato a battagliare con i Democratici (italiani), «perché non mi piego alla stupidità e alla malafede».

E dire che aveva cambiato registro, tornato a palazzo Chigi. Si era completamente affrancato dal complesso di inferiorità che lo aveva accompagnato agli esordi, quando—a torto—i Grandi della terra l’avevano accolto come un parvenu che presto sarebbe scomparso dalla scena. Al G7 di Napoli del 1994 aggiustò poltrone e microfoni agli ospiti, suscitando vivo stupore. Al vertice europeo di Corfù, dopo un lungo pranzo, cedette il passo a Mitterrand davanti alla toilette malgrado un’impellente esigenza. Il primo incontro con Chirac fu introdotto da un lungo istante di silenzio. «So cosa pensi di me», disse d’un tratto Berlusconi: «Che sono diventato presidente del Consiglio grazie alle televisioni». «Ma no, che dici». «Non importa. Sarò pronto ad appoggiare le vostre iniziative, a patto di venire consultato per tempo». «Sarà così». Chirac non lo chiamò mai.

Gli attacchi dell’opposizione per la battuta su Obama saranno anche stati venati di strumentalità, ma è stato il premier a prestare il fianco. Eppure dopo la vittoria elettorale, nelle Cancellerie si era preso atto della sua leadership, e Berlusconi aveva iniziato ad autodefinirsi «il saggio» della nuovo compagnia, il «socio anziano» del vecchio club. E non è che siano mancati in questi mesi momenti di tensione, persino con Sarkozy. Sul «caso Petrella», la terrorista che non è stata estradata in Italia, Berlusconi ha saputo celare la propria irritazione verso l’Eliseo, invitando anche il Guardasigilli a tenere un «profilo basso» nella vicenda.

Al Consiglio dei ministri di due settimane fa, discutendo sul «pacchetto clima » affidato a Ronchi e alla Prestigiacomo, ha allacciato pollici e indici delle mani per spiegarsi: «Io e il presidente francese siamo così. Ma amicizia non significa dire sempre sì». Mai si è scomposto in pubblico, sebbene alla cena di Villa Madama con gli industriali abbia rivelato alcuni aspetti spigolosi del carattere di Sarkozy: «...E comunque, capisco, vuole acquisire visibilità, imporsi come leader europeo e avere un ruolo internazionale. Ma sul clima dovrà mediare o non cederemo».

Ha parlato davanti al Congresso americano, ha organizzato il vertice di Pratica di Mare, vanta un legame strettissimo con la Russia di Putin, eppure rischia di venire ricordato solo per le sue battute. Obama non avrà riso l’altroieri. Una volta non rise nemmeno «l’amico George», e Berlusconi è intenzionato a inserire quell’episodio «nelle mie memorie quando sarà il momento».

«Il fatto — secondo il racconto del premier—risale alla vigilia della guerra in Iraq. Il conflitto sembrava ormai inevitabile e chiesi a Bush un incontro nella speranza di dissuaderlo. Andai a Washington, nella sala Ovale c’era il suo staff al completo. La tensione era alta, perciò decisi di affidarmi a una storiella per spiegarmi. "Caro George, c’era una volta un leone che appena vedeva il lupo lo riempiva di botte, urlandogli di tagliarsi i capelli. Il lupo si rivolse alla volpe perché mettesse fine a quella situazione, e la volpe accettò l’incarico: si recò dal leone e gli spiegò che non poteva continuare a percuotere il lupo senza motivo. Ma il re della foresta gli addebitava cappuccetto rosso, i tre porcellini... Allora la volpe lo invitò a trovare quantomeno un pretesto: chiedi al lupo di andarti a comprare le sigarette; se al ritorno ti avrà portato un pacchetto di morbide, lo colpirai dicendogli che le volevi dure. E viceversa. Quando il leone vide il lupo si comportò come gli aveva consigliato la volpe. Il lupo, sorpreso per non esser stato colpito, corse felice a comprare le sigarette. Ma per strada si bloccò, perché non sapeva che tipo di pacchetto acquistare. Così tornò indietro e alla vista del leone gli chiese: preferisci le morbide o le dure? Il re della foresta restò per un attimo spiazzato. Poi lo colpì: ti ho detto di tagliarti i capelli!". Tutti nella stanza si misero a ridere, solo Bush rimase silenzioso. E dopo qualche istante mi disse: "Silvio, tu hai ragione. Ma a Saddam farò fare la fine del lupo"». E non fu una battuta.

Francesco Verderami
08 novembre 2008

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« Risposta #39 inserito:: Novembre 11, 2008, 11:02:05 am »

IL CASO ALITALIA

Berlusconi chiama Colaninno: il governo è al vostro fianco

E Letta il mediatore dice sì alla linea dura


L’allarme era scattato domenica. Berlusconi si era affrettato a chiamare i soci Cai per evitare che nella cordata si aprissero nuove crepe, tali da compromettere l’«operazione Az». E ancora ieri mattina il premier ha voluto sincerarsi che tutto filasse per il verso giusto.

Perciò Berlusconi ha sentito Colaninno ed altri imprenditori della società: «A tutti— racconta il Cavaliere—ho detto che il governo è al loro fianco, che li ringraziamo per quanto stanno facendo e che continueremo a seguirli, ad essere loro vicini». Le tensioni sindacali—culminate ieri con la paralisi dei cieli—avevano provocato nuove tensioni nella cordata, e il presidente del Consiglio lo riconosce quando spiega che «in momenti come questi sale la voglia di dire "ma chi me lo fa fare". Invece no, bisogna andare avanti. E così sarà».

Sull’«italianità della compagnia di bandiera» Berlusconi ci ha messo la faccia e non vuole sorprese. Il passaggio di questi giorni è stato certamente meno drammatico rispetto a quanto accadde il 31 ottobre, quando al momento della firma del contratto Cai fu sul punto di passar la mano, spiazzando il premier. Da allora il Cavaliere monitora quotidianamente la situazione, grazie a Gianni Letta. Il sottosegretario alla presidenza per una volta si è trasformato in falco, e per proteggere l’«operazione Az» ha avallato la linea dura del ministro Matteoli, con la precettazione dei lavoratori che ieri hanno aderito allo sciopero. Si è trattato di un segnale politico rivolto agli acquirenti di Alitalia ma anche ai sindacati confederali che avevano sottoscritto l’intesa, e che al riguardo avevano chiesto «garanzie» al governo e alla cordata. Palazzo Chigi le ha mantenute, e anche Cai — tramite l’ad Sabelli — ha assicurato che non convocherà più tavoli di trattativa per le sigle rimaste fuori dall’accordo.

Come non bastasse, l’esecutivo è pronto a nuove mosse se fosse necessario. Non è un caso che il titolare delle Infrastrutture abbia chiamato ieri Maroni, «perché— avvisa Matteoli — in caso di scioperi selvaggi dovrà essere il Viminale a intervenire. Non è pensabile che venga bloccato il Paese. Non lo tollereremo e non lo permetteremo». È il blackout del sistema a preoccupare il presidente del Consiglio, perché non c’è dubbio che l’opinione pubblica scarica per ora sui lavoratori di Az le responsabilità della paralisi nei cieli, ma se la situazione si protraesse a lungo sarebbe il governo a pagarne le conseguenze. La precettazione serve per prepararsi a ogni eventualità. Tuttavia, siccome — per usare un’espressione di Confalonieri — «Berlusconi non è la Thatcher», il Cavaliere confida che non si arrivi a un drammatico braccio di ferro, e dell’ex premier inglese preferisce citare un motto: «Chi governa non può abbattersi di morale». Berlusconi non vuol fare la parte della Thatcher, d’altronde non è questo lo scenario che si ipotizza a Palazzo Chigi.

Il prossimo via libera di Bruxelles alla vendita di Alitalia farà partire infatti il timing che porterà Az in mano alla Cai entro il primo dicembre. Ma Sabelli è al lavoro con gli avvocati perché già la prossima settimana si decidano i criteri di selezione e si passi all’assunzione del personale. Tutto dovrebbe quindi avvenire prima dello sciopero proclamato per il 25 novembre. I lavoratori a quel punto saranno posti dinnanzi all’aut aut: accettare le nuove condizioni o perdere la cassa integrazione. «A quel punto — come sottolinea Matteoli — chi non sarà più dipendente non avrà più titolo a entrare nelle zone aeroportuali ». Più chiaro di così... Il governo mette ancora in conto un periodo di disagi, il ministro delle Infrastrutture ammette che «l’operazione non sarà indolore». Nel frattempo Berlusconi continuerà a «star vicino» e a «ringraziare» gli imprenditori della cordata. Perché, fin dall’inizio, il premier sa qual è l’anello debole, la vera incognita dell’«operazione Az»: Cai.

Francesco Verderami
11 novembre 2008

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« Risposta #40 inserito:: Novembre 21, 2008, 10:46:15 am »

LA RAI - IL DUELLO

Deluso da Pdl e Veltroni: e Letta perse la calma

Sperava che Walter scaricasse il Di Pietro anti premier.

Gelo con la maggioranza: c'è chi ha remato contro
 


ROMA — A nessuno è consentito premere su Silvio Berlusconi, tranne a Gianni Letta. E ieri pomeriggio il sottosegretario ha premuto sul Cavaliere, ha usato toni e modi che solo lui può permettersi. Così è riuscito a convincere il premier che sul «caso Villari» non poteva restare in silenzio, che dopo la nota di Gianfranco Fini e la dichiarazione di Renato Schifani anche lui doveva invitare il neo-presidente della commissione di Vigilanza Rai a dimettersi, per onorare l'intesa bipartisan su Sergio Zavoli, per mettere in riga un pezzo di maggioranza «che ha remato contro», per porre termine a una vicenda dai risvolti surreali e che però non è affatto conclusa. Perché Villari non si è dimesso, anzi ieri sera ha inviato al dg della Rai Claudio Cappon la bozza del regolamento per le elezioni in Abruzzo. L'emergenza economica si aggrava, il Paese è minacciato da tensioni sociali fortissime, e la politica italiana si avvita in una crisi sulla tv di Stato: con il Quirinale che osserva con «forte preoccupazione» l'evolversi della vicenda, con i presidenti delle Camere costretti a spingersi ai limiti dello strappo istituzionale. È una partita con poche luci e molte ombre, dietro cui si celano la lotta intestina nel Pd, una guerra trasversale di potere sulla Rai nel centrodestra, e uno scontro generazionale che oppone i giovani emergenti del Pdl al plenipotenziario di Berlusconi. Gianni Letta, appunto.

Infuriato come non mai perché in Vigilanza i commissari di maggioranza hanno «disatteso gli accordi stabiliti», ma irritato anche con Veltroni per il modo in cui il segretario del Pd — a fronte dell'intesa siglata su Zavoli — non ha preso le distanze dalle parole pronunciate da Antonio Di Pietro contro il premier «corruttore politico», nè ha mosso un dito per le insinuazioni di Leoluca Orlando su Schifani. Al Cavaliere già l'altro ieri erano saltati i nervi: «Ma che accordo è questo? E in cambio di cosa lo facciamo?». E dire che il presidente del Senato si era trattenuto per non rispondere a tono all'esponente dell'Idv, «perché ricordo — ha raccontato ai suoi — come tentò di giustificarsi dopo l'intervista che aveva rilasciato al Corriere, quando mi disse: "No, Renato, non volevo accostare il governo all'Argentina dei colonnelli ma a quella di Peron"...». Di errori il leader democratico ne ha commessi tanti, però ieri pomeriggio — dopo il rifiuto di Villari a dimettersi — Fini e Schifani hanno vestito i panni istituzionali. Appena Veltroni ha informato il presidente della Camera che «da questo momento non parteciperemo più alle riunioni della Vigilanza», la terza carica dello Stato si è messa in moto. Temendo un nuovo e più grave stallo, ha invitato Villari a dimettersi con una nota che non ha precedenti nella storia parlamentare repubblicana.

A Fini non sarà mancata la copertura del Colle, e i timori che filtravano dal Quirinale si sono colti anche nei ragionamenti privati di Schifani, preoccupato per le «prospettive di un conflitto istituzionale» e per le «ripercussioni sui lavori di Camera e Senato»: «Si rischia una vittoria di Pirro». Come a dire che un successo politico su un Veltroni messo all'angolo, potrebbe tradursi in un danno per l'azione di governo. Toccava al Cavaliere la mossa successiva. Veltroni — dopo un colloquio telefonico con Gianni Letta — aveva spiegato allo stato maggiore del Pd che «Berlusconi non c'entra con questa operazione a favore di Villari», che «sono stati pezzi di An e di Forza Italia ad averla fatta». Ma è proprio così? Perché senza le pressioni del sottosegretario, il premier non sarebbe uscito allo scoperto, tentato dall'idea di sfruttare la situazione per muoversi successivamente come un panzer a viale Mazzini. E infatti ha tentato di resistere alle pressioni del suo braccio destro, sostenendo che «si tratta di questioni parlamentari».

Non risultano telefonate tra il Cavaliere e Schifani, eppure c'è una singolare coincidenza tra le parole usate nei suoi colloqui riservati dal presidente del Senato e quelle adottate dal sottosegretario a palazzo Chigi per convincere Berlusconi. Perché «con Villari al vertice della Vigilanza e con il Pd assente dalla commissione», «il percorso per arrivare al nuovo cda Rai si trasformerebbe in un Vietnam, e non si potrebbe nominare il presidente». Così il premier si è convinto al passo del comunicato. È presto per capire se Letta ha vinto, perché è riuscito certo a imporsi con Berlusconi dinanzi a «un pezzo di maggioranza che rema contro», ma restano ancora dei margini di ambiguità nell'operato del Cavaliere e nel centrodestra. Bastava sentire come ieri sera si è espresso Ignazio La Russa, che prima si è complimentato con il «bravissimo» Villari, poi con «la maggioranza che in Vigilanza ha fatto bene a non chiedergli di dimettersi», e infine con «Fini, Schifani e Berlusconi che hanno fatto prevalere il senso delle istituzioni invitando Villari a dimettersi». Ma Villari non si è dimesso. E i conti non tornano

Francesco Verderami

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« Risposta #41 inserito:: Novembre 26, 2008, 11:12:59 am »

Il retroscena

Silvio e la strategia dell'attenzione

Berlusconi e la strategia dell'attenzione per il ceto medio: detassazione a dicembre


ROMA — Per Berlusconi l'intesa Sarkozy-Merkel è al tempo stesso una buona e una cattiva notizia.
L'idea di allentare i parametri di Maastricht consente al premier di ottenere quanto finora Tremonti non gli aveva concesso in nome del Patto di stabilità: «Ora potremo usare un paio di miliardi per detassare almeno in parte le tredicesime». Perché è questo l'obiettivo a breve termine del Cavaliere, che mira in un sol colpo a conquistare il plauso di commercianti e artigiani, lavoratori e industriali, svuotando di significato lo sciopero generale indetto dalla Cgil, e lasciando il sindacato al proprio «errore». Il titolare di via XX Settembre si sta predisponendo al passo, per dare a Berlusconi quel che Bruxelles gli consentirà di dare. D'altronde il premier è determinato e non sente ragioni: il suo intento è recuperare il consenso perduto nell'ultimo mese, o meglio, evitare un'ulteriore erosione di credibilità nel rapporto con l'opinione pubblica. Dopo aver «coperto» settori importanti — da quello bancario a quello delle imprese — non può limitarsi a un intervento a favore di pensionati e lavoratori con stipendi di fascia bassa. È alla middle class che vuole inviare un segnale con il piano anticrisi, e la detassazione delle tredicesime gli garantirebbe un ritorno immediato: «Sarebbe una dose di ottimismo in un clima di sfiducia». E sarebbe solo il primo passo. Perché in prospettiva il premier tornerà a bussare alla porta di Tremonti, convinto che l'accordo tra Parigi e Berlino è anche una cattiva notizia per l'Italia, siccome preannuncia una politica aggressiva dei due Paesi che porrà «un problema di concorrenza di sistema». Cosa vuol dire, lo spiega la segretaria dell'Ugl: «Facciamo l'esempio del settore auto. Se Francia e Germania dovessero impegnarsi a favore delle loro industrie, l'esecutivo italiano come potrebbe esimersi da un intervento, dato che anche Obama l'anno prossimo dovrebbe farlo negli Stati Uniti?». La tesi della Polverini coincide con quella esposta da Epifani l'altra sera al vertice tra governo e parti sociali. Ed è proprio all'incontro di palazzo Chigi che Berlusconi ha disvelato la sua «strategia dell'attenzione». Il premier non credeva nè crede a un recupero della Cgil, sapeva che nulla l'avrebbe fatta recedere dallo sciopero generale. Ma voleva e vuole evitare di offrire pretesti. Ed è stato plastico il suo gesto iniziale, quando tra la folla di leader sindacali è andato a salutare Epifani: «Do la mano a lui per tutti».

La mossa istrionica non gli è stata suggerita da Gianni Letta, semmai il sottosegretario è stato il regista che preparato il vertice e che ha convinto il premier a prendervi parte. In questo modo Berlusconi ha legittimato i sindacati come interlocutori istituzionali e d'ora in poi sfuggirà all'accusa che comunque l'altra sera gli è stata rivolta: «Da quando è al governo non l'abbiamo mai vista a un tavolo ufficiale ». «L'emergenza richiedeva la sua presenza », lo ha difeso Letta. «E se sarà necessario — ha proseguito il premier — vedremo di convocare un altro incontro ». Il piano anticrisi è per Berlusconi il piano per uscire da un particolare tipo di crisi, legato non all'offensiva dell'opposizione ma alla perdita di consensi e alle fibrillazioni che inevitabilmente attraversano il centrodestra. Sa che l'operazione è limitata nelle cifre e nel tempo, e se lo avesse per un attimo dimenticato, ci ha pensato il leader della Cgil lunedì sera a ricordarglielo: «Noi siamo qui a discutere di interventi tampone. Da gennaio vorrei discutere di interventi strutturali». Gennaio è lontano per il Cavaliere, che al momento è concentrato a pressare Tremonti da una parte, e dall'altra a mostrarsi dialogante. Talmente dialogante da sorprendere tutti. Ieri per esempio ha stupito Giuliano Amato con quel discorso privo di spigoli pronunciato all'Assemblea degli industriali di Roma: «Non sembra nemmeno Berlusconi...», ha sussurrato l'ex ministro di Prodi. Il punto è che «Silvio non è la Thatcher », come dice il suo amico Confalonieri: non vuole andare allo scontro con la Cgil, non ne ha interesse, dato che «persino un pezzo importante del Pd non condivide la linea di Epifani».

Di più: dopo aver annunciato l'investimento di 16 miliardi per infrastrutture, addirittura Di Pietro si è detto pronto a collaborare con il governo. Ma è alla middle class che Berlusconi vuol dare risposte, perciò è tornato a bussare per le tredicesime. «E il nodo politico — secondo il segretario del Pri Nucara — sta nelle tensioni che attraversano il rapporto tra il premier e Tremonti. Sono loro che devono trovare una linea comune, che ancora non c'è, ma che si troverà». Il problema ruota attorno ai soldi. La Russa fa finta di riferirsi alle richieste di «Cgil e Pd» per accennare ai problemi interni: «Parlando delle richieste di opposizione e sindacati, Giulio racconta sempre la stessa storiella. C'è un tizio che entra in un bar e dice: "Caffè per tutti". Il barista chiede: "Chi paga?". E quello: "loro". Dove "loro" sta per ministero dell'Economia ». «Ed è facile governare facendo debito», commentava ieri Tremonti a un convegno. Berlusconi non poteva ascoltarlo. Era a palazzo Chigi, impegnato a rassicurare Confindustria sul protocollo di Kyoto: «Se Sarkozy non cambia il piano sul clima, porremo il veto. Quella roba lì è una minaccia per l'impresa italiana».

Francesco Verderami
26 novembre 2008

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« Risposta #42 inserito:: Dicembre 03, 2008, 08:42:49 am »

Politica         

Malumori anche nel Pd. Carra: stiamo difendendo un miliardario australiano

I tormenti di Silvio che scruta i sondaggi

Al capo del governo tre punti in meno in 24 ore per il caso Sky. Lo sfogo col ministro: pago solo io


Scagli il primo decoder chi è senza peccato, e sul «caso Sky» né Berlusconi né il Pd sono immuni da colpe e omissioni. Il premier giura che non sapeva nulla della norma sulla pay-tv, «Tremonti non me ne aveva parlato». A parte la smorfia di La Russa, che non ci crede, il Cavaliere non poteva non sapere. In politica il teorema vale, specie per chi è presidente del Consiglio. Infatti Berlusconi è subito caduto nei sondaggi: tre punti secchi in meno, nel giro di ventiquattr'ore. Lui solo però, non il suo governo. Ed è la prima volta che un simile fenomeno accade. Tanto che l'altra sera il premier se n'è lamentato ad alta voce per telefono con Tremonti: «Pago solo io in termini di consenso. Capisci? Solo io. Ho perso cinque punti», gli ha spiegato gonfiando il crollo per drammatizzare la faccenda... L'aumento dell'Iva sulla tv satellitare ha fatto da moltiplicatore alla delusione dell'opinione pubblica.

Perché il «decisionista» Berlusconi aveva annunciato il pacchetto anti- crisi come «un'iniezione di fiducia e ottimismo»: ma la detassazione delle tredicesime — a cui teneva — non c'è stata, e la social card non l'ha convinto del tutto prima ancora di non convincere gli italiani. Poi è esploso il «caso Sky», che ha sfidato il Cavaliere con le sue stesse armi: marketing e spot, il volto di Ilaria D'Amico e la campagna di mail da inviare per protesta a palazzo Chigi. Un'operazione che ha stupito persino un duro come Confalonieri, silenzioso con la stampa, non con l'amico di una vita: «...Perché di iniziative a difesa di Mediaset ne ho fatte tante, Silvio, ma senza perdere mai il senso della misura». E ci sarà un motivo se anche il democratico Follini ha censurato l'offensiva mediatica di Sky. Nessuno può scagliare decoder in questa vicenda, nemmeno il Pd. Tremonti l'ha inchiodato al suo passato, al governo Prodi, rivelando il carteggio tra l'Ue e il Professore, che si era impegnato con Bruxelles a cambiare l'aliquota alla tv satellitare.

Così Berlusconi ha provato a distogliere l'attenzione dalla trave che ha nel proprio occhio, il conflitto d'interessi, denunciando in pubblico i «rapporti privilegiati del centrosinistra con Sky», e ricordando in privato che «Prodi quando stava a palazzo Chigi si faceva intervistare solo dal tg di Murdoch, mica dalla Rai». Molti esponenti del Pd ieri alla Camera evocavano i trascorsi «privilegiati » con il famoso «squalo». Come la festa per cento persone in una splendida villa romana sul Gianicolo, organizzata da Murdoch in onore dei maggiorenti diessini e diellini subito dopo la vittoria elettorale dell'Unione nel 2006. Terminata la cena, il tycoon si ritirò sotto un gazebo per ricevere a uno a uno i dirigenti del centrosinistra, dalla Melandri in giù. Ed è emblematico il gesto con cui Carra — che fu testimone del frenetico via vai sotto quel pergolato — preferisca sorvolare sull'episodio.

Questione di bon ton. «Mi limito a dire — commenta l'esponente del Pd — che noi oggi difendiamo i privilegi di un miliardario australiano contro gli asseriti privilegi di un miliardario italiano. È una storia che ci riporta ai tempi del Medioevo, quando si chiamava da fuori confine l'imperatore per regolare i conti con un signorotto di casa. È una storia che dovrebbe analizzare non un politologo ma il professor Cardini. Rende l'idea, incredibile, che noi non pensiamo a regolare il sistema, ma che pur di battere Berlusconi siamo disposti a mantenere il sistema scompensato».

Il centrodestra, per nascondere l'evidente scivolone, insinua sul passato ma anche sul presente «rapporto privilegiato» del Pd con Murdoch. «Noi della Lega non abbiamo una tv», ha detto ieri Bossi. Traduzione del forzista Napoli: «Si riferisce alle tv del Pd, che stanno nel bouquet di Sky. A una in particolare, Youdem, quella di Veltroni, che ha ottenuto un trattamento privilegiato e dal canale 787 sta per passare al 550, assai vicino a Tg24».
D'un colpo il Pd si è ritrovato sulla difensiva, con Tremonti che si è scagliato contro «quelli che hanno criticato i 40 euro della social card e ora difendono un paio di euro per Sky».

In un impeto di sincerità il veltroniano Realacci ha ammesso che «avrei fatto altre battaglie prima di questa, battaglie che interessano un maggior numero di cittadini e con maggiori problemi». Nonostante la confusione nelle file dei Democratici, sono i conti nel centrodestra a non tornare. Perché è il premier che è caduto nei sondaggi, perché era stato il premier in mattinata ad aprire uno spiraglio alla trattativa, tranne rimangiarsi tutto dopo lo stop arrivato da Tremonti.
Perché La Russa è il testimonial della rabbia di An, visto che «avevo chiesto quale fosse la copertura del decreto ma nessuno mi ha avvisato prima».
Perché dentro Forza Italia sono molti i dirigenti di primissimo piano a sussurrare quel che l'ex ministro Martino dice, e cioè che «Silvio si è dato la zappa sui piedi.

Anzi gliel'ha data Tremonti». E nei capannelli in Transatlantico i berlusconiani si sono subito divisi, tra quanti ipotizzano che il ministro dell'Economia abbia ambizioni politiche, e quanti invece vedono nel suo rigore finanziario un primo passo per una carriera internazionale.

Intanto va in onda lo scontro tra il Cavaliere e lo Squalo. Ma non erano amici?

Francesco Verderami
03 dicembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #43 inserito:: Dicembre 12, 2008, 11:38:59 am »

Il pdl - i nodi

E Silvio fa i conti «La Lega mi ha stufato»

«L'addio alle Province è nei patti, quei soldi servono»

Lo scontro sulla giustizia è servito a Berlusconi per regolare i conti nella maggioranza, ristabilire i rapporti di forza e porre un paletto alla tattica movimentista della Lega, che stava stringendo accordi con il Pd sul federalismo.

Ecco il motivo per cui Berlusconi ha brandito il tema della magistratura come un'arma.


E non c'è dubbio che intenda riformarla, ma non è questa oggi la priorità: in cima ai suoi pensieri c'era e c'è la crisi. La giustizia è stata usata come un diversivo. Perché il Cavaliere è consapevole che la partita della legislatura si gioca sull'economia, ruota attorno a quella che Confalonieri ha definito la «sana dialettica» con Tremonti, e riguarda la linea da adottare per affrontare l'emergenza. Sostenendo che «non si può dialogare con l'opposizione», il premier ha voluto spostare l'attenzione dei media dalla crisi, e soprattutto mettere sull'avviso Bossi. Quando l'ha fatto, nel pomeriggio di mercoledì, si era già assicurato tre obiettivi: aveva appena sbloccato — dopo un braccio di ferro durato oltre un mese — i primi 16 miliardi da investire nelle infrastrutture; aveva ottenuto l'aumento «fino a un miliardo almeno» dei fondi per i lavoratori che dovranno ricorrere alla cassa integrazione; e — cosa importante — aveva garantito alla Gelmini il via libera per chiudere l'intesa con i sindacati sulla scuola, alla vigilia dello sciopero generale della Cgil.

Non è la giustizia, è la crisi economica che lo assilla, con i danni che rischia di produrre al Paese e in prospettiva anche alla stabilità del governo. Una stabilità che Berlusconi misura quotidianamente attraverso il termometro del consenso. E non è un caso se due giorni fa — annunciando una ripresa negli indici di gradimento — aveva spiegato il precedente calo nei sondaggi: «Colpa delle polemiche sull'Iva a Sky, e delle vicende legate alla scuola». La scuola prometteva di rimanere una minaccia, perciò ha impegnato Gianni Letta per arrivare al patto con i sindacati, mettendo nel conto che l'opposizione l'avrebbe criticato e si sarebbe attribuita il successo della vertenza. Ma il sentiero andava bonificato da quella mina. E l'intesa porta la sua firma. Come raccontava ieri il leader della Cisl Bonanni, «fino all'ultimo il Tesoro ha resistito, prima che Berlusconi si imponesse». Si era imposto la mattina precedente, durante un incontro a tratti molto teso con Tremonti e il titolare dell'Istruzione. A quell'incontro era seguito un vertice che il premier ha rivelato durante la presentazione del libro di Vespa: «Ci siamo appena visti con Tremonti, Scajola e Fitto...». Non ha detto in pubblico quel che ha spiegato ai suoi collaboratori, e cioè che «la riunione è stata accesa ma indispensabile».

È stato dopo quel vertice che è andato allo scontro sulla giustizia con il Pd. Berlusconi ha parlato a Veltroni perché Bossi intendesse. Lo spiega senza mezzi termini il fedelissimo Valducci: «È tutta una partita interna. Sembrerà un paradosso ma c'è un motivo se Berlusconi cita i sondaggi, perché con quelli è costretto a governare. Nel senso che, appena ha avuto un momento di flessione, hanno cercato di metterlo in difficoltà. Sulla scuola è stata la Lega, sull'Iva per Sky è stata An. Così, appena si è rilanciato nel rapporto con l'opinione pubblica, ha voluto farsi sentire». A Bossi che ieri gli rammentava l'accordo sul federalismo, il premier ha ribattuto ricordandogli che «l'abolizione delle province è parte del mio programma». Da tempo preme perché si intraprenda il percorso, «con i soldi risparmiati potremmo fare molte cose, invece...». Invece la Lega ha sempre risposto picche, «e io mi sono stufato». Si è stufato di sentirsi dire che non ci sono fondi: ha dovuto ingoiare il rospo della mancata detassazione delle tredicesime e ha ottenuto in cambio solo la social card, che non lo entusiasma. È a caccia di soldi Berlusconi, in vista di un 2009 che si preannuncia economicamente duro e politicamente importante, perché incrocerà il test delle Amministrative e il voto per Strasburgo. Certo, l'economia italiana non è minacciata dai mutui che negli Usa hanno avuto l'effetto di un ordigno sul sistema, ma può esser minata dal credito al consumo, che agisce come un cecchino sui singoli cittadini e rischia di spezzare il meccanismo. Il vertice di mercoledì con Tremonti, Scajola e Fitto è servito al premier per vederci chiaro: sul piatto ci sono infatti 110 miliardi, tra fondi europei e fondi per le aree sottoutilizzate. Come verrà spesa questa montagna di soldi? Ecco la partita della legislatura, non la giustizia.

Francesco Verderami
12 dicembre 2008

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« Risposta #44 inserito:: Dicembre 20, 2008, 12:34:29 am »

La Roma politica

Il Palazzo teme l'assedio: arriva la bufera

I boatos su nuove mosse della magistratura nei confronti dei massimi esponenti del Pd


ROMA — «Noi non accettiamo di farci intimidire». Perché anche lei ha sentito i boatos di Palazzo che danno per imminente un coinvolgimento dei vertici del Pd nel tritacarne giudiziario, «anche a me sono giunte certe voci», dice il ministro ombra Linda Lanzillotta. Sono le stesse voci che la cattolicissima Paola Binetti — con agganci porporati oltre Tevere — aveva sussurrato di buon mattino a un deputato laziale rimasto senza fiato: «La procura di Roma sta per muoversi. Tu capisci...».

Ovviamente ha capito. Non sarà una nuova Tangentopoli, ma i meccanismi somigliano a quelli che negli anni Novanta spazzarono via un'intera classe dirigente. Certo, c'è chi prova a sdrammatizzare, come Ermete Realacci, che ha dovuto calmare la sua segretaria in preda al panico: «Onorevole, c'è un ispettore di polizia qui fuori che la cerca». «Fallo entrare, sarà venuto per gli auguri». Il venticello che è tornato ad alzarsi dopo tanto tempo, scatena nel Pd sentimenti contrapposti. Anche Realacci ha sentito uno strano refolo, «se così fosse, se puntassero a colpirci ai massimi livelli, allora reagiremmo con fermezza. Perché non tutto quel che ha fatto la magistratura si è poi rivelato fondato». Ieri nell'Aula di Montecitorio i deputati democratici hanno prestato più attenzione alla lettura delle intercettazioni pubblicate dai giornali che alle votazioni sui decreti. La sensazione dell'assedio ha richiamato alla mente di Luigi Nicolais le difficoltà politiche di Veltroni: «Povero Walter, sta preso dai turchi». Quel modo di dire meridionale rende l'idea dell'accerchiamento: «E noi siamo preoccupati. Ma cosa possiamo fare? Siamo prigionieri — giustamente a mio avviso — della nostra linea. Abbiamo sempre combattuto contro la strategia berlusconiana dell'attacco ai magistrati. Ora dovremmo metterci in scia? Perderemmo tutto».

Ma non tutti la pensano a quel modo nel Pd. La Lanzillotta ritiene che proprio assoggettandosi al giustizialismo «il partito perderebbe, perché si mostrerebbe impotente»: «Per questo va separato l'aspetto giudiziario da quello politico, va spiegato che noi non ostacoleremo le inchieste, ma che al tempo stesso ci impegneremo per contribuire al varo di una riforma della magistratura. Senza una riforma condanneremmo il Paese all'immobilismo per altri vent'anni». Lo dirà anche oggi alla direzione del Pd: «Servono le riforme». La sua, quella sui servizi pubblici locali, non vide la luce «ostacolata come fu, in modo trasversale, anche da alcuni dei personaggi che ora sono coinvolti nelle inchieste». Quella vischiosità la riconosce oggi nei boatos su nuove iniziative giudiziarie che riguarderebbero i massimi esponenti del Pd. Quelle voci sono interpretate insomma come un segnale: «D'altronde — chiosa maliziosamente — ci sono tanti pezzi di potere in Italia che fanno resistenza al cambiamento». Raccontano che Veltroni non citi mai la parola complotto, ma parli di «singolari coincidenze».

E comunque l'affanno dei democratici si coglie nel linguaggio del corpo, nelle frasi lasciate a metà, nell'assenza di solidarietà che Salvatore Margiotta misura non su se stesso ma «sull'amico Lusetti». La Camera aveva appena votato contro l'autorizzazione all'arresto del deputato, coinvolto nell'inchiesta sul petrolio lucano. Dunque Margiotta avrebbe potuto limitarsi a poche parole di circostanza, invece ha rivolto un pensiero «a Renzo»: «Perché appena Italo Bocchino è stato tirato dentro le vicende giudiziarie in Campania, Ignazio La Russa è intervenuto in sua difesa. Per Renzo, Renzo Lusetti, nessuno ha speso una parola nel Pd». C'era un misto di sconforto e di comprensione: «Io li capisco i miei, però... Evito di pensare ai teoremi per non impazzire, ma... Certo, la preoccupazione che su certe vicende si parta dal territorio per arrivare a Roma...». I democratici sono posti dinnanzi a un bivio, anzi secondo il politologo Gianfranco Pasquino, i crocevia sono due: «Il primo è che il Pd ha problemi con la giustizia e farebbe meglio a riconoscerli, se non vuol perdere la credibilità rimasta. Per esempio, sarebbe stato meglio se Massimo D'Alema avesse autorizzato l'uso delle intercettazioni che lo riguardavano sul caso Unipol. Il secondo crocevia è decisivo: se il Pd pensasse di risolvere la questione con una collusione politica con il Pdl, si autodistruggerebbe e non ci sarebbe più un'alternativa di governo al centrodestra, perché il campo del centrosinistra sarebbe dominato da Antonio Di Pietro».

Gli scranni dei deputati democratici confinano con quelli dell'Idv, ma è come se tra i due gruppi ci fosse ormai un check point Charlie. Perciò in pochi si sono accorti che la dipietrista Silvana Mura porta sul viso il segno dello scontro politico con gli «alleati». Quel livido sulla guancia è una metafora: gliel'ha provocato un faldone pieno di firme per il referendum contro il lodo Alfano che le è caduto addosso. L'Idv è il gemello siamese da cui il Pd vorrebbe staccarsi. Ma non può farlo né dirlo, così tocca a Francesco Cossiga spiegare quel che i democratici osano appena sussurrare. E cioè che «i magistrati stanno aiutando Di Pietro, l'unico che può chiedere loro di non infierire sul Pd. L'unico a cui danno ascolto e anche una mano. Perché nelle inchieste — spiega Cossiga — i pm si fermano davanti all'Idv. Mi dicono che a Napoli avevano trovato qualcosa su qualcuno, ma non si sono mossi. D'altronde Tonino li difende, e loro devono pur avere un partito di riferimento in Parlamento...».

Francesco Verderami
19 dicembre 2008

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