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Autore Discussione: Francesco VERDERAMI  (Letto 134009 volte)
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« Risposta #180 inserito:: Marzo 06, 2013, 12:19:22 pm »

Il retroscena

Governo di convergenza per allontanare il voto

La sfida decisiva sulla presidenza della Repubblica che potrebbe trasformarsi in un regolamento di conti


Il balletto sulla maggioranza di governo continuerà per settimane, ma già oggi è chiaro che la disputa non è più su Palazzo Chigi bensì sul Colle, considerato lo snodo decisivo per gli assetti futuri di potere, l'àncora a cui i partiti intendono aggrapparsi prima di tornare al voto.
È sulla presidenza della Repubblica che si gioca insomma la vera sfida, e il rischio è che la delicata trattativa possa trasformarsi in un regolamento di conti, provocando la rottura del vaso di Pandora. Perché il Quirinale - diventato negli ultimi anni un motore attivo nell'indirizzo politico - è l'ultimo punto di equilibrio in un sistema andato ormai a pezzi: se saltasse, il conflitto non avrebbe più quartiere.

E il rischio esiste, è maggiore dello stallo sulla formazione di una maggioranza di governo. D'altronde l'esito del voto ha decretato che palazzo Chigi non è più «scalabile» dai partiti della Seconda Repubblica, a cui toccherebbe al massimo un ruolo precario in un contesto già proiettato verso le elezioni successive: questo sarebbe il destino dell'idea di Bersani, che si propone di varare un gabinetto di minoranza tenuto in vita dall'appoggio esterno dei grillini.

Si vedrà se e in che modo Napolitano - vista l'intransigenza di M5S ad un accordo con il Pd - riuscirà a trovare una soluzione alternativa.
Se proverà la carta di un esecutivo tecnico-politico, oppure se attingerà a quella che è diventata ormai la «terza Camera», cioè Bankitalia, per un governo di «convergenza istituzionale» che - almeno nominalmente - non prevederebbe una «alleanza» tra Pd e Pdl ma solo un «appoggio» a un gabinetto guidato da un esponente di Palazzo Koch. Da giorni si fanno i nomi del governatore Visco e del direttore generale Saccomanni, che il centrosinistra accreditava come possibile ministro dell'Economia in caso di vittoria.

Questo governo - proiettato sul medio termine - avrebbe il compito di rassicurare i mercati, lavorare al rilancio dell'economia e garantire ai partiti il tempo necessario per varare le riforme in Parlamento, compresa la legge elettorale. La prospettiva al momento appare indigesta al Pd ma anche al Pdl, stanco di «governi dei banchieri». La soluzione - semmai si concretizzasse - sarebbe di sicuro più potabile di un Monti-bis, verso cui sono contrari le due forze politiche. Perciò le manovre fatte ieri dal Professore non avrebbero effetti.

L'incontro al Quirinale e la lettera che Monti ha inviato a Bersani, Berlusconi e al «signor Grillo» sono di certo un tentativo di annodare i fili del dialogo sotto l'ombrello europeo, in vista del vertice di Bruxelles. Ma sono vissuti come «espedienti tattici» dal segretario dei Democratici e dal leader del centrodestra, che li interpretano come un tentativo del Professore di rientrare in gioco. E non a caso il capo di M5S si pone in contrapposizione ai due avversari, evocando il nome di Monti come possibile successore di se stesso a palazzo Chigi. Il suo fine è scoperto: disarticolare ulteriormente il sistema imperniato su Pd e Pdl, agli occhi di un'opinione pubblica che ha bocciato alle elezioni l'alleanza di centro.

In ogni caso, qualsiasi soluzione di governo «tecnico» si realizzasse, i partiti avrebbero un ruolo marginale. Ecco perché è sul Quirinale che sono concentrate le attenzioni. E il tentativo del Pd di far pressione sul Colle per anticipare l'elezione del nuovo capo dello Stato è la prova di quanto cruenta si appresta ad essere la sfida e dei rischi che il vaso di Pandora vada in frantumi. È vero che Napolitano ha ribadito di non essere in corsa per una sua ricandidatura, sottolineando peraltro che un presidente della Repubblica «non è a termine», ma è altrettanto vero che al momento non appare facile la convergenza bipartisan su un altro candidato.

Anzi, a palazzo Chigi come nel Pdl viene accreditata la tesi che «una parte del Pd» sta lavorando ad una «operazione di maggioranza» per il Colle sul nome di Prodi, da rendere manifesta a ridosso delle votazioni per il Quirinale. Non è dato sapere se anche Casini sarebbe della partita. Per un centro che - dopo la sconfitta elettorale - sarà chiamato a scegliere da che parte stare, potrebbero contare i buoni rapporti tra concittadini. I due bolognesi infatti hanno rapporti frequenti, e prima che Monti diventasse presidente del Consiglio, Prodi tenne una dotta lezione di economia al leader dell'Udc.

Numeri alla mano, per l'operazione potrebbero non servire i voti di Grillo, che peraltro - dopo esser stato corteggiato - ha fatto capire che potrebbe convergere «sul nome di Rodotà». Ma è Prodi che Berlusconi vede come fumo negli occhi, ecco perché il Pdl già grida al golpe.
Il fondatore dell'Ulivo potrebbe essere l'àncora del centrosinistra, in attesa di tentare la rivincita nelle urne. È scontato infatti che - dinnanzi a una simile operazione - il centrodestra salirebbe sulle barricate, interpreterebbe l'eventuale elezione dell'ex premier come un «fattore divisivo» e chiuderebbe al dialogo su tutto, compresa la legge elettorale.
La missione a favore di Prodi però non incontra i favori di tutto il Pd, dov'è iniziata una durissima battaglia. Il 18 marzo dovrebbero iniziare le consultazioni al Quirinale per il governo, ma il vero D-day sarà il 15 aprile, quando inizieranno le votazioni per il Quirinale.
Con un sistema a pezzi, con un Parlamento che è la somma di tante impotenze, un passo falso nella partita per il Colle provocherebbe la rottura del vaso di Pandora.

Francesco Verderami

5 marzo 2013 | 7:24© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_05/governo-di-convergenza-per-allontanare-il-voto-francesco-verderami_8f1882de-8556-11e2-b184-b7baa60c47c5.shtml
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« Risposta #181 inserito:: Marzo 13, 2013, 11:42:45 am »

Anche il Pd con Napolitano

Il timore che salti il sistema

Bersani resta contrario a un salvacondotto ma accoglie le decisioni dell'«arbitro»


ROMA - Per una volta hanno smesso la rissa in mezzo al campo, garantendo all'arbitro la possibilità di ristabilire l'ordine nel rettangolo di gioco. D'altronde sono consapevoli che senza l'intervento di Napolitano la partita della legislatura non potrebbe nemmeno cominciare, mettendo a repentaglio persino l'intero campionato, cioè il sistema. Perché stavolta il cortocircuito che si è innescato tra politica e magistratura, non è l'ennesimo scontro di un conflitto ormai ventennale. Rischia di essere l'ultimo, quello fatale.


Perciò poco importa se il presidente della Repubblica non l'ha preavvisato della nota diffusa al termine dell'incontro con i vertici del Csm, Bersani accoglie l'intervento del Quirinale come fosse il capitano di una squadra di rugby che è sempre chiamato ad accettare le decisioni del «referee» senza poterle contestarle. «Io tengo la testa solo sul governo», si limita a dire infatti il segretario del Pd, che è un modo per rimarcare il rispetto nella distinzione dei ruoli, ed è il segno di come i Democratici possano essere solo giocatori.
E da giocatori osservano non solo l'ammonizione che Napolitano commina ai dirigenti del Pdl per quel corteo davanti al tribunale di Milano, ma anche l'altolà posto a chi intende sostituirsi al capo dello Stato, che si fa garante della sfida politica nella quale non ci possono essere «interferenze esterne». Il punto è questo: sebbene tutti tacciano al cospetto dell'arbitro, nella squadra del Pd c'è contezza che le accelerazioni dei palazzi di giustizia contro Berlusconi - dalle visite fiscali alla richiesta di processo immediato per il «caso De Gregorio» - stanno «interferendo» con la partita in corso nel palazzo della politica.


Sia chiaro, i Democrat non sono disponibili a richieste di salvacondotto per il Cavaliere, ma non sono nemmeno disposti a veder saltare il campionato. E il rischio esiste, lo ammettono sottovoce e con preoccupazione, temono che il conflitto faccia saltare il sistema proprio mentre il sistema deve rinnovarsi, con il varo di un nuovo governo e l'elezione di un nuovo capo dello Stato. È quindi una forma di silenzio assenso quella del Pd verso la nota del Quirinale, anche laddove Napolitano invoca di fatto il «legittimo impedimento» per Berlusconi, a cui va «garantita» la partecipazione alla sfida «politica e istituzionale» fino «alla seconda metà di aprile».
Ecco la svolta del Pd, che è fatto più eclatante della «grande soddisfazione» di Berlusconi nel veder riconosciute le proprie ragioni. E chissà se l'intervento del Colle sarà servito a risollevare oltre che nel morale anche nel fisico il Cavaliere, che da giorni deve fare i conti con la pressione alta: 102 la minima, 200 la massima. Certo il Quirinale ha sanzionato duramente il Pdl per quell'invasione nel campo della magistratura, ma - così come Bersani - anche Alfano con il suo silenzio rende merito all'opera del presidente della Repubblica.


Il fatto che Napolitano abbia emesso cinque comunicati in due giorni è - agli occhi dei vertici del Pdl - la prova di quanto sia considerata importante, anzi decisiva, questa vicenda. E di come sia stata presa sul serio. L'operato del Colle viene interpretato come un concreto tentativo di far defibrillare il clima, di rendere quanto più possibile agevole la difficile fase politica.
Solo l'Anm - come a far da contrappunto al Quirinale - ha rotto il silenzio, rimanendo attestato sulle vecchie barricate. Toccherà a Napolitano rendere completamente agibile il terreno da gioco della politica, anche per non veder pregiudicate sue eventuali future iniziative, nel caso Bersani dovesse fallire. Se il conflitto non cessasse, infatti, non ci sarebbe spazio per un «governo del presidente». E si andrebbe alle urne in piena invasione di «campi».

Francesco Verderami

13 marzo 2013 | 7:48© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_13/pd-napolitano_887ae918-8ba9-11e2-8351-f1dc254821b1.shtml
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« Risposta #182 inserito:: Marzo 16, 2013, 05:32:16 pm »

Settegiorni

Il punto d'incontro per tornare al voto

Perché il Cavaliere è pronto a far passare i candidati democratici per le presidenze


Bersani e Berlusconi vanno dannunzianamente verso le elezioni. Un passo alla volta, perché il tacito patto rimanga al riparo dagli imprevisti, dai giochi di quanti nei rispettivi partiti vorrebbero ribellarsi a un destino che appare già segnato. Per garantire l'accordo serve che ognuno faccia la propria parte, e anche ieri - sulle presidenze delle Camere - i due acerrimi alleati hanno tenuto fede al copione.

Se è vero che i leader del Pd e del Pdl puntano al voto in giugno per garantirsi la rivincita, devono infatti affrettarsi e non perder tempo con un braccio di ferro sulle presidenze delle Camere, che contano poco o nulla in questa legislatura nata moribonda. Così Bersani ha inviato a Berlusconi un messaggio che è stato recepito: per consentire il rapido disbrigo della pratica, l'idea è di affidare gli scranni di palazzo Madama e di Montecitorio a esponenti del Pd, «ma solo per stabilizzare le istituzioni e avviare i lavori parlamentari, pronti a sacrificare le nuove cariche se fosse necessario».

E c'è un motivo se in serata il Cavaliere ha pubblicamente dato il benestare all'operazione, annunciando che il Pdl «si chiama fuori da ogni trattativa di spartizione delle cariche istituzionali». Le sirene montiane - che volevano sparigliare la partita del Senato - stavano tentando di far presa su una parte del Pdl sensibile alle lusinghe del premier, desideroso di restituirsi a un ruolo terzo in vista della corsa al Colle. Palazzo Madama sembrava alla portata del Professore, o almeno così credeva, dato che Bersani gli aveva offerto il posto. Ma si è trattato di un sofisticato gioco politico messo in atto con la (tacita) complicità dell'acerrimo alleato.

Il segretario del Pd, infatti, non poteva non sapere della contrarietà di Napolitano all'idea che Monti abbandonasse Palazzo Chigi, e ha lasciato che il premier ci sbattesse il muso. Perché il capo dello Stato è trasalito quando si è visto produrre dal premier una serie di documenti che - a detta del Professore - consentivano il trasloco, ed ha opposto il veto al termine di un colloquio burrascoso. A quel punto Bersani, che teorizzava l'affidamento di una Camera all'opposizione, ha offerto a Monti un'altra opzione: quella di indicare un esponente di Scelta Civica per lo scranno di Montecitorio, «magari Dellai».

Era una proposta vera o solo una messinscena? Perché il capo dei Democrat non è parso sorpreso al termine dell'ennesimo rendez vous con il premier, che ha dato fumata nera: «Monti - ha commentato - pensa soltanto a se stesso. Doveva essere una risorsa, è diventato invece un ostacolo. Un problema». Ed è un convincimento che si sta facendo strada anche nei gruppi parlamentari centristi, dove cova ormai un certo malcontento verso il leader. Eppoi, il Professore, non si era detto disponibile alla presidenza del Senato «solo» se fosse stato votato anche dal Pdl?

Ma né Berlusconi né Bersani hanno interesse a dare centralità e ruolo politico ai montiani, che il voto ha reso irrilevanti: il loro obiettivo semmai è di spartirsi le spoglie del centro in vista delle urne. È questo il senso dell'offerta per la Camera avanzata dal capo del Pd a Scelta Civica, così da precostituire un accordo politico per le prossime elezioni. D'altronde tutte le mosse di Bersani inducono a prefigurare un repentino finale di legislatura: pur di non fare il governo con l'acerrimo alleato ha tentato il patto coi diavoli, con Grillo e con la Lega, portabandiera dell'antieuropeismo. Due strade senza via d'uscita.

Certo, il Carroccio - pur di non tornare al voto - sarebbe disposto a garantire il numero legale al Senato, ma oltre non potrebbe andare.
È vero che nel Palazzo se ne son viste tante, però un governo Bersani-Monti con l'appoggio esterno di Maroni appartiene alla sfera onirica, dato che il leader della Lega è da poco giunto al Pirellone grazie al Cavaliere. Perciò, se ogni variabile è già stata bruciata, se anche «il governo del presidente» per cambiare la legge elettorale «farà la stessa sorte - come anticipa il pdl Rotondi - perché né Bersani nè Berlusconi vogliono cambiare il Porcellum in questa delicata situazione», non restano che le urne. Entrambi hanno già pronta la campagna elettorale. Il leader del Pd accuserà i grillini di irresponsabilità, e così farà Berlusconi, il cui profilo dialogante piace agli elettori: «Lo dicono i miei sondaggi».
Rimane una piccola questione da risolvere: il Quirinale. Scartato Prodi, che - secondo il Cavaliere - «nutre un odio viscerale nei miei confronti», messi da parte Amato e D'Alema, non c'è che Napolitano. È vero che il capo dello Stato ha più volte detto di non volersi ricandidare, «ma se lo votassimo - sostiene Berlusconi - come potrebbe opporsi alla rielezione?». Anche i montiani l'hanno capito, «e a quel punto - spiega un autorevole dirigente centrista - se restasse l'unica opzione, sarebbe lui a portarci tutti al voto in giugno».

Francesco Verderami

16 marzo 2013 | 7:50© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_16/bersani_berlusconi_voto_f36e7142-8dff-11e2-8e0e-c5b76e411d4a.shtml
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« Risposta #183 inserito:: Marzo 25, 2013, 11:55:14 pm »

Il retroscena

Il colloquio con Alfano e l'apertura sul Colle

L'offerta a Pdl e Lega per garantirsi il via libera al governo. Disponibilità a discutere su un nome di area moderata: Cancellieri?


Era inevitabile che Bersani e Alfano si parlassero prima dell'incontro ufficiale, anzi necessario. Ed è accaduto. D'altronde i contatti informali evitano le ingessature degli appuntamenti di rito, consentono di discutere in modo più libero di argomenti come governo e Quirinale.

Su questi due temi il leader del Pd ha illustrato al segretario del Pdl le proprie idee, che da una parte confermano una certa rigidità di impostazione sulla struttura del governo a cui sta lavorando, ma dall'altra manifestano un inequivocabile segno di apertura al centrodestra sulla scelta del prossimo capo dello Stato.

Le intenzioni di Bersani sono chiare e il linguaggio usato con Alfano è stato altrettanto esplicito. Il «pre-incaricato» auspica che Pdl e Lega garantiscano in Senato le condizioni affinché il governo possa nascere, e siccome - l'ha ripetuto anche ieri - «la mia proposta è rivolta a tutto il Parlamento», sarebbe disponibile a discutere su alcuni punti programmatici da concordare, riservandosi persino di inserire nella propria squadra ministri in cui il centrodestra potrebbe per certi versi riconoscersi. Questo è il suo «piano A», così l'ha definito, che muove da una chiusura intransigente all'ipotesi di un governissimo e tuttavia è accompagnato da un'offerta sul Quirinale che ricalca i gesti di «discontinuità» sulle presidenze delle Camere di cui va «fiero».

E se ieri Bersani ha detto che di quegli atti di discontinuità «ne farò degli altri», c'è un motivo. Nei suoi intendimenti - qualora il «piano A» venisse accettato - c'è la disponibilità a discutere sul nome di un rappresentante dell'area moderata da eleggere al Colle, una personalità che non dovrebbe essere targata Pdl - questo è chiaro - ma che consentirebbe a quella parte del Paese di centrodestra, di sentirsi finalmente rappresentata.

Ecco la svolta, che non è un'operazione tattica per portare a compimento la sua missione (impossibile) per Palazzo Chigi, semmai è un convincimento che Bersani ha maturato e non da solo nel suo partito. Sì, perché tra i democratici - e non sono pochi - c'è chi riconosce un «fondamento storico» alle tesi «rozzamente rappresentate» da Berlusconi, che chiede un segno di «discontinuità» sul Colle dopo «quattro capi di Stato di sinistra». Anzi, nel Pd c'è chi sostiene che al Quirinale l'alternanza tra esponenti di diversa estrazione politica si sia interrotta molto prima, «dai tempi di Pertini». Perciò l'argomento è tenuto in considerazione, a patto che si discuta di personalità riconosciute, fuori dai partiti e di forte spirito repubblicano.

Ma non è solo per una questione culturale che Bersani è pronto a concordare con il centrodestra l'ascesa di un moderato alla presidenza della Repubblica. Il punto è che in Parlamento non sono possibili oggi prove di forza, non ci sono cioè blocchi capaci di imporre l'elezione di un nuovo capo dello Stato, nemmeno dalla quarta votazione: il Pd è diviso, Scelta civica è spaccata, i Cinquestelle hanno già dimostrato di non reggere alle votazioni a scrutinio segreto, e anche la solidità dell'asse Pdl-Lega è da verificare nei passaggi decisivi.

«Sono frantumazioni - spiega il senatore pd Gotor - prodotte da una situazione d'incertezza che provoca la scomposizione. In questo quadro - aggiunge lo storico, fedelissimo di Bersani - non credo in candidature di rottura o partigiane per il Colle. Perché non sarebbero politicamente praticabili e soprattutto perché non farebbero bene alle istituzioni». In un simile contesto perderebbe quindi forza la candidatura di Prodi, che peraltro farebbe gridare al «golpe» Berlusconi, a vantaggio di profili come quello del ministro dell'Interno, Cancellieri, e del fondatore del Censis, De Rita, sempre restio però a incarichi politici. E comunque, se davvero si arrivasse a una trattativa, toccherebbe al Pdl avanzare al Pd la proposta di una «rosa», nella quale troverebbe posto Urbani.
Non è servito molto tempo al leader democrat per illustrare ad Alfano il suo «piano A», che non contempla ulteriori margini di mediazione.

Qualora il centrodestra dovesse rifiutare la proposta, «allora ci sarebbe solo il piano B». Bersani non lo ha esplicitato, e nel Palazzo le supposizioni sono numerose quanto poche fondate: dall'idea che Bersani punti al Colle per far spazio a Renzi nel partito, alla prospettiva di un'intesa con i grillini per il Quirinale in cambio di un'agibilità al Senato per il governo. Una cosa è certa, e il «pre-incaricato» l'ha detta al segretario del Pdl: «Proverò fino in fondo ma un governissimo non voglio farlo. La mia gente preferirebbe piuttosto tornare a votare».
Probabilmente per questo Bersani non ha dovuto esporre il «piano B». Perché se davvero si precipitasse verso le urne in giugno, con un Parlamento in stallo anche per l'elezione del capo dello Stato, di soluzioni per il Colle ne resterebbero davvero poche. Forse una sola, che il leader del Pd e Alfano conoscono: rieleggere Napolitano, «alla prima votazione» come racconta un autorevole ministro. È vero, il presidente della Repubblica ha ripetuto anche ieri che «alla mia età non sono ammessi straordinari», ma è altrettanto vero che «se gli venisse chiesto dal Parlamento - come dice spesso il Cavaliere - non potrebbe tirarsi indietro». In quel caso, tornato nella pienezza dei suoi poteri, il capo dello Stato potrebbe sciogliere le Camere. E si andrebbe al voto, magari con il governo Bersani sfiduciato...

Francesco Verderami

25 marzo 2013 | 7:36© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_25/verderami-colloquio-con-alfano-apertura-sul-colle_b959abae-9514-11e2-84c1-f94cc40dd56b.shtml
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« Risposta #184 inserito:: Marzo 27, 2013, 06:37:58 pm »

L'offerta

La strada per l'accordo: commissione per le riforme guidata dal centrodestra

Ma per il Pdl resta il nodo del Quirinale


È tutto pronto per l'accordo tra Pd e Pdl. Manca solo l'accordo. È la politica, bellezza, con i suoi paradossi e i suoi penultimatum, con la linea dell'intransigenza ufficiale che scolora nelle trattative riservate, con intese su modelli di governo, formule di sostegno parlamentari, persino percorsi di riforma già stabiliti, e che però rischiano di diventare carta straccia nelle urne.

Insomma l'accordo c'è, anche sul cerimoniale, che è necessario rispettare. Perciò va prima consumato il rito delle consultazioni, con l'incontro dei Cinquestelle, al termine del quale il «preincaricato» dovrà prender atto che i grillini non ci stanno a dargli la fiducia. Nel frattempo gli sherpa di Pd e Pdl hanno accatastato pile di progetti, su un esecutivo a guida Bersani composto da politici di centrosinistra e tecnici d'area di centro e centrodestra, a cui l'opposizione-maggioranza darebbe un appoggio esterno.

E con l'avvio del governo si avvierebbero anche le riforme, patrocinate da due appositi ordini del giorno alla Camera e al Senato che darebbero vita a una commissione redigente da far presiedere a un rappresentante dell'opposizione-maggioranza. Sulla falsariga della vecchia commissione Bozzi, una pattuglia di costituenti - assistita da personalità esterne - verrebbe incaricata di riscrivere in sei mesi la seconda parte della Carta, da presentare poi al giudizio inemendabile del Parlamento.

È tutto pronto per l'accordo tra Pd e Pdl. Peccato però che manchi l'accordo. Perché se su governo e riforme c'è già più di un'ipotesi di intesa, sulla presidenza della Repubblica si sta giocando una spericolata mano di poker tra Bersani e il Cavaliere. Non a caso Berlusconi, prima che la delegazione del centrodestra venisse ricevuta dal «preincaricato», ha dettato la linea ad Alfano: «Dovrete essere irremovibili». Sul Colle, ovvio, non sul resto, che è come l'intendenza: seguirà. E sul nodo del Quirinale pesa il lodo Berlusconi: «Se il Pd accetta la grande coalizione, noi accetteremo di votare un candidato indicato dal centrosinistra. Se il Pd non se la sente di fare il governo con noi, allora dovremo essere noi a indicare un candidato di centrodestra».

E poco importa al Cavaliere se Bersani, venerdì scorso, gli ha inviato un messaggio attraverso Alfano, spiegandogli che «bisogna ragionare su personalità non targate» e che siano «potabili». Niente da fare. Al tavolo di poker l'ex premier si è presentato con il nome di Gianni Letta. A Bersani sono cadute le braccia. E fosse questo il solo problema. Il punto è che il segretario del Pd non vuole, lui dice che non può, mettere insieme la trattativa su Palazzo Chigi con quella per il Colle. «Non posso imbastire adesso una trattativa aperta sul Quirinale», ha ripetuto ieri durante le consultazioni. Perché Bersani è determinato nel voler varare il governo, «ma solo dopo che è partito il governo sono pronto a discutere sulla presidenza della Repubblica, per trovare un giusto equilibrio», cioè a trovare un compromesso su una personalità di estrazione «moderata».

Così l'accordo (sul resto) galleggia sull'alito del drago, e senza un accordo (sul Colle) rischia di bruciarsi. Già, ma chi sarebbe a perdere la mano di poker? È vero, ieri Berlusconi ha pescato una buona carta dal mazzo. Con il caso dei marò ha schiantato Monti, che - a sentire un autorevole esponente di Scelta civica - «ha perso il controllo del gruppo e anche la speranza di diventare ministro degli Esteri nel governo di Bersani». C'è la manina di Alfano (su mandato del Cavaliere) dietro le incredibili dimissioni del titolare dalla Farnesina? Di sicuro, grazie alla mossa di Terzi - che è stato a un passo dalla candidatura nelle liste del Pdl - Berlusconi ha smontato il disegno del «preincaricato» che pensava di edificare il suo governo, partendo dal mattone centrista.

Invece anche quel piccolo mattone si è sgretolato, e il leader del Pd adesso non può fare a meno del supporto (a che titolo si vedrà) del centrodestra per andare a Palazzo Chigi. E per ottenere l'appoggio ha quarantotto ore di tempo per dare una risposta a Berlusconi sul Quirinale. Bersani insomma è spalle al muro. Ma attenzione, perché l'azzardo del Pdl potrebbe non pagare, dato che restano ancora due carte coperte. La prima: se l'intesa sul Colle non si realizzasse, il «preincaricato» potrebbe alzar la posta chiedendo a Napolitano di andare in Parlamento per cercare la fiducia. «Napolitano ci ha dato garanzie che senza numeri certi non consentirà a Bersani di formare il governo», sostiene il Cavaliere. Sarà, ma è disposto ad andare a vedere fino in fondo il gioco?

C'è poi la seconda carta, la più pericolosa per Berlusconi. Senza un'intesa con il Pd, per il Quirinale potrebbe pescare alla fine le peggiori carte (dal suo punto di vista), cioè Prodi o Zagrebelsky o Rodotà, che in principio verrebbero magari votati dai grillini, e su cui i democratici gioco forza sarebbero «costretti» a convergere. Anche in questo caso, il Cavaliere sarebbe disposto a rischiare? E dopo aver perso il Colle, sarebbe sicuro di vincere le elezioni, che nel Pdl già fissano per il 7 luglio? Perché nel Pd Renzi si sta muovendo, chiamando a raccolta anche ciò che resta di Scelta civica, e nei sondaggi farebbe presto a cambiare il trend. Perciò nell'ora delle decisioni irrevocabili Bersani e Berlusconi trattano.

Francesco Verderami

27 marzo 2013 | 7:43© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_marzo_27/commissione-sei-mesi-pdl-verderami_49dd58ce-96a5-11e2-b7d6-c608a71e3eb8.shtml
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« Risposta #185 inserito:: Aprile 14, 2013, 07:35:03 pm »

SETTEGIORNI

La scelta di Monti: niente incarichi di partito

Il nome del Professore scomparirà dal simbolo



Il suo nome non sarà nello statuto e nemmeno nel simbolo del movimento, che infatti d'ora in avanti si chiamerà solo Scelta civica (senza Mario Monti).

La scelta del Professore sarà distinta anche se non ancora distante dalla forza che «ho ispirato e fondato». Rimarrà senatore a vita e farà il «padre nobile» della lista, ma senza aver più un «rapporto organico» con il gruppo dirigente, siccome «non mi sento un leader di partito, non è il mio mestiere». Così ha annunciato.

Il Professore che era salito in politica, ora vuole scendere dal golgota dove sente di esser stato messo ingiustamente da molti, quasi da tutti: dai partiti «che mi avevano chiamato in soccorso» nell'inverno del 2011, dalle forze sociali - Confindustria e sindacati - che oggi andranno «squallidamente a braccetto senza però indicare come uscire dalla crisi», e persino dai suoi stessi alleati, da quei compagni di avventura che «mi implorarono di fare il capo della coalizione alle elezioni e adesso dicono di aver donato il sangue per me». Raccontano che l'intervista di Pier Ferdinando Casini al Corriere l'abbia lasciato di sale, «sono rimasto allibito», e l'abbia convinto a un passo di lato che somiglia molto a un passo indietro.


Formalmente dice di non essersi disamorato, «non è disamore, non considero terminata l'esperienza», anzi Scelta civica - nel quadro disastrato di un'Italia tripolare - «resta una forza necessaria alla tenuta europeista del Paese». Epperò la prossima settimana i parlamentari che sono stati eletti con il suo movimento, leggeranno nello statuto la conferma ufficiale di quanto già Monti aveva detto loro a voce: la sua assenza dagli incarichi e la cancellazione del suo nome dal simbolo sono il prodotto di una sconfitta iniziata nelle urne e che il Professore fatica a capire, interpretandola come una forma di ingratitudine: «Stiamo uscendo dalla procedura di deficit europeo, i conti pubblici sono in ordine...».
Perciò non solo è turbato dal fatto che non siano stati riconosciuti i meriti del suo governo, non comprende nemmeno l'accanimento, il fatto di esser diventato «il capro espiatorio di tutto e di tutti», sebbene questo sia l'effetto di un Paese stremato dalle tasse e dalla recessione, ma soprattutto la conseguenza della sua precedente scelta: quella di entrare nell'agone politico, dove nulla viene risparmiato a nessuno, figurarsi a chi - entrato nel Palazzo da super partes - ha deciso di farsi parte e di sfidare quanti lo avevano appoggiato. Gli errori di grammatica politica in campagna elettorale e poi quelli di ortografia istituzionale all'inizio della legislatura hanno determinato la reazione, fuori e dentro il suo stesso movimento. Per esempio, quando salì da Napolitano per chiedergli di lasciare Palazzo Chigi in modo da trasferirsi a Palazzo Madama, non solo si attirò le critiche del capo dello Stato, ma anche l'ira di chi - come Lorenzo Dellai - sperava di conquistare la presidenza della Camera in quota Scelta civica, e l'ironia di chi - come Casini - si aggirava per il Senato dicendo: «Non chiedete a me di strategie, io non conto più nulla». Stizzito per le tensioni alla riunione dei gruppi parlamentari, Monti perse per la prima volta il suo aplomb: «Posso andarmene anche domani mattina, non resto qui a fare il vostro zimbello».

Emotivamente provato, si ripetè alla Camera, nelle vesti di premier, davanti agli attacchi di chi gli aveva dato fino a pochi mesi prima la fiducia: «Non vedo l'ora che finisca tutto». E dato che non può ancora farlo con il governo, ha iniziato con il partito, nonostante Mario Mauro gli abbia chiesto di restare. L'ex berlusconiano che prima delle urne pronosticava di sostituire il Pdl con Scelta civica nel Ppe, giorni fa ha pregato Monti, «non mollare, o almeno aspetta un paio di mesi. Traghettaci prima verso l'assemblea costituente del partito».

Niente da fare.

Così la prossima settimana lo scontro interno diverrà pubblico alla vigilia delle Amministrative, dove non si sa cosa fare. Sarà l'anticamera del divorzio? Già oggi d'altronde i cofondatori del movimento vivono da separati in casa: da una parte Andrea Riccardi, che mira a trasformare il movimento in un partitino cattolico; dall'altra Italia Futura che ambisce invece ad approdare nella famiglia liberale europea, e che mentre attende di capire quali saranno le mosse di Matteo Renzi, rilegge i dati delle elezioni politiche, il peggior risultato ottenuto a Roma, proprio nel quartiere simbolo di Trastevere dov'è la sede della Comunità di Sant'Egidio. In mezzo c'è l'Udc, che in vista delle votazioni per il Quirinale riunirà i propri grandi elettori, senza montiani. In fondo, senza Monti, i montiani non ci sono più.


Francesco Verderami

13 aprile 2013 | 7:30
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da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_13/monti-no-incarichi-partito_c69922a0-a3fa-11e2-9657-b933186d88da.shtml
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« Risposta #186 inserito:: Aprile 17, 2013, 11:44:45 am »

Il retroscena: Le resistenze (speculari) sull'ex premier socialista

Il Cavaliere: con Bersani è fatta Una «stretta di mano» al telefono

Berlusconi evoca un «accordo di ferro» con il leader democratico


ROMA - «Direi che è fatta con Bersani», annunciava nel tardo pomeriggio di ieri Berlusconi, che proclamava «la fine della fase tattica» e parlava di un «accordo di ferro» per il Colle con il segretario del Pd sul nome di Amato, ritenuto «l'unico spiraglio». Diceva la verità il Cavaliere o stava bluffando? Tutte e due le cose, l'uso del condizionale - quel «direi» - lo testimoniava. E non perché dovesse solo far finta di aver preso una decisione, ma perché la corsa per il Quirinale è sempre piena di insidie: in passato è bastato un niente per far saltare patti più saldi di quello che il leader del Pdl sostiene di aver stretto con il capo dei democrat.

Di certo c'è che i due si sentono ormai assiduamente e non hanno più bisogno di intermediari. Ma siccome una stretta di mano telefonica non basta a chiudere un simile negoziato, alla vigilia delle votazioni Berlusconi mantiene - al pari del suo interlocutore - un atteggiamento non ambiguo, bensì prudente. E c'è un motivo se dalla sua corte è iniziato a filtrare il nome di D'Alema, se il primo presidente del Consiglio post comunista è stato accreditato come «il candidato»: Amato era e resta la prima scelta per il Cavaliere; D'Alema è la carta di riserva, su cui puntare nel caso in cui l'accordo sull'ex sottosegretario di Craxi non dovesse reggere, e Berlusconi volesse evitare di restar fuori dai giochi, ritrovandosi al Quirinale una personalità non gradito se non ostile.

Il punto è che Amato produce anticorpi all'interno dei due schieramenti: inviso a molti nel Pd e osteggiato da Vendola, determina lo stesso effetto in un pezzo del Pdl e nella Lega. Perciò, se davvero - come sostiene Berlusconi - è stata trovata un'intesa con Bersani sul candidato, il problema è come farlo eleggere, mettendo a punto la tempistica per ufficializzare quel nome e sottoporlo ai grandi elettori. Per esempio, riuscirebbe Amato a superare le forche caudine del voto segreto già alla prima chiama? È stato calcolato che - in caso di accordo tra Pd, Pdl e Scelta Civica - ci sarebbe un margine di centosessanta senatori: basterebbe o sarebbe preferibile aspettare le successive due chiame? E se si optasse invece per la quarta votazione - quando servirà la maggioranza semplice - non ci sarebbe il rischio di aprire le porte ad altri giochi, scatenando i franchi tiratori?

Insomma, un passo falso e Amato sarebbe bruciato. Di qui la carta D'Alema, che Berlusconi ha valutato con lo sguardo però sempre rivolto agli amatissimi sondaggi: perché - agli occhi del suo elettorato - l'ascesa dell'ex segretario del Pds al Colle con il supporto del Pdl saprebbe di «inciucio», avrebbe un impatto maggiormente negativo rispetto ad Amato, che certo non è considerato una «novità». Tuttavia, pur di non dover stare a guardare per la seconda volta l'elezione del capo dello Stato, il Cavaliere non ha escluso D'Alema dal mazzo. Preferirebbe Marini, «peccato che - giura scaricando le responsabilità sul fronte avverso - siano quelli del Pd a non volerlo». Ancora una volta dice il vero o bluffa?

Di sicuro Amato incontra il gradimento di Berlusconi, che è in piena sintonia con Napolitano, da tempo sponsor dell'esponente socialista. Ma se il patto Pd-Pdl dovesse saltare, l'inquilino del Colle avrebbe un altro candidato che vedrebbe di buon occhio come suo successore. Sarà una semplice coincidenza, ma non c'è dubbio che il giudice costituzionale Cassese incontra i buoni uffici del capo dello Stato uscente, ed è il nome con cui Bersani potrebbe evitare di venire travolto da Grillo, che ieri pronto ha iniziato la manovra di accerchiamento al Pd e gli ha di fatto proposto un accordo su Rodotà. Con Cassese, Bersani si precostituirebbe un'exit-strategy, ecco perché ne ha fatto cenno l'altra sera a Monti.

Il premier uscente però vuole che sul Quirinale ci sia una «scelta condivisa» con il Pdl, e la reazione istintiva di Berlusconi all'ascolto di quel nome non è stata entusiastica: «Cassese chi? Quello che ha lavorato per bocciare il lodo Alfano?». Chissà se Gianni Letta sarà riuscito a persuaderlo, spiegandogli che l'ex ministro di Ciampi «si è mosso sempre di intesa con il presidente della Repubblica». Napolitano, appunto. Da quell'orecchio però Berlusconi non ci sente, e infatti nella rosa predisposta dal capo dei democrat ci sono Amato, D'Alema, Marini e la Finocchiaro, che ieri ha chiesto e ottenuto di non venire esclusa dalla lista. È sui primi due nomi però che si gioca la partita per il Colle. Berlusconi dice che «è fatta». Sicuro che non si vada ai supplementari?

Francesco Verderami

17 aprile 2013 | 9:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni-presidente-repubblica/notizie/17-aprile-cavaliere-con-bersani-fatta-stratta-di-mano-al-telefono-verderami_b97d45aa-a720-11e2-ae64-724b68a647ec.shtml
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« Risposta #187 inserito:: Aprile 18, 2013, 06:28:29 pm »

Gli incontri riservati del cavaliere con D'Alema, Amato e l'ex leader Cisl

Assedio a Bersani dopo la scelta

I segreti di un patto (che già vacilla)

Il segretario: ho le mie cose da gestire nel partito.

La trattativa su cinque nomi



Almeno la prima postilla dell'accordo ha retto, così come Bersani e Berlusconi avevano concordato ieri pomeriggio al telefono prima di congedarsi: «Allora, dovrò essere io ad annunciare che si va su Marini», aveva detto il segretario del Pd. E il Cavaliere aveva accolto la richiesta: «Certo, riunirò il mio gruppo dopo il tuo».

Più che un gentleman agreement era stata una richiesta politica, un modo per il capo dei Democrat di affermare il suo ruolo di mediatore nel negoziato per il Colle. Se poi l'accordo si tramuterà nell'elezione dell'ex presidente del Senato a capo dello Stato, lo si capirà solo oggi visto che il Pd ribolle come una tonnara. Un problema che era parso chiaro a Berlusconi nel corso della mediazione, quando Bersani - tra una candidatura e l'altra che saltavano - aveva confidato al suo interlocutore: «È che ho le mie cose da gestire...».

Le «cose» si erano manifestate durante il negoziato, che era partito su quattro nomi: Marini, Amato, D'Alema e Finocchiaro. Tranne l'ex capogruppo del Pd al Senato, la lista coincideva con quella che il Cavaliere aveva fatto consegnare un paio di settimane fa al leader del Pd e «per conoscenza» anche a Napolitano. E per arrivare preparato al gran finale, mentre Bersani stava appresso alle sue «cose», Berlusconi aveva visto riservatamente i tre candidati più accreditati. L'altra sera D'Alema aveva avvisato il segretario del Pd dell'appuntamento, che - a quanto pare - si era concluso freddamente. Amato non avrebbe avuto forse bisogno di incontrare il Cavaliere per sentirsi dire ciò che già sapeva, e cioè che «non è colpa mia se quelli sono spaccati e non ti votano».

Con l'ex segretario del Ppi, invece, Berlusconi si è visto ieri in mattinata, quando l'intesa ormai pareva chiusa. E dopo averlo riempito di complimenti, «hai una grande esperienza istituzionale», «hai fatto molto bene il presidente del Senato», «ti sei meritato il rispetto di tutti», «eppoi vieni dalla trincea del lavoro», il capo del Pdl si era congedato con un «sei l'unico che può farcela». Il lupo marsicano - che a quattordici anni di distanza avverte ancora sulla propria pelle il bruciore della sconfitta nella corsa al Colle - si era messo a fare gli scongiuri, e aveva pronunciato il suo proverbiale «mo' vediamo». Non si era sbagliato, Marini, perché nel corso della giornata - tentando di tenere a bada le sue «cose» - Bersani aveva infilato nella lista dei candidati anche Mattarella.

L'operazione era stata vissuta da Berlusconi come un tentativo di spaccare l'area popolare e di far saltare l'intesa. Più o meno quello che aveva subito pensato anche l'ex presidente del Senato: «È vero che anche Enrico Letta lo sostiene?». Tuttavia il Cavaliere ci metteva poco a chiudere la questione, ponendo il veto sull'ex membro della Consulta, che più di venti anni fa - insieme ad altri quattro ministri della sinistra dc - si era dimesso dal governo Andreotti in segno di protesta contro la legge Mammì sulle tv. Figurarsi se Berlusconi se l'era dimenticato: «Non esiste che lo votiamo», aveva spiegato a Bersani, rammentandogli peraltro che «non sono stato io a dire di no a D'Alema e Amato». Più chiaro di così.

Il punto è che le «cose» per il segretario del Pd diventavano di minuto in minuto più complicate. Vendola - che al nome di Marini sentiva aria di governissimo - si smarcava e si faceva attrarre dalla candidatura di Rodotà, annunciata da un Grillo travestito da sirena per marinai di sinistra senza più rotta. Veltroni poi si imbufaliva, lui che dal giorno prima - evocando il «metodo Ciampi» - si era messo a fare lo sponsor di Cassese tra gli amici più fedeli del Cavaliere, e per irretire i suoi interlocutori aveva spiegato che «certo Prodi no, nella logica di una scelta condivisa per il Quirinale, una sua candidatura sarebbe uno strappo».

E mentre le «cose» di Bersani diventavano un casino - con i renziani e i giovani turchi pronti alle barricate - Casini riuniva i propri grandi elettori annunciando «magnum gaudium» che «habemus un democristiano» candidato all'ex residenza dei papi. «Magari fosse Marini», aveva detto il leader dell'Udc giorni fa. Quantomeno faceva mostra di essere contento. Più scettica invece l'altra parte di Scelta civica, che informata dal nunzio del Cavaliere, Alfano, prima storceva il naso e poi si insospettiva. «Non possiamo votare per Amato perché il Pd è spaccato e perché noi ci spaccheremmo con la Lega», spiegava il segretario del Pdl anticipando la conversione su Marini. «La Lega?». Se ne sono accorti adesso i berlusconiani che il Carroccio non avrebbe appoggiato l'ex braccio destro di Craxi? E oggi come si comporterà Maroni con Marini? Se è vero che l'ha chiamato per dirgli «tu sei un uomo di popolo e noi ti votiamo», come mai ieri sera non l'aveva ancora ufficializzato?

L'impressione dei post montiani nel pomeriggio era che l'appoggio di Berlusconi all'ex presidente del Senato fosse solo una mossa tattica, in attesa di veder saltare per aria il Pd e di puntare poi su un candidato coperto. Ragionamento tortuoso, visto che il capo del Pdl teme la deflagrazione dei Democratici durante le votazioni per il Colle e l'avvento di un capo dello Stato a lui ostile, frutto di un accordo con i Cinquestelle. Ma il dubbio è rimasto, ed è alimentato anche da un indizio, dalla confidenza cioè che Sposetti - ex tesoriere dei Ds e assai vicino a D'Alema - ha fatto ieri a un democristiano di lungo corso: «Stiamo lavorando per avere Massimo alla quarta votazione, e farlo eleggere con un po' di soccorso azzurro...».

Il vecchio lupo marsicano non è sorpreso dalle manovre dalemiane, ne aveva già scorto l'ombra dietro l'attacco di Renzi. Perciò non precorre i tempi, e stoppa le voci che lo vorrebbero al Quirinale con Gianni Letta come suo segretario generale: «Fermi, state fermi». Lui aspetta, come Berlusconi, pronto all'accordo per il governo. Anche perché è Bersani che deve mettere a posto le «cose»: sul nome di Marini, infatti, il segretario del Pd è come se avesse posto la fiducia. E se salta lui salta «la ditta».

Francesco Verderami

18 aprile 2013 | 9:30© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/speciali/2013/elezioni-presidente-repubblica/notizie/18-aprile-segreti-patto-vacilla_b5797b1e-a7e7-11e2-96ed-0ed8c4083cbe.shtml
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« Risposta #188 inserito:: Aprile 27, 2013, 05:32:32 pm »

Il nuovo governo: gli scenari

Letta, il confronto con il Colle per decidere chi guiderà Economia e Giustizia

Gli ultimi ostacoli per il «governo di servizio»

Ma lo scoglio più grande arriva dai democratici


ROMA - Oltre al programma e alla lista dei ministri, il premier incaricato intende collaborare anche alla stesura di una nuova edizione del vocabolario di Palazzo. Così, dopo che Napolitano ha chiesto di togliere dal lessico politico la parola «inciucio», e Berlusconi ha invitato a cancellare il termine «impresentabili», Enrico Letta propone ora di abrogare la formula delle «larghe intese». «Non chiamiamolo governo di larghe intese, per favore», ha detto ieri nel corso delle consultazioni: «Il mio tentativo è di varare un "governo di servizio"».

È evidente che la questione non è semantica ma politica, si riferisce al nodo più intricato che il vicesegretario del Pd deve sciogliere per poter arrivare a Palazzo Chigi. Perché i maggiori problemi per la formazione dell'esecutivo vengono dai democratici, non dal Pdl. È il dissenso che cova nella forza di maggioranza relativa a rendere più complesso il lavoro di Enrico Letta, impegnato a superare i veti di un pezzo del suo partito e le numerose pretese ministeriali degli altri pezzi del suo partito. E c'è un motivo se il presidente del Consiglio incaricato, ricevendo le delegazioni, ha annunciato che sulla struttura della compagine di governo «ho intenzione di avvalermi delle prerogative costituzionali». Per un verso intende evitare di rimaner vittima del «fuoco amico», trovando così una soluzione al rompicapo della lista dei ministri. Perché, per esempio, se dovesse accedere alle pressanti richieste di D'Alema - che mira a tornare alla Farnesina -, come potrebbe dire di no al Pdl, che vorrebbe a quel punto un dicastero equivalente da affidare a una personalità dello stesso peso?

Ma c'è un altro aspetto che si cela dietro l'evocazione delle «prerogative costituzionali» fatta da Enrico Letta. È il ruolo che avrà Napolitano nella formazione del futuro gabinetto e che conferma come il prossimo esecutivo avrà un'impronta se possibile ancor più «presidenziale» del precedente. Nei colloqui di ieri, infatti, il premier incaricato ha lasciato capire che sui ministeri dell'Economia, della Giustizia e degli Interni sarà il Colle a fornire «chiare e stringenti indicazioni», eserciterà insomma un ruolo decisivo. Perciò sui tre incarichi - uno dei quali dovrebbe spettare ad Amato - ci sarà qualcosa di più del timbro del Quirinale.

D'altronde è Napolitano il vero motore dell'operazione, a lui si sono rivolti ieri tutti i contraenti del patto, mano a mano che uscivano dalle consultazioni: la delegazione di Scelta civica, il segretario del Pdl e il premier incaricato. Lo ha fatto anche Berlusconi dagli Stati Uniti, offrendo la plastica rappresentazione dell'intesa. Di più, il Cavaliere ha di fatto bruciato l'incontro tra Enrico Letta e il suo partito, se è vero che la delegazione pidiellina non era ancora entrata dal premier incaricato quando il capo aveva già posto il sigillo pubblico all'accordo di governo.

Non c'è dubbio che ci sia un asse tra il presidente della Repubblica e l'ex presidente del Consiglio, se ne sono resi conto anche gli altri partiti impegnati nel negoziato, sebbene l'enfasi con cui nel centrodestra si accredita la tesi di un esecutivo «Napolitano-Berlusconi» serve solo a riaccreditare e rilegittimare il Cavaliere e a infiammare gli animi nel Pd. Tuttavia le nuvole che sembravano addensarsi sul tentativo di Enrico Letta sono state spazzate via proprio da un dialogo diretto del leader pdl con il capo dello Stato: «Presidente, di lei ci fidiamo». A tutto il resto ci ha pensato Gianni Letta.

E l'intesa val bene una bugia, quella detta da Berlusconi, che ha scaricato su Alfano la responsabilità della nota di due giorni fa e che era stata causa di una forte irritazione di Napolitano: «Si trattava di una dichiarazione a titolo personale del nostro segretario», ha dichiarato dagli Stati Uniti il Cavaliere. Falso. L'aveva voluta e concordata. Però il leader del centrodestra ha inteso così preparare il suo rientro in Italia, pur di chiudere l'accordo sulla lista dei ministri del Pdl: cinque o sei posti, per la metà affidati a donne. E si vedrà se nella delegazione di governo ci sarà anche Alfano, che vorrebbe restare invece alla segreteria. Se così non fosse, sarebbe il preannuncio di una rivoluzione nel partito.

Ma lì è Berlusconi che decide, è lui che ha chiamato Enrico Letta avocando a sé il negoziato, derubricando a liturgia l'incontro della delegazione del Pdl con il premier incaricato, che poi ha convenuto su molte richieste dei suoi interlocutori durante il colloquio ufficiale: sull'Imu andrà trovato un compromesso, i tecnici nell'esecutivo non dovranno pesare sulla quota-parte pidiellina (quelli saranno in quota Quirinale). Perché Enrico Letta alla riuscita delle larghe intese, anzi del «governo di servizio» ci crede. E allora «fidiamoci reciprocamente», ha detto: «E datemi una mano». I dirigenti del Pdl sono pronti a dargliela, ma chiedono la fine delle ostilità, gli attacchi «insopportabili» che giungono dal Pd. «Ne sono consapevole e rammaricato», ha risposto il premier incaricato: «Quelli che attaccano voi, lo fanno per attaccare me». Il patto è fatto. Si è capito da dove vengono le difficoltà.

Francesco Verderami

26 aprile 2013 | 14:12© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_aprile_26/scenari-colle-confronto-verderami_c393fb90-ae2a-11e2-b304-d44855913916.shtml
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« Risposta #189 inserito:: Maggio 04, 2013, 03:44:32 pm »

Settegiorni

La partita tra pacificatori e sabotatori

Il sostegno «pieno» del Cavaliere a Letta per isolare il sindaco


Pacificatori e sabotatori si scontreranno e forse in corso d'opera si scambieranno anche i ruoli, perciò non è possibile prevedere oggi «quando si tornerà a votare», dice Berlusconi: «Mi auguro dopo i provvedimenti che serviranno a modificare il sistema istituzionale e a rilanciare l'economia».
Ma è un auspicio, nulla più, perché - come racconta il Cavaliere - le insidie saranno molteplici, «in tanti momenti e per tanti motivi» gli ostacoli si potranno parare sulla strada dell'esecutivo: «E comunque noi del Pdl non dovremo mai essere i responsabili di un'eventuale crisi».



È un precetto che segue la promessa fatta a Napolitano, sponsor e artefice del ricambio generazionale, convinto che il processo di svecchiamento fosse una «necessità» e a suo modo una «opportunità» per varare quelle riforme di cui il Paese e lo Stato hanno bisogno. Ecco cosa lo ha indotto a trasformare Palazzo Chigi in una versione moderna e aggiornata delle Frattocchie e del vicino convento dei frati di Sassone, che erano le scuole dove Pci e Dc coltivavano le nuove leve della politica. Il presidente della Repubblica ha messo in preventivo che l'operazione di rinnovamento sconti un'iniziale fragilità del governo, ma da lord protettore veglierà per difenderlo, sapendo che le minacce possono venire solo dagli «esclusi».


Giorni fa, in un incontro casuale tra ex, Bocchino chiese a D'Alema cosa ne pensasse del nuovo gabinetto: «Mi sembra un governo di democristiani», commentò il braccio destro di Fini. E l'altro, di rimando: «A me sembra piuttosto un governo della Trilateral...». A sinistra come a destra, in tanti vorrebbero accorciare l'orizzonte dell'esecutivo, nonostante Enrico Letta - nel suo discorso alle Camere - abbia ipotizzato una verifica «fra diciotto mesi», e il vice premier Alfano si sia spinto entusiasticamente persino oltre: «Diciotto mesi? Ne riparleremo fra diciotto mesi». Si vedrà.
Per un governo che è ostaggio del Parlamento (e viceversa), molto dipenderà dalla capacità di reperire risorse per far ripartire l'economia. Ma non solo. Come dice un Berlusconi assai informato delle cose di casa altrui, il problema è che «nel Pd ci sono ferite aperte. E non si sa se potranno essere rimarginate». È in corso il regolamento di conti tra i vecchi gestori della «ditta». È lo scontro tra D'Alema e Bersani, che viene da lontano: iniziò quando il leader dimissionario dei Democrat non difese l'ex premier durante la campagna per la «rottamazione» avviata da Renzi, ed è proseguito quando lo stesso Bersani - in una notte - decise di candidare Grasso alla presidenza del Senato al posto della Finocchiaro, che D'Alema considerava «l'opzione B» per il governo delle larghe intese.


Il conflitto si risolverà al congresso del Pd, in autunno o nella prossima primavera. Letta sa, e anche lo sussurra, che quel passaggio - non il braccio di ferro con il Pdl sull'Imu o sulla candidatura di Berlusconi alla presidenza della Convenzione - deciderà la messa in sicurezza del suo governo o segnerà la fine anticipata della legislatura. Il Cavaliere, che ha un piede nel campo di Agramante, osserva la «sinistra che si sta evolvendo», e prova ad abbozzare una previsione partendo da un bilancio. Del recente passato ricorda l'avvento di Renzi, «che era una grossa novità, e in parte lo è ancora». Ai suoi occhi il sindaco di Firenze gli era parso «un elemento che poteva diventare decisivo nel processo di trasformazione del Pd, da partito comunista - ipse dixit - a partito socialdemocratico. Insomma, ci ha fatto pensare a un vero fattore di cambiamento. Poi alle primarie è stato messo in un cantuccio. E ora...».



Ora c'è Letta alla guida di quello che Berlusconi definisce «il buon governo», di cui «siamo parte integrante». E non c'è dubbio che il premier farà il possibile per non perdere l'opportunità, siccome è lui il vero competitor di Renzi, in un derby fra toscani diversi per origine e per carattere. In questa chiave va interpretata l'ultima esternazione di «Matteo», la sua offensiva contro l'ipotesi del Cavaliere presidente della commissione per le riforme, la battuta sul conflitto di interessi «che non si farà se non lo vorrà Berlusconi», la sfida lanciata all'«amico Enrico» che è giunto a Palazzo Chigi attraverso «una scorciatoia», «mentre io vorrò passare per le primarie».
La lotta tra pacificatori e sabotatori è iniziata, ed è chiaro che se Letta avesse successo al governo diverrebbe il candidato naturale alla successione di se stesso, altrimenti - lo ha già spiegato ai suoi amici più stretti - «non entrerò in competizione», deciso in quel caso a tenere un «profilo istituzionale» e farà «un passo indietro». «La trasformazione della sinistra è complicata», commenta il Cavaliere, a cui piace l'idea di fare il papà costituente, sebbene non a tutti i costi. Perché il leader che oggi si fa «concavo e convesso», spera un domani di ricavarne la nomina a senatore a vita.



D'altronde è il protagonista del «miracolo», quel governissimo che «non è un dono caduto dal cielo, abbiamo lavorato per ottenerlo». E c'è un motivo se parla degli alleati-avversari tenendo la misura: «La sinistra non ha mai fatto autocritica, tuttavia è possibile che la trasformazione avvenga, e noi dovremo tenerne conto quando si tornerà a votare». Non sa quando, Berlusconi. Figurarsi se dice come, con quali candidati premier. E soprattutto con quali alleanze...

Francesco Verderami

4 maggio 2013 | 7:34© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_maggio_04/berlusconi-letta-renzi_2fa1b05c-b47a-11e2-bb5d-f80cf18001da.shtml
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« Risposta #190 inserito:: Giugno 09, 2013, 10:54:25 am »

LE SCELTE

Riforme, adesso Letta vuole evitare i rischi di una fuga in avanti

Ma sulle riforme pesa anche l'incognita della giustizia



ROMA - Dopo trent'anni di attesa (e di fallimenti), il rischio è che il percorso delle riforme s'interrompa anzitempo per aver precorso troppo i tempi, anticipando un'idea di modifica delle istituzioni per la quale non sono state nemmeno gettate le fondamenta. È un pericolo che Letta ha compreso dopo l'intervento del capo dello Stato, se è vero che il suo cenno al presidenzialismo della scorsa settimana ha avuto come effetto quello di mettere in fibrillazione i democratici e anche l'area dei «non allineati» presente nel suo governo.

Ma c'è di più. La stagione costituente non solo è esposta al pericolo di accelerazioni che un partito come il Pd non sembra al momento riuscire a reggere sul semipresidenzialismo, è appesa anche al filo delle vicende giudiziarie di Berlusconi, che a breve potrebbero avere effetti devastanti sull'esecutivo con la sentenza della Consulta sul processo Mediaset. Variabili e incognite non consentono quindi di valutare se il governo sarà in grado di risolvere l'equazione o se - drammaticamente - dovrà arrendersi agli eventi.

Ancora una volta la questione giustizia diventa una spada di Damocle sul nascituro Comitato dei Quaranta, come lo fu sulla Bicamerale presieduta da D'Alema. Ecco spiegato il paradosso di queste ore, con Napolitano che chiede a Palazzo Chigi di accelerare l'approvazione del disegno di legge costituzionale necessario a far partire la fase costituente, e al contempo suggerisce prudenza sulla modalità di approccio al tema delle riforme.

Non c'è alcuna certezza né sull'approdo del percorso né sulla durata del governo. E il fatto che ieri Alfano sia salito da solo al Quirinale, dopo il vertice del capo dello Stato con Letta e i ministri delle Riforme e del Parlamento, fa capire che il vice premier non ha parlato con l'inquilino del Colle di semipresidenzialismo. L'ipoteca giudiziaria sull'esperienza delle larghe intese si unisce alle incertezze per la gestione della fase costituente, che hanno indotto Franceschini a sottolineare come «non sia il caso di avventurarsi in discussioni premature», e dall'altra parte hanno spinto Quagliariello a evidenziare «il pericolo mortale»: «Quello di impantanarsi».

Sia chiaro, nell'esecutivo i ministri del Pd e del Pdl lavorano in perfetta intesa, ma è proprio questo ciò che i colleghi «non allineati» - quelli cioè delle altre forze politiche - contestano. Non è un caso se il titolare della Difesa Mauro avvisa che «prima di assumere una decisione vanno coinvolti tutti i partiti». È un modo per evitare che proprio le fughe in avanti facciano saltare tutto. Perché c'è già un precedente, secondo i rappresentanti dell'esecutivo che non fanno parte di Pd e Pdl: la riforma del finanziamento pubblico ai partiti, che - raccontano dal governo - è stata presentata senza una preventiva intesa collegiale. Lo schema non potrà essere ripetuto sulle riforme costituzionali, e però si avverte un certo malcontento per il fatto che il ddl costituzionale sia stato annunciato per il prossimo Consiglio dei ministri ma non sia ancora noto a tutti i ministri.

Per certi versi è la punta dell'iceberg rispetto a questioni ancor più gravi, così come sono un dettaglio i problemi del ministro per le Riforme, che deve ancora definire il numero e i nomi dei «saggi» a cui spetterà il compito di assistere il governo nella fase costituente: tutte le forze politiche hanno dato i nomi dei loro rappresentanti tecnici, tranne il movimento di Grillo. Ma è evidente il motivo per cui Quagliariello insiste: l'intenzione è che l'intero Parlamento sia rappresentato nella Commissione. Dal numero e dalla composizione della squadra si capirà la strada che si vorrà seguire: semipresidenzialismo o premierato. Di più, la Commissione dovrà aiutare l'esecutivo a risolvere il problema posto ieri da Napolitano al vertice del Quirinale: «Non pongo veti sulla forma di governo, mi interessa che la scelta sia valutata attentamente, insieme alle conseguenze ordinamentali che deriveranno dalla riforma». Ma sono altre le variabili e le incognite che minacciano di far saltare la stagione costituente.

Francesco Verderami

4 giugno 2013 | 7:42© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/politica/13_giugno_04/letta-no-fuga-avanti-verderami_da27693e-ccd7-11e2-9f50-c0f256ee2bf8.shtml
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« Risposta #191 inserito:: Giugno 26, 2013, 05:08:58 pm »

IL RETROSCENA

Alfano ai falchi del Pdl: «Evitiamo giochi Enrico non accetterebbe»

Lo sfogo del cavaliere dopo la sentenza: «Me ne vado in Sudafrica»


Primum sopravvivere, è la nuova parola d'ordine del Cavaliere. Ferito nell'onore e nell'immagine, avvilito per la condanna e per il modo in cui i media internazionali l'hanno riportata, diceva ieri di sé in terza persona: «Nessuno vorrà più fare una photo opportunity con Silvio Berlusconi».

La componente psicologica nell'ex premier è un fattore decisivo che alleati e avversari tengono in considerazione per cercare di intuire quali saranno le sue prossime mosse: il leader che cercava «il giudizio della storia» e che invece è stato giudicato da un tribunale, più della fine politica teme ora di non potersi riscattare. Ecco perché - subito dopo aver appreso la sentenza - è caduto in prostrazione, meditando addirittura l'esilio: «Me ne vado via, in Sudafrica». Ora si spiega cosa volesse dire Alfano l'altro ieri, quando ha riferito di una chiamata al «presidente», invitato a «tenere duro e ad andare avanti».

Sì, ma avanti dove? Perché è vero che Berlusconi ha dimenticato (in parte) le parole pronunciate nella concitazione del momento, ma resta l'incertezza sul futuro e regna il dubbio oltre al malcontento. Sebbene attorno al Cavaliere i falchi si diano un gran da fare nel teorizzare la rivincita attraverso il lavacro elettorale, sebbene chiedano incessantemente l'immediata capitolazione del governo, c'è un motivo se Berlusconi non ha ancora scelto.

Certo, le azioni di palazzo Chigi che possedeva si sono svalutate dopo la condanna, e l'iniziativa politica non è più funzionale alla sua linea di difesa: «Il governo - secondo l'ex premier - dovrebbe avviare subito la riforma della giustizia. Cosa impensabile con una simile maggioranza». Ma le controindicazioni sulla cessione del pacchetto azionario sono evidenti, anche perché ieri Napolitano l'ha messo sull'avviso. L'esternazione del capo dello Stato è stato tema di discussione durante il vertice a palazzo Grazioli.

Al Cavaliere è parso chiaro che il Quirinale non consentirebbe il ritorno alla urne in caso di crisi, «va tenuto nel conto che se fossimo noi a far cadere il governo non si tornerebbe a votare». E a quel punto l'isolamento all'opposizione sarebbe tutto fuorché splendido, perché un nuovo esecutivo - magari guidato dallo stesso Enrico Letta - verrebbe incaricato di varare la nuova legge elettorale e magari una nuova normativa sul conflitto d'interessi, senza dimenticare che il Cavaliere (privo ormai delle azioni di Palazzo Chigi) potrebbe essere nel frattempo dichiarato ineleggibile dalla giunta del Senato.

Così è stata presa in esame un'altra opzione, sempre orientata a ottenere le elezioni in autunno, l'idea cioè di indurre in tentazione la sinistra, di provocarla su Iva, Imu, sugli F35, in modo da scaricare sul Pd la responsabilità della crisi. «Io Enrico lo conosco», ha detto Alfano riferendosi al premier: «Si accorgerebbe subito del gioco e non ce lo consentirebbe. Perciò, se dobbiamo rompere, rompiamo subito. Ma facciamolo con chiarezza, dichiarando che per noi è politicamente insostenibile stare in questa maggioranza». Quella del vice premier non è stata un'istigazione al gesto, ma una richiesta di assunzione di responsabilità del gruppo dirigente, chiamato a prendere una decisione, caricandosi delle conseguenze.

Non c'è dubbio che spettava e spetta ancora a Berlusconi l'ultima parola, ma tutti in quel momento hanno cercato con lo sguardo Gianni Letta per sapere quale fosse il suo parere. «Non parlo», è stata la risposta: «Non parlo perché sono lo sconfitto». L'uomo delle eterne mediazioni è parso provato dal fallimento della sua linea di azione. Da tempo, peraltro, alle riunioni interveniva meno di quanto facesse prima, cioè poco. Il braccio destro del Cavaliere avverte su di sé il conflitto d'interessi familiare, e sente alle sue spalle quanti lo additano - insieme ad Alfano - del fallimento della «trattativa».

Ma quale trattativa: il fantomatico salvacondotto per Berlusconi? E chi lo avrebbe votato in Parlamento: il Pd? Un partito che si è suicidato alle elezioni per il Quirinale, affossando le candidature di Marini e Prodi, si sarebbe compattato al voto per salvare giudiziariamente il Cavaliere? E allora qual è la verità dei giorni in cui si è deciso di sostenere la nascita del governo di Enrico Letta? Perché proprio alla vigilia del giuramento, Fitto pose una domanda a Berlusconi durante una riunione di partito: «Presidente, c'è un accordo con Napolitano di cui non siamo a conoscenza?». «Nessun accordo», fu la risposta che sta agli atti.
Non è chiaro se dietro l'errore ci siano falsi miti, equivoci, incomprensioni o cattiva gestione politica della vertenza, è certo che il Cavaliere, fino a due settimane fa considerato il dominus del governo, cerca ora di sopravvivere. Resta da capire come. E il dubbio sta paralizzando tutto e tutti nel Pdl, compresa la delegazione di governo, che ieri ha disertato l'informativa del premier in Parlamento sul vertice europeo, e ancora a tarda sera non aveva stabilito se partecipare all'odierna riunione del Consiglio: d'altronde, senza un chiarimento sulla linea del partito, i ministri non intendono approvare eventuali provvedimenti che poi potrebbero essere attaccati in Parlamento dallo stesso Pdl.

Insomma è il caos. E il problema è che nel caos va comunque presa rapidamente una decisione: o si tenta subito la forzatura per arrivare alle urne o a novembre lo scenario sarà radicalmente diverso. Per capire cosa farà il Cavaliere è necessario comprendere la sua componente psicologica. Perciò Enrico Letta si è spinto l'altro ieri a chiamare Fedele Confalonieri, subito dopo la sentenza di condanna di Berlusconi. Più di Gianni Letta, il patron di Mediaset conosce le mille sfumature dell'animo di «Silvio», che è «preoccupato per come i giudici si sono accaniti anche sui testimoni del processo».

Francesco Verderami

26 giugno 2013 | 7:52© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #192 inserito:: Luglio 03, 2013, 11:57:33 pm »

Dietro le quinte L'«ingorgo» degli appuntamenti europei

Si allontana l'ipotesi del voto

Il nodo della sentenza sul Cavaliere

L'unico (vero) rischio potrebbe venire dalla decisione su Mediaset


ROMA - Tra «cabine di regia», «vertici di maggioranza» e «verifiche di governo», la politica sembra davvero tornata indietro di trent'anni. E non c'è dubbio che ai tempi della Prima Repubblica, con un esecutivo precario, partiti in conflitto e gruppi parlamentari in rivolta, si sarebbe aperta la crisi e probabilmente si sarebbero tenute anche le elezioni. Ma rispetto al passato, oggi non sono alle viste né la caduta del governo né il voto anticipato. Il primo ad averlo capito è Renzi, il cui nervosismo testimonia la consapevolezza di chi sa che la strada per le urne è sbarrata, di chi è consapevole di avere un unico alleato per ottenerle: Berlusconi.

Solo il Cavaliere potrebbe in teoria essere tentato di far saltare il banco, qualora in autunno la Cassazione confermasse la sentenza di condanna sul caso Mediaset. Se non fosse che la «golden share» di cui dispone, già adesso sarebbe difficile da usare e ancor di più lo sarebbe in autunno, quando è previsto lo show down giudiziario. Per allora, infatti, alle difficoltà politiche si aggiungerebbero impedimenti tecnici.

Oltre a Napolitano, l'ostacolo sarebbe rappresentato dal voto europeo. La direttiva comunitaria ha fissato tra il 22 e il 25 maggio 2014 le date per il rinnovo del Parlamento di Strasburgo nei Paesi dell'Unione: un intralcio di fatto insormontabile per chi mira alla fine anticipata dell'attuale legislatura. Ragioni procedurali non consentirebbero infatti l'accorpamento delle Politiche con le Europee, se è vero che esiste un solo precedente, nel giugno del 1979, quando comunque i due voti furono sfalsati di una settimana. Come non bastasse, lo «scudo» del semestre italiano di presidenza europeo dell'anno prossimo allungherebbe la vita al governo fino alla primavera del 2015.

Per questo motivo Renzi scalpita, perciò ripone le ultime speranze in Berlusconi. Altrimenti Letta sarebbe «condannato» ad andare avanti e potrebbe diventare un temibile competitor nella sfida elettorale per Palazzo Chigi. In modo speculare, i falchi del Pdl vedono in questa prospettiva il definitivo tramonto politico del Cavaliere, perciò nel Pd come nel Pdl gli «stimolatori» del governo cercano l'incidente per sovvertire il gioco e bucare l'ombrello protettivo del Colle.

I focolai in questa fase non si contano, come gli incendi boschivi d'estate. Ad appiccarne uno (inconsapevolmente) era stato Monti, ma l'ultimatum del Professore - bacchettato da Napolitano - non ha prodotto danni. Anzi il premier è intervenuto in soccorso di Monti: la convocazione del vertice di domani è stato un modo per tener da conto il senatore a vita, criticato anche dai dirigenti di Scelta civica per la sua sortita. «Non ci sono alternative al governo», sostiene infatti il capogruppo al Senato Susta, che per sgombrare il campo da interessi personali di Monti, finisce quasi per confermarli: «Semmai aspirasse a incarichi internazionali, comunque gli sarebbe indispensabile l'appoggio del governo».

Più pericolose sono le incursioni che vengono dal Pd e dal Pdl. Lo scontro sull'elezione della Santanchè alla vicepresidenza della Camera è insidioso, per questo Alfano vuole depotenziarlo, perciò da tempo - mentre continua ad assicurarsi il voto dei centristi - sta cercando un compromesso con i Democratici. Letta e Franceschini sono dell'operazione, ma si scontrano con la realtà di un partito che è stato capace di azzoppare Marini e Prodi nella corsa al Quirinale, e che difficilmente si può ricompattare nel voto per la pasionaria del Cavaliere.

Al tempo stesso il vicepremier ha intuito che nel Pdl gli avversari della Santanchè vorrebbero per lei la stessa sorte che sotto sotto si augurano anche i falchi, desiderosi di poter fare di «Daniela» una martire delle larghe intese, la Giovanna d'Arco con cui abbattere il governo e gli attuali equilibri nel partito. Ecco il motivo per cui Alfano lavora per spegnere le fiamme, mentre un altro focolaio rischia di provocare un incendio sul fronte delle riforme, con il ministro Quagliariello accerchiato dalle fiamme di Bondi, Matteoli e Fitto. In queste condizioni, ai tempi della Prima Repubblica di sicuro si sarebbe già aperta la crisi e probabilmente si sarebbe andati alle elezioni. Allora, non oggi.

Francesco Verderami

3 luglio 2013 | 8:20© RIPRODUZIONE RISERVATA

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« Risposta #193 inserito:: Luglio 10, 2013, 09:53:24 am »

L'attesa del centrodestra.

Le pressioni della base sul Pd per rompere l'alleanza

Le «minacce» alle larghe intese e quella finestra elettorale a ottobre

Il Cavaliere con i suoi accusa la Procura di Milano di dettare i tempi

Francesco VERDERAMI

ROMA - Il giorno del giudizio universale è più vicino, ora che è stata fissata la data per la sentenza su Silvio Berlusconi. E la celerità, che ha colto tutti di sorpresa, non ha comunque cambiato il copione dei protagonisti né il canovaccio di una drammatica storia che va in scena da venti anni e ora sembra arrivata all'ultima replica. «È stata la procura di Milano a dettare la decisione della Cassazione», sostiene il Cavaliere. Ed è un già detto, come quello di Enrico Letta, secondo cui «sul governo non ci saranno conseguenze»: un mantra per il premier che cerca di esorcizzare il rischio della crisi, qualora il leader del centrodestra venisse definitivamente condannato.

La trama insomma sembra svilupparsi senza variazioni, ripetitiva e dunque noiosa, se non fosse che l'evento potrebbe far collassare l'intero sistema, già in preda alle prime convulsioni. Con un partito, il Pdl, scosso e frastornato, che è accecato dall'ira verso le «toghe politicizzate» quasi quanto il suo capo, e medita ciò che medita da sempre, le manifestazioni di piazza, i girotondi attorno ai palazzi di giustizia e alla Cassazione, le dimissioni di massa dal Parlamento, la crisi di governo; denunciando quel che Berlusconi per ora non può denunciare, e cioè la manona internazionale, il golpe nazionale, i complotti editorial-giudiziari.
Tutto già detto, tutto già previsto, come nel finale di una partita a scacchi: con la condanna del leader, il voto del Senato che lo dichiara decaduto, la sentenza che lo rende ineleggibile. Un atto di guerra a cui rispondere dichiarando anzitempo guerra, con la fine del governo e il disperato tentativo di arrivare alle urne prima dello scacco matto giudiziario. In effetti la finestra elettorale è formalmente ancora aperta, lo sarebbe anche a fine luglio quando è prevista la sentenza, consentendo il voto per metà ottobre. I calcoli sono stati fatti ieri a palazzo Grazioli, davanti a un Berlusconi a cui l'avvocato Coppi ha imposto il silenzio, esponendosi mediaticamente come mai aveva fatto nella sua carriera forense, proprio per evitare che il suo assistito si esponesse.


Resta da capire, e non è poco, se davvero l'esito (giudiziario) è scontato. Così come resta da capire, e non è poco, se davvero l'esito (politico) sarebbe altrettanto scontato, se il tentativo del Pdl di forzare la mano per ottenere le urne andrebbe a segno, data la contrarietà del Quirinale. E dire che il copione della legislatura era stato studiato fin nei dettagli, sotto la regia di Napolitano: prevedeva l'orizzonte del 2015 per il governo «di servizio», le riforme costituzionali, una nuova legge elettorale. E non c'è dubbio che la buona volontà del premier di portare a compimento la missione ci fosse e ci sia ancora, se è vero che ieri sera - nonostante la tempesta giudiziaria fosse già iniziata - Letta ha assicurato la cancellazione dell'Imu sulla prima casa, rendendo pubblica la promessa fatta a Berlusconi.
Ma sul Colle c'è grande preoccupazione, anche perché tutto sembra tramare contro l'esperimento delle «larghe intese», dentro e fuori i confini nazionali, visto che ieri l'ineffabile agenzia di rating S&P ha deciso di declassare l'Italia proprio mentre si intravvedevano i primi segnali di ripresa economica. Non è detto però che il finale giudiziario sia già scritto, siccome nel Palazzo c'è una scuola di pensiero secondo la quale l'accelerazione del giudizio su Berlusconi da parte della Cassazione sarebbe prodromica a una sentenza benevola. E comunque non è detto che - a fronte di una condanna del Cavaliere - il governo cadrebbe per mano del centrodestra.
Ecco l'unica variante di un copione mandato ormai a memoria dagli attori politici e dal Paese. E se, invece del Pdl, fosse il Pd a staccare per primo la spina a Letta, qualora Berlusconi capitolasse? Ieri, per evitare di far salire ulteriormente la tensione, i dirigenti democrat non hanno rilasciato commenti. Solo la Bindi ha rotto la consegna del silenzio, e la sua critica alle dichiarazioni dei ministri pdl solidali verso il Cavaliere è parsa anche un contropelo al premier. Questa sortita è la spia di un sentimento ostile alle «larghe intese» che nel Pd non si è mai sopito, e che potrebbe risvegliarsi se il leader del centrodestra venisse definitivamente condannato.


In quel caso, fino a che punto lo stato maggiore democratico riuscirebbe a reggere le pressioni della base che chiedesse di rompere con il partito di Berlusconi? Quanto a lungo il Pd potrebbe resistere all'offensiva dei social network, ai girotondi su internet e nelle piazze? «E chi - si chiede Fioroni - avrebbe interesse a cavalcare tutto questo per fini personali?». Il dirigente democrat - senza mai citarlo - evoca Renzi, ormai lanciato verso palazzo Chigi e che nell'eventuale sfida elettorale si troverebbe davanti un centrodestra orfano del leader storico. Fioroni non va oltre, aggiunge solo che «per fortuna abbiamo un capo dello Stato a cui stanno a cuore gli interessi del Paese e non gli interessi particolari».
Si torna così sempre a Napolitano, considerato il garante di un sistema che rischia di crollare. Il giorno del giudizio universale si avvicina e non è detto che il copione sia scontato. Di certo non ci saranno altri rinvii a una sentenza che non riguarda solo Berlusconi.

10 luglio 2013 | 7:18
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« Risposta #194 inserito:: Luglio 11, 2013, 10:53:50 am »

Retroscena

Berlusconi: con una condanna le larghe intese finirebbero

E ai suoi dice: fate i preoccupati, non gli arrabbiati

Lupi: è chiaro che accadrebbe con una sentenza avversa

Francesco Verderami

ROMA - L'Italia è al buio. C'è il buio oltre la sentenza giudiziaria che verrà emessa a fine mese dalla Cassazione su Berlusconi, e c'è il buio oltre il verdetto economico che è stato pronunciato l'altro ieri da Standard & Poor's sul rating nazionale. E per quanto distinti e distanti, questi due giudizi richiamano alla memoria l'inizio degli anni Novanta, la fine della Prima Repubblica, la crisi che investì il Paese e la perdita di asset strategici finiti all'estero. Perciò non sono sfuggiti alle massime cariche dello Stato alcuni particolari delle due vicende: il fax inviato due giorni fa alla Cassazione dalla Procura di Milano sui tempi di prescrizione del processo Mediaset, così come la decisione di S&P di declassare l'Italia nel bel mezzo della settimana e non il venerdì sera, a mercati chiusi, come solitamente avviene. Uno «schiaffo» che non poteva passare, e non è passato, inosservato.


Saranno solo coincidenze, ma è evidente la pressione sul governo delle larghe intese, che nel Pdl come in un pezzo del Pd è definita «ostilit à». Così come sono chiari i rischi della crisi di un sistema che si approssima al bivio di fine mese, quando si capirà se l'esecutivo andrà avanti ancora per due anni o se capitolerà per lasciar spazio alle urne in ottobre. Chi ha in mano il gioco è chi di fatto lo sta subendo, cioè il Cavaliere: dovesse venire definitivamente condannato non ci sarebbero margini per una prosecuzione della legislatura. Perciò non si capisce l'accanimento di un pezzo del Pdl alle riunioni dei gruppi parlamentari contro la presenza al governo. Ci ha pensato Lupi a sgombrare il campo dai soliti sospetti. «Guardate che il problema non esiste», ha detto il ministro: «Se il 30 luglio ci fosse una sentenza avversa a Berlusconi, è chiaro cosa accadrebbe». Anzi è scontato.

Siccome - dopo un eventuale verdetto negativo della Corte - il Senato sarebbe chiamato a esprimersi con la «presa d'atto» per estromettere il Cavaliere da Palazzo Madama, non c'è dubbio che nel voto Pd e Pdl si dividerebbero. E quell'atto politico sul leader del centrodestra non consentirebbe di proseguire l'esperienza delle larghe intese. Il resto è propaganda, mista a disinformazione. Come la storia messa in giro ad arte da sedicenti berlusconiani, che il loro capo - in presenza di condanna - farebbe cadere il governo sull'economia, con l'appoggio di Renzi. In realtà Sua Emittenza - se potesse - farebbe di tutto per garantire lunga vita alle larghe intese, per sconfiggere quella che definisce la «lobby mediatico-giudiziaria» e mettere la sordina al sindaco di Firenze, impedendo ciò che teme di più oltre alla perdita della libertà personale: ovvero «l'avvento della sinistra al potere per i prossimi quindici anni».
In attesa del verdetto, il Cavaliere ha adottato - per usare un'espressione di Quagliariello - «lo stesso atteggiamento di Togliatti dopo l'attentato»: fa la parte del leader responsabile, a fronte di un partito in armi. E quando ieri un dirigente del Pdl gli ha chiesto se «dobbiamo fare la parte degli arrabbiati o quella dei preoccupati», Berlusconi ha risposto: «Quella dei preoccupati». Avanti nella mobilitazione, insomma, ma con giudizio. Anche perché il finale di partita non è ancora scritto, e la decisione della Cassazione di incardinare il procedimento per poi lasciare il tempo alla difesa di prepararsi è stato interpretato come un segnale positivo.

Semmai le riunioni dei gruppi parlamentari berlusconiani, autentiche sedute di autocoscienza collettiva, hanno reso l'idea dello stato in cui versa il partito, ricordando - a chi li ha vissuti - gli ultimi incontri della Dc prima dell'implosione: «E se il Cavaliere dovesse andar via - ha commentato il democristiano Rotondi - non ci sarebbe nemmeno il tempo di scambiarci tra noi i numeri di telefono». Ecco perché, come ha spiegato Lupi ai colleghi di partito, «non esiste un problema di governo, esiste un problema di democrazia». Su questo punto Alfano, sempre più nelle vesti di segretario, nel tentativo di tenere unito il Pdl ha avvisato che «quanto faremo dal 30 sera, qualunque strada prenderemo, andrà costruita in questi giorni, così da formare un'opinione nel Paese. Perché il 30 sera potrebbe avvenire una cosa senza precedenti, e cioè che una democrazia viene privata di un leader. Il nostro leader».

11 luglio 2013 | 8:18
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