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Autore Discussione: Intervista a Paride Leporace Quando il Quotidiano della Calabria era "The Post"  (Letto 2651 volte)
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« inserito:: Febbraio 27, 2018, 05:33:16 pm »

Quando il Quotidiano della Calabria era "The Post"

Dom, 25/02/2018 - 16:40

Intervista a Paride Leporace

Ci sono persone che emanano libertà da ogni poro della pelle, così che tu possa coglierla e trattenere a piene mani. Io e Paride non ci siamo mai incontrati di persona ma la sua frizzante libertà l’ho vista su di me: pezzi di vita divenuti in un istante soffioni, energia, irregolare quanto perfetta.
Nelle sue precedenti vite è stato punk, ultrà, contestatore, sovvertitore. Oggi chi è Paride Leporace?
Un uomo che fa parte di un’istituzione meridionale e che cerca di dare un contributo alla crescita del bene pubblico. Tutte le categorie da lei richiamate, hanno alimentato, con il meglio che proviene dall’humus delle controculture che ho praticato, il mio agire. Non rinnego nulla del mio passato, anzi ne coltivo con sentire civile la memoria e la storia. Aver operato nella musica, nel calcio, nella politica dalla parte del torto che non guarda al guadagno personale ritengo sia stata per me una bella scuola di vita. Mi sono quasi sempre preoccupato di costruire comunità autogovernate.
Perché fa il giornalista?
Raccontare i fatti e le persone ha sempre segnato la mia vita fin da ragazzino. Alle scuole elementari mi feci regalare dai miei genitori una costosa, per l’epoca, valigetta del giornalista. Conteneva una macchina fotografica, un taccuino e una carta dell’Asia. Guardavo in televisione i servizi sul Vietnam e me ne andavo sulle rive del Crati immaginando di essere sul Mekong e riscrivevo nel mio linguaggio elementare le offensive dei vietkong. Fu quasi naturale nel collegio dove studiavo, dar vita assieme ai miei compagni e a un istitutore illuminato un “Giornale dei convittori” che fece subito presa nell’istituto. Qualche anno dopo un nuovo giornale si chiamava “Area creativa” a segnalare che i tumultuosi anni Settanta mi spingevano già da allora a sostenere un giornalismo militante. Il caso e il bisogno mi fecero entrare nelle tv private e da allora non ho mai smesso di praticare la professione. Al netto del tesserino professionale che mi è stato lungamente impedito perché estraneo al sottostare dei padrini calabresi dell’Ordine. Aver superato l’esame professionale con il massimo dei voti è stata una bella rivincita personale.
Le doti che si riconosce e che sono indispensabili per svolgere questa professione?
Dicono al Nord che chi si loda s’imbroda. Provo a riconoscermi delle qualità. La notizia sopra ogni cosa. Da giovane non esitai a portare al telegiornale una notizia giudiziaria che riguardava un mio zio medico, bravissima persona, che sarà assolto da ogni accusa. Ritengo, soprattutto da capo, di aver sempre saputo riconoscere le qualità del collega da valorizzare al massimo. Riconoscere le sue passioni personali per farle diventare qualità di racconto. Penso di essere stato attento a garantire accesso plurale a tutti. Non ho mai delimitato la spazio di un titolo in base al censo o al potere di chi lo chiedeva. Infine, ma non per ultimo, la responsabilità in alcuni casi, di saper dire: “abbiamo sbagliato”. Addirittura ne feci una rubrica fissa su un giornale. Chi sostiene l’infallibilità del giornalista e delle sue tesi inganna se stesso.
Sul finire degli anni ‘80 fonda Radio Ciroma, una radio che diventa uno stile di vita. Quali furono le tematiche affrontate in quegli anni?
È per me stata una fortuna, incontrare in quel periodo, un gruppo di compagni che avevano vissuto a vario livello le esperienze politiche degli anni Settanta e metterci a ragionare sul Tempo nuovo che si viveva. Che con noi ci fosse un pensatore come Franco Piperno fu un’occasione favorevole per esodare dal reducismo e dal luogo comune. La nostra riflessione su un nuovo meridionalismo e sul potere del municipalismo fu centrale nel seminare la ricerca di quello che eravamo diventati. Lo strumento di una radio senza padrone ha permesso un dialogo collettivo molto significativo. Essere ciromista, mi ha impedito di adoperare i media e la comunicazione come vuoto pneumatico. Posso dire con certezza che non abbiamo mai imposto il ciromismo come dogma. Ci siamo posti continuamente domande mettendoci sempre in discussione.
Ha lavorato per oltre 10 anni al Quotidiano della Calabria. Cosa ricorda di allora e perché ha smesso di collaborarvi?
Giorni lunghi come anni. Per una generazione di giornalisti che non aveva avuto mai le giuste opportunità, fu l’occasione per saper dimostrare il proprio valore. È lunga la lista delle firme che da quella esperienza sono approdati ai grandi media nazionali. Questo avvenne per aver trovato un editore che a quel tempo concesse la massima libertà alla propria redazione. Allo stesso modo come oggi vediamo in film come “The Post”. In quel periodo abbiamo orientato il dibattito pubblico e fatto aumentare gli indici di lettura e di vendita in Calabria attraendo un pubblico colto e di donne che prima s’informava in prevalenza su quotidiani nazionali. Fu determinante incontrare dei direttori autorevoli nel proprio ruolo come Pantaleone Sergi ed Ennio Simeone che ci diedero opportunità e rudimenti fondamentali nella crescita dei nostri ruoli. Non mancarono i valori. Lasciai il giornale a seguito di una proposta che coinvolgeva nella mia scelta i destini di una buona parte della redazione che mi spingeva a guidarla in una nuova testata editoriale.
Quindi fonda e dirige “Calabria Ora”, un’esperienza che durerà solo 13 mesi ma furono 13 mesi intensi. Che scoop ha realizzato?
Gli scoop non sono miei ma della mia redazione. Come in “Quarto potere” di Wells ho avuto l’opportunità di scegliere i migliori giornalisti disponibili in base al loro merito e alla loro “fame” professionale. A Calabria Ora si era tutti giornalisti-giornalisti. Come slogan di lancio del giornale coniai il motto: “Tutto quello che gli altri non scrivono”. Non era una volontà di superbia spocchiosa ma il voler attrarre il lettore su quello che la concorrenza non scriveva perché non ne aveva bisogno. Ci attraeva molto la sfida con le grandi firme delle testate nazionali. Dare un buco a Bolzoni o alla Sarzanini sul caso Fortugno per noi era molto importante. Aver pubblicato in esclusiva integrale la relazione secretata dello scioglimento dell’Asl di Locri ha consegnato l’autorevolezza alla testata che in molti avevano scrupolo a riconoscere. Aver scoperto che con una norma ad hoc si voleva oscurare la trasparenza del bollettino regionale delle leggi, ci ha messi, senza prevederlo, alla testa di un insolito movimento cui aderirono giuristi, associazioni e cittadini di ogni orientamento politico. Invece l’intervista in esclusiva al carabiniere catanzarese che aveva ucciso Carlo Giuliani al G8 di Genova, in cui si denunciavano responsabilità della catena di comando, è stata ripresa da tutti i media nazionali e da alcuni europei. Per un direttore di giornale sono sicuramente ottimi ricordi.
Ho letto che quella di “Calabria Ora” è stata un’esperienza che l’ha molto cambiata. Perché?
L’ho vissuta nel momento che si attraversa la linea d’ombra della maturità. Ci sarebbe stato bisogno di maggior esperienza e forza di carattere che non sempre ho controllato al meglio. Mi ha aiutato molto la passione giornalistica e il non dare troppo importanza al ruolo che rivestivo. Non svelo nessun mistero affermando che gli editori di quel giornale erano troppo presenti, se non alcune volte ingombranti, nella vita di quella testata. Posso dire di averci provato fin che è stato possibile. Provarci è stato giusto. In quelle stanze sono diventato adulto.
Oggi è direttore della Lucana Film Commission. Quando rientra in Calabria cosa prova?
Un grande senso di appartenenza alle mie radici e al mio essere. Tutto quello che sono, lo sono per averlo visto la prima volta in Calabria. Mitigo questo sradicamento dedicandomi a politiche di sviluppo e di vantaggio comuni a favore di due regioni che hanno molti territori e comuni denominatori più di quanto si creda.
Il vizio peggiore dei calabresi?
Il fatalistico senso di rassegnazione che fa troppo spesso pensare che nulla possa modificarsi prendendo il proprio destino in mano.
Il maggior pregio, invece?
A degno contraltare la testardaggine. Quell’ostinato perseguire, spesso in destinazione ostinata e contraria, l’obiettivo di raggiungere un risultato che si è prefisso.
Ha sempre visto il potere come la lebbra. Perché?
Era questa una mia certezza giovanile. Dice Turati che chi nasce incendiario muore pompiere. Forse non sarò abbastanza pompiere, in verità, per mia fortuna persistono alcune forme di incendio culturale. Ma di certo oggi penso che il potere va preso per essere esercitato nel modo migliore. Lasciarlo alla reazione e agli eterni Gattopardi è la certificazione di una lebbra che danneggia gli umiliati e offesi della nuova epoca.

Autore:
Maria Giovanna Cogliandro

Da - http://www.larivieraonline.com/quando-il-quotidiano-della-calabria-era-post
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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 27, 2018, 05:36:41 pm »

31 gennaio 2018

Paride Leporace

Ieri notte in Basilicata in tanti prima di addormentarsi, hanno rivolto un pensiero e un ricordo ad Antonio Infantino.  Lo sciamano di Tricarico, il figlio del professore, un centenario dotto che sembrava uscito dalle pagine di Garcia Marquez. Antonio aveva avuto in famiglia una sorella morta giovane, una zia missionaria in Africa, un nipote brillante giornalista.

Antonio inventore di tarantolati e narrazioni ineguagliabili, musicista invasato, poeta e beat beato, filosofo, architetto e intellettuale. Lucano per incidente della storia, ma più lucano di chi c’è nato in Basilicata. Cittadino del mondo, viaggiatore errante vissuto a Firenze. Antonio Infantino che cantava “Vengo da Gerusalemme” al ritmo di cupa cupa e chitarra con corde scomposte.

Da bambino Antonio aveva incrociato nel suo ricordo Rocco Scotellaro, il poeta dei contadini. A Tricarico terra di Carnevale apotropaico, di orti saraceni studiati da Pietro Laureano, di rabatana araba e arcobaleni improvvisi. Era cresciuta forte e robusta la pianta di uomo chiamata Antonio Infantino che ha finito di vivere l’altra notte a 74 anni.

Di se stesso aveva detto: “Antonio Infantino è uno che non sai mai da dove viene, non saprai mai dove va. Si muove come le nuvole” Difficile raccontare un’artista che è come una canzone di De Andrè. Provo a tracciare una vastità enorme di pensiero e azione umana che ha espresso la geometrica potenza del sapere coltivata con sregolata esistenza ma condita sempre da poesia.

Era architetto con una laurea a Firenze conseguita quasi trentenne con una tesi su “ spazio naturale, artificiale, a “n” dimensioni”. Ma prima c’era stata molta vita e tanta arte.

A vent’anni aveva frequentato il free jazz, la musica performativa con Sylvano Bussotti, qualcuno dei Fluxus cercando poesia visiva.

Un nomade del decennio della libertà. Gira il mondo. Si esibisce con la sua musica al Folkstudio di Roma ben prima di De Gregori. Spesso è a Milano al club “La nebbia”. E’ uno dei primi beat italiani. Cammina con una corona sulla testa e finisce una notte in cella. Non poteva che essere notato da Nanda Pivano. La signora che aveva fatto conoscere gli scrittori americani scopre un talento lucano che accompagna nel suo vivo percorso e dirà di lui: “Un personaggio che incarna in senso letterale alcune tra le cose migliori della cultura e dello spettacolo di questi ultimi trent’ anni”.

Antonio nel 1966 a Poltrona di Agliana tiene un reading con Allen Ginsberg, il più celebre poeta della Beat generation. Probabilmente per questo motivo la mitica City Lights Bookstore di San Francisco, forse la casa editrice alternativa più famosa al mondo, pubblica una sua raccolta di versi negli anni Novanta. Nei Sessanta invece l’aveva pubblicato Giangiacomo Feltrinelli su segnalazione della Pivano che si era premurata di scrivere la prefazione de “I denti cariati e la Patria”.

Poco dopo incontra artisticamente Dario Fo. Entra a pieno titolo e con gli onori del caso nello storico spettacolo “Ci ragiono e ci canto”. Fa coppia con Enzo Del Re, il pugliese che suona con la scopa e firmano “Avola” per ricordare l’uccisione di braccianti da parte della polizia di Restivo e “Povera gente”. Resterà amico di Dario Fo e Franca Rame frequentandone casa e condividendone umori e passioni. Anni dopo musicherà il loro Arlecchino per la Biennale di Venezia.

Il primo disco lo incide con degli orchestrali della Scala. Ha insegnato Arte dei giardini a Firenze, ha progettato urbanizzazioni e oggetti in mezzo mondo. Ha unito la taranta e la samba in Brasile, ha inevitabilmente incrociato il Living di Julian Beck e Judith Malina.

Di ritorno da un viaggio a Creta e in Medio Oriente inventa i Tarantolati di Tricarico. Una pietra miliare della musica popolare italiana, un’anticipazione della World Music. I brani e le intuizioni di quel periodo restano a futura memoria. Lo prova il fatto che con i 99 Posse reinterpreterà “Gatta Mammona” e i remix di musica rap sulle sue armonie che girano in Rete. Ma i tarantolati saranno anche sangue amaro per questioni legali e ingrata riconoscenza.

Antonio è stato al Premio Tenco, ha composto musiche e allestito regie teatrali in Belgio, ha esposto quadri al Parlamento europeo, ha ricevuto laurea honoris causa, ha meravigliato la Notte della Taranta, ha trionfato con le sue musiche nelle discoteche americane, ha chiuso un carnevale di Venezia incantando pubblico e critica. Quanta arte e vita per Antonio Infantino.

Io per fortuna mia, l’ho conosciuto Antonio. Vidi un suo concerto ad Aliano al Festival della Luna e i Calanchi e capiì che la Basilicata aveva il suo aedo. Che ritmo e che forza quello scatenato sciamano con la sciarpa sulla testa.  Un Compay Segundo con più sostanza. Ci rivedemmo a Rapone per premiare fiabe di magare e folletti. Spiegava la teoria di Pitagora applicata alla musica a me e a un giovane musico che non ne conosceva la storia. E anche quella volta sembravamo di stare in un libro di Garcia Marquez. Come quell’altra volta per le vie di Firenze, complice una manifestazioni di lucani, con Gaetano Russo e giovani cineasti a far comitiva come un’allegra brigata di Boccaccio. E lui teneva banco tra bar e piazze.

Mi sono dedicato a produrre opere cinematografiche che ne valorizzassero l’icona e la musica. Con l’amico Jo Capalbo fu scontato chiamarlo nel cast di “Lucania” che uscirà quest’anno. E con Luigi Cinque, musicista e regista che l’aveva fatto arrivare sul palco di Repubblica tv grazie a Gino Castaldo ed Ernesto Assante, abbiamo fatto nascere “A faboulous trickster,” un viaggio documentario in Basilicata che lo vede come Virgilio.

Ero in contatto con importanti festival che chiedevano l’esclusiva, cui avevo proposto da abbinare un suo concerto. Poi avremmo preparato una tournée. Le Parche hanno fatto lo sgambetto allo sciamano. Accade. Luigi Cinque in lacrime e sconvolto ieri mi ha dato la triste notizia.

Mentre chiudo questo pezzo mi scrive Giuseppe, tricaricese e amico di Antonio (“per me era il nonno che non ho avuto”) che mi dice: “volevo ringraziarla per quello che ha fatto come fondazione quando Antonio era in vita. Penso, e la penso con le parole del maestro, che la Lucana Film Commission sia stata tra le poche istituzioni a credere in lui. Grazie per quello che ha fatto. Ci mancherà per tutto”.

Nella giornata del suo funerale la municipalità di Tricarico ha decretato il lutto cittadino. Antonio Infantino riposerà nello stesso cimitero dove è sepolto Rocco Scotellaro. Gli sia lieve la terra della sua amata Lucania.

Da - http://www.parideleporace.it/?p=1036
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