Quando il Quotidiano della Calabria era "The Post"
Dom, 25/02/2018 - 16:40
Intervista a Paride Leporace
Ci sono persone che emanano libertà da ogni poro della pelle, così che tu possa coglierla e trattenere a piene mani. Io e Paride non ci siamo mai incontrati di persona ma la sua frizzante libertà l’ho vista su di me: pezzi di vita divenuti in un istante soffioni, energia, irregolare quanto perfetta.
Nelle sue precedenti vite è stato punk, ultrà, contestatore, sovvertitore. Oggi chi è Paride Leporace?
Un uomo che fa parte di un’istituzione meridionale e che cerca di dare un contributo alla crescita del bene pubblico. Tutte le categorie da lei richiamate, hanno alimentato, con il meglio che proviene dall’humus delle controculture che ho praticato, il mio agire. Non rinnego nulla del mio passato, anzi ne coltivo con sentire civile la memoria e la storia. Aver operato nella musica, nel calcio, nella politica dalla parte del torto che non guarda al guadagno personale ritengo sia stata per me una bella scuola di vita. Mi sono quasi sempre preoccupato di costruire comunità autogovernate.
Perché fa il giornalista?
Raccontare i fatti e le persone ha sempre segnato la mia vita fin da ragazzino. Alle scuole elementari mi feci regalare dai miei genitori una costosa, per l’epoca, valigetta del giornalista. Conteneva una macchina fotografica, un taccuino e una carta dell’Asia. Guardavo in televisione i servizi sul Vietnam e me ne andavo sulle rive del Crati immaginando di essere sul Mekong e riscrivevo nel mio linguaggio elementare le offensive dei vietkong. Fu quasi naturale nel collegio dove studiavo, dar vita assieme ai miei compagni e a un istitutore illuminato un “Giornale dei convittori” che fece subito presa nell’istituto. Qualche anno dopo un nuovo giornale si chiamava “Area creativa” a segnalare che i tumultuosi anni Settanta mi spingevano già da allora a sostenere un giornalismo militante. Il caso e il bisogno mi fecero entrare nelle tv private e da allora non ho mai smesso di praticare la professione. Al netto del tesserino professionale che mi è stato lungamente impedito perché estraneo al sottostare dei padrini calabresi dell’Ordine. Aver superato l’esame professionale con il massimo dei voti è stata una bella rivincita personale.
Le doti che si riconosce e che sono indispensabili per svolgere questa professione?
Dicono al Nord che chi si loda s’imbroda. Provo a riconoscermi delle qualità. La notizia sopra ogni cosa. Da giovane non esitai a portare al telegiornale una notizia giudiziaria che riguardava un mio zio medico, bravissima persona, che sarà assolto da ogni accusa. Ritengo, soprattutto da capo, di aver sempre saputo riconoscere le qualità del collega da valorizzare al massimo. Riconoscere le sue passioni personali per farle diventare qualità di racconto. Penso di essere stato attento a garantire accesso plurale a tutti. Non ho mai delimitato la spazio di un titolo in base al censo o al potere di chi lo chiedeva. Infine, ma non per ultimo, la responsabilità in alcuni casi, di saper dire: “abbiamo sbagliato”. Addirittura ne feci una rubrica fissa su un giornale. Chi sostiene l’infallibilità del giornalista e delle sue tesi inganna se stesso.
Sul finire degli anni ‘80 fonda Radio Ciroma, una radio che diventa uno stile di vita. Quali furono le tematiche affrontate in quegli anni?
È per me stata una fortuna, incontrare in quel periodo, un gruppo di compagni che avevano vissuto a vario livello le esperienze politiche degli anni Settanta e metterci a ragionare sul Tempo nuovo che si viveva. Che con noi ci fosse un pensatore come Franco Piperno fu un’occasione favorevole per esodare dal reducismo e dal luogo comune. La nostra riflessione su un nuovo meridionalismo e sul potere del municipalismo fu centrale nel seminare la ricerca di quello che eravamo diventati. Lo strumento di una radio senza padrone ha permesso un dialogo collettivo molto significativo. Essere ciromista, mi ha impedito di adoperare i media e la comunicazione come vuoto pneumatico. Posso dire con certezza che non abbiamo mai imposto il ciromismo come dogma. Ci siamo posti continuamente domande mettendoci sempre in discussione.
Ha lavorato per oltre 10 anni al Quotidiano della Calabria. Cosa ricorda di allora e perché ha smesso di collaborarvi?
Giorni lunghi come anni. Per una generazione di giornalisti che non aveva avuto mai le giuste opportunità, fu l’occasione per saper dimostrare il proprio valore. È lunga la lista delle firme che da quella esperienza sono approdati ai grandi media nazionali. Questo avvenne per aver trovato un editore che a quel tempo concesse la massima libertà alla propria redazione. Allo stesso modo come oggi vediamo in film come “The Post”. In quel periodo abbiamo orientato il dibattito pubblico e fatto aumentare gli indici di lettura e di vendita in Calabria attraendo un pubblico colto e di donne che prima s’informava in prevalenza su quotidiani nazionali. Fu determinante incontrare dei direttori autorevoli nel proprio ruolo come Pantaleone Sergi ed Ennio Simeone che ci diedero opportunità e rudimenti fondamentali nella crescita dei nostri ruoli. Non mancarono i valori. Lasciai il giornale a seguito di una proposta che coinvolgeva nella mia scelta i destini di una buona parte della redazione che mi spingeva a guidarla in una nuova testata editoriale.
Quindi fonda e dirige “Calabria Ora”, un’esperienza che durerà solo 13 mesi ma furono 13 mesi intensi. Che scoop ha realizzato?
Gli scoop non sono miei ma della mia redazione. Come in “Quarto potere” di Wells ho avuto l’opportunità di scegliere i migliori giornalisti disponibili in base al loro merito e alla loro “fame” professionale. A Calabria Ora si era tutti giornalisti-giornalisti. Come slogan di lancio del giornale coniai il motto: “Tutto quello che gli altri non scrivono”. Non era una volontà di superbia spocchiosa ma il voler attrarre il lettore su quello che la concorrenza non scriveva perché non ne aveva bisogno. Ci attraeva molto la sfida con le grandi firme delle testate nazionali. Dare un buco a Bolzoni o alla Sarzanini sul caso Fortugno per noi era molto importante. Aver pubblicato in esclusiva integrale la relazione secretata dello scioglimento dell’Asl di Locri ha consegnato l’autorevolezza alla testata che in molti avevano scrupolo a riconoscere. Aver scoperto che con una norma ad hoc si voleva oscurare la trasparenza del bollettino regionale delle leggi, ci ha messi, senza prevederlo, alla testa di un insolito movimento cui aderirono giuristi, associazioni e cittadini di ogni orientamento politico. Invece l’intervista in esclusiva al carabiniere catanzarese che aveva ucciso Carlo Giuliani al G8 di Genova, in cui si denunciavano responsabilità della catena di comando, è stata ripresa da tutti i media nazionali e da alcuni europei. Per un direttore di giornale sono sicuramente ottimi ricordi.
Ho letto che quella di “Calabria Ora” è stata un’esperienza che l’ha molto cambiata. Perché?
L’ho vissuta nel momento che si attraversa la linea d’ombra della maturità. Ci sarebbe stato bisogno di maggior esperienza e forza di carattere che non sempre ho controllato al meglio. Mi ha aiutato molto la passione giornalistica e il non dare troppo importanza al ruolo che rivestivo. Non svelo nessun mistero affermando che gli editori di quel giornale erano troppo presenti, se non alcune volte ingombranti, nella vita di quella testata. Posso dire di averci provato fin che è stato possibile. Provarci è stato giusto. In quelle stanze sono diventato adulto.
Oggi è direttore della Lucana Film Commission. Quando rientra in Calabria cosa prova?
Un grande senso di appartenenza alle mie radici e al mio essere. Tutto quello che sono, lo sono per averlo visto la prima volta in Calabria. Mitigo questo sradicamento dedicandomi a politiche di sviluppo e di vantaggio comuni a favore di due regioni che hanno molti territori e comuni denominatori più di quanto si creda.
Il vizio peggiore dei calabresi?
Il fatalistico senso di rassegnazione che fa troppo spesso pensare che nulla possa modificarsi prendendo il proprio destino in mano.
Il maggior pregio, invece?
A degno contraltare la testardaggine. Quell’ostinato perseguire, spesso in destinazione ostinata e contraria, l’obiettivo di raggiungere un risultato che si è prefisso.
Ha sempre visto il potere come la lebbra. Perché?
Era questa una mia certezza giovanile. Dice Turati che chi nasce incendiario muore pompiere. Forse non sarò abbastanza pompiere, in verità, per mia fortuna persistono alcune forme di incendio culturale. Ma di certo oggi penso che il potere va preso per essere esercitato nel modo migliore. Lasciarlo alla reazione e agli eterni Gattopardi è la certificazione di una lebbra che danneggia gli umiliati e offesi della nuova epoca.
Autore:
Maria Giovanna Cogliandro
Da -
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