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Autore Discussione: FLAVIO BINI. La fine della globalizzazione e il ritorno della storia E ALTRO!  (Letto 5632 volte)
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« inserito:: Febbraio 16, 2018, 12:43:18 pm »

Giovedì 15 febbraio 2018

 Frasi di Warren G. Bennis   

“I manager sono persone che fanno le cose nel modo giusto. I leader sono persone che fanno la cosa giusta.”

WARREN G. BENNIS
Da frasicelebri.it

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« Risposta #1 inserito:: Febbraio 16, 2018, 12:45:59 pm »

INNOVAZIONE E SOCIETA’

Il braccialetto di Amazon e il futuro di tutti noi
Non è escluso che andando a fare la spesa useremo un giorno la tecnologia che guida la mano del magazziniere, giustamente criticata in questi giorni

  Di Massimo Gaggi

Nel primo supermercato AmazonGo, aperto il 21 gennaio scorso a Seattle, il cliente entra identificato dal suo codice QR, prende quello che vuole ed esce senza passare dalla cassa: sensori e immagini registrano i prelievi dagli scaffali e l’addebito è automatico. Chi ha fatto la spesa lì sostiene di aver visto solo due dipendenti: uno dà il benvenuto all’ingresso, l’altro controlla i documenti di chi compra alcolici (vietati, negli Usa, ai minori di 21 anni).

Amazon che reinventa il negozio spaventa tutto il mondo della distribuzione. E c’è chi vede problemi di privacy e sfruttamento dei dati personali degli utenti, mentre altri temono la scomparsa di nuove categorie di lavoratori. Ma l’automazione ha anche i suoi vantaggi e, comunque, appare inarrestabile. I tecnici di Amazon hanno un solo cruccio, confessato al sito specializzato Geekwire: AmazonGo comporta «un lavoro computazionale intenso e costoso». La nuova tecnologia del braccialetto a ultrasuoni appena brevettato dalla società di Jeff Bezos, aggiungono, è più semplice e ha vantaggi rispetto a quella di computer vision appena introdotta a Seattle. Insomma non è escluso che la tecnologia del braccialetto che guida la mano del magazziniere — giustamente criticata nei giorni scorsi in Italia con parole di condanna severa venute persino del presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, e della presidente della Camera, Laura Boldrini — la useremo un giorno anche noi andando a fare la spesa. In modo più o meno consapevole, magari sedotti da una versione raffinata e trasformata in bracciale virtuale.

Giusto mettere sotto accusa una tecnologia che, se applicata, sarebbe in contrasto con le regole e la dignità del lavoro come l’abbiamo concepita finora in Italia. Ma forse, più che reagire in modo improvviso e accaldato quando viene approvato un brevetto (la tecnologia è stata presentata da Amazon nel 2006 e una discussione sulle sue implicazioni c’è già stata nell’autunno scorso, quando l’authority Usa ha avviato l’esame del caso) dovremmo occuparci un po’ di più, anche a livello politico, del vero problema sottostante: la tecnologia sta cambiando inesorabilmente il lavoro e in futuro, anche se la cosa non ci piace per niente, l’integrazione tra uomo e macchina sarà l’unica alternativa alla disoccupazione tecnologica di massa.

E’ quello che ci spiega ogni tecnottimista quando viene espresso il timore che il meccanismo di sviluppi degli ultimi secoli — nuove tecnologie che demolivano vecchi lavori ma ne creavano anche altri, a livello più elevato, in nuovi settori — si sia inceppato perché l’intelligenza artificiale, invadendo anche l’area cognitiva, imparerà a fare tutto o quasi. Invariabilmente la risposta è che l’uomo non verrà sostituito dalla macchina ma si integrerà con lei. Il problema è come: la gamma è infinita e va dalla risonanza magnetica che consente al medico di diagnosticare un male che altrimenti non avrebbe scoperto, al microchip impiantato nel cervello ipotizzato da Elon Musk per tenere testa a un’intelligenza artificiale che potrebbe tentare di prendere il sopravvento sull’uomo.

La battuta sul bracciale della leader della Cgil, Susanna Camusso («mettono anche la palla al piede?») è efficace, a patto che dietro non ci sia l’incapacità di confrontarsi con una realtà in continua evoluzione. I tecnici di Amazon difendono il braccialetto: il suo impiego ridurrebbe la fatica del lavoratore che, grazie al leggero impulso sul polso, non dovrebbe più scannerizzare gli oggetti né tenere gli occhi fissi sul computer. Probabilmente è la visione idilliaca di ingegneri relativamente poco preoccupati degli aspetti umani e psicologici del lavoro nei centri di smistamento di Amazon. Alcuni ex dipendenti di questi depositi in Gran Bretagna hanno raccontato al New York Times: «Dopo qualche anno lì ci sentivamo una versione dei robot coi quali lavoravamo».

Giusto, quindi, porci il problema dei limiti etici dell’automazione sia dal punto di vista della dignità della persona che da quello della tutela dei suoi dati. Evitando, però, di ragionare con schemi ormai superati: dobbiamo tenere testa a una tecnologia profondamente cambiata e che continua a evolvere a grande velocità. In passato negli uffici sono state combattute battaglie contro i tornelli che registrano elettronicamente ingressi e uscite. Nei giornali, quando arrivarono le prime banche dati, si chiese di bloccare la capacità del computer di elencare il numero di articoli pubblicati in un anno da un singolo redattore.

A ripensarci ora, sembrano storie dei tempi delle diligenze. Ma era solo ieri. E oggi non ce la dobbiamo vedere solo con telecamere e sensori di movimento già diffusi in molti uffici e con qualche azienda che propone ai suoi dipendenti l’applicazione di un chip sottocutaneo. E’ già al lavoro anche una nuova famiglia di aziende specializzate nell’uso dell’intelligenza artificiale per il controllo delle attività interne degli uffici. Come la britannica Status Today. Le cui innovazioni nella sorveglianza sono talmente sofisticate da aver attirato l’attenzione, e il sostegno, del GCHQ, la torre di controllo dei servizi segreti inglesi.

4 febbraio 2018 (modifica il 4 febbraio 2018 | 20:29)
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Da - http://www.corriere.it/opinioni/18_febbraio_05/braccialetto-amazon-aea32f78-09e0-11e8-a34a-fc54918998f4.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Febbraio 16, 2018, 12:49:04 pm »

L'economista King: "Bassa crescita e disuguaglianze: così la globalizzazione è entrata in crisi"
Consulente economico di Hsbc, Stephen D. King è autore di "Il nuovo mondo", saggio sul tramonto del mito dell'infallibilità dell'economia globalizzata.
Ma il futuro non è già scritto: "Non c'è solo la Cina, il rischio è un ritorno alle antiche rivalità regionali"

Di FLAVIO BINI
04 Febbraio 2018

L'economista Stephen D. King, autore di Il Mondo nuovo - La fine della globalizzazione e il ritorno della storia
MILANO – Forze populiste che esplodono incontrollate, organizzazioni sovranazionali abbandonate per via referendaria, la patria del neoliberismo mondiale che si riscopre inaspettatamente protezionista. Qualcosa nel mito inesorabile e infallibile della globalizzazione si è rotto, e un nuovo scenario va delineandosi. È questo "Il mondo nuovo" descritto da Stephen D. King, consulente economico di Hsbc nel suo libro, un saggio che ha già fatto molto parlare di sé all'estero e da poco arrivato anche in Italia edito da Franco Angeli.

Siamo sempre stati abituati a pensare alla globalizzazione come a un fenomeno irreversibile. Il suo libro suggerisce il contrario. Che cosa dobbiamo attenderci esattamente dal futuro: la fine della globalizzazione o la fine di “questa” globalizzazione?
"La storia del mondo lascia intendere che la globalizzazione possa avere alti e bassi. Certamente è facile sostenere che il testimone della globalizzazione stia semplicemente passando dagli Stati Uniti alla Cina, ma in realtà, non è così semplice".

Perché?
"L’Occidente è nei guai in parte perché negli anni passati a causa della frenata della crescita e dell’aumento delle disuguaglianze per molto cittadini si è rotta la luna di miele con la globalizzazione. Molti paesi dubitano comunque delle reali intenzioni della Cina e non si trovano a proprio agio con una leadership non occidentale e che non sia portatrice dei valori liberal democratici. In conclusione: potrebbe delinearsi una competizione per la leadership globale, ma è più facile che questo porti più che altro a rivalità a livello regionale".

La Cina è l'unico Paese che può prendere il testimone degli Usa come guida della globalizzazione?
"No, e lo vediamo ad esempio dal tentativo delle altre nazioni di andare avanti con il TPP.

Anche se è difficile escludere che la Cina sia la nuova superpotenza in grado di contendere agli Usa la leadership mondiale. La sua forza di gravità è forte e cresce anno dopo anno. Sta creando nuove istituzioni per difendere i propri interessi, come il Partenariato Economico Regionale Globale, la Banca asiatica di investimento per le infrastrutture o l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai.  È sempre più aggressiva nel Mar cinese meridionale e attraverso la strategie Belt and Road sta proponendo uno scenario di vantaggi economici sotto una leadership cinese. Stiamo andando verso un mondo in cui si fronteggiano diverse versioni della globalizzazione".

Un po’ a sorpresa, Davos ha riservato un’accoglienza positiva a Trump. Le elite si sono giù riconciliate con il presidente Usa?
"La partecipazione di Trump a Davos è stata in parte pensata per dimostrare che la politica “dell’America First” non era in nessun modo incompatibile con un’economia globale integrata. Come ha spiegato lo stesso presidente 'America First non significa America alone' (sola ndr). Non vede l’ora di sottolineare che se corre l’economia Usa è un bene per il mondo intero. Ma questo approccio ha alcune criticità".
 
Ad esempio?
Prima di tutto vuole impostare relazioni bilaterali con i Paesi sul commercio e sulle dispute legate alla proprietà intellettuale, minando così le istituzioni che governano le regole del gioco internazionali. Se anche tutti gli altri si comportassero così, queste stesse regole sarebbero presto rimpiazzate dal caos. Inoltre l'economia Usa è molto più piccola di un tempo, pensare di legare il destino delle economia mondiali a quella degli Usa potrebbe semplicemente portare gli altri Stati a formare i propri accordi interazionali senza gli Stati Uniti.

Il presidente Usa di recente ha introdotto dazi su alcune categorie di prodotti. Come pensa che potrà rispondere l'Europa a questa accelerazione protezionistica?
"Le regole contano. Uno dei maggiori successi dell’equilibrio del secondo dopoguerra è stato un sistema di regole condivise che ha portato i Paesi a convivere in pace. Il protezionismo rischia troppo spesso di portare a ritorsioni, in un gioco che non è a somma zero. Il tema non sono tanto i dazi americani, ma piuttosto quanto le istituzioni della globalizzazione siano perennemente messe in discussione dai sentimenti nazionali. Tutti i Paesi possono finirne vittima, con il rischio di una corsa verso il basso sul piano economico".
 
Il presidente della Bce Draghi ha messo in guardia sulle turbolenze legate all’andamento delle valute. Siamo alla vigilia di una nuova guerra valutaria?
"Non credo che le guerre valutarie siano mai finite. In un mondo in cui gli stimoli monetari funzionano spesso attraverso i tassi di cambio, è abbastanza ovvio che le banche centrali abbiano cercato di ottenere un vantaggio. C’è di buono che al momento l’economia mondiale attraversa una fase di crescita diffusa e questo in teoria dovrebbe ridurre la necessità di ricorrere a svalutazioni competitive. La storia però in questo caso ci torna utile"
 
Perché?
"Tutte le volte in cui gli Stati Uniti hanno abbandonato la retorica del dollaro forte  sono sempre state associate a sconvolgimenti finanziari: la fine dei tassi di Bretton Woods nei primi anni ’70 e il crollo della Borsa nel 1987".

Lei sostiene che le istituzioni sovranazionali stiano perdendo forza. Ma in Germania, Francia e molto probabilmente anche in Italia, solo forze chiaramente pro europeiste sembrano in grado di formare un governo. Paesi che ricevono un mandato elettorale forte ma diametralmente opposto, come la Grecia, poi finiscono comunque per dovere sottostare a regole sovranazionali. Se la globalizzazione è in crisi, la democrazia è in una crisi ancora più profonda?
"Non c’è dubbio che i Paesi europei dovrebbero sperare di non essere mai trattati come hanno trattato la Grecia. Ma questo ha a che fare con come storicamente la nazione creditrici trattano quelle debitrici. Le difficoltà di oggi penso abbiano a che fare con il fatto che non tutti i Paesi negli ultimi anni hanno sperimentato un netto miglioramento delle proprie condizioni di vita. Stiamo assistendo a un sempre più frequente scaricabarile nazionalista in cui si cerca di dare la colpa delle proprie difficoltà interna e influenze esterne. Potrebbe sembrare un segno di democrazia, ma di fatto minaccia di mettere in discussione un forte consenso globalista costruito dopo la seconda guerra mondiale".
 
Lei è molto critico nei confronti dell’euro nel suo libro. E l’euro sta diventando sempre di più un carburante che alimenta i populismi. Come pensa che debba essere riformato per restituire fiducia nel progetto europeo?
"È un tema da maneggiare con cura, non vorrei passare per il solito euroscettico anglosassone. Molte unioni monetarie hanno successo perché i cittadini dei vari Paesi riconoscono in qualche modo che sono politicamente ed economicamente dipendenti gli uni dagli altri".
 
Quindi cosa bisognerebbe fare?
"Primo, creare un ministero unico delle Finanze per l’Eurozona e un sistema fiscale federale. Secondo, creare un autorità di arbitrato per disciplinare le crisi legate alla bilancia dei pagamenti. Nel mio libro propongo di chiamarla Organizzazione Globale dei Flussi finanziari".

© Riproduzione riservata04 Febbraio 2018

Da - http://www.repubblica.it/economia/2018/02/04/news/stephen_king_intervista_globalizzazione-187656568/?ref=RHPPBT-VE-I0-C6-P11-S1.6-T1
« Ultima modifica: Febbraio 23, 2018, 02:19:53 pm da Arlecchino » Registrato
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