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Autore Discussione: Alfredo RECANATESI.  (Letto 23109 volte)
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« inserito:: Giugno 19, 2007, 06:10:54 pm »

Di padre in figlio

Alfredo Recanatesi


C’è un motivo per cui il problema delle pensioni è sempre sul tavolo della politica e non c'è riforma che ve lo possa definitivamente rimuovere. Il motivo è che la questione previdenziale sta su quel tavolo in quanto capitolo di spesa pubblica, un capitolo che richiama su di sé la massima attenzione sia perché sul bilancio dello Stato è dei più rilevanti, sia perché aumenta continuamente ed è certo che continuerà ad aumentare. Affrontandolo quasi esclusivamente sotto il profilo della finanza pubblica, ogni soluzione tra le tante che vengono continuamente suggerite a destra e a manca sarebbe valida se non comportasse inevitabili conseguenze economiche.

Conseguenze che accendono ogni volta la resistenza di determinate categorie e l'opposizione delle parti politiche che quelle categorie intendono rappresentare. Non è da escludere che ogni discussione acquisterebbe in chiarezza e trasparenza, e probabilmente consentirebbe scelte politiche più esplicite e condivise, se il tema fosse affrontato con un'altra logica secondo la quale l'onere di spesa pubblica, ed il relativo finanziamento, non sia più posto come un fine, ma un mezzo da commisurare in funzione dei benefici che si intendono ottenere. Una logica economica, insomma, non, o non soltanto, una logica finanziaria.

Seguendo questo diverso filo logico sarebbe conveniente muovere da un dato di fatto e da un punto di partenza. Il dato di fatto è che la popolazione italiana invecchia, ed anche molto rapidamente. Se il numero degli anziani, comunque li si definisca, aumenta in rapporto alla popolazione in età produttiva, che questi debbano sostenere un onere maggiore per il sostentamento di quelli è cosa matematica ed inevitabile. Riducendo la collettività ad un nucleo familiare, è evidente che il sostentamento di una coppia di genitori anziani graverà su ciascun figlio in ragione inversamente proporzionale al loro numero: se è un figlio unico dovrà provvedere da solo, se saranno due figli l'onere sarà dimezzato e così via. Questo avverrà comunque, perché, anche con un sistema previdenziale a totale capitalizzazione ed a regime, tutto quanto sarà consumato dalla popolazione anziana - alimentazione, cure mediche, vestiario, energia e quant'altro - dovrà essere prodotto e fornito dalla popolazione attiva. Si determina certo una sperequazione intergenerazionale, ma questa sta nella dinamica demografica, e non c'è ordinamento previdenziale che possa neutralizzarla.

Se questo è il dato di fatto, il punto di partenza è quale livello di vita si ritiene che la collettività debba assicurare a chi cessa l'attività lavorativa. Questa scelta determina il costo, in termini reali, che la collettività nel suo complesso dovrà sostenere per l'intero sistema previdenziale indipendentemente dalla sua ripartizione tra parte pubblica e parte privata ed indipendentemente da come l'una e l'altra saranno state finanziate: se un anziano che abbia cessato di produrre reddito col proprio lavoro acquisterà un paio di scarpe nuove, quelle scarpe dovranno essere state prodotte da chi è in età lavorativa, indipendentemente dalla forma finanziaria attraverso la quale questa cessione potrà avvenire.

Posto quel dato di fatto e definito il punto di partenza, tutto il resto è politica, ossia è quel complesso di norme attraverso le quali si determina il livello delle prestazioni previdenziali, la quota obbligatoria, la distribuzione di queste prestazioni, la parte di esse affidata al settore pubblico e quella lasciata al settore privato, il loro finanziamento, la normativa fiscale che favorisce o scoraggia le diverse alternative.

Ogni volta che, con grande travaglio, si ridiscutono riforme, verifiche, aggiornamenti, «manutenzioni» della normativa, in realtà non è in gioco il costo della previdenza, ma solo la quota di esso affidata al settore pubblico. Se questa quota viene ridotta - con l'innalzamento dell'età pensionabile o con una revisione dei coefficienti di calcolo dell'importo della pensione - delle due l'una: o si abbassa il livello di vita di chi andrà in pensione, oppure si sposta l'asse del sistema pensionistico verso il settore privato, il quale può essere costituito da capitale precedentemente risparmiato, da assicurazioni, da fondi pensioni - tutte alternative che implicano una riduzione del reddito disponibile nel corso della vita attiva - ma anche, molto spesso, dalla solidarietà familiare o parentale. Leggendo in questa chiave le misure di «manutenzione» che il governo sta delineando e che oggi inizierà a valutare insieme alle organizzazioni sindacali, si va delineando un arresto della precedente tendenza a ridurre il ruolo della previdenza pubblica e, forse, un suo recupero. Se, infatti, una quota delle risorse risultanti dalla eccedenza di gettito fiscale verrà impiegata per l'innalzamento di pensioni minime, quel che alla fine risulterà è un aumento delle prestazioni previdenziali finanziato consolidando una parte di quella eccedenza. A parità di condizione di vita, i pensionati avranno così meno bisogno di forme integrative, che in questa fascia di reddito sono costituite per lo più dal sostegno di figli e nipoti. Sembra, poi, che verrà decisa anche una qualche redistribuzione delle prestazioni a beneficio delle pensioni più basse a carico di quelle maggiormente privilegiate. La spalmatura del cosiddetto scalone è solo una diluizione nel tempo del brusco innalzamento dell'età pensionabile che, per far tornare i conti, là riforma Maroni stabilì, ma fissandone l'entrata in vigore in la nel tempo in modo che fosse qualcun altro a doverla gestire.

Basterà questo perché non si debba più mettere mano al sistema previdenziale? Molto probabilmente no: le proiezioni demografiche prospettano un onere crescente fino al punto che per ogni persona in età lavorativa ce ne sarà una in pensione. Non c'è forma finanziaria o diversa ripartizione tra previdenza pubblica e previdenza privata che possa modificare la prospettiva che l'intera popolazione debba mantenersi con il reddito prodotto da una sua metà. Le uniche e risolutive riforme da fare dovrebbero essere, di conseguenza, quelle per aumentare il rapporto tra lavoratori e pensionati, incominciando da ogni sostegno possibile che la collettività dovrebbe assicurare a chi genera figli, e per innalzare il rendimento del nostro sistema produttivo, incominciando da un sistema industriale fatto da imprese più strutturate per investire in ricerca ed innovazione. Ma di questo o si parla poco o non si parla affatto; appunto: come se il problema previdenziale avesse rilevanza solo per l'onere che comporta per la finanza pubblica.

Pubblicato il: 19.06.07
Modificato il: 19.06.07 alle ore 12.20   
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 26, 2007, 09:39:44 pm »

Uno stimolo per l’Economia

Alfredo Recanatesi


È facile collegare le iniziative concordate ieri dalla maggioranza con l’esigenza di una riscossa dopo la flessione di consensi registrata nelle ultime amministrative. Qualcuno certamente lo farà sostenendo un carattere populista di un insieme di misure che, invece, trovano sostegno nella politica per la quale l’attuale maggioranza vinse le politiche e nel consolidamento dei conti pubblici che, in virtù delle misure contenute nella Finanziaria di quest’anno e di una situazione economica sensibilmente più favorevole, ha generato le risorse necessarie per la realizzazione di quella politica.

L’obiettivo primario era e non poteva che essere una riduzione delle sperequazioni distributive che in tutto il mondo sono un portato dei processi di liberalizzazione e di globalizzazione, ma che le forze politiche progressiste non possono accettare come un semplice «mal comune». Anzi, proprio perché quelle sperequazioni nascono da processi ineluttabili, dall'asprezza del confronto competitivo su mercati grandi quanto il mondo, da standard internazionali sui quali gli stessi processi di integrazione si fondano, il ruolo della politica diventa più cruciale, perché solo attraverso la gestione della cosa pubblica possono essere corretti effetti e conseguenze su intere categorie di persone che la nostra cultura umanitaria e solidale respinge.

Gli interventi concordati ieri sono molto articolati, ma per quel che riguarda le politiche sociali, sono uniti dal denominatore comune del sostegno delle condizioni di vita più disagiate: i pensionati che percepiscono pensioni che non è improprio definire di fame e i giovani con un lavoro precario generalmente sottopagato, ma comunque, anche quando non lo è, penalizzante sia perché impedisce la programmazione della propria vita (e poi ci si lamenta che non si fanno figli e la popolazione invecchia) sia perché non consente la costituzione di una posizione previdenziale con la quale poter guardare serenamente agli anni della vecchiaia.

Ci saranno critiche per l'aumento della spesa pubblica. Il fuoco di sbarramento, del resto, era già partito con gli avvertimenti della Commissione di Bruxelles, i moniti dei banchieri centrali, gli auspici di larga parte della stampa nazionale: tutte fonti che non si misurano col consenso popolare e che spesso vedono le cose attraverso l'ottica distorta dell'interesse particolare. Valga, però, la considerazione che il sostegno ai redditi più bassi, quand'anche non trovasse giustificazione nelle ragioni dell'equità distributiva, ne trova nella politica economica.

La ripresa dell'economia italiana, per quanto apprezzabile, è ancora gracile, troppo dipendente dalla più tonica crescita dei nostri partner europei. Anche la competitività delle nostre imprese è problematica: al tempo della stagnazione si vedeva di più, ora è velata da un Pil che comunque cresce, ma il fatto che cresce meno che altrove è indice di una realtà nella quale il grosso delle produzioni italiane era e tuttora è una offerta di complemento, che entra in gioco solo quando l'offerta dei Paesi più competitivi trova difficoltà a soddisfare la domanda. La situazione sta migliorando, ma i tempi sono necessariamente lunghi ed, in termini relativi, non sono cambiati granchè da quando il declino era reso più evidente e comprensibile dalla stagnazione.

Ecco, allora, che una ripresa non effimera della domanda interna è di incentivo alle imprese per guardare con maggiore fiducia ad un futuro meno aleatorio come quello fatto dai picchi della domanda estera. Il potere d'acquisto dei redditi da lavoro è stagnante da anni e le imprese, gran parte delle quali sono ancora ferme alla competizione sui prezzi, non possono sostenere un costo del lavoro più elevato. L'unica possibilità perché la domanda di consumi possa stabilmente riprendersi, sta in un ruolo pubblico che, con la redistribuzione delle risorse, sostenga la capacità di spesa delle categorie che ne hanno maggiormente persa. Serve molto più una azione di questo genere che una riduzione del cuneo fiscale della quale nessuno, neanche la Confindustria, tiene più memoria.


Pubblicato il: 26.06.07
Modificato il: 26.06.07 alle ore 13.55  
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« Ultima modifica: Ottobre 09, 2011, 05:55:17 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #2 inserito:: Luglio 04, 2007, 07:44:58 pm »

Il tango delle pensioni

Alfredo Recanatesi


Sulle pensioni - si è detto - questa è la settimana cruciale. D’accordo: ma quanto cruciale? Occorre chiederselo perché di settimane cruciali ne sono già trascorse parecchie tra un’alternanza di aperture e chiusure, di prospettive di intese e successive rotture, tutte puntualmente seguite dalle cronache alle quali i mezzi di informazione sono tenuti, ma che appaiono sempre più monotone e ripetitive, consolidando l’impressione di una esasperante impasse sulle contrastanti posizioni di principio.

Intendiamoci: che si tratti di un tema complesso è fuori discussione dovendosi conciliare esigenze di equità sociale, per altro esplicitamente riconosciute anche nel programma dell’Unione, e una spesa previdenziale che, soprattutto per motivi demografici, è diventata una sorta di potenziale bomba ad orologeria che potrebbe deflagrare negli anni di un futuro anche lontano. Ma gli elementi della equazione che occorre far quadrare ci sono tutti; sono tanti e complessi, ma ci sono tutti.

Di conseguenza, è difficile non rimanere quanto meno sconcertati di fronte alla mutevolezza delle posizioni assunte dalle diverse parti in causa attorno al tavolo della trattativa in tutte le settimane cruciali che già sono trascorse, e di fronte alla distonia che su un argomento in agenda già da mesi si deve registrare tra i membri stessi del governo. Che il ministro del Lavoro formuli una proposta di intesa da sottoporre ai sindacati ed il ministro dell’Economia la bocci ritenendola rischiosa per le casse dello Stato fa parte del gioco delle parti che si stabilisce all’interno di ogni governo tra chi ha il compito di gestire le spese (e le relazioni con le organizzazioni rappresentative) e chi ha quello di reperire le entrate e far tornare i conti. Ma che questo gioco debba avvenire attraverso i mezzi di informazione non sta scritto in alcuna regola ne di democrazia sostanziale, ne di trasparenza; ed a ragione, perché così non si fa altro che trasformare, senza alcun costrutto, la fisiologica differenza tra i punti di vista interni al governo in un patologico scontro tra i componenti dello stesso governo.

Per stare all’ultimo episodio: prima di proporre ai sindacati, e pubblicizzare sui giornali, i 58 anni più incentivi per chi ritarda il pensionamento ed una verifica tra tre anni dei risultati ottenuti Damiano non poteva sentirsi con Padoa Schioppa ed eventualmente ricorrere a Prodi per individuare un punto di incontro da portare al tavolo della trattativa come proposta del governo?

Insomma, tra le tante esigenze contrastanti il governo formuli una sua proposta che abbia un consenso collegiale e dopo, solo dopo, la esponga al tavolo della trattativa e la renda di pubblico dominio.

Non come un diktat, beninteso, ma neppure come una iniziativa a titolo quasi personale soggetta a prese di distanze, distinguo o veri e propri sbarramenti; dissensi sui quali ogni parte in causa, politica o sindacale, ha l’opportunità di insinuarsi per coltivare il proprio specifico interesse, sia sostanziale che mediatico. In questo modo ci sarebbe, sì, una settimana cruciale per arrivare ad una conclusione, ma una.

Pubblicato il: 04.07.07
Modificato il: 04.07.07 alle ore 13.38  
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« Ultima modifica: Ottobre 09, 2011, 05:50:05 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #3 inserito:: Settembre 26, 2007, 10:41:19 pm »

Tv, culla dell’antipolitica

Alfredo Recanatesi


Intervenendo sulla partecipazione degli esponenti politici ai tanti salotti televisivi, quasi sempre frivoli anche quando non intendono esserlo, il Presidente Napolitano ha toccato un aspetto del più generale problema del rapporto tra politica e televisione. È lecito supporre che più in la non abbia ritenuto di andare per non dover esprimere giudizi sull’altro termine di quel rapporto, ossia la televisione o, più esattamente, l’informazione televisiva. E tuttavia, se non ci si ferma al presenzialismo dei politici, ma si pone mente alla questione nella sua interezza, allora occorre considerare che la politica è presente in televisione non solo e non tanto attraverso la partecipazione di leader alle trasmissioni del più diverso genere, ma in primo luogo nei servizi di informazione. Se si conviene che questo sia il terreno da osservare, balza subito in evidenza un corto circuito: la politica con le sue presente e le sue pressioni distorce e sottomette l’informazione televisiva, ma il risultato è che questa deforma e svilisce la funzione della politica.

È il corto circuito che, innescando il fuoco dell’antipolitica che ormai divampa in ogni angolo del Paese, ha avuto tanta parte nel logorare, fin quasi a recidere, il nesso che deve legare i cittadini - intesi questi come partecipi delle sorti della comunità nazionale alla quale appartengono - e la politica - intesa come ruolo che i loro rappresentanti eletti svolgono per la difesa dei loro comuni interessi, per la soluzione dei loro problemi, per la costruzione del futuro del Paese nel quale vivono loro e vivranno i loro figli -.

Stiamo parlando - è quasi superfluo ricordarlo - di un Paese che si distingue, tra le grandi democrazie industriali evolute, per l’esiguità della diffusione dei quotidiani di informazione. La maggior parte dei nostri concittadini non legge giornali ritenendo che la sua esigenza di informazione possa essere adeguatamente soddisfatta dalla quella televisiva ed, in primo luogo, dai telegiornali. Nei confronti della maggior parte degli italiani, dunque, questi svolgono pressoché in esclusiva il ruolo di presentare la politica, di descriverla, di fornire gli elementi di giudizio.

E allora, nel giorno che più piace a voi, prendete una qualsiasi edizione del telegiornale di una qualsiasi rete; immaginate di essere appena tornati dalla luna e provate a farvi una idea della vita politica del nostro Paese basandovi, per quanto possa riuscirvi, solo sulla informazione che riceverete. È una informazione che accenna (quando va bene) al tema politico del giorno per poi passare ad una giaculatoria delle relative posizioni dichiarate in merito, attraverso i diversi portavoce, da partiti e partitini. Data la natura del mezzo, ad ogni parte prevista dal copione non possono essere dedicati che pochi secondi che consentono nient’altro che puri e ripetitivi slogan gettati dentro il microfono senza alcuna mediazione giornalistica - è colpa loro, no è colpa loro, bisogna cacciarli, è il centro che vuole far fuori il governo, no è la sinistra radicale, sono attaccati alle poltrone, aumenteranno le tasse -. Spot che, al pari di quelli sugli yogurt o sui dentifrici, possono al più generare una emozione, non certo una opinione e, men che meno, una convinzione.

La conseguenza è che questi slogan nulla hanno a che fare con la realtà delle questioni, con la loro complessità, con la natura del confronto tra le parti politiche avverse, con le diverse opzioni che possono essere messe in campo. Come se non bastasse, queste rassegne di insulse e trite battute devono comprendere anche le esternazioni di leader o portavoce di partiti di modestissima dimensione e caratura - Rotondi della Dc per le autonomie, tanto per non fare nomi - del tutto ignorate dalla carta stampata perché non sono notizie alle quali la gente possa essere minimamente interessata, ma che si perpetuano in quanto quelle apodittiche quanto banali affermazioni quotidiane costituiscono l’unica testimonianza di esistenza in vita di quelle etichette partitiche.

Chi ha una età non più giovanissima sa che questo format dell’informazione politica televisiva viene dai tempi della prima repubblica e dai cosiddetti «pastoni», ossia resoconti nei quali, per una ipocrita presunzione di neutralità, ogni partito doveva figurare per dare un segno, se non del suo ruolo, almeno della sua espressione anagrafica. Ma parliamo di più di vent’anni fa, dei tempi della «democrazia bloccata», quando la mancanza (o l’impossibilità) di una alternanza condizionava tutta la vita politica e la sua percezione. Quel tipo di informazione, di conseguenza, era noiosa e, tutto sommato, inutile, ma non faceva grandi danni. Oggi, invece, ne fa e parecchi. Con l’alternanza, infatti, l’elettore si attende di essere maggiormente considerato perché è potenzialmente maggiore il peso del suo voto; con l’evoluzione e la frammentazione della società, ogni sua componente ambisce, e talvolta pretende, di riscontrare nel Parlamento una rappresentazione più tempestiva e puntuale dei suoi interessi e delle sue istanze; con il superamento delle ideologie, vero o presunto che sia, le valutazioni sull’operato della politica tendono a focalizzarsi sulla oggettività dei dati di fatto piuttosto che su una mera propaganda, per di più mal fatta.

Ma se, a fronte di questa evoluzione, della politica si offre una caricatura fatta di puerili battibecchi e di banali contestazioni di principio, in quanti la politica la conoscono e la seguono solo attraverso i telegiornali la delusione non può che essere cocente, la sensazione di impotenza non può che diffondersi, ed alla fine la reazione non può che essere populistica, il rifugio in chi non è capace, neppure lui, di offrire un più costruttivo contributo alla formazione di una cultura politica, ma almeno è divertente.

Ecco, quindi, il corto circuito: imponendo la subordinazione della informazione televisiva (e non parliamo delle trasmissioni «di approfondimento» nelle quali l’argomentazione è ritenuta noiosa e il battibecco da comari è, invece, apprezzato perché «fa spettacolo») la politica non ha distrutto solo la funzione giornalistica che il mezzo televisivo potenzialmente può svolgere, ma sta distruggendo anche e soprattutto il suo rapporto con i cittadini elettori, ossia il fondamento di ogni democrazia; sta distruggendo se stessa e, come ha detto Napolitano, la credibilità delle istituzioni. Perché la politica ha i suoi limiti, i suoi difetti, le sue carenze, le sue contraddizioni, tutto quello che volete voi: ma è e rimane una cosa seria; comunque, qualcosa di più e di meglio di quell’infantile ed irritante contrapposizione di frasi fatte con le quali i telegiornali quotidianamente ce la presentano. Altro che servizio pubblico!

Pubblicato il: 26.09.07
Modificato il: 26.09.07 alle ore 9.09   
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« Ultima modifica: Luglio 09, 2008, 11:39:15 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #4 inserito:: Settembre 29, 2007, 10:26:18 pm »

Un compromesso ma di qualità

Alfredo Recanatesi


Non è motivo di scandalo che la legge finanziaria per il prossimo anno sia risultata frutto di un compromesso più o meno faticosamente raggiunto. Ciò che soprattutto importa è la qualità del compromesso raggiunto dai due punti di vista dai quali può essere giudicata, quello politico e quello economico-finanziario.

Sotto l’aspetto politico, il compromesso merita una valutazione positiva costituendo un punto di equilibrio tra le due principali istanze che sono emerse all’interno della coalizione.

Quella che intendeva accordare la priorità al sostegno dello sviluppo e quella, invece, che intendeva accordarla ad una riduzione delle sperequazioni distributive che hanno penalizzato e continuano a penalizzare le categorie più deboli. La sua definizione è stata resa faticosa dalla assenza, insolita nella storia italiana, di emergenze finanziarie, dal buon andamento delle entrate e dagli effetti dell’aggiustamento realizzato con la legge finanziaria passata. Insomma, c’era un po’ di “grasso”, e la decisione politica di come impiegarlo è più difficile di quando emergenze finanziarie restringono il terreno delle opzioni o impongono addirittura scelte obbligate. Viene spontaneo, a questo punto, l’auspicio che l’intesa trovata a livello governativo venga fatta propria dai parlamentari della maggioranza e difesa con una coerente condotta lungo l’intero cammino che la proposta governativa deve percorrere prima di diventare legge. Un cammino lungo e tanto più insidioso in quanto incontrerà almeno due potenziali ostacoli: il referendum sul protocollo di luglio e la riforma della tassazione delle rendite finanziarie, che non è entrata nella finanziaria, ma è oggetto di un formale impegno del premier a porla all'ordine del giorno entro breve tempo.

Più cauto deve essere il giudizio sotto il profilo economico-finanziario. Condivisibile è la scelta di non spingere sulla compressione del disavanzo. Assicurata la prosecuzione del cammino verso il riequilibrio dei conti e la riduzione dello stock di debito, una accelerazione in questa direzione non solo sarebbe stata politicamente insostenibile, ma anche troppo restrittiva di una domanda interna che continua ad offrire scarso supporto ad ogni previsione di crescita. La riduzione dell’Ici e le molte altre agevolazioni disposte non rispondono solo a ragioni di equità distributiva, ma anche di supporto ad una domanda interna senza la quale la ripresa è destinata a rimanere debole e precaria.

Non altrettanto si può dire della decisione di impiegare una cospicua parte delle risorse disponibili per ridurre la pressione fiscale sulle imprese. Il recupero di consensi nelle regioni settentrionali ha giocato una parte evidentemente determinante a favore di una misura la cui efficacia ai fini della competitività e della crescita rimane tutta da dimostrare. Che il sistema produttivo sia oberato da pesanti prelievi è nell’evidenza delle cose, ma che questa sia la causa di una sua debole competitività è quanto meno opinabile. Nel loro insieme, infatti, le produzioni italiane soffrono la concorrenza per difetto di innovazione, di specializzazione, di esclusività, non per eccesso di costi e di tassazione. Lo dimostra il fatto che, pur con tutti i limiti e le negatività che le organizzazioni imprenditoriali lamentano, i profitti mantengono un robusto trend di crescita; e lo dimostra il fatto che non mancano aziende che, investendo ed innovando, riscuotono un meritato successo nel mondo. Sono abbastanza perché non le si possa considerare come eccezioni, ma purtroppo sono poche per risolvere l’incapacità di tenere il passo degli altri Paesi europei. Così stando le cose, è quanto meno dubbio che un alleggerimento fiscale possa tradursi in un rilancio di investimenti nell’unica direzione che nel mondo globalizzato un Paese come l’Italia può prendere e che è già tracciata dalle imprese più dinamiche, ossia quella della innovazione dei prodotti, dunque della ricerca, dunque ancora della evoluzione verso dimensioni più consistenti e strutturate, e meno asservite alle esigenze delle famiglie proprietarie. Che una riduzione di imposte così generalizzata ed incondizionata possa generare effetti strutturali di questo tipo è dunque auspicabile, ma improbabile.

Ma la politica - lo sappiamo - è l’arte del possibile, e nella realtà politica di oggi il sentiero delle opzioni praticabili è ristretto da una infinità di esigenze politiche, finanziarie, economiche. Chiunque potrà dire la sua, e la dirà, su cosa si sarebbe potuto fare meglio, su come sarebbe stato preferibile impiegare questi soldi, su dove andare a risparmiare, su cos'altro tagliare: figurarsi, non c'è esercizio più facile. Ma in queste circostanze, con un calo di consensi da recuperare, con l’ondata di una antipolitica populista e demagogica da arginare, con la pressione incalzante delle categorie, è difficile, davvero difficile, immaginare che potesse venir fuori qualcosa di tanto diverso.

Pubblicato il: 29.09.07
Modificato il: 29.09.07 alle ore 8.54   
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« Risposta #5 inserito:: Ottobre 27, 2007, 11:17:24 pm »

Il Governatore ha scoperto i salari

Alfredo Recanatesi


Con una dovizia di dati che solo la Banca d’Italia è in grado di produrre, il Governatore ha posto la questione salariale al centro dell’incapacità di crescere che l’economia italiana dimostra ormai da anni.

Non siamo certo tra coloro che se ne stupiscono: da tempo andiamo sostenendo che la crescita di questi ultimi due anni è solo un riflesso della ripresa dell’economia europea; un riflesso, per altro, opaco perché innescato dalla domanda estera e da questa rimasto dipendente, senza un adeguato sostegno della domanda interna che consenta di farvi affidamento una volta che il traino delle esportazioni per qualche motivo dovesse affievolirsi. Ma l’analisi del Governatore va oltre, e ci dice che in questi ultimi anni i redditi da lavoro (in termini di potere d’acquisto, s’intende) sono rimasti stazionari, e se i consumi hanno potuto ugualmente progredire è stato per due sostanziali fattori, entrambi contingenti: l’aumento delle rendite finanziarie (soprattutto le azioni), e l’aumento di valore degli immobili. Sono questi i fattori che hanno salvato l’economia italiana da un persistente ristagno. E, se questi sono i fattori trainanti, si può capire con quale grado di equità si è registrato il pur contenuto aumento dei consumi.

Insomma, un quadro che definire desolante è poco.

Porre l’entità dei salari al centro dei problemi di crescita della nostra economia è già un punto di arrivo; ce n’è voluto, ma ora che il Governatore vi ha posto il sigillo della Banca d’Italia sarà difficile per chiunque percorrere strade analitiche diverse. Ora si apre il dibattito sul come se ne può uscire. E a questo punto anche Draghi diventa generico mostrando fatica ad uscire da tesi che saranno pure fair secondo la cultura, il modo di pensare, ed anche gli interessi, dell’establishment al quale si riferisce, ma che ciò nondimeno rimangono assai poco convincenti. Prendersela con la politica è un po’ come sparare al canarino in gabbia. La politica, del resto, non è il consiglio di amministrazione di una impresa; deve provvedere ad una infinità di esigenze che rendono arduo per tutti contenere la spesaed indirizzarla maggiormente agli investimenti; non ultima l’esigenza di destinare risorse per contenere quelle distorsioni distributive che Draghi non cita esplicitamente, ma che emergono con chiarezza dalla analisi che lui fa di questa ultima decina d’anni.

L’istruzione? Certo che va riformata, ma, se c’è un problema di fuga dei cervelli e se tanti italiani si distinguono nel progresso scientifico e tecnologico in altre parti del mondo, forse è più urgente affrontare il problema del loro utilizzo in Patria. Si va in pensione troppo presto? È vero, ma è anche vero che il sistema produttivo non sembra offrire tante opportunità a chi ha superato i cinquant’anni.

Ogni capoverso del suo intervento meriterebbe chiose ed approfondimenti, ma ora, dopo una prima lettura, è più opportuno accennare al capoverso che non c’è: un capoverso, anche uno solo, sulle imprese. Quando si parla di salari, di produttività, di prodotto c’entreranno pur qualcosa. E invece nel suo intervento non sono neppure citate, come se la loro efficienza, le loro strategie, le loro capacità di iniziativa, fossero fattori estranei al tema «Consumo e crescita» sul quale ha tenuto la sua lectio magistralis all’Università di Torino.

Forse non è fair come prendersela con la politica, o con l’età pensionabile, o con la demografia, ma i dati che ha citato dicono ugualmente che la questione sta nella capacità di produrre reddito, e che questa dipende dalla produttività dei fattori della produzione, ossia il capitale e il lavoro. Sta, dunque, nelle imprese. E non è un caso che il problema della crescita e della stagnazione dei salari sia emerso grossomodo in seguito alla stabilizzazione del cambio e l’adozione dell’euro perché quella svolta avrebbe dovuto indurre il sistema produttivo al radicale cambio di passo dalla competitività di prezzo a quella sulla innovazione e sulla qualità; dalla piccola dimensione manovriera e flessibile ad una dimensione più consistente in grado di perseguire strategie di più ampio respiro; da produzioni a scarsa intensità di capitale ad altre con maggiori contenuti di specializzazione.

Occorre sempre ricordare che una parte delle imprese questa mutazione l’ha affrontata e spesso con successo, acquisendo il merito non solo di essersi messa in condizione di generare un valore aggiunto più elevato, premessa per un innalzamento del reddito pro capite, ma anche e soprattutto di dimostrare che il successo può anche essere conseguito nell’Italia che c’è senza aspettare quella che vorremmo; di dimostrare, anzi, che l’Italia che vorremmo sarebbe più a portata di mano se quelle imprese costituissero una parte più significativa dell’intero sistema.

Riferendosi all’intera economia, invece, Draghi ricorda che in corrispondenza dell’aumento dell’occupazione la produttività è diminuita, così certificando che la flessibilità è stata usata per ridurre i costi, per resistere un altro po’ alla concorrenza dei Paesi dell’Est, non per cogliere chissà quali nuove opportunità il mondo globalizzato può offrire. Che la chiave di tutto sia nella dinamica della produttività lo sappiamo tutti, ma sappiamo anche che non può crescere fino a quando a tanti laureati non viene offerto che un call-center, fino a quando tanti ricercatori rimangono precari e sottopagati nelle università, fino a quando un giovane che vuol farsi valere (e che ha una famiglia che se lo può permettere) va a lavorare in qualche altro Paese. Per poi, magari, vincere un Nobel.

Pubblicato il: 27.10.07
Modificato il: 27.10.07 alle ore 9.47   
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« Risposta #6 inserito:: Novembre 27, 2007, 05:38:00 pm »

Telecom, l’ultima partita

Alfredo Recanatesi


Si può ben capire come la borsa abbia accolto positivamente la nomina di Galateri e di Bernabè rispettivamente alla presidenza ed alla guida operativa della Telecom. Il titolo aveva cominciato ad apprezzarsi fin dalle prime voci dei giorni scorsi seguite ieri dalla conferma ufficiale. La grande azienda telefonica, infatti, trova finalmente un assetto credibile. Per la prima volta dopo la sua privatizzazione - la più disgraziata e contorta delle privatizzazioni - ha una proprietà con un nucleo sufficientemente forte.
Un nucleo del quale fa parte un grosso partner industriale come la compagnia telefonica spagnola, ed un management distinto da essa.

Quando lo Stato decise di cederla, la Telecom era un fior d’azienda all’avanguardia nelle tecnologie del tempo - la Tim era considerata un gioiello in tutto il mondo - con uno stato patrimoniale solido e la capacità di affrontare l’incalzante divenire che andava trasformando tutto il settore delle telecomunicazioni. Ciò nondimeno, l’offerta pubblica cadde in un vuoto imprenditoriale pressoché assoluto: per costituire un nucleo che rappresentasse una proprietà per il resto dispersa (il sogno utopistico era quello di una public company, ossia una azienda con una proprietà diffusa tra centinaia di migliaia di risparmiatori, e magari di risparmiatori-clienti) il privatizzatore del tempo, quel Mario Draghi oggi Governatore della Banca d’Italia, dovette penare non poco. Riuscì a fare sostanzialmente una colletta, mettendo insieme quello che poi sarebbe stato chiamato il «nocciolino» all’interno del quale la quota maggiore fu quella degli Agnelli i quali, evidentemente più per cortesia che per convinzione, sottoscrissero nientemeno che lo 0,6% del capitale. La Telecom fu comunque privatizzata perché lo Stato doveva far cassa per sistemare i suoi conti in vista della partecipazione all’unione monetaria europea, ma il suo assetto era quanto di più precario si potesse immaginare.

Ed infatti, fatta la cortesia, tutti pensarono ai propri affari, e non ci pensarono due volte quando Colaninno ed alcuni suoi facoltosi amici bresciani misero sul piatto un bel po’ di soldi per rilevare il controllo della Telecom. Colaninno è un bravo imprenditore (lo sta dimostrando in questi anni con la Piaggio) ma dovette fare molti debiti che poi trasferì in capo alla Telecom. Gli andò comunque bene perché poi, all’apice dell’infatuazione per la new-economy, trovò un Tronchetti Provera disposto a strapagargli il controllo della società telefonica. Ma per strapagarglielo, dovette fare altri debiti che aggiunse a quelli già caricati sulla schiena della Telecom. Tronchetti non solo ha caricato la società di ulteriori debiti, ma vi ha incamerato la Tim, ossia la gallina dalle uova d’oro del gruppo, e l’ha impoverita vendendone pezzi del patrimonio, a cominciare dagli immobili. Tronchetti, e le sue società della catena di controllo, si sono rifatti con le stock option, le plusvalenze sulle vendite e dividendi più lauti di quelli che una gestione più lungimirante della società avrebbe potuto consigliare.

Ma, dopo tutte queste vicende, si può facilmente capire che la Telecom non è più quella di una volta; anzi, è una delle non poche aziende italiane che hanno disperso il retaggio di un grande passato: oltre al peso dei debiti, oggi registra un ritardo negli investimenti, un prestigio logorato, un patrimonio tecnologico non certo all’avanguardia. Non sono cose da poco in un settore sotto il tiro di tecnologie sempre nuove - si pensi a Skype, tanto per dire di qualcosa che molti già conoscono ed usano - e quando è alle porte lo scorporo della rete telefonica che Telecom finora ha cercato di usare soprattutto per rendere la vita difficile ai concorrenti.

Ora - meglio tardi che mai - si volta pagina e comincia un capitolo nuovo. Con il nuovo assetto Telecom risolve in primo luogo la commistione tra proprietà e management mettendo fine al tempo dei "padroni" impegnati nell’anteporre il proprio interesse a quello della società. Con le scelte formalizzate ieri, inoltre, proprietà e management sono quanto di meglio oggi in Italia si può trovare. Anche se gli spagnoli sono gente che non manca mai di esercitare tutto il peso possibile, Galateri è indubbiamente una persona in grado di garantire, e disciplinare se dovesse occorrere, il ruolo degli azionisti di comando. Dal canto suo, Bernabè è persona che non deve certo dimostrare né le capacità manageriali (risanò l’Eni dopo i disastri della politica, della chimica e delle tangenti), né la conoscenza del settore (non solo perché fu capo azienda della stessa Telecom negli anni ormai lontani del «nocciolino», ma perché nelle telecomunicazioni è rimasto sia avendo avuto una parte nella fondazione di Andana, poi diventata la 3 ora controllata dai cinesi, sia con sue proprie aziende piccole, ma molto evolute), né deve dimostrare, infine, la conoscenza di questo mondo e di quanti in questo mondo contano.

La Telecom è un patrimonio di conoscenza, di professionalità, di capacità tecnologiche acciaccato e deperito, ma se c’è una possibilità di risanarlo e di rinverdirne i successi è quella che ieri è stata definita con la nomina dei nuovi vertici. Altre carte da giocare non ce ne sono e, probabilmente, non ce ne saranno se anche questa dovesse malauguratamente fallire.

Pubblicato il: 27.11.07
Modificato il: 27.11.07 alle ore 8.20   
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« Risposta #7 inserito:: Dicembre 05, 2007, 11:04:02 pm »

Montezemolo spara nel mucchio

Alfredo Recanatesi


Sparare sullo Stato e sugli statali è facile come sparare sulla Croce Rossa. Però è più redditizio perché si vince sempre il consenso di chi ama farsi lisciare nel verso del pelo di uno dei più triti luoghi comuni. E tuttavia nella sostanza le bordate si risolvono sempre in una operazione a somma negativa. Per un verso, infatti, generiche e sparate nel mucchio come sono, non si vede cosa di buono possano generare.

Per altro verso, accrescono la desolazione e lo sconforto di quanti lavorano nella pubblica amministrazione con impegno, fornendo ad un tempo un alibi a quanti sono ben felici di avere argomenti per dimostrare alla propria coscienza che impegnarsi sarebbe del tutto inutile sia per se che per gli altri.

Non ha fatto eccezione il presidente della Confindustria. In un intervento all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università confindustriale, ieri ha dipinto la burocrazia pubblica solo ed esclusivamente come una palla al piede del Paese, la sentina di ogni inefficienza, una tara di miliardi di euro che l’economia è condannata a portarsi appresso nel suo sforzo di produrre ricchezza, progresso, benessere. A parte le enfasi, gli accenti e un evidente eccesso di manicheismo, in quanto ha detto la notizia non c’è: sappiamo tutti che l'efficienza di una larga parte delle amministrazioni pubbliche è uno dei problemi cruciali, ma dirlo duemila volte non rappresenta un passo avanti rispetto al dirlo solo mille volte.

Il passo avanti potrebbe compiersi solo se si cominciasse a parlare del perché le cose stanno così, anzi dei tanti perché fino ad individuare quello dal quale, a cascata, derivano tutti gli altri. Ma questo è scomodo e genera risentimenti ed inimicizie. Quindi ancora una volta Montezemolo si è limitato a sparare nel mucchio, non sulla organizzazione della amministrazione, ma sugli statali. L'assenteismo, sul quale ha incentrato il suo intervento con tanto di dati ad effetto, è un indicatore, non una causa. Un impiegato presente, ma che non fa niente o che, più spesso, è messo a svolgere inutili mansioni è fonte di improduttività ancora più onerosa di un impiegato assente, se non altro perché nella maggior parte dei casi le assenze - questo Montezemolo sembra ignorarlo - sono punite con una trattenuta sullo stipendio. Così come è fonte di improduttività quell'egualitarismo che non viene applicato solo sulle retribuzioni e persino, paradossalmente, sui premi di produttività, ma anche sugli scatti di carriera che, nelle classi impiegatizie più basse fino alla magistratura, sono determinati essenzialmente dalla anzianità di servizio. È responsabilità del dipendente se il tempo che passa è più importante dell’impegno sul lavoro o sugli indici di presenza?

Il merito, dice Montezemolo. Certo, il merito. Ma il merito implica selezione, la selezione postula la responsabilità di selezionare, e questa responsabilità, come tutte del resto, può essere attribuita solo insieme ad un incentivo che induca a conferirgli una valenza funzionale. E invece, sia la storia (i decenni del dopoguerra durante i quali il posto pubblico, ancorché sottopagato, era in primo luogo una forma assistenziale) sia la politica (gli anni della democrazia bloccata durante i quali le varie forme di quell’unica maggioranza che governò l’Italia non potevano permettersi di rischiare il consenso dei milioni di dipendenti pubblici) hanno determinato un ordinamento che, nello spirito ancor più che nella lettera, non solo non favorisce alcunché che sappia di meritocrazia, ma la avversa, addirittura emarginando chi ne tentasse una qualche applicazione. È un ordinamento il cui nocciolo duro resiste tuttora ai pur numerosi tentativi esperiti negli anni per riformarlo proprio perché nessuno di questi si è assunto la responsabilità di incentrare l’organizzazione funzionale delle amministrazioni pubbliche su una gerarchia di responsabilità, assumendosi al tempo stesso la responsabilità di valutarla e, quando ritenuto necessario, di intervenire per modificarla.

Come l’influenza non è colpa del termometro, così l'inefficienza delle amministrazioni pubbliche non è colpa degli assenteisti di Montezemolo o dei fannulloni di Ichino e della sua scuola. Prendersela con loro è una operazione qualunquista sia perché è generica coinvolgendo anche le amministrazioni che funzionano - ce ne sono, ce ne sono - sia perché istillano una sensazione di inutilità e di impotenza in quanti - e ce ne sono - si impegnano, ci credono, e vorrebbero poter essere orgogliosi di servire lo Stato.

Il Presidente della Confindustria dovrebbe essere parecchio impegnato nella analisi delle debolezze del nostro sistema produttivo e nella individuazione dei rimedi verso i quali sollecitare l’intero mondo imprenditoriale. Ma, semmai gli rimanesse del tempo, così come quando parla di industria ama, e giustamente, citare quelle che hanno maggiore successo tacendo regolarmente quelle che, invece, sono rimaste a vedersela con i cinesi o con i romeni, faccia altrettanto con le amministrazioni pubbliche, parlando di quelle che, malgrado tutto, sono efficienti per additarle, esplicitamente questa volta, a quelle che efficienti non sono. Quelle efficienti sono poche, lo sappiamo, ma sono poche anche le imprese che, anziché lamentarsi ed aspettare che altri si diano carico dei loro problemi, si sono impegnate per farsi valere nel mondo e ci riescono.

Pubblicato il: 05.12.07
Modificato il: 05.12.07 alle ore 8.08   
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« Risposta #8 inserito:: Dicembre 20, 2007, 10:12:56 pm »

Spagna-Italia: ma il sorpasso non c’è stato

Alfredo Recanatesi


Uno dice che nel reddito pro capite la Spagna ci ha sorpassato e tutti dietro a stracciarsi le vesti, a spiegare i perché ed i percome, a pubblicare pagine di giornali sulla rutilante crescita dei nostri cugini iberici a fronte del nostro ineluttabile e triste declino. Nessuno che abbia fatto mente locale, che abbia preso un po’ di dati e verificato quanto si andava dicendo. Se lo avesse fatto si sarebbe reso facilmente conto che non è vero, che non c’è stato nessun sorpasso, che malgrado tutto - la minore quota di popolazione attiva, l’inefficienza della amministrazione, il debito pubblico, l’economia in nero e tutto il resto che sappiamo - il reddito pro capite italiano è ancora superiore, e neppure di poco, a quello spagnolo.

Intendiamoci, con questo non si vuol negare che, nel confronto con i Paesi economicamente più evoluti, la Spagna sia in ascesa e l’Italia in discesa; che, di conseguenza, gli spagnoli guardano al futuro con fiducia e speranza, mentre noi italiani lo temiamo e tendiamo a rinserrarci nel tentativo di rallentarne gli effetti. Insomma, abbiamo i nostri bravi problemi e ne abbiamo spesso parlato, ma questa non è una ragione per dipingere la realtà peggiore di quello che è. E la realtà è - secondo dati Eurostat che chiunque può facilmente controllare sul sito internet dell’Istituto europeo - che il reddito pro capite è risultato nel 2006 di 25100 euro in Italia e di 22300 euro in Spagna. Dite voi se si può sostenere (molti lo hanno fatto su giornali e telegiornali) che il secondo sia superiore al primo. Ad abundantiam, possiamo aggiungere che secondo dati del Fondo monetario (calcolati con metodi leggermente diversi) il pil pro-capite italiano è stato di 31791 dollari, quello spagnolo di 27767.

L’equivoco del sorpasso è nato sulla sbrigativa interpretazione di una statistica dell’Eurostat che ha calcolato la posizione di ogni Paese rispetto alla media dei 27 Paesi dell’Unione europea per gli anni 2004, 2005, 2006 in termini di Pil pro-capite corretto con il livello dei prezzi: come dire una statistica del potere d’acquisto per abitante nel proprio Paese. Secondo la teoria, una siffatta statistica dovrebbe essere maggiormente significativa del benessere materiale della popolazione, ma nella prassi subentrano tanti altri fattori che frenano una tale interpretazione: basti considerare le profonde differenze che si registrano nella distribuzione del reddito nei diversi Paesi per rendersi conto dell’azzardo che si correrebbe nel trarre da dati come questi classifiche sul benessere.

Comunque, in questa classifica la Spagna è andata avanti (101, 103, 105 nei tre anni considerati) mentre l’Italia è andata indietro (107, 105, 103). Che significa? Significa, certo, che l’economia italiana è cresciuta meno, e questo lo sapevamo. Ma significa soprattutto altre due cose. La prima è che in Spagna i prezzi sono più bassi, per cui gli euro nei quali il Pil pro capite è espresso valgono di più che in Italia. La seconda è che la media del pil pro capite della UE27 cresce più velocemente di quanto possono crescere i Pil pro capite dei Paesi più evoluti. La media, infatti, risente del maggiore ritmo di crescita che i Paesi di più recente integrazione (in sostanza i Paesi dell’est Europa) possono realizzare rispetto ai Paesi dell’Europa occidentale i quali, proprio a motivo del loro maggior grado di sviluppo, crescono a ritmi più moderati. La Spagna, che non è certo paragonabile ai Paesi dell’est, ma non è neppure (ancora) paragonabile a quelli del centro Europa, è in una posizione intermedia che concorre a consentirgli un progresso più rapido. La conseguenza è che la Spagna, in questa particolare ed anche un po’ bislacca classifica, guadagna posizioni, mentre l’Italia ne perde. Ma, a conferma di questa pur sommaria analisi, perdono posizioni anche Paesi ben più blasonati come la Germania (117, 115, 114 sempre nei tre anni), l’Inghilterra (122, 120, 118) e persino l’area euro nel suo complesso (111, 111, 110). In definitiva, in questa classifica l’Italia ha perso quattro punti come l’Inghilterra, tre ne ha persi la Germania ed uno l’intera area euro.

Concludendo: non c’è stato alcun sorpasso poiché il pil pro capite italiano è ancora del 12,6% più elevato di quello spagnolo; quello spagnolo, pur essendo minore, esprime un potere d’acquisto maggiore in quanto in Spagna il livello dei prezzi è più basso. C’è - e lo sapevamo anche prima - un divario nel ritmo di crescita dei due Paesi che prospetta un sorpasso, ma non prima di sette-otto anni. Se la Spagna può costituire un riferimento valido, e certamente può costituirlo dati i molti aspetti di vicinanza e di similitudine tra i due Paesi, c’è tutto il tempo per evitare quel sorpasso o almeno per ritardarlo quanto più possibile. Un tempo che potrà essere impiegato tanto più proficuamente quanto più corrette ed oggettive saranno le analisi sulla realtà dell’economia e sulla effettiva natura dei suoi problemi.

Pubblicato il: 20.12.07
Modificato il: 20.12.07 alle ore 8.22   
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« Risposta #9 inserito:: Dicembre 22, 2007, 11:33:33 pm »

Se nasce AliFrance

Alfredo Recanatesi


Era quanto meno probabile, se non proprio scontato, che il consiglio di amministrazione di Alitalia individuasse nel gruppo Air France-Klm quello nel quale il futuro della compagnia potesse trovare le più affidabili prospettive di ripresa e di affermazione. Il cuore, certo, inclinava verso una soluzione nazionale, posto che la preservazione dell’italianità della compagnia di bandiera poggia su argomenti che vanno ben al di là dei tratti caricaturali e antistorici con i quali viene dipinta dalle iperliberiste vestali del mercato e da quanti riducono ogni tema di politica economica e industriale a una difesa del consumatore che spesso si rivela più presunta che reale.

Ma, oltre il cuore, c’è la ragione, la quale spingeva, invece, a conferire il controllo della compagnia ad un gruppo come Air France-Klm a motivo della sua dimensione, della sua esperienza, della sua capacità industriale, del peso che già riveste negli accordi internazionali e nelle relazioni con i fornitori, a cominciare dai produttori di aerei di linea. L’alternativa di Air One e Banca Intesa, per quanto fondata su un coerente piano industriale, era indebolita dalla circostanza che la sua capacità organizzativa e gestionale di rilanciare una compagnia a livello internazionale, se non mondiale, era tutta da dimostrare. Del resto, le argomentazioni a favore di una cessione di Alitalia ad Air One, oltre l’italianità, non andavano molto al dilà della difesa di Malpensa come secondo hub italiano, ossia di un assetto strategico che già si è dimostrato alquanto velleitario per un Paese della dimensione dell’Italia. Non si può negare una maggiore razionalità di un sistema, come quello prospettato da Air France-Klm, che copre il centro dell’Europa continentale con gli hub di Amsterdam, Parigi e Fiumicino, inteso come sistema sinergico, lasciando, per altro, a Malpensa un ruolo rilevante anche nella rete di connessioni internazionali (Stati Uniti, Asia, America Latina). Come non si può negare che il declino di Alitalia ha da tempo superato la soglia oltre la quale una soluzione esclusivamente nazionale si presentava tecnicamente e politicamente improbabile. In altre parole, occorreva semmai pensarci prima.

L’indicazione che il consiglio di amministrazione ha preso all’unanimità deve essere ora ratificata dal governo: è a lui, in quanto detentore del pacchetto di controllo della compagnia, che spetta l’ultima e risolutiva parola. Almeno fino a ieri il governo non si presentava compatto sulla scelta del futuro di Alitalia, ma a questo punto non può non accogliere e ratificare l’indicazione del consiglio nel quale, avendo deliberato all’unanimità, si sono espressi per la cessione ad Air France-Klm anche i rappresentanti del ministero dell’Economia e del ministero dello Sviluppo.

Ciò significa che il dado può essere considerato tratto; qualche ritocco dell’offerta transalpina potrà ancora essere oggetto di trattativa, ma il destino di Alitalia ormai è scritto. Lo si può dire con qualche rammarico, ma anche con grande sollievo perché da troppi anni la compagnia stava sopravvivendo ad un tempo, per altri versi chiuso da anni, nel quale in una azienda la proprietà pubblica era considerata quasi sinonimo di commistione managerial-politico-sindacale, con conseguenze non solo e non tanto economiche, ma di logoramento di un patrimonio come quello dei tempi andati, quando Alitalia portava nel mondo una immagine positiva del nostro Paese, del suo stile, della sua organizzazione e, magari, delle sue ambizioni. È stato necessario giungere alle soglie del fallimento perché quella commistione potesse finalmente essere sciolta per dare un futuro credibile a ciò che dell’Alitalia ancora rimane. Questo chiude ogni spazio a qualsiasi obiezione o recriminazione da parte di chicchessia e presenta l’intesa con Air France-Klm come l’unica possibilità per mantenere comunque una presenza, minoritaria ma non marginale, nel trasporto aereo anche a lungo raggio.

Pubblicato il: 22.12.07
Modificato il: 22.12.07 alle ore 8.15   
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« Risposta #10 inserito:: Dicembre 24, 2007, 11:00:17 am »

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Prodi, le lobbies e il rischio del rinvio

La riflessione nel governo e la decisione della società


MILANO - Va dato atto al Consiglio di amministrazione di Alitalia e al suo presidente, Maurizio Prato, di essere andato dritto per la propria strada nell'interesse dell'azienda e dei suoi clienti non preoccupandosi delle molte pressioni cui in questi mesi è stato sottoposto.

Pressioni di politici della maggioranza e dell'opposizione, banchieri potenti, il partito del Nord che difendeva Malpensa e i sindacati che difendevano la corporazione di steward e piloti, persino il presidente di Confindustria, sceso in campo a favore di Air One. Una determinazione, quella del consiglio Alitalia, che in Italia non è comune e per la quale i cittadini lo ringraziano.

Dopo aver tentennato per un anno (nel quale Alitalia ha perso altri 400 milioni di euro, circa 30 euro per ciascuna famiglia italiana) il governo si è preso altre due settimane per decidere. Non si capisce che cosa. Il consiglio di amministrazione ha motivato la scelta a favore di Air France-Klm pubblicando un documento che risponde al coro di chi difendeva interessi particolari con argomentazioni di buon senso e con un confronto preciso fra le due offerte che gli erano pervenute. La decisione finale è fondata su analisi industriali e finanziarie e sui pareri tecnici degli advisor della società.

Che cosa pensa il governo? Di essere più bravo di molti tecnici che hanno contribuito a quella decisione? Dandosi due settimane di tempo Prodi corre un grande pericolo. I variegati interessi particolari che ieri sono usciti sconfitti non andranno certo in vacanza: le pressioni, gli ammiccamenti, le promesse che ieri non ce l'hanno fatta ci proveranno di nuovo.

 Solo che la prossima volta a decidere non sarà un consesso di persone perbene, ma un Consiglio dei ministri vociferante nel quale gli uni difenderanno i piloti, altri i dipendenti della Sea, altri ancora i sub-fornitori di Alitalia e nessuno i cittadini.

Francesco Giavazzi
23 dicembre 2007

da corriere.it


La riflessione nel governo e la decisione della società


MILANO - Va dato atto al Consiglio di amministrazione di Alitalia e al suo presidente, Maurizio Prato, di essere andato dritto per la propria strada nell'interesse dell'azienda e dei suoi clienti non preoccupandosi delle molte pressioni cui in questi mesi è stato sottoposto.

Pressioni di politici della maggioranza e dell'opposizione, banchieri potenti, il partito del Nord che difendeva Malpensa e i sindacati che difendevano la corporazione di steward e piloti, persino il presidente di Confindustria, sceso in campo a favore di Air One. Una determinazione, quella del consiglio Alitalia, che in Italia non è comune e per la quale i cittadini lo ringraziano.

Dopo aver tentennato per un anno (nel quale Alitalia ha perso altri 400 milioni di euro, circa 30 euro per ciascuna famiglia italiana) il governo si è preso altre due settimane per decidere. Non si capisce che cosa. Il consiglio di amministrazione ha motivato la scelta a favore di Air France-Klm pubblicando un documento che risponde al coro di chi difendeva interessi particolari con argomentazioni di buon senso e con un confronto preciso fra le due offerte che gli erano pervenute. La decisione finale è fondata su analisi industriali e finanziarie e sui pareri tecnici degli advisor della società.

Che cosa pensa il governo? Di essere più bravo di molti tecnici che hanno contribuito a quella decisione? Dandosi due settimane di tempo Prodi corre un grande pericolo. I variegati interessi particolari che ieri sono usciti sconfitti non andranno certo in vacanza: le pressioni, gli ammiccamenti, le promesse che ieri non ce l'hanno fatta ci proveranno di nuovo.

 Solo che la prossima volta a decidere non sarà un consesso di persone perbene, ma un Consiglio dei ministri vociferante nel quale gli uni difenderanno i piloti, altri i dipendenti della Sea, altri ancora i sub-fornitori di Alitalia e nessuno i cittadini.

Francesco Giavazzi
23 dicembre 2007

da corriere.it

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« Risposta #11 inserito:: Gennaio 03, 2008, 10:54:26 pm »

Un'emergenza chiamata salari

Alfredo Recanatesi


La questione salariale pone due ordini di problemi, uno di tattica e uno di strategia, tra i quali sarebbe bene non fare confusione per non mirare su obiettivi sbagliati.

Conviene considerare prima la strategia perché l’emergenza che oggi si pone, e il cui riconoscimento è finalmente condiviso, è originata da errori strategici commessi negli anni passati e, in particolare, da quando è nata l’Unione monetaria europea. La nascita della moneta unica, con la conseguente perdita delle sovranità nazionali sulle politiche monetarie e sulle politiche del cambio, avrebbe dovuto comportare la adozione di un modello di sviluppo totalmente diverso, praticamente opposto, a quello che aveva presieduto, anche con successo, al progresso economico dell’Italia e al raggiungimento di livelli di benessere tra i più elevati del mondo. Era un modello basato sul contenimento dei costi di produzione e sulla prontezza di reazione alle opportunità di mercato che potevano presentarsi assicurata da una larga prevalenza di imprese medio-piccole.

Da più di dieci anni questo modello è entrato in crisi a motivo di due eventi epocali: la adozione di una moneta il cui governo è affidato a una istituzione sovranazionale e la globalizzazione.

Quella globalizzazione che ha posto le produzioni basate sul contenimento dei costi in competizione con quelle di Paesi molto più indietro sulla via dello sviluppo e, quindi, con costi correlati a livelli di vita estremamente più bassi. Il modello di sviluppo che questi due eventi avrebbero dovuto imporre era, come si diceva, sostanzialmente opposto a quello fino ad allora seguito. I costi non potevano più essere un fattore competitivo, a meno di non scendere a livelli di vita più simili a quelli dei nuovi competitori soprattutto asiatici, mentre per competere validamente sarebbe stato necessario puntare su innovazione, esclusività, tecnologie sofisticate. Ma questo non possono farlo aziende medio-piccole perché non hanno il respiro strategico, le capacità finanziarie, la propensione al rischio che possono avere solo quando non siano dominate da una famiglia e dalle sue specifiche esigenze economiche e patrimoniali. Le aziende di grande dimensione, che questa capacità possono sviluppare, non solo non sono aumentate, ma sono addirittura diminuite.

Questo disadattamento si è tradotto in una particolare sofferenza nella competizione internazionale, nella incapacità del sistema a crescere ad un ritmo non lontano a quello degli altri, in definitiva si è tradotto in un impoverimento del Paese nel suo complesso.

La politica che ha fronteggiato questo disadattamento e le sue conseguenze è stato quanto di più strategicamente sbagliato. Tutti i governi che si sono succeduti in questi anni, infatti, invece di adottare misure che almeno tentassero di innescare la necessaria mutazione, hanno posto a carico della collettività una parte del deficit competitivo che le imprese andavano accusando proprio per il fatto di non essersi evolute a sufficienza. Moderazione salariale, alleggerimento di imposte e contributi, lavori atipici per lo più sottopagati sono tutte politiche che hanno puntato sulla riduzione dei costi, ossia su un obiettivo che i due citati eventi avevano reso antistorico. Il fallimento di queste politiche è dimostrato dal fatto che la competitività del sistema nel suo complesso è sempre precaria, e il Paese si è impoverito. L’impoverimento è dato intanto da un tasso di crescita del prodotto inferiore a quello che sarebbe necessario almeno per compensare l’aumento che i prezzi internazionali - energia, materie prime, derrate alimentari - vanno subendo per la maggiore domanda dei Paesi che stanno uscendo dall'indigenza e dal sottosviluppo; ed inoltre è dato dal fatto che si è concentrato sulle categorie lavoratrici in quanto la globalizzazione ha spostato l’asse della distribuzione dei profitti di impresa a favore del capitale, che ha conquistato la libertà di andare per il mondo a cercare i profitti ed i rendimenti più elevati, e a danno del lavoro, posto in competizione con quello dei Paesi dell’est europeo ed asiatico.

Affrontare questa evoluzione, e gli errori strategici che l’hanno determinata, con misure di redistribuzione serve a poco. La tattica può suggerire di fronteggiare una emergenza ponendo a carico del bilancio pubblico, ossia a carico della collettività, una quota dei costi che impediscono alle imprese di reggere la competizione, o una quota del reddito necessario alle famiglie più bisognose di arrivare a fine mese. Ma dovrebbe essere ormai evidente che queste politiche, se impiegate in luogo della strategia, finiscono per distribuire non più reddito, ma povertà.

La redistribuzione è uno strumento della equità sociale; le politiche di sviluppo sono tutt’altra cosa. Ora siamo di fronte ad una riconosciuta emergenza salari alla quale occorre dare una risposta efficace in tempi brevi, e questa risposta non può essere che quella di attingere al bilancio pubblico per restituire alle categorie più indigenti almeno una parte del potere d'acquisto che hanno perso. Ma, comunque la si metta, una misura in questo senso, doverosa sul piano della solidarietà sociale, potrà solo ritardare, anche per quanti ne saranno i più diretti beneficiari, le conseguenze del processo di impoverimento in atto le cui più attuali manifestazioni possiamo individuare nella raffica di rincari seguiti ai botti di fine anno. Se non sarà accompagnata da una politica di sviluppo che, tutelando i lavoratori, premi le imprese che si convertono per puntare sui parametri competitivi propri di una grande democrazia industriale quale l’Italia è ed intende rimanere (e ce ne sono; poche ma ce ne sono), penalizzando nello stesso tempo le imprese che ancora insistono nel voler competere con i Paesi a basso costo, non ci si illuda: di un alleggerimento del prelievo fiscale su salari e stipendi, per quanto rilevante possa essere, si perderà molto rapidamente traccia, così come si è persa quella dei tanti e pur corposi interventi di redistribuzione finora effettuati dai passati governi e soprattutto da questo. Se il miglioramento delle condizioni di vita di chi lavora non verrà generato da un aumento del valore aggiunto delle produzioni nelle quali il lavoro viene impiegato, ogni soluzione alternativa è destinata ad avere vita breve: tattica, appunto, non strategia.

Pubblicato il: 03.01.08
Modificato il: 03.01.08 alle ore 8.13   
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« Risposta #12 inserito:: Gennaio 23, 2008, 04:56:29 pm »

Ecco i risultati della globalizzazione della carta straccia

Alfredo Recanatesi


L’intera economia mondiale è stata infettata da quei rifiuti tossici che le banche soprattutto americane hanno diffuso su scala globale.

Si tratta di quei titoli cosiddetti derivati che consistono in obbligazioni che rappresentano mutui per l’acquisto di case privi di adeguate garanzie sia perché concessi anche a chi non possiede un reddito per poterli rimborsare, sia perché, con la caduta dei prezzi degli immobili, il valore di mercato di quelle case non copre più l’importo che è stato erogato.

Insomma, carta straccia o giù di lì, una truffa che è stata possibile realizzare su scala così macroscopica in un Paese dove l’attività bancaria e finanziaria è tuttora ideologicamente affrancata dai controlli ai quali è invece sottoposta in Europa.

L'infezione si sta rivelando più forte del previsto perché non si conosce né l’ammontare di questi titoli in circolazione, né chi li abbia sottoscritti. Ne è derivata una crisi di fiducia sulla reale situazione economica e patrimoniale delle grandi banche. Diffidando le une delle altre, queste hanno fortemente ridotto la propensione a prestarsi reciprocamente denaro. La conseguenza è che, malgrado le robuste iniezioni di liquidità effettuate fin dall’estate scorsa da tutte le banche centrali, il costo del denaro, soprattutto a breve termine, è fortemente salito.

Poiché in tutto il mondo economicamente più evoluto la globalizzazione ha penalizzato i redditi da lavoro, e poiché di conseguenza nella grande massa dei consumatori è cresciuta la quota di quanti sono costretti ad indebitarsi, un aumento del costo del credito si traduce in una contrazione dei consumi.

Negli Stati Uniti, dove è altissima la quota di persone che, usando le carte di credito, fanno a debito anche per la spesa quotidiana, la frenata della domanda interna sta mettendo in crisi l’intera economia. Insensibile alla pronta reazione di Bush, che nel tentativo di scongiurare un così acuto peggioramento della situazione economica proprio nell’anno delle elezioni presidenziali ha annunciato un piano di riduzioni fiscali, la maggioranza degli economisti vede ormai un futuro prossimo di recessione. A parte gli eccessi di ieri, la tendenza ribassista che tutte le borse stanno registrando da tre mesi a questa parte è il segno di una infezione che dalla finanza si va estendendo all’economia reale.

Anche se le banche italiane non si sono fatte coinvolgere dalle sirene di questa finanza tanto innovativa quanto corsara, le conseguenze della crisi americana stanno investendo anche la nostra economia. La Banca d’Italia ha già tagliato le stime di crescita per quest’anno ad un misero 1%, e non è detto che altre revisioni al ribasso si rendano necessarie. Comunque, la stagione della crescita, che già si è rivelata debole con un aumento del Pil che l’anno passato non ha raggiunto neppure il 2%, ora si rivela anche breve, praticamente già esaurita. I problemi che ne derivano sono di due ordini tra loro correlati. C’è in primo luogo una emergenza salari che con una economia in frenata sarà ancora più difficile affrontare. Il contratto dei metalmeccanici, per quanto soddisfacente nelle circostanze date, non è tale da cambiare la vita, così come non può cambiarla una riduzione del prelievo fiscale su stipendi e salari.

Perché si possa risalire qualche posizione nelle classifiche del reddito pro capite e, soprattutto, nel livello dei salari occorre uscire dalla logica redistributiva. Questa può essere seguita in presenza di qualche emergenza sociale, più che economica. Ma per avviare la questione verso una soluzione strutturale appare sempre più necessario che il sistema produttivo torni a generare reddito. Le politiche di aumento della produttività e della competitività imperniate sul contenimento dei salari e sulla flessibilità del lavoro seguite all’accordo del 1993 non hanno funzionato se è vero, com’è vero, che oggi l’economia italiana è in condizioni relative peggiori di quelle di allora. Non hanno funzionato perché la difesa dei profitti, che pure hanno consentito, non si è tradotta in una ripresa di investimenti volti a convertire un sistema produttivo strutturato su mercati segmentati e cambio della moneta utilizzabile ai fini della competitività, in uno in grado di sostenere una competizione globale e un cambio fisso e, per di più, molto forte. Non avendo funzionato quelle politiche, il rallentamento dell’economia mondiale coglie l’economia italiana in una condizione di persistente debolezza strutturale. E di nuovo tutto si fa più difficile.

Si fa più difficile anche per i conti pubblici, e dunque per quel poco di sollievo che da una riduzione delle tasse potrebbe venire per il potere d’acquisto di lavoratori e pensionati. Una crescita più lenta, forse molto più lenta, non è priva di conseguenze per la prospettiva delle entrate e della eventuale disponibilità di nuovi "tesoretti".

Il 2007 si è chiuso con i conti abbastanza a posto, ma questo non basta per concludere che vi siano margini per una iniziativa non simbolica di riduzione delle imposte sui redditi da lavoro dipendente. Occorrerà ridurre la spesa, ma se questa è una operazione di per se difficile, a maggior ragione lo è se l’economia non cresce. Se poi su questo quadro fosco aggiungiamo le incertezze che avvolgono la sorte del governo e della legislatura, davvero non rimane che incrociare le dita e stringerci tutti nelle spalle.

Pubblicato il: 22.01.08
Modificato il: 22.01.08 alle ore 13.14   
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« Risposta #13 inserito:: Febbraio 13, 2008, 11:04:59 pm »

I conti e l'emergenza

Alfredo Recanatesi


Il limite dei ministri tecnici è dato dalla loro difficoltà a cogliere i condizionamenti che derivano dalle diverse circostanze politiche non solo all’agire, ma anche all’esternare. Che si faccia parte di un governo stabile con anni di legislatura ancora davanti, oppure di un governo in carica per gestire le elezioni non è la stessa cosa. Era giustificabile che il ministro del Tesoro dimostrasse cautela nel considerare l’eventualità di un alleggerimento fiscale su salari e stipendi quando se ne incominciò a parlare, e dunque quando la crisi era ancora lontana.

Oggi, tuttavia, quelle stesse asserzioni assumono un tono ed una valenza del tutto diversa. Il che spiega perché allora furono oggetto di critiche, tutto sommato pacate, da parte di chi rifiutava una visione essenzialmente contabile di un problema sociale, ancor prima che economico e finanziario, per riaffermarne la priorità indipendentemente dalla disponibilità o meno di nuove eccedenze nelle entrate tributarie. Oggi, invece, le critiche sono assai più estese e risentite perché, alle ragioni opposte allora, si aggiungono quelle che discendono dal fatto che le asce con le quali combattere il confronto elettorale sono già state dissotterrate.

Ha preso le mosse, per altro, una campagna elettorale le cui battaglie più significative, e forse determinanti, si svolgeranno proprio sul terreno delle politiche fiscali. E, almeno in via di ipotesi, le politiche fiscali possono essere le più diverse, naturalmente prevedendo che una onere ritenuto necessario, come quello di una riduzione del prelievo sui redditi da lavoro dipendente, possa essere finanziato attraverso una molteplicità di interventi che vanno dalla riduzione di altre spese, alla imposizione di nuove o diverse tasse, ad un ulteriore impulso nella lotta all’evasione. Come è facile capire, siamo sui temi sui quali le diverse visioni politiche si connotano, si avversano e si contendono il favore degli elettori.

E allora, le asserzioni di Padoa Schioppa sul fatto che la esistenza di nuove eccedenze è tutt’altro che accertata, che al contrario il rallentamento dell’economia le rende improbabili, e che quand’anche ci fossero potrebbero essere necessarie per difendere l’equilibrio dei conti pubblici da eventuali e probabili rallentamenti del flusso di entrate; queste asserzioni - si diceva - non fanno una grinza sotto il profilo tecnico; ossia per quell’aspetto che lo ha indotto a replicare, anche un po’ piccato, a chi va sostenendo che «i soldi ci sono» che difficilmente altri possono saperne più di lui. Ma, se per questo aspetto, la sua posizione non fa una grinza, fa una brutta piegaccia sotto il profilo politico.

Il ministro, infatti, ha involontariamente sollevato una questione non da poco. Anzi, più d’una. La prima è che rinviando addirittura a luglio il tempo nel quale sarà possibile determinare con certezza eventuali disponibilità finanziarie da impiegare per alleggerire il prelievo fiscale su salari e stipendi, di fatto ha escluso che sulla questione possa decidere l’attuale governo. E se ad occuparsene sarà il governo che uscirà dalle urne il 15 aprile, tutto è destinato a tornare in alto mare, e magari non sarà più materia di Padoa Schioppa, ma di un governo meno sensibile - diciamo così - alle ragioni della equità sociale. La seconda questione è: se davvero non si verificassero nuove eccedenze di entrate, l’“emergenza salari” finalmente riconosciuta sarebbe con questo superata? Sarebbe superata la “priorità” con la quale era stata iscritta nell’agenda della politica? E che priorità sarebbe se viene subordinata esclusivamente ad una eccedenza di entrate rispetto alle previsioni, come se fosse il bonus di una azienda che abbia chiuso un bilancio particolarmente positivo? E ancora: detto tutto questo, possibile che non ci sia comunque modo di adottare una prima misura di alleggerimento senza compromettere il riconquistato equilibrio dei conti?

Le incaute polemiche sollevate dalle considerazioni del ministro ora complicano, ad evidenza, la realizzazione degli interventi che erano stati ipotizzati, se non altro per le strumentalizzazioni in chiave elettorale alle quali qualsiasi decisione sarebbe inevitabilmente esposta. Un tema già politicamente complesso e già giuridicamente ingarbugliato a motivo dell’apertura della crisi, ora si presenta vieppiù complicato dai condizionamenti che l’imminenza delle elezioni pone ad ogni forza politica. I problemi, le difficoltà, il crescente disagio di tanta parte delle famiglie italiane che ogni rilevazione statistica hanno incontestabilmente certificato rimangono, ad oggi, l’unica cosa certa; ma invece di andare verso una soluzione degna del grado di civiltà, ancor più di equità, che il Paese deve e vuole dimostrare, sembra che si vada nella direzione opposta.

Pubblicato il: 13.02.08
Modificato il: 13.02.08 alle ore 9.06   
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« Risposta #14 inserito:: Febbraio 19, 2008, 12:17:02 am »

Economia: l’importante è fare

Alfredo Recanatesi


C’è in Italia una paranoia per i programmi delle forze politiche. È una paranoia alimentata dal cosiddetto «bipolarismo muscolare», ossia dall’asprezza della contrapposizione che ha generato una strumentalizzazione dei programmi, usati più per coprirsi dalle critiche degli avversari, pronti a cogliere manchevolezze, incoerenze o genericità, che per evidenziare e argomentare la tipicità di un disegno per la crescita materiale e civile del Paese.

Non basta. Occorre anche, e soprattutto, rendere credibile la realizzazione di tali progetti. Il programma che Veltroni ha presentato ed illustrato non poteva non tenerne conto, e vi si è adeguato senza farsi illusioni che, il giorno dopo, visto da sinistra, sarebbe stato interpretato come «il programma di Confindustria» (titolo di ieri del giornale di Rifondazione), visto da destra, proprio il giornale della Confindustria vi avrebbe colto «silenzi sul mercato» e «coperture improvvisate sulle pur generose promesse su fisco e salari». Insomma, musica vecchia che può generare delusione in chi, contagiato da quella paranoia, si aspettava qualcosa di più adeguato, sia nella forma del programma, sia sulle reazioni che ha suscitato, a quell’aria nuova che il segretario del nuovo partito intende portare, ed in effetti sta portando, nella politica italiana. I suoi dodici punti sono anch’essi vittime per la loro stringatezza di quella paranoia, tanto più dopo le critiche anche sarcastiche delle quali furono fatte oggetto le 270 e passa pagine del governo Prodi. Sono il risultato di una compressione che non ha lasciato spazio non dico ai dettagli, ma neppure a quel minimo di qualificazione che avrebbe potuto distinguerli dall’ovvietà. I problemi dell’economia e della società italiani sono ormai ben noti ed anche largamente condivisi: non può essere questo il terreno sul quale inventare qualcosa di nuovo. Salari, precariato, pressione fiscale, sostegno alle famiglie, maggiore inserimento delle donne nel sistema produttivo, superamento delle resistenze alla realizzazione di infrastrutture tipiche di qualsiasi Paese evoluto, dall’alta velocità ai termovalorizzatori ed ai rigasificatori: qui non c’è niente da inventarsi; anzi, è bene non provarci nemmeno. Il problema non è stilare un elenco di priorità da affrontare, ma individuare le forme, i percorsi, le procedure della politica che consentano di affrontarle ed avviarle a soluzione. Qui sta il «nuovo» di Veltroni, o almeno il tentativo di superare forme, percorsi e procedure che il centro destra come il centro sinistra hanno sperimentato senza quel successo che avrebbe consentito all’Italia di non ritrovarsi nelle ultime posizioni delle classifiche europee.

Veltroni ed il nuovo PD hanno rotto il bipolarismo muscolare proprio nell’assunto che siano molte, e spesso determinanti, le soluzioni, le decisioni, le scelte che godono di una ampia maggioranza di consensi, ma che finora non hanno potuto avere seguito perché, nell’una come nell’altra coalizione, si sono scontrate con i veti di minoranze in cerca di visibilità mediatica prima che politica. Trovare un modo perché la politica non sacrifichi sull’altare delle polemiche tra le avverse coalizioni il denominatore comune di iniziative condivise: questo è il programma del PD di Veltroni, il programma che conta, quello sul quale il partito e lui per primo chiederanno il voto del prossimo 13 aprile.

Poi, certo, differenze ce ne sono, ci mancherebbe; non siamo certo tra coloro che considerano superate le distinzioni tra destra e sinistra. Ma sono differenze che vengono dalla storia delle diverse componenti politiche, dalle esperienze passate, dalle prove già date, dalle loro concezioni sul ruolo dello Stato, dalla sensibilità dimostrata verso le ragioni dell’equità distributiva e della solidarietà, dal credito che può essere attribuito alle singole persone: tutti elementi di valutazione e giudizio che formeranno le decisioni di voto, ma che non troviamo, non possiamo trovare, nei programmi; tanto meno in quelli che la cultura mediatica oggi dominante pretende ed impone succinti, schematici, sintetici. Le ragioni di un credito da attribuire ad una forza politica ed ai suoi leader che si candidano alla guida del Paese non possono essere ridotte alla formulazione di un elenchino di cose da fare perché non potrà mai essere completo né, tanto meno, argomentato. La Politica, quella che «deve rialzarsi» e riguadagnare la P maiuscola è ben altra cosa.

Pubblicato il: 18.02.08
Modificato il: 18.02.08 alle ore 8.15   
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