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Autore Discussione: Alfredo RECANATESI.  (Letto 24687 volte)
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« Risposta #15 inserito:: Febbraio 23, 2008, 12:02:58 pm »

Al voto tra inflazione e recessione

Alfredo Recanatesi


La benzina è arrivata a 1,4 euro. Un record. Ma possiamo comprendere meglio questo record se diciamo che equivale ad oltre 2700 lire. Un altro record è stato toccato dai tassi sui mutui. Il caso ha voluto che nello stesso giorno assumessero evidenza i principali fattori del male che contagia l’economia mondiale: il rincaro del petrolio e la crisi finanziaria seguita allo sconcertante caso dei mutui americani privi di garanzia.

Sono mali non passeggeri: il petrolio, ed a seguire le altre forme di energia, rincara perché la domanda mondiale aumenta più di quanto possa esserne incrementata l’estrazione; la crisi dei mutui ha determinato una caduta della fiducia reciproca tra le banche, quindi un inaridimento dei loro reciproci rapporti, carenza di liquidità, aumento del costo del credito.

Il "mal comune" sarebbe un "mezzo gaudio" se non fosse che l’Italia ne è colpita più duramente; molto più duramente. Tra le notizie di ieri, infatti, c’è anche la revisione delle stime di crescita elaborate dalla Commissione europea. A causa di quel male di cui si è detto, tutte le stime hanno subito tagli, ma, mentre per l’insieme dei Paesi europei viene prevista una crescita dell’1,8 rispetto al 2,4 stimato in precedenza, per l’Italia il taglio ha portato ad un aumento del Pil di appena lo 0,7%, fatto per di più nella seconda parte dell’anno perché nella prima, con un aumento dello 0,3% appena nell’arco di sei mesi, sarebbe più esatto parlare di stagnazione.

Prezzi internazionali in crescita in presenza di una stagnazione del reddito prodotto determinano un impoverimento del Paese nel suo complesso. Questo impoverimento colpisce soprattutto salariati, stipendiati, pensionati, precari già sottopagati, tutte le categorie che non hanno alcuna possibilità di rivalersi per difendere il loro potere d’acquisto. Il problema è già emerso con tutta la sua drammatica evidenza negli anni passati. Quest’anno è destinato ad aggravarsi ulteriormente come dimostra il previsto aumento dell’inflazione al 2,7 per cento.

Sta prendendo le mosse una campagna elettorale che presenta non poche novità. La politica cerca di rinnovarsi uscendo dalla logica bipolare con una disgregazione delle coalizioni finora sperimentate e con la nascita di nuove formazioni. È dichiarato l’intento di affrontare i problemi reali e di dare risposte concrete ai bisogni dei cittadini. Ciò nondimeno il tema del declino o - se questo termine è ritenuto sconveniente - dei limiti alla crescita non sembra ancora aver trovato il rilievo che la sua drammaticità reclama. Certo, nei dodici punti del programma di Veltroni lo sviluppo è iscritto come un obiettivo prioritario, e possiamo star certi che un analogo concetto figurerà nel programma di Berlusconi. Ma ancora non emerge una politica che renda credibili queste asserzioni e schiuda una prospettiva di soluzione. Continua a prevalere una logica redistributiva (anche la riduzione di tasse, imposte ed accise è redistribuzione) in luogo di un disegno che punti ad incrementare la produzione di reddito almeno per compensare quello che ci viene sottratto dai rincari dell’energia e delle materie prime di base.

Che occorra aumentare la produttività è diventato un luogo comune, ma nessuno dice che la produttività dipende dalle imprese, dal loro slancio verso l’innovazione, dalla loro propensione ad investire e rischiare, dalle risorse che destinano alla ricerca. Nessuno ricorda che la produttività nelle imprese di grande dimensione è quasi doppia di quella delle imprese minori. Nessuno ricorda, di conseguenza, che nel mondo globalizzato nel quale Cina e India sgomitano per farsi largo, un sistema di imprese mediamente piccole come il nostro non ce la può fare. Poi, certo, c’è la ricerca pubblica, le infrastrutture, l’efficienza delle amministrazioni, di problemi non ne mancano; ma se non c’è un sistema produttivo (un sistema, non una minoranza di aziende illuminate e capaci) in grado di reagire il declino non potrà essere neppure arrestato.

Nell’immediato rimangono iscritte nell’agenda della politica una riduzione del prelievo fiscale su stipendi e salari ed una riduzione delle accise sui carburanti: ma si tratta di misure più umanitarie che di politica economica. L’unica politica economica, anzi industriale, la sta facendo la Bce mantenendo l’euro forte con il risultato, per un verso, di contenere l’inflazione e, per altro verso, di spingere le imprese a cercare competitività su componenti diverse dal prezzo. Ma non può bastare. Se anche la politica nazionale non opererà nella stessa direzione, il declino e l’impoverimento sono destinati a connotare, dopo il passato ed il presente, anche il nostro futuro.

Pubblicato il: 22.02.08
Modificato il: 22.02.08 alle ore 8.16   
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« Risposta #16 inserito:: Febbraio 29, 2008, 02:47:22 pm »

Una sfida per l'Italia

Alfredo Recanatesi


Il dollaro continua a deprezzarsi. La stagnazione dell’economia americana, confermata ieri dal presidente della Fed, unita ai persistenti, cronici, abissali suoi squilibri - il disavanzo commerciale e il deficit del bilancio federale - stanno erodendo la residua fiducia nel biglietto verde sceso ieri a soli 66 centesimi di euro. Per chi ha memoria del dollaro a 2200 lire ed oltre, non è superfluo aggiungere che nella nostra vecchia moneta quei centesimi equivalgono a 1279 lire. Una svalutazione epocale che supera il 40 per cento.

Ne deriva un deterioramento delle ragioni di scambio che taglia drasticamente la competitività di quanto si produce con costi in euro e si esporta non solo negli Stati Uniti, ma in tutti quei Paesi la cui moneta è sostanzialmente agganciata al dollaro. Si tratta di una considerevole parte del mondo comprendendo tutta l’Asia, con esclusione del solo Giappone, e tutta l’America latina; Paesi le cui esportazioni in Europa, per converso, saranno ancor più competitive. Insomma, l’euro che supera il valore di un dollaro e mezzo è la conferma di quella rivoluzione strisciante che sta rimescolando le carte dell’intera economia mondiale ponendo Paesi, imprese e intere popolazioni di fronte a uno scenario diverso, per molti aspetti opposto, a quello nel quale hanno trascorso gli ultimi cinquant’anni. Una rivoluzione che non si limita ai rapporti tra le monete, ma coinvolge anche le materie prime di base, come ben sappiamo, da consumatori, attraverso il prezzo internazionale del grano e, soprattutto, del petrolio e delle altre fonti di energia.

Il superamento della simbolica soglia di 1,50 nel rapporto tra euro e dollaro innescherà, ha già innescato, manifestazioni di preoccupazione per la perdita di competitività delle nostre esportazioni, ulteriori tagli alle prospettive di crescita, invocazione di interventi fiscali per soccorrere le imprese in difficoltà o per calmierare il prezzo alle pompe dei carburanti. Renderà meno velate le critiche alla Banca centrale europea che, occupandosi esclusivamente del controllo dell’inflazione, mantiene i tassi di interesse molto al disopra di quelli americani, così concorrendo a tonificare sempre più un euro già molto forte.

Tutto ciò nondimeno, ci sono argomenti per sperare che non tutto il male venga per nuocere.

L’evoluzione dell’economia mondiale - i cambi, i prezzi internazionali, la concorrenza dell’Asia - rende sempre più esplicito il ritardo col quale il sistema produttivo italiano ne prende atto e vi si adegua. Con riferimento alle politiche svolte in questi ultimi anni e persino ai programmi delle forze politiche che si confronteranno nelle elezioni di aprile, non solo il nostro sistema produttivo è ancora prevalentemente puntato sulla competitività di prezzo, ma continua a essere spinto in questa direzione dalla politica economica e fiscale, quella attuata in passato e quella promessa per il futuro. Non si tratta solo di prospettare alleggerimenti fiscali per le imprese, ma anche normative sul lavoro che, in un modo o nell’altro, lo svalutano in termini di remunerazione o di tutele, e addirittura di porre a carico della collettività un aumento del potere d’acquisto dei lavoratori dipendenti che il valore aggiunto prodotto dalle imprese con lo stesso lavoro non riesce più ad alimentare in una misura umanitariamente accettabile. Insomma una politica concettualmente assai simile a quella svolta negli anni e nei decenni passati con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti e che, ciò nondimeno, rimane sempre più impermeabile al contesto economico internazionale nel quale, piaccia o non piaccia, l’Italia deve farsi spazio.

E allora, ben venga l’euro forte. L’euro forte è frutto dell’atteggiamento «tedesco» della Bce, in questo fedele continuatrice della tradizione della Bundesbank. Ai tempi del marco, questa ha sempre perseguito una politica di moneta forte. A quella politica va riconosciuto - e non certo da oggi - il merito di aver escluso nel sistema produttivo tedesco ogni tentazione a cercare competitività nel prezzo, imponendogli piuttosto di collocarsi sulle fasce più alte della qualità e dell’innovazione fino a farne così il più potente generatore di esportazioni, anche e soprattutto in tempi di globalizzazione e di concorrenza asiatica. Tutto il contrario di quanto è avvenuto in Italia dove, sia pure per una storia sociale e politica diversa, l’economia è sempre stata aiutata con la competitività di prezzo attraverso le svalutazioni della lira, un basso costo del lavoro, trasferimenti a carico del bilancio pubblico per incentivi a vario titolo, accondiscendenza fiscale e contributiva. Non ci si può stupire, quindi, se oggi, pur in presenza di un quadro internazionale di generale rallentamento, il sistema italiano corre rischi ben maggiori di quelli che corrono la Germania ed altri Paesi.

Ci si dovrebbe stupire, invece, che questi temi siano del tutto assenti dalla campagna elettorale che ancora una volta, anzi più che mai, si va consumando in una ridda di promesse di spese e benefici, senza alcuna considerazione per le prospettive grigie che si addensano sul futuro dell’economia e delle pubbliche finanze.

Di fronte ad una politica siffatta, il sistema produttivo, esclusa una minoranza di imprese più illuminate, si impigrisce; non si impegna certo nella ricerca di produttività, competitività e profitti attraverso maggiori investimenti e più efficienti assetti organizzativi quando ha motivo di sperare che produttività, competitività e profitti possano venirgli dall’esterno, dalla collettività, da una ulteriore svalutazione del lavoro.

Un euro forte, molto forte, e prezzi internazionali più elevati, chiudono la porta a prospettive di questo genere, escludono ogni possibilità che attraverso la compressione dei costi sia possibile recuperare competitività, limitano i margini di manovra perché aiuti possano venire dal bilancio pubblico; mettono alla frusta il sistema produttivo. E il sistema produttivo, quando viene messo alla frusta anziché venire lisciato per il verso del pelo, è un sistema che - la storia insegna - sa reagire eccome.

Pubblicato il: 28.02.08
Modificato il: 28.02.08 alle ore 8.22   
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« Risposta #17 inserito:: Marzo 14, 2008, 06:30:03 pm »

Il nuovo e il vecchio

Alfredo Recanatesi


Il fattore di maggior rilevanza emerso finora nell’avvicendamento al vertice della Confindustria è che per la prima volta il presidente sarà di genere femminile. È una innovazione, questa, che gratifica i paladini delle quote rosa e che, perciò, promette rilevanti risultati mediatici, ma interessa poco chi, per contro, inclina a scrutare il futuro della associazione rappresentativa dell’industria italiana nella speranza di scorgervi qualche più sostanziale novità. Non sono molti gli argomenti da poter portare a sostegno di questa speranza; tutt’altro. Al di là delle capacità e del valore della persona, dimostrate anche nel ruolo rivestito nell’azienda di famiglia, la Marcegaglia emerge da una lunga storia di appartenenza agli apparati confindustriali.

Interrotta soltanto - e questo, dal nostro punto di vista, è un merito - negli anni della presidenza D'Amato, della guerra (persa) all’art. 18, del Patto per l’Italia, del fiancheggiamento militante sia di Berlusconi che, soprattutto, del berlusconismo.

Ma, se le va riconosciuta la presa di distanze da quegli estremismi, non si può non tener conto anche della sua integrale e fattiva adesione alla concezione di un ruolo della Confindustria che viene dagli anni passati, che si definì più compiutamente negli anni di Fossa, ed è stato confermato negli anni di Montezemolo.

Peculiarità di questo ruolo, che non si riscontra nelle analoghe organizzazioni imprenditoriali degli altri maggiori Paesi europei, è la circostanza che si tratta, com’è ovvio, di una associazione corporativa o, almeno rappresentante specifici interessi economici, ma, ciò nondimeno, accreditata di una funzione istituzionale, nel senso che le sue posizioni vengono spesso assunte, presentate e pubblicizzate, come oggettive, come se il loro riferimento fosse l'interesse generale del Paese e non quello di una parte, pur rilevante, di esso. Giocano in questo senso due specifici fattori: gioca il grande peso (per non dire condizionamento) che la Confindustria, la grande imprenditoria, la finanza detengono sui mezzi di informazione; e gioca la struttura stessa del sistema produttivo italiano che, parcellizzato in una miriade di micro imprese, costituisce una forza elettorale assai rilevante corteggiata, in quanto tale, da ogni schieramento politico che ambisca conseguire una quota di consensi a due cifre.

Il risultato di questa distorsione è sotto gli occhi di tutti: è l’incapacità del sistema economico di crescere, è la progressiva sperequazione nella distribuzione del reddito, è la stagnazione del potere d’acquisto di salari e stipendi, è la diffusione di una precarietà usata molto più per perseverare nella compressione dei costi (del lavoro in particolare) che per la flessibilità necessaria al sistema produttivo per essere più efficiente, è l’indirizzo impresso al dibattito, attualissimo, sulla produttività come se questa dipendesse esclusivamente dalla normativa sul lavoro. Per dire del ruolo svolto in questi anni dalla Confindustria, a questo risultato, che è sotto gli occhi di tutti, va aggiunto un elemento che, guarda caso, sotto gli occhi di tutti non è: ossia la circostanza che questa desolazione non ha toccato i profitti i quali, invece, risultano essere stati difesi, secondo dati Banca d’Italia e Mediobanca, quanto e più che negli altri Paesi.

Per questo motivo la Confindustria, questa Confindustria, agli associati va benissimo. Ed è nelle cose che, di conseguenza, la scelta del successore di Montezemolo sia caduta sulla Marcegaglia indipendentemente dal suo essere donna. La distorsione non sta tanto nel ruolo che svolge l'organizzazione, quanto nella oggettività che viene attribuita alle sue posizioni, alle sue analisi, alle sue richieste.

Lo dimostra il fatto che nella pur vasta produzione di analisi che esce dai suoi uffici, per non dire dell'informazione che direttamente o indirettamente controlla o ispira, mai figura una ombra di valutazione critica sul ruolo svolto dal sistema produttivo. Mai. L’industria è sempre presentata in credito verso il Paese, esente da ogni macchia, immune da errori di strategia o di assetto. Prendiamo, pescando nella più viva attualità, il tema della produttività il cui ristagno determina l’impossibilità di remunerare più decentemente il lavoro. Norme sul lavoro, inefficienza delle amministrazioni pubbliche, carenza di infrastrutture, peso fiscale sono le cause che la Confindustria ci espone quasi ogni giorno a motivazione di quel ristagno. Non dice mai che la produttività nelle aziende straniere che operano in Italia è maggiore mediamente del 50%, e che quella delle grandi aziende è addirittura doppia di quella delle piccole. Si parla di aziende che operano in Italia, con dipendenti italiani, con le norme italiane, il fisco italiano, le strade e le ferrovie italiane, insomma i costi italiani. Possiamo concluderne che il problema non è solo quello che denuncia la Confindustria, ma è soprattutto nel nanismo delle imprese, nella loro governance familiare, nella conseguente ritrosia ad investire, nel deficit di imprenditorialità che impedisce loro di aggregarsi, di fare massa critica, di raggiungere dimensioni che consentano innovazione, ricerca, confronto con una concorrenza globale su mercati globali? L’industria italiana ha perso la grande occasione della stabilizzazione monetaria, della nascita dell’euro, degli anni di bassissimo costo del denaro per passare dal XX al XXI secolo (si legga il libro di P.L. Ciocca «Ricchi per sempre?»). Il sistema bancario quella occasione l’ha colta (ci si consenta di dire: sotto la regia di Antonio Fazio); è stata colta da molte imprese che ora godono di un più che meritato successo di mercato e di profitti; ma la maggior parte del sistema quella occasione l’ha persa, la politica gli ha dato una mano nel perderla seguendo (per quanto ha potuto) i suoi suggerimenti di politica economica, ed ora siamo qui ha parlare di emergenze sociali, di impoverimento, di declino.

È improbabile che una Confindustria guidata dalla Marcegaglia sia diversa da quella conosciuta in questi anni. Senza venir meno al suo ruolo corporativo, sarebbe già tanto se interpretasse la sua missione di difesa dei legittimi interessi delle imprese secondo obiettivi strategici di più lungo periodo anziché esaurirsi nel chiedere alleggerimenti, flessibilità, agevolazioni; se, per altro aspetto, si concentrasse più sul contributo che il sistema imprenditoriale può dare al futuro del Paese che chiedere, spesso chimericamente, cosa il Paese può fare per il futuro delle imprese. Non si tratta di immaginare che le imprese distolgano l'attenzione dalla cura dei loro interessi per impegnarsi su quelli dell'intera comunità nazionale, che sono oggetto della responsabilità della politica. Si tratta, al contrario, di immaginare una Confindustria più focalizzata sugli interessi del mondo imprenditoriale, capace magari di svolgere un ruolo pedagogico verso quanti non sanno o non vogliono crescere, meno impegnata sui benefici che può ottenere nelle varie congiunture politiche per impegnarsi su obiettivi di più largo e lungo respiro guidata dalla consapevolezza che, se il declino del Paese non si arresta, sarà difficile cavarsela anche per tante imprese e per tanti imprenditori. Ma immaginare una tale discontinuità nella transizione da Montezemolo alla Marcegaglia al momento appare davvero azzardato.


Pubblicato il: 14.03.08
Modificato il: 14.03.08 alle ore 13.36   
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« Risposta #18 inserito:: Marzo 18, 2008, 12:32:09 am »

Alitalia: "Ma c'era un'altra strada?"

Alfredo Recanatesi


Fuori la porta di Alitalia non c’è una fila di compagnie, investitori o cordate che si accalcano per poterla rilevare. Non c’è nessuno che abbia un piano credibile con i soldi, l’esperienza e le relazioni internazionali per assicurarne la realizzazione. C’è solo Air France-Klm la cui offerta ha ricevuto un parere favorevole da parte del consiglio di amministrazione al termine di una riunione la cui durata - ben 16 ore - lascia supporre che sia stata esaminata in ogni suo particolare e risvolto.

Del resto, poiché i francesi sanno quanto e più di noi che l’unica alternativa che il futuro di Alitalia possa realisticamente prevedere è il fallimento, va riconosciuto che non hanno calcato la mano. Il loro piano prevede investimenti cospicui, tre anni per il risanamento prima di una graduale crescita con aerei moderni, il mantenimento del marchio e della livrea; insomma la compagnia continuerà a vivere come entità autonoma con una sua propria identità italiana offrendo servizi che sarà interesse di chi vi ha investito del suo rendere efficienti e competitivi. Comunque, non c’erano margini perché il parere dell’azienda fosse diverso.

Le condizioni poste, certo, sono amare, seppure comprensibili. Non è tanto il valore di concambio attribuito alle azioni della società, che tengono conto del suo stato prefallimentare, delle perdite correnti che ancora quotidianamente genera e della più recente evoluzione dei mercati finanziari che ha ridotto di un terzo o giù di li il valore di mercato delle azioni di qualsiasi società di qualsiasi parte del mondo.

Sono le condizioni poste a garanzia del "contratto" che rivelano una sostanziale diffidenza verso gli impegni di un Paese dove nulla ormai può essere considerato certo e definitivo. Per non rischiare di rimanere a metà del guado, e rimanere invischiati in una rete di resistenze, ostacoli, ricorsi e chissà cosa altro ancora, i francesi hanno chiesto impegni scritti e preventivi che riguardano il governo (impegno ad aderire alle offerte di acquisto delle azioni ed a mantenere i diritti di traffico attualmente in possesso di Alitalia), la Aeroporti di Roma (che deve assicurare i servizi sui quali il piano di rilancio deve poter contare), la Sea (perché si risolva il contenzioso aperto dalla inopinata richiesta di risarcimento per la riduzione dei voli Alitalia su Malpensa), la ricontrattazione di alcuni servizi a terra forniti a condizioni più onerose di quelle normali in altri scali internazionali.

Tra le condizioni poste c’è anche - e si sapeva - la preventiva adesione al piano di risanamento delle organizzazioni sindacali. Non stupisce dopo le molte e ripetute agitazioni che hanno travagliato la storia della compagnia anche nel periodo recente, quando già boccheggiava ed era in cerca di un partner che si impegnasse nel suo salvataggio. I sindacati ora manifestano resistenza, forse sperando di poter trattare su quei 1600 esuberi che sono un boccone duro a mandar giù, ma non si può dire che non sia stato cucinato a lungo e che possa essere stato evitato nel menù di qualsiasi altro soccorritore.

Anche per i sindacati - e forse soprattutto per i sindacati - vale la circostanza che l’unica alternativa all’accordo con Air France - Klm, a questo punto, è il fallimento di Alitalia, che renderebbe esuberi tutti gli attuali dipendenti con la eventuale prospettiva, per alcuni di essi, di rientrare in parti della compagnia che dovessero essere rilevate dalla procedura fallimentare, ma a condizioni sicuramente peggiori.

In altri termini, il compimento della cessione di Alitalia ad Air France - Klm postula il superamento di una liturgia la cui celebrazione non può modificare più di tanto i termini della proposta di acquisto, delle relative condizioni e degli impegni dell’acquirente. Da trattare c’è davvero poco perché per trattare è necessario un minimo di forza contrattuale che la compagnia, lo Stato che ne è l’azionista di controllo ed i dipendenti attraverso i loro sindacati hanno fatto di tutto, ma proprio tutto, per compromettere.

Al punto in cui sono le cose, la prospettiva che Alitalia venga salvata all’interno del maggiore gruppo europeo del settore con la salvaguardia del brand, del tricolore sul timone di coda e della maggior parte dei suoi dipendenti è tutt’altro che disprezzabile.

Anzi, è la fine accettabile di una storia che avrebbe potuto finire molto peggio e che comunque rimarrà nei libri come esempio della capacità tutta italiana di disperdere un patrimonio di esperienze, di professionalità, di potenziale tecnico e di mercato come quello che Alitalia, in anni ormai lontani, aveva dimostrato di saper accumulare.

Pubblicato il: 17.03.08
Modificato il: 17.03.08 alle ore 8.57   
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« Risposta #19 inserito:: Marzo 21, 2008, 07:38:19 pm »

Se decolla la propaganda

Alfredo Recanatesi


Davvero qualcuno potrebbe credere che in Italia ci siano imprenditori disposti a investire sul risanamento e sul rilancio di Alitalia? Via. Se in Italia ci fosse una Imprenditoria con la “i” maiuscola la compagnia non sarebbe arrivata allo stato precomatoso nella quale purtroppo si trova. Di tempo per pensarci e organizzarsi non è certo mancato dal momento che il problema si è posto da almeno cinque anni, ossia da quando una soluzione sarebbe stata finanziariamente meno impegnativa e industrialmente meno complessa.

L’ipotesi, si sa, è stata avanzata da Berlusconi nel corso di un intervento elettorale. Come imprenditore, oltre che come politico, Berlusconi si ritiene un leader. Ma, mentre un leader politico può dire ciò che vuole, rimanendo a chi lo ascolta in che misura dargli credito, un leader imprenditore no: se entra oggi, a pochi giorni dalla scadenza che l’unico potenziale acquirente ha posto per una definitiva decisione, nella questione Alitalia deve farlo seriamente. Il leader politico può anche limitarsi a sventolare la bandiera dell’italianità per caricare il suo elettorato in vista delle elezioni. Il leader imprenditore, se auspica e sollecita una cordata di imprenditori italiani per rilevare e rilanciare la compagnia, la deve rendere credibile mettendo sul piatto, lui per primo, l’impegno finanziario che è disposto ad assumersi nella operazione. Invece lui ha gettato il sasso e ritirato la mano, dicendosi personalmente disinteressato alla questione per via del suo impegno politico (sic!) ma prospettando, tanto per dire, una possibile, ma sempre vaga, adesione dei figli. Il cardine dell’operazione dovrebbe essere - sempre nell’ipotesi di Berlusconi - la accoppiata Air One-Banca Intesa, che già si fece avanti quando fu bandita l’asta, ma con un piano industriale che non raccolse valutazioni positive, tanto che la stessa Banca appare già da tempo ben lontana dai suoi originari entusiasmi.

È evidente, dunque, che quella di Berlusconi è solo una strumentalizzazione in chiave elettorale di una vicenda triste, per molti aspetti drammatica, come quella di Alitalia. Una strumentalizzazione soprattutto degli interessi lombardi che ruotano attorno all'aeroporto di Malpensa. Berlusconi, infatti, non si è limitato a prospettare una possibilità alternativa, ma ha espresso palese contrarietà nei confronti ai Air France-Klm, ben sapendo che il presidente Spinetta puntava ad ottenere il consenso anche del centro-destra per evitare il rischio di ritrovarsi un governo ostile in un Paese del quale gestisce la compagnia di bandiera. Tutto - si diceva - per tutelare il ruolo ed i fatturati di Malpensa, ossia di un aeroporto che - è bene ricordarlo - come hub è sostanzialmente abortito poiché raccoglie una quota modesta del traffico intercontinentale originato nel Nord; ed è abortito perché lo stesso Nord ha commesso la follia di dotarsi di un aeroporto ogni cinquanta chilometri, per cui è molto più semplice e conveniente raggiungere un hub vero - come Zurigo, Fiumicino, Parigi o Francoforte - con un volo da uno di questi aeroporti “sotto casa” che raggiungere Malpensa per strada o in treno.

L’ultimo affronto che Alitalia poteva meritare è proprio di vedere quanto può ancora costituire il suo futuro sacrificato sull’altare di una contingente convenienza elettorale. L’offerta di Air France-Klm può essere anche giudicata colonialista, opportunista, o quel che volete voi. Alcune condizioni poste possono anche essere ritenute mortificanti. Può essere irritante, specie per la mentalità italiana secondo la quale niente è mai definitivo e tutto si può sempre trattare, che si sia arrivati al “prendere o lasciare”. Ma non è questo il punto. Il punto è che il gruppo franco-olandese è l’unico ad offrire ad Alitalia un futuro credibile. Altre possibilità, dopo mesi di procedura ufficiale ed anni di sondaggi, non ce ne sono. Possiamo piangere fiumi di lacrime sul latte versato, ma questo non varrebbe a definire una alternativa. Se l’offerta di Air France-Klm viene lasciata decadere, la situazione economico-patrimoniale di Alitalia rende pressoché automatico il commissariamento, seguito a ruota dal fallimento. E fallimento significa che molti rami d'azienda di Alitalia verranno chiusi, altri finiranno ad altre compagnie o società di servizi, i più perderanno il lavoro, quelli che lo manterranno ricominceranno da zero o quasi, alle dipendenze di altre società.

Creare l’illusione che possano esserci soluzioni più convenienti, più “italiane”, più disponibili a mantenere gli attuali organici alle condizioni economiche e normative attualmente vigenti, e magari anche a mantenere sulla giacca di Malpensa i galloni di hub intercontinentale; tutto questo può aiutare a conquistare facili consensi da spendere il 13 aprile, alla condizione, però, che non si pensi neppure al conto che dopo si dovrà pagare.

Pubblicato il: 21.03.08
Modificato il: 21.03.08 alle ore 8.21   
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« Risposta #20 inserito:: Marzo 25, 2008, 07:37:34 pm »

La crisi e la polvere

Alfredo Recanatesi


E allora: se votiamo per la Lega vuol dire che Malpensa rimane con tutti i voli intercontinentali di Alitalia? E se votiamo per il Pdl vuol dire che Alitalia rimarrà di proprietà italiana? O, ancora: se votiamo per la lista del ministro Bianchi vuol dire che Alitalia ha i soldi per arrivare a fine anno? Oppure: se votiamo Pd vuol dire che regaliamo la nostra compagnia di bandiera ai colonizzatori francesi? Si potrebbe continuare con le posizioni di Casini o con le tante sfumature che pure si possono cogliere all´interno delle coalizioni e degli stessi partiti.

Fatto sta che, presa in pasto dalla campagna elettorale, su Alitalia è stato sollevato un tale fitto polverone dietro il quale non si sa più cosa stia accadendo. Ma è polvere, ossia parole pronunciate senza avvertire la necessità di argomentare o, meglio, avvalorare con dati di fatto quanto con tanta leggerezza si va dicendo. Berlusconi sappiamo com´è fatto: nel bene e nel male si fa prendere dall´entusiasmo fino ad un inconsapevole aggiotaggio annunciando che c´è una cordata italiana pronta a rilevare Alitalia provocando un immediato salto della sua quotazione in borsa (con la Consob che, evidentemente, aveva già cominciato le sue vacanze pasquali). Ma, che membri del governo, senza portare un solo dato contabile, smentiscano il ministro dell´Economia sulla realtà della situazione economica e finanziaria di una Alitalia che lo stesso ministro dell´Economia controlla è cosa già più sorprendente. Com´è sorprendente che la Moratti, Formigoni e l´intero fronte del Nord persistano nel reclamare la moratoria sui voli da Malpensa senza darsi carico di precisare come rimediare ai costi che ciò comporterebbe per una già esangue Alitalia.

Dentro questo irritante polverone ci si urta e ci si scontra senza capire neppure perché o su che cosa, come è accaduto ieri tra governo e sindacati per una frase di Prodi. Nella forma quelle parole potevano anche essere più leggere, ma nella sostanza, avendo richiamato i sindacati a tener conto del reale stato di Alitalia e della oggettiva difficoltà di trattare una cessione quando c´è un solo interessato alla acquisizione, è difficile considerarle fuori luogo anche da chi si da carico di tutelare, per quanto possibile, il futuro dei dipendenti.

Malgrado questo polverone, infatti, la realtà fattuale rimane quella che era: i conti sono quelli che ha l´azionista di controllo, cioè il ministro dell´Economia; l´unica offerta avanzata formalmente e supportata da un piano industriale credibile è quella di Air France - Klm; se questa decade, malgrado qualche elasticità per la trattativa dichiarata ieri da parte francese, ad Alitalia non rimarrebbe che portare i libri in tribunale. La realtà fattuale rimane quella che era anche dopo l´annuncio e le assicurazioni di Berlusconi, perché non c´è un imprenditore che è uno, una banca che è una, un partner che è uno che finora abbia confermato una pur vaga disponibilità a partecipare alla ventilata cordata italiana. Per altro, non c´è esempio di una compagnia di bandiera che, arrivata sull´orlo del fallimento, sia stata "salvata" senza un passaggio di proprietà transnazionale e senza un iniziale drastico taglio delle rotte, della flotta e degli organici. Neppure la spagnola Iberia che fu, si, privatizzata con un nucleo forte di azionisti spagnoli e non più di un 10% di British Airways, ma solo a motivo di una norma europea ora destinata a decadere con la liberalizzazione dei cieli, aprendo così la strada all´esercizio della opzione che non a caso gli inglesi avevano chiesto ed ottenuto per salire al 50 ed oltre per cento. Ciò nondimeno, il ruolo, e persino la percezione, di Iberia come compagnia di bandiera spagnola non è in discussione né in Spagna, né altrove.

Auspicare che la soluzione del problema Alitalia venga tenuta fuori della campagna elettorale sarebbe, a questo punto, ingenuo. Altrettanto ingenuo sarebbe auspicare che almeno non si creino illusioni che tutto, a Roma come a Malpensa, possa proseguire come prima. Non rimane che auspicare che per le loro scelte gli elettori sappiano distinguere le informazioni oggettive e documentate dalle pur intriganti melodie dei tanti pifferai in competizione tra loro.

Pubblicato il: 25.03.08
Modificato il: 25.03.08 alle ore 11.18   
© l'Unità.
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« Risposta #21 inserito:: Aprile 03, 2008, 05:28:35 pm »

Una sconfitta per il Paese

Alfredo Recanatesi


È naturale che in ogni trattativa i contendenti tendano ad ottenere il maggiore vantaggio possibile. L’abilità di chi tratta, quindi, sta nel calibrare le proprie richieste entro i limiti che ragionevolmente si può presumere che la controparte possa accettare. Quei limiti possono essere anche superati, ma nella consapevolezza che una rottura della trattativa schiuda prospettive più vantaggiose, o meno svantaggiose, di quelle che una conclusione accettabile per la controparte avrebbe comportato. Ieri i sindacati si sono presentati al tavolo con Air France-Klm, di fatto, con un nuovo piano industriale per Alitalia.

E lo hanno fatto affermando che sarebbe stato più vantaggioso per la compagnia franco-olandese, quasi a sostenere, implicitamente, di essere più avveduti del loro interlocutore nella gestione e nella pianificazione di una grande compagnia aerea. Hanno chiesto il mantenimento dell’area cargo, una riduzione dei vecchi DC Super 80 da radiare, una anticipazione degli acquisti degli aerei a medio raggio di nuova generazione: e fin qui la corda è stata tirata, ma poteva anche reggere. Dove, invece, la corda si è rotta è sulla inclusione in Alitalia di Az Service attraverso un aumento di capitale sottoscritto con il conferimento delle attività di AZ Service da parte di chi attualmente ne possiede il controllo, cioè Fintecna, cioè il ministero italiano dell’Economia. Una tale operazione avrebbe comportato non solo un sostanziale ingrandimento dell’“oggetto” che Air France-Klm si è offerta di acquisire, ma anche e soprattutto che il gruppo transalpino si sarebbe ritrovato socio, sia pure di maggioranza, dello Stato italiano. Non può essere considerato senno di poi sostenere che una tale richiesta non poteva in alcun modo essere accettata sia per la prospettiva in sé, sia perché, semmai una possibilità fosse stata intravista, per concretarsi avrebbe richiesto la delibera di approvazione da parte del consiglio di amministrazione del gruppo franco-olandese, dopo un complesso iter di analisi, approfondimenti e probabili ulteriori trattative. Insomma, altri mesi.

Non si può pensare che i sindacati volessero tentare un escamotage per mantenere in Alitalia una presenza della politica italiana, ma certo è che non potevano ignorare la elevata probabilità che quelle richieste fossero state ritenute irricevibili segnando così la rottura della trattativa con l’unico possibile e credibile acquirente di quel che rimane della compagnia di bandiera italiana. E rottura, infatti c’è stata, con uno Spinetta che si è alzato dal tavolo affermando «per me è finita qui» e probabilmente benedicendo il momento in cui condizionò la sua offerta alla preventiva accettazione da parte delle organizzazioni sindacali, con la conseguenza delle immediate dimissioni del presidente dell’Alitalia, Prato, e la convocazione per oggi di un consiglio dei ministri straordinario. Dopo quanto il ministro dell’Economia ha ripetuto per l’ennesima volta in Parlamento, ossia che dopo Air France-Klm non ci sarebbe potuto essere altro che il commissariamento, il campo delle ipotesi sul futuro di Alitalia è davvero ristretto: altri possibili acquirenti non ce ne sono; quand’anche ci fossero, non sarebbero stati certo incoraggiati dalle cronache di questi ultimi giorni; soldi pubblici ad Alitalia non possono essere dati perché sarebbero aiuti di Stato; la compagnia continuerebbe a perdere e nel giro di poche settimane si renderebbe insolvente verso i dipendenti e verso i fornitori.

Eppure c’è qualcuno che per interessi particolari va dicendo che il fallimento sarebbe meglio della “svendita” al gruppo franco olandese; qualcun altro continua a scrutare l’orizzonte in attesa di un cavaliere bianco che salvi Alitalia così com’è, senza esuberi, e magari reintegrando Malpensa nel grado di hub.

Sperando di sbagliarci, siamo, invece, tra i tanti che ritengono il fallimento una sconfitta del Paese non solo perché a perdere il lavoro saranno molti di più di quelli messi in conto da Air France, non solo perché l’Italia non avrà più una compagnia di bandiera che ne porti per il mondo un segno identitario, non solo perché lo stesso marchio (forse il cespite di maggior valore) potrà essere acquistato da chissà chi per farne chissà quale uso, ma soprattutto per la dimostrazione che si è data, con abbagliante evidenza, della disperante incapacità di isolare dagli interessi corporativi e di parte, anche quelli più minuti e contingenti, le soluzioni delle criticità, anche quando si tratta del futuro di aziende in qualche modo simbolo, ed anche quando di soluzioni ce n’è una sola.

Pubblicato il: 03.04.08
Modificato il: 03.04.08 alle ore 8.27   
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« Risposta #22 inserito:: Aprile 24, 2008, 09:29:16 am »

Alitalia, il grande sabotaggio

Alfredo Recanatesi


Sulla distruzione di settori industriali l’Italia ha una capacità consolidata, ma mai si era arrivati ad un caso come quello dell’Alitalia. L’integrazione nel gruppo Air France-Klm di quanto ancora rimaneva della compagnia di bandiera era notoriamente l’unica concreta possibilità di dare un futuro ad una aerolinea italiana che portasse in giro per il mondo il segno del nostro Paese. Poteva piacere o non piacere - per carità, tutte le opinioni quando formate in buona fede sono rispettabili - ma era l’unica, nessun altro in questi ultimi mesi ed anni avendo mostrato interesse a rilevare una azienda per la quale era notorio che si stesse cercando una nuova proprietà.

Per mere convenienze elettorali, questa possibilità è stata direttamente ed indirettamente boicottata.

Direttamente quando Berlusconi dichiarò irricevibili le proposte franco-olandesi annunciando nello stesso tempo fantomatiche alternative prima con la storia della cordata di imprenditori nazionali, che è gente che difficilmente rischia soldi per far crescere le sue aziende, figurarsi se ne mette in una azienda disastrata come Alitalia; poi con le banche, nessuna delle quali a tutto ieri ha mai ammesso di avere un qualche pur vago progetto in merito; e infine, dopo il soggiorno di Putin a Villa Certosa, con Aeroflot, che costituisce una ipotesi inconsistente se non altro sotto il profilo industriale dal momento che la compagnia russa ha una rete nella quale - lo dice chi di queste cose ne capisce - Alitalia non è in alcun modo integrabile con profitto.

Tra le cause dirette che hanno fatto saltare l’integrazione nel gruppo franco-olandese c’è anche la questione di Malpensa sulla quale Pdl e Lega hanno condotto una rilevante parte della campagna elettorale. Dimentichi, l’uno e l’altra, che l’originario progetto di fare di quell’aeroporto un hub è stato compromesso non solo dall’assenza di ogni logica di programmazione territoriale che ha consentito lo sviluppo nel nord di tanti aeroporti regionali sui quali si disperde la domanda di traffico, ma anche, fin dall’inizio, dalla difesa per evidenti motivi di consenso politico-elettorale del ruolo di Linate (la resistenza politica a ridurre il ruolo di Linate per favorire il lancio e il consolidamento di Malpensa fu il motivo, alla fine degli anni 90, della rinuncia olandese ad integrare Klm nella Alitalia per formare un gruppo che, allora, sarebbe stato dominato dalla compagnia italiana). E tacendo, l’una e l’altra, che alla difesa di Malpensa non sono estranei i lauti indennizzi che, per l’incomodo del rumore, molti comuni del varesotto - quelli che tanto ce l’hanno con Roma ladrona - percepiscono ed intendono continuare a percepire fino ad aver chiesto, in passato, una riduzione della intensità e della rumorosità del traffico, ma moderata, in modo da non scendere sotto le soglie fissate per gli indennizzi.

A porre la parola fine nella trattativa con Air France-Klm hanno concorso anche cause indirette. Tra queste, quelle relative alle fantasmatiche alternative più convenienti ad una intesa con il gruppo franco-olandese. Avendovi prestato fede, seppure contro la logica e contro i loro stessi interessi, le organizzazioni sindacali sono state indotte ad irrigidirsi fino ad indurre il presidente di Air France da alzarsi dal tavolo e tornarsene a Parigi. Inoltre, lasciando nella più assoluta incertezza il futuro della compagnia, con le minacce della Iata e quelle dell’Enac di revocare la autorizzazioni di volo a causa della erosione delle garanzie finanziarie sulla possibilità di rispettare le condizioni operative, la quota di mercato di Alitalia continua, giorno dopo giorno, a precipitare ampliando le perdite che, giorno dopo giorno, la sua operatività già costa.

Tutto questo è motivo della grande soddisfazione che gli esponenti del centro-destra vanno manifestando in queste ore. Cosa abbiano in mente è davvero difficile capire perché, a questo punto, delle due l'una: o viene nominato un commissario che di fatto apre il fallimento e la fine della storia, oppure si trova il modo, comunque in conflitto con la Commissione di Bruxelles, di finanziare ancora una volta le perdite a carico del bilancio statale. Molte altre volte - lo sappiamo tutti - è stato fatto; Alitalia è già costata una montagna di miliardi a tutti noi cittadini italiani, ma sempre nella prospettiva di qualche piano di risanamento e di rilancio. Poi magari questi piani si andavano ad incagliare sulla opposizione dei sindacati che trovava facile sponda nel ventre molle della politica. Comunque, almeno nella forma, ci si provava. Questa volta, invece, il nuovo finanziamento, eufemisticamente chiamato prestito, verrebbe erogato, anzi verrà erogato, al buio, senza alcuna prospettiva di un qualche futuro, perché dopo quello franco-olandese di autobus verso un accettabile futuro sarà davvero difficile che ne possano passare.

Pubblicato il: 23.04.08
Modificato il: 23.04.08 alle ore 8.15   
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« Risposta #23 inserito:: Giugno 01, 2008, 04:16:53 pm »

Primo: difendere i salari

Alfredo Recanatesi


Di fronte alle continue e sempre più marcate impennate dell’inflazione - ormai siamo a 3,6 su base annua e addirittura allo 0,5 nel solo mese che sta finendo - viene da chiedersi quale mai possa essere il livello in grado di suscitare una credibile e determinata reazione strategica. Finora il sistema politico, le organizzazioni rappresentative degli imprenditori e dei lavoratori, le associazioni dei consumatori, gli osservatori economici hanno preso atto che c’è un problema di surriscaldamento dei prezzi che viene dai mercati internazionali dei prodotti di base.

Che determina a sua volta un problema di erosione del potere d’acquisto della maggior parte della popolazione che vive di redditi da lavoro o di pensione. Ce n’è voluto, ma oggi questi due aspetti della dinamica dei prezzi sono presenti a tutti e finalmente senza più le contestazioni ed i distinguo che almeno inizialmente venivano avanzati. Oggi, e soprattutto dopo i dati comunicati ieri dall’Istat, non c’è più nessuno che contesti l’esistenza si questi problemi e delle loro, spesso drammatiche, conseguenze sociali. Viene, però, da chiedersi: e allora? Si può fare qualcosa per rimediare? Ed, eventualmente, che cosa?

Qui stiamo ancora - come dicono le persone colte - ab ovo, non solo per la esiguità degli interventi, ma soprattutto per la confusione tra tattica e strategia e, dunque, tra gli interventi che al più possono tamponare l’emergenza con le politica che possano puntare a soluzioni durevoli e concrete.

L’emergenza è stata fronteggiata con le misure fiscali del passato governo e di quello attuale. Quelle misure sono state giustificate dal fatto che bisognava fare qualcosa, e che quel "qualcosa" non poteva essere ricercato che nella fiscalità: questa è la logica delle misure che vanno dalla riduzione del cuneo fiscale alla abolizione dell’Ici sulla prima casa. Di misure di questo tipo si potrebbe dire che se non ci fossero state la condizione di chi sta peggio sarebbe oggi ancor più drammatica. Ma occorre anche prendere atto che la loro efficacia è stata ben modesta. È stata modesta sia perché la progressione dei prezzi ci ha messo davvero poco a travolgere il modesto sollievo che quelle misure potevano generare, sia soprattutto perché, se si manovra la leva fiscale, per dare da una parte occorre togliere da un’altra, e poco importa se la prima ha maggiore visibilità mediatica della seconda. Il bilancio dello Stato è il bilancio della comunità alla quale tutti noi apparteniamo, per cui al massimo si può ottenere un effetto redistributivo che per tante ragioni - dimensione dell’area sociale del disagio, preclusione politica ad accentuare la progressività dell’imposizione fiscale, rigidità della struttura della spesa pubblica - non può essere che modesto. Modesto ed anche contingente, perché la lievitazione dei prezzi non è un fatto occasionale che possa essere superato in breve tempo, ma deriva dalla geopolitica della globalizzazione che determina un forte aumento della domanda dei prodotti di base e, dunque, una tensione del loro prezzo. Si, poi ci possono essere momentanei effetti speculativi, ma - per dire - il petrolio sotto i 100 dollari sarà difficile poterlo nuovamente vedere.

E allora, se sui prezzi internazionali da fare non c’è nulla, e se manovrando sulla fiscalità da fare c’è poco - così come non ci si possono attendere effetti risolutivi dagli interventi sui petrolieri o dai controlli del prezzo degli alimentari che qualcuno, tanto per farsi presente, va invocando - la soluzione contro il progressivo e sempre più evidente impoverimento non può stare che in un aumento dei redditi: un aumento che consenta almeno di difendere il livello dei consumi che l’Italia aveva raggiunto. Un aumento dei redditi - è opportuno precisare per non scambiare lucciole per lanterne - che non derivi, o non derivi soltanto da una loro detassazione, ma dalla capacità del sistema produttivo di generare ricchezza, anche inserendosi stabilmente sui mercati sui quali i beneficiari di quei prezzi internazionali che tanto stanno aumentando, a cominciare dai Paesi produttori di petrolio, riversano e riverseranno il loro potere d’acquisto.

In definitiva, è sempre più cogente un salto di struttura, di qualità, di livello del sistema produttivo, una parte troppo piccola del quale - come l’Istat ha abbondantemente documentato - si va adeguando agli scenari operativi del mondo che viviamo in questi anni. Poi, certo, ci sono da affrontare questioni di equità distributiva, di riduzione delle rendite, di aumento della concorrenza, di differenzazione delle fonti energetiche; ma se alla base di tutto non c’è un sistema produttivo strutturato in imprese di maggiore dimensione, più propense ad investire e ad impiegare personale di elevato livello di specializzazione, capace di offrire per il mondo prodotti non facilmente replicabili, e quindi in grado di remunerare adeguatamente il lavoro senza esporsi così alla concorrenza dei Paesi a basso costo, ogni altra cosa non basterà ad arrestare l’impoverimento che il divario tra prezzi e salari dimostra con una evidenza sempre più drammatica. Non si dica che è difficile indurre il sistema produttivo ad evolversi in questa direzione perché già lo sappiamo; ma questo non cambia la realtà delle cose con le quali l’intero Paese si deve misurare.


Pubblicato il: 31.05.08
Modificato il: 31.05.08 alle ore 15.16   
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« Risposta #24 inserito:: Giugno 01, 2008, 05:17:16 pm »

Quello che manca

Alfredo Recanatesi


Da quando la sovranità monetaria nazionale è stata devoluta alla Banca centrale europea, i compiti istituzionali della Banca d’Italia sono essenzialmente due: la vigilanza sulla stabilità del sistema bancario e il supporto di analisi economica offerto al governo e al resto del Paese. Per quel che riguarda il primo compito, le considerazioni finali di quest’anno rivendicano, e giustamente bisogna dire, il coinvolgimento non più che marginale del sistema bancario italiano nella crisi finanziaria globale innescata dai mutui sub-prime americani.

Merita, però, di fermarsi soprattutto sul secondo compito, nello svolgimento del quale la Banca d’Italia ha una tradizione che la distingue dalle altre banche centrali sia per l’approfondimento della analisi dei problemi del quale è capace il suo poderoso ufficio studi, sia per una visione nella quale l’ottica monetarista è integrata, spesso temperata, da una considerazione del quadro socio-economico all’interno del quale la politica monetaria è destinata ad operare.

Ebbene, per questo aspetto la relazione di Draghi è apparsa carente, poco avendo aggiunto alla individuazione dei problemi dei quali l’economia soffre, ed ancor meno avendo concorso alla definizione delle possibili e più convenienti soluzioni.

L’unanimità dei consensi manifestati al termine delle "considerazioni" da maggioranza e da opposizione, da imprenditori e da sindacalisti, è di per se significativa della assenza di ogni approfondimento analitico e propositivo di temi sui quali, a motivo della loro genericità, nessuno può dissentire. Chi può contestare che la pressione fiscale vada ridotta, che la spesa pubblica vada ridotta, che la produttività del sistema produttivo torni a crescere, che i trasferimenti al Mezzogiorno obbediscano a criteri più di efficacia che di quantità? Su affermazioni di questo tipo tutti possono convenire e battere le mani, ma l’ostacolo da superare è la contrapposizione degli interessi che emerge nel passo successivo a quello della mera constatazione, ossia quando si tratta di stabilire quali spese tagliare, quali tasse ridurre ed a favore di chi, chi e come deve darsi carico di una cabrata della produttività, come convertire l’impegno verso il Sud senza alimentare altri problemi sociali e, quindi, politici.

Non si tratta, beninteso, di prendere le parti di qualcuno, ma di inquadrare i diversi problemi nella cornice dell’interesse generale del Paese da parte di una istituzione, la Banca d’Italia appunto, che per sua natura è al difuori ed al disopra di quegli interessi contrapposti. Il passato è ricco di contributi in questo senso: può essere ricordata l’analisi sul divario tra la dinamica dei salari e quella dei profitti, oppure l’esiguità della presenza italiana sul mercato mondiale dei prodotti ad alta tecnologia, o ancora quella sulla dimensione media delle imprese e la loro conseguente ritrosia ad investire; analisi che, se avessero avuto un seguito nella legislazione e nei comportamenti, oggi forse l’Italia si troverebbe in una situazione meno critica.

Questa lacunosità è risultata particolarmente evidente allorché il Governatore ha trattato l’aumento dell’inflazione.

Lo ha fatto con l’asetticità ed il distacco del banchiere centrale, incurante non solo della circostanza che si tratta di una inflazione tutta concentrata su prezzi di generi di prima necessità e che pesa, di conseguenza, soprattutto sulle classi più deboli, ma incurante anche del fatto che l’impoverimento che ne deriva ha innescato una spirale lungo la quale la domanda interna scende, scendendo sottrae alimento alla crescita, e rallentando la crescita pone le premesse di un ulteriore impoverimento. Pur rimanendo politicamente neutrali, le analisi che ci ha offerto l’Istat pochi giorni fa hanno dato un contributo ben più consistente alla conoscenza della dimensione e delle cause di questi pèroblemi.

Ma la Banca d’Italia di oggi è così. Comunque si giudichi il governatorato di Antonio Fazio, la sua conclusione è stata colta per una riforma che l’ha depotenziata, ne ha ridotto i poteri ed ha inibito il suo vertice dallo svolgere ruoli e dall’assumere iniziative che possano suonare come critiche all’operato della politica. Draghi sa bene che è questo il senso della riforma e non fa che adeguarvisi.

Le sue "considerazioni" sono sempre più brevi, sempre più anodine, sempre più riepilogative. Viene da pensare che se ne potesse fare a meno ne sarebbe ben felice.

Pubblicato il: 01.06.08
Modificato il: 01.06.08 alle ore 6.52   
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« Risposta #25 inserito:: Giugno 05, 2008, 09:41:43 pm »

Tremonti e la favola di Robin Hood

Franco Recanatesi


Compito di un governo non è quello di darsi un ruolo da Robin Hood, ma quello di evitare che il Paese abbia bisogno di Robin Hood. Tremonti ha una consumata abilità nell’usare l’arte dialettica come il pifferaio magico usava il suo strumento per farsi seguire da moltitudini di topolini, e così ha presentato la sua idea di una tassa straordinaria per colpire i profitti dei petrolieri con frasi del tipo «la gente che ha fame non aspetta», oppure «a profitti straordinari, prelievi straordinari». Poiché resistiamo a svolgere il ruolo del topolino, riteniamo utile scremare la posizione del ministro dalla sua immaginifica presentazione ed andare al sodo della sostanza che c’è sotto.

E quel che c'è sotto è inquietante per la concezione stessa che sottende sull'azione del governo e sulla cultura che la ispira. Vestire i panni del difensore della povera gente è una operazione di marketing politico poco credibile, ma ugualmente efficace perché quanti stanno subendo erosioni del proprio già magro tenore di vita sono tanti e non dispongono di soluzioni alternative a quella che Tremonti comunque prospetta. La risonanza che le sue idee stano riscuotendo in Italia e - seppure con maggiore cautela - in altri Paesi europei dove sono presenti problemi analoghi, dimostra la povertà di analisi e di idee sul problema globale del rincaro dell'energia e di molte derrate alimentari. Ma questo non basta per dare un giudizio positivo sulla ipotesi di una imposizione straordinaria sui profitti straordinari dei petrolieri nostrani (non quelli, ovviamente, che, in quanto produttori di petrolio, sono all'origine del rincaro). E i motivi sono più d'uno.

Si può cominciare da una considerazione di fondo che attiene i profitti da tassare. Chi è che stabilisce se i profitti sono tali, e dunque da considerare leciti, o sono sovraprofitti, e dunque da considerare illeciti? Dov'è la linea che può stabilire l'etica dalla quale Tremonti si dichiara mosso? È stupefacente come, anche tra chi professa idee liberali e di mercato, non sorga neppure il dubbio su quanto possa essere sconvolgente la affermazione di un principio in base al quale il governo si attribuisce il diritto di giudicare se è giusto o no, se è etico o no, quanto ciascuno, rispettando le regole vigenti, riesce a guadagnare. Principio al quale non deve fare ombra la circostanza che, nell'occasione, riguarda una categoria che non gode certo di grande popolarità come quella dei petrolieri. Se c'è un problema di profitti ritenuti per qualche misura eccessivi, la causa sta semmai in un difetto di concorrenza. Allora è qui che semmai un governo dovrebbe intervenire, anche perché, se così non fosse, se cioè fossimo in presenza di pratiche collusive di un qualche oligopolio, ogni imposizione fiscale aggiuntiva potrebbe essere bellamente trasferita sui prezzi ed a pagarla, alla fine, sarebbero i consumatori. Insomma, una beffa.

E poi: perché solo i petrolieri? I rincari che stanno erodendo il potere d'acquisto di tante famiglie non sono solo quelli di benzina e gasolio, ma anche, e soprattutto, quelli di pasta, pane, latte, gas, elettricità e tanti altri beni ancora più necessari dei carburanti: è immaginabile che l'impeto dirigista armato dalla clava fiscale possa trovare una soluzione per tutti? Con quale sistema economico ci ritroveremmo alla fine? Forse con un governo che decide quanto è giusto che guadagnino fornai, pastai, fino a chiunque operi nella produzione e nel commercio? Non si scherza con il funzionamento dell'economia di mercato, ed in primo luogo non si scherza con l'impoverimento che fasce sempre più numerose di popolazione stanno subendo. Se Tremonti vuole davvero fare il Robin Hood sa bene dove potrebbero essere tratte risorse per lenire l'indigenza dei più poveri senza sovvertire i principi del libero mercato ed evitando di usare il fisco per piegare al servizio di finalità politiche il comportamento di specifiche categorie di operatori economici: ripristinando l'Ici sulle case dei proprietari più abbienti che in questi anni sono raddoppiate di valore; riformando la tassazione delle rendite finanziarie vergognosamente favorite dal fisco rispetto ai redditi da lavoro; mettendo le mani nelle tasche di chi si attribuisce stock-option e premi milionari a carico anche di imprese traballanti; non vediamo l'affermazione di grandi principi etici in questi favori che il fisco, con buona pace di Robin Hood, continua incontestato a concedere.

Si potrebbe continuare, ma la finiamo qui perché anche per i Robin Hood i tempi sono cambiati. Un fisco più giusto ed efficiente è una esigenza che risponde alle istanza di equità distribuiva e di equilibrio sociale, mentre minimo è il concorso che può dare per invertire il processo di impoverimento del Paese. Questo processo è innescato da fattori geopolitici sui quali le possibilità di intervento dei singoli governi sono pressoché nulle. Di conseguenza, l'impoverimento può essere arrestato solo producendo una maggiore quantità di ricchezza, cioè - per non fermarsi a questa affermazione di stantia genericità - inducendo una profonda evoluzione del sistema produttivo perché il valore aggiunto che genera possa sostenere una più elevata remunerazione del lavoro e, così, reggere il passo dei rincari che agitano e continueranno ad agitare la scena dell'economia mondiale. Se si cominciasse ad andare in questa direzione, per quanto tempo possa volerci, potremmo sperare di diventare un Paese nel quale Robin Hood possa rimanere tranquillo tra nei libri di favole.

Pubblicato il: 05.06.08
Modificato il: 05.06.08 alle ore 8.54   
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« Risposta #26 inserito:: Giugno 23, 2008, 11:48:11 pm »

Pessime medicine a un’economia malata, per accontentare Confindustria



Quella sociale e quella economica sono due emergenze diverse; connesse tra loro, certo, ma diverse. La prima è quella posta dalla crescente quota di popolazione che subisce un arretramento del proprio tenore di vita, che ha difficoltà ad arrivare a fine mese, che non vede alcun punto di riferimento per poter programmare il proprio futuro. La seconda è l’emergenza posta da un sistema produttivo che fatica a tener testa alla concorrenza e, conseguentemente, da una sostanziale stagnazione.

La cultura di centro-destra non ha risolto, neppure in via teorica, l'esigenza di affrontare contestualmente queste due emergenze: nell'affrontare una contraddice l'altra, e viceversa. Fermandoci all'esempio più recente di queste contraddizioni - è cosa di questi giorni -, per affrontare l'emergenza sociale si inventa la social card che, al di là del paternalismo caritatevole dello strumento scelto, implica pur sempre risorse da redistribuire a beneficio di una tra le categorie più disagiate.

Passano poi pochi giorni e, nel fissare il tasso di inflazione programmato, che costituisce il riferimento da assumere per il rinnovo dei contratti di lavoro, tira fuori quell'1,7% tanto irrealistico da rappresentare una provocazione. Che sia tale non lo dice solo l'esperienza dei milioni di italiani che ogni giorno devono fare la spesa o hanno bisogno di fare benzina o gasolio; né lo dicono i sindacati ed i partiti d'opposizione che potrebbero essere mossi da calcoli pregiudiziali o di partigiana opportunità. Lo dicono i mercati finanziari attraverso i tassi di interesse sui quali la domanda e l'offerta di capitali si incontra sulle diverse scadenze. I quali mercati finanziari sanno, come chiunque in buona fede del resto, che si, ci sarà anche la speculazione come dice il ministro Tremonti, ma questo non vuol dire che il petrolio, o il grano, il latte o il mais tornino ai prezzi di uno o due anni fa (per il petrolio - che poi significa carburanti, elettricità, gas, riscaldamento - si parla di speculazione da quando il prezzo arrivò a 80 dollari; ora siamo quasi al doppio).

Allora, delle due l'una, e da qui non si scappa: o il governo con quell'1,7 mette in conto una stretta di politica monetaria feroce per comprimere comunque, qualsiasi cosa accada, il tasso di inflazione sotto il 2%; oppure mette in conto una riduzione surrettizia del potere d'acquisto di salari e stipendi. E siccome quella stretta di politica monetaria è quanto mai improbabile, perché significherebbe mandare in recessione l'intera economia europea, delle due ipotesi rimane la seconda, ossia quella di una erosione di salari e stipendi operata non recuperando che la metà (o anche molto meno se si considerano i prezzi dei beni a più largo consumo) dell’inflazione che sarà. Insomma, non appena una mano dà, l’altra è già pronta a riprendere.

La contraddizione tra queste iniziative dalle quali il centro-destra non riesce a venir fuori si determina, per un verso, per la indisponibilità di maggiori risorse da destinare a politiche di redistribuzione, e per altro verso, per la pregiudiziale disponibilità ad assecondare la pretesa della Confindustria di recuperare competitività soprattutto attraverso la compressione dei costi e delle condizioni di utilizzo del fattore lavoro. Che la Confindustria prema in questo senso è nelle cose. Lo è molto meno che la politica l'assecondi con tanta solerzia. Che in questa direzione non possa esservi alcuna soluzione all’emergenza della crescita e, conseguentemente, all'emergenza sociale, in passato poteva essere una opinione, ma ora è un dato che si legge nella storia degli ultimi anni, nella stagnazione dei salari reali, nello scivolamento fino alle ultime posizioni nelle classifiche europee, nella stagnazione del Pil anche quando questo cresce nei Paesi più simili al nostro. Del resto, basta leggere qualche libro per apprendere che nessun sistema produttivo si è mai durevolmente affermato nel mondo aggiustando il costo del lavoro alle esigenze della competitività, mentre, all’opposto, sono numerose le esperienze di Paesi che hanno scalato le classifiche mondiali spinti dagli investimenti in innovazione e ricerca resi necessari proprio per recuperare la competitività che un costo del lavoro elevato aveva eroso.

La contraddizione tra la social card di un giorno e l'1,7 di inflazione programmata il giorno appresso è stridente e suscita le comprensibili reazioni polemiche. Ma assai peggiore è la logica dalla quale queste ondivaghe iniziative derivano perché è la logica a causa della quale, per quanto si sia fatto e si faccia entro la sua cornice, ci si deve misurare con una realtà sempre più grama, con emergenze sempre più emergenze, con un declino sociale ed economico sempre più palpabile. Difficile, di fronte a tale pervicacia, immaginare cosa mai debba accadere, perché il seme del dubbio cominci a germinare nelle menti di tanto sicuri e presuntuosi policy makers.

Pubblicato il: 23.06.08
Modificato il: 23.06.08 alle ore 9.32   
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« Risposta #27 inserito:: Luglio 01, 2008, 06:33:10 pm »

Una tassa contro i poveri

Alfredo Recanatesi


Data la storia dell´Italia, non dovremmo temere l´inflazione più di tanto. In anni che ancora in molti possiamo ricordare l´abbiamo conosciuta anche oltre il 20%, eppure l´economia bene o male continuava a crescere e con essa il benessere di tutti o quasi gli italiani. Questa volta, però, è diverso, tanto che il quasi 4% raggiunto in giugno è ben più grave e preoccupante dei tassi a due cifre che sperimentammo anni fa.

I sostanziali cambiamenti dei quali va tenuto conto sono almeno tre: il significato dell´indice, le conseguenze che determina e le possibilità di farvi fronte. Sul primo punto, non siamo certo tra quanti se la sbrigano criticando il lavoro dell´Istat. Questo fa bene il suo mestiere, che è quello di calcolare indici dei prezzi secondo metodologie che occorre conoscere per potersi avventurare in qualche valutazione. Non è colpa dell´Istat se la media dei prezzi risulta da dati estremamente più dispersi che nel passato. Oggi questa media è la risultante di prezzi che stanno salendo con grande rapidità ed intensità, ed altri che rimangono "freddi" o addirittura diminuiscono. Il problema che si pone, mentre si poneva assai meno negli anni passati, è che questa dispersione incide profondamente nella distribuzione del reddito per il fatto che i prezzi più "caldi", con incrementi annui a due cifre, sono quelli relativi ai consumi più diffusi: soprattutto il petrolio, con tutti i suoi innumerevoli derivati dall´energia ai trasporti, e gli alimentari a base di cereali. Queste voci entrano nei bilanci di tutte le famiglie, ma in misura non proporzionale al loro reddito poiché attengono a voci il cui peso relativo è tanto maggiore quanto più quel reddito è modesto. Se - come si dice - l´inflazione è una tassa, questa specifica inflazione è una tassa regressiva in quanto la sua incidenza è inversamente proporzionale al reddito.

Le conseguenze che determina sono, dunque, dirompenti sotto il profilo non tanto economico quanto sociale. Da un punto di vista economico, dato che rincarano soprattutto i prezzi di beni importati o che hanno mercato internazionale, questa inflazione penalizza l´economia italiana nel suo complesso; penalizza il potere d´acquisto del nostro Pil più di quanto questo cresca; e siccome cresce di un quasi niente, di fatto è come se stessimo vivendo una recessione, e neppure lieve. Solo che questa penalizzazione, diciamo pure questa recessione, colpisce prevalentemente la fascia dei redditi medio-bassi, facendo dilatare l´area della povertà e del disagio travolgendo le misure redistributive adottate o annunciate dai governi passati e da quello in carica.

Quando si passi al tema delle politiche da adottare per fronteggiare questa situazione di crescente drammaticità, quindi, la prima osservazione da fare è sui limiti delle politiche redistributive che, come abbiamo già altre volte rilevato, possono tamponare una emergenza, ma non risolvere e - come si è visto - neppure lenire i termini del problema. Questa inflazione viene soprattutto da fuori, è una inflazione "globale", tutt´altra cosa da quella di venti-venticinque anni fa che, nascendo e sviluppandosi all´interno, era in qualche modo governabile al punto da consentire di far crescere l´economia e di distribuire (con un livello di equità che oggi appare invidiabile) gli incrementi della ricchezza prodotta. Venendo da fuori, e determinando un impoverimento del Paese nel suo complesso, non può essere affrontata con politiche redistributive, tanto meno a carico di bilanci pubblici che poi devono compensare gli oneri della redistribuzione comprimendo prestazioni e servizi che sono rivolti, per lo più, proprio a quelle categorie che con la redistribuzione si vorrebbero favorire.

Le politiche di redistribuzione possono essere considerate come misure sociali dall´effetto circoscritto nel tempo, ed accettate, quindi, solo quando la loro funzione sia quella di attendere il tempo necessario perché le politiche di sviluppo da avviare possano produrre i loro frutti. Finora reali politiche di sviluppo non sono state realizzate. Finora sono state adottate solo misure di contenimento dei costi di produzione, un po´ con la normativa fiscale, un po´ con quella sul lavoro. Gli effetti di queste politiche sono sotto gli occhi di tutti: rendendo meno pressante il salto di qualità, di tecnologia, di innovazione che il sistema produttivo deve compiere perché la produzione di ricchezza possa tornare davvero a crescere, anziché sviluppo finiscono per generare sottosviluppo, sperequazioni, declino economico e sociale.

Una politica di sviluppo non può essere avviata né con iniziative redistributive, né confidando esclusivamente nei meccanismi di mercato, né addossando alla collettività in genere, ed al fattore lavoro in particolare, costi che devono essere sostenuti dal valore aggiunto di quanto si produce. O si entra in questa logica, o si dovrà stringere la cinghia di molti buchi ancora.



Pubblicato il: 01.07.08
Modificato il: 01.07.08 alle ore 11.55   
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« Risposta #28 inserito:: Luglio 09, 2008, 11:36:37 pm »

C’era una volta Robin Tax

Alfredo Recanatesi


Non c’è nessun giallo sulla Robin tax. C’è solo che nella stessa maggioranza hanno cominciato a rendersi conto che, così come Tremonti l’ha concepita, è una cosa che non sta in piedi. Ci hanno messo più di un mese, ma comunque alla fine sono arrivati alla conclusione che il trasferimento dell’onere aggiuntivo sui prezzi dei carburanti non è un rischio, ma praticamente una certezza, tanto che sarebbe stato meglio non farne niente. Naturalmente, questa soluzione è esclusa per la sconfessione che ne deriverebbe per l’estro del ministro che la inventò e l’annunciò come un San Giorgio che avesse sconfitto il drago dei petrolieri e dei banchieri.

E allora, di male in peggio: nel tentativo di impedire questo trasferimento, che per i consumatori finali, anziché la prospettata riduzione, determinerebbe un ulteriore aumento del prezzo dei carburanti, l’ipotesi ventilata è quella di affidare all’Autorità per l’Energia il compito di verificare se eventuali ulteriori rincari saranno riconducibili all’aggravio delle imposte e, nel caso, chiederne la motivazione affinché possano essere “adeguatamente motivati”.

Tutto questo suggerisce due ordini di considerazioni. Il primo riguarda il dispositivo delle norme che si delinea come una inutile (o peggio) messinscena. Infatti, non sono previste sanzioni nel caso di rincari non “adeguatamente motivati”, e non lo sono per il semplice motivo che il settore petrolifero è liberalizzato e, come tale, opera secondo le leggi del mercato. Secondo queste leggi, non ci sono prezzi motivati e prezzi che non lo sono. I prezzi ai quali avviene un libero scambio, in regime di mercato, sono motivati per definizione. Ed a limitare l’arbitrio del venditore che possa approfittarsi del fatto che del prodotto che vende non si può fare a meno deve provvedere la concorrenza. Come osservammo non appena la bislacca idea della Robin tax fu esternata, nella sua concezione c’è, infatti, una contraddizione in termini perché, se ci sono rincari dovuti alla presunzione di ulteriori rincari futuri del prezzo del petrolio, essi vanno ricondotti ad un difetto di concorrenza; ma, se c’è un difetto di concorrenza, imporre un aggravio fiscale non serve perché l'onere, malgrado tutte le Autorità che possono esserci messe di mezzo, può venire bellamente girato sui prezzi praticati. Questa considerazione può essere materia di riflessione anche per le tante sedicenti associazioni di consumatori che plaudono alla demagogia dirigista di questi maldestri tentativi di coercizione dei prezzi anziché più utilmente - e diremmo più strutturalmente - impegnarsi a favore di un rafforzamento della concorrenza nel settore dei carburanti, dei servizi bancari e di tanti altri nella macro come nella micro economia.

Il secondo ordine di considerazioni riguarda, appunto, l’intento dirigista implicito in questa vicenda della Robin tax. Ogni storia di dirigismo è sempre cominciata esponendo al pubblico ludibrio una qualche forma di bieca speculazione perpetrata da una minoranza di affamatori ai danni delle masse di consumatori e utenti. Anche il centro-destra, in particolare nella versione che emerge dall’operato di Tremonti, ora non trova di meglio che sollecitare il risentimento di tanta gente, quella alle prese con il problema di far quadrare i conti familiari, additando gli untori di turno e millantando, con spirito vendicativo e modi sarcastici, la capacità di fargliela pagare. È quel centro-destra che aveva cominciato promettendo meno Stato e più mercato, per poi passare alla fase colbertista - rimasta purtroppo alla sola teorizzazione quando, invece, in Italia un intelligente colbertismo potrebbe rimediare ai limiti dell’imprenditoria - per finire ora ad un dirigismo che pretende di poter governare determinati prezzi scelti tra i più impopolari del momento. Un dirigismo frustrante perché al tempo dei prezzi amministrati è succeduto quello delle liberalizzazioni, del mercato, della concorrenza. Ma, ancorché frustrante, l’idea di poter risolvere con un tocco di bacchetta magica un problema che affligge tanta gente genera l’irresistibile pulsione ad agire di forza brandendo il potere impositivo, e non importa se in dispregio dei principi che presiedono - o dovrebbero presiedere - all’esercizio di quel potere; è sempre più facile che impegnarsi in una politica seria ed organica che, prendendo atto del mondo in cui viviamo, anziché l’illusione di un abbattimento dei prezzi offra la prospettiva credibile di un maggiore sviluppo e, quindi, di un aumento dei redditi.

Gli uffici governativi sono ancora al lavoro per trovare le pezze con le quali rattoppare questo decreto nato male e cresciuto peggio. Ma quanto è emerso finora alimenta comunque il sospetto che il Robin Hood comparso dalle nostre parti sia un millantatore: del generoso e leale eroe scozzese ha davvero ben poco, mentre, a guardarlo più attentamente, la somiglianza che mostra è piuttosto quella con un velleitario e un po’ pasticcione Brancaleone.

Pubblicato il: 09.07.08
Modificato il: 09.07.08 alle ore 13.13   
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« Risposta #29 inserito:: Luglio 12, 2008, 11:04:42 pm »

Pagano sempre gli stessi

Alfredo Recanatesi


I dati che con cadenza mensile descrivono lo stato e l’andamento dell’economia italiana ci dicono di una crisi che si sta avvitando lungo una spirale della quale nessuno può ancora dire dove sia il fondo. Lungo questa spirale interagiscono soprattutto consumi e produzione del reddito: la riduzione degli uni determina la contrazione dell’altra; e la contrazione di questa la riduzione di quelli. L’attualità fornisce una spiegazione comoda per tutti.

I rincari dei prezzi internazionali dell’energia, delle materie prime e delle derrate alimentari di base costituiscono una tassa alla quale dobbiamo sottostare perché di quei beni non si può fare a meno. È vero, com’è vero che nessun singolo Paese consumatore ha il potere di intervenire sul livello di quei prezzi. E siccome non c’è niente da fare, questa pesante congiuntura viene accettata quasi fatalisticamente, per cui la preoccupazione per la propagazione degli effetti fa premio su quella per le cause della crisi stessa. Come conseguenza di questo atteggiamento, la Bce innalza il costo del denaro e sollecita moderazione salariale, il che, tradotto, significa che la riduzione del potere d’acquisto di chi vive del proprio lavoro non deve essere recuperata; la Confindustria mette le mani avanti per avvertire che la competitività delle imprese non consente recuperi; il governo si limita a qualche tentativo per tamponare le conseguenze sociali più insostenibili accampando la penuria di risorse (una penuria, comunque, che non ha impedito di affrancare dall’onere dell’Ici le abitazioni di fascia più alta).

Nel suo complesso il Paese, colpito più duramente di quanto si vada dicendo, sembra attendere che passi la nottata, come se il prezzo del petrolio potesse mai ripiegare ai livelli di due o tre anni fa, come se il prezzo del pane e della pasta potesse venire calmierato dai raccolti delle nuove superfici messe a grano un po’ in tutto il mondo, come se la crisi finanziaria innescata dai mutui sub-prime potesse essere risolta nel giro di qualche mese, come se il costo del denaro (e relativo onere per i mutui) potesse tornare ai minimi di quattro-cinque anni addietro. Null’altro si sta facendo. O, almeno, null’altro si va facendo per definire e realizzare, ciascuno per la propria parte, una politica di sviluppo, intendendo per tale una politica che sia in grado di generare il reddito aggiuntivo necessario almeno per compensare quello che il resto del mondo ci sottrae attraverso i rincari dei prodotti di base. Questa è la condizione, l’unica, perché il benessere medio non abbia a ridursi ulteriormente. Poi si potrà parlare di politiche redistributive. Parlare di queste senza parlare di sviluppo, nel senso appena detto, non può portare da nessuna parte; come abbiamo osservato altre volte, significa redistribuire solo la povertà.

Questo per quanto riguarda il Paese nel suo complesso. Ma c’è di peggio. C’è chi si da da fare ma, che poi ci riesca o meno, lo fa nel proprio esclusivo ed immediato interesse. In un quadro come quello descritto dai dati, questo significa che il declino economico generale induce una contesa più accesa tra le categorie nel tentativo di salvarsi: l’obiettivo dell’impegno non è quello di combattere il declino generale, ma di costituirne una eccezione. È questo il senso di quanti, nel vuoto di idee e di iniziative, vanno chiedendo riduzioni di tasse, ben sapendo che ogni riduzione postula un contenimento possibile e certo - ripetiamo, possibile e certo - della spesa; ben sapendo, di conseguenza, che i tagli possibili e certi sono sempre quelli: pensioni, sanità, servizi, per non dire degli investimenti necessari allo sviluppo. Del resto, quando manca un disegno strategico credibile e condiviso al quale rivolgere l’impegno di singoli e categorie, è inevitabile che, chi può, pensi in primo luogo a difendere il proprio particolare. Ed è inevitabile anche che, quando questo è lo spirito prevalente, la spirale del declino continui ad avvitarsi e la forbice tra agiatezza e povertà continui ad aprirsi.

Non è questione, questa, che possa risolversi in breve tempo. Ma certo nessuna soluzione potrà venire fino a quando un governo tenderà a girare sulla "speculazione" la responsabilità di quanto sta accadendo e spaccerà come politica di sviluppo la detassazione degli straordinari e dei premi di produzione; e fino a quando il sistema produttivo non avvertirà come una debacle delle proprie capacità e del proprio ruolo la difficoltà di competere nella quale continua a dibattersi pur con salari il cui potere d’acquisto è fermo a ben quindici anni fa. Nel dar conto della flessione del 6,6% della produzione industriale nell’anno terminato a maggio, Il Sole - 24Ore di ieri ha pubblicato un grafico da cui risulta che, fatta 100 la produzione industriale del 2000, la Germania, malgrado la flessione di questi mesi, è oltre 120, la Francia se la passa peggio perché sta a 105, ma l’Italia è addirittura sotto, a 96-97. E in Francia, e ancor più in Germania, i salari negli ultimi quindici anni fa di strada ne hanno fatta; non tanta, ma ne hanno fatta.

Pubblicato il: 12.07.08
Modificato il: 12.07.08 alle ore 14.14   
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