LA-U dell'OLIVO
Aprile 26, 2024, 12:52:53 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: STEFANIA ROSSINI Carlo Calenda: «Il Pd? Un circolo chiuso. E se dici a Renzi ...  (Letto 1554 volte)
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.754


Mostra profilo
« inserito:: Gennaio 25, 2018, 12:04:01 am »

INTERVISTA

Carlo Calenda: «Il Pd? Un circolo chiuso. E se dici a Renzi che sbaglia diventi suo nemico»
Il ministro dello Sviluppo si racconta: la vocazione politica, l'adolescenza scapestrata, una famiglia ingombrante. «Al Nazareno mi hanno respinto. Virginia Raggi? Il suo atteggiamento mi urta»

DI STEFANIA ROSSINI
18 dicembre 2017

Non c’è giorno che il suo nome non appaia nelle cronache politiche per un motivo o per l’altro: perché ha appena fatto saltare una trattativa ritenuta scorretta, perché si è spazientito con la sindaca di Roma, perché ha difeso la necessità dell’industria 4.0, perché ha dichiarato che vuole vendere Alitalia, perché ha scritto un tweet per spiegare a Matteo Renzi che non c’è differenza tra fake news e fake slogan. Ma anche se resta immobile e muto, Carlo Calenda, ministro per lo Sviluppo economico, continua ad essere evocato come l’uomo giusto per funzioni diverse, da candidato premier del rinato centro destra a supporto di una qualche coalizione di centro sinistra, fino al Macron italiano che scompaginerà gli uni e gli altri.

È forte quindi la curiosità di vedere da vicino questo ministro un po’ anomalo, che non ha una famiglia politica (uscito da Scelta civica, non è mai entrato in un altro partito), ma che è il rampollo d’eccellenza di una popolosa famiglia umana con persone di cinema e di diplomazia. Quello che incontriamo, e che ci parlerà volentieri anche della sua vita privata, è un quarantenne risoluto e vivace, tranquillamente liberista in un contesto che si dice socialdemocratico, convinto della bontà delle proprie idee e impegnato a convincerne l’interlocutore, ma capace anche di pensieri lunghi che vogliono uscire dalla banalità del quotidiano e sfidare la pigrizia della politica.

Lei, ministro, è ormai conosciuto come il politico che prende di petto le questioni, alza la voce e rovescia i tavoli. Su quale idea fonda tutta questa energia?
«Sulla necessità di affrontare al meglio due fenomeni piombati sul nostro Paese e non governati: l’innovazione e la globalizzazione. Sono sempre stati presenti nella storia dell’uomo, ma mai a questa velocità. L’industria italiana ne è uscita fratturata tra chi ce la sta facendo, chi stenta e chi è a pezzi. Io cerco di portare avanti una politica industriale per ogni situazione».

Però quella pensata per l’Ilva di Taranto la sta facendo penare.
«L’acciaio e la sua ripresa, non solo a Taranto ma anche a Piombino e per l’Alcoa, sono il simbolo di questo sforzo. Per ripartire, l’acciaio deve coniugarsi seriamente con l’ambiente, evitando la chiacchiera mediatica dilatoria. Come, per fare un altro esempio, l’Alitalia va sottratta al falso mito della compagnia di bandiera. Non è vero che l’Italia deve averne una, l’importante è avere i collegamenti. Sa che cos’è che tiene insieme tutti questi atteggiamenti?».

Che cosa?
«La fuga dalla realtà, pane quotidiano della politica, cioè l’idea che puoi promettere tutto e il contrario di tutto: avere la compagnia di bandiera ma non spendere soldi, fare l’acciaio ma non gli investimenti connessi, risanare Roma senza muovere un dito. Tanto poi nessuno ti chiede il conto».

A proposito di Roma, lei è andato giù duro con Virginia Raggi. Le ha dato della «turista per caso» e della «sconclusionata».
«Sì, ma soltanto dopo lo sfinimento di riunioni in cui non si presenta o, se viene, sta lì a sentire quello che governo e Regione propongono, e poi dice: “Boh, fate un po’ come vi pare”. Io il tavolo per Roma l’ho fatto perché, alla decima azienda che se ne andava, me lo hanno chiesto i sindacati. Non è che mi sono alzato una mattina e ho deciso di risanare la capitale. E a un certo punto pure io mi urto».

Insomma, si muove, propone, agisce, ma trova continue resistenze. Come lo spiega?
«Con il rifiuto della modernità. È un atteggiamento diffuso ed è anche colpa nostra, della classe dirigente, perché mentre il mondo cambiava a velocità siderale non abbiamo dato ai cittadini gli strumenti culturali per comprendere quanto stava accadendo. Perdiamo tempo a parlare di fesserie dalla mattina alla sera senza capire che la gente è spaventata. Sente parlare di intelligenza artificiale, di società multiculturale e non capisce che futuro l’aspetta. Così si rifugia nel populismo di destra o nella inconsistenza dei 5 Stelle. E si oppone ai vaccini o alle infrastrutture».

Ha una ricetta anche per questo?
«Sì, tanti investimenti, nei beni materiali e immateriali, nella cultura e nell’industria. Gli investimenti sono lo strumento più forte di inclusione sociale. È mai possibile che non si dica che l’industria ha reso grande questo Paese? Anche la pubblicità televisiva è un continuo elogio della campagna e dell’agricoltura. Nessuno ricorda che quando eravamo un Paese agricolo si viveva in condizioni terrificanti dal punto di vista economico, umano e culturale».

Ad ascoltarla, sembra che si senta investito di una missione politica.
«Infatti è così».

Con l’aggiunta di una inaspettata passione politica.
«È vero anche questo».

Allora perché ha dichiarato che non si candiderà alle prossime elezioni?
«Perché non saprei dove farlo».

Davvero non c’è un posto dove le sue idee possano trovare spazio?
«Ho sperato che potesse essere il Partito democratico. Con Renzi ci siamo intesi su molte cose, per esempio sull’ambizione di cambiare il Paese attraverso riforme importanti come il Piano Industria 4.0, ma su altre proprio no. Io vivo di realismo, lui di messaggi motivazionali. E in quanto al confronto, se gli dici che sta facendo un errore, entri subito nella categoria dei nemici. Per me fare politica è lavorare insieme, sennò faccio il manager, almeno mi arricchisco».

Eppure quando nel 2015 ha lasciato Scelta civica, dichiarò che si sarebbe iscritto proprio al Pd.
«Ci ho provato ed è stato un disastro. Sono andato al Nazareno e ho chiesto se ci fosse un posto dove mettere a disposizione le mie competenze, per esempio un comitato sulla globalizzazione, che però non c’era. Qualche mese fa ci ho riprovato dicendo pubblicamente che con un Pd che avesse recuperato lo spirito riformista, mi sarei impegnato volentieri. Mi avesse telefonato, che so, il segretario provinciale di Frosinone! La verità è che il Pd è un circolo chiuso. Comunque, se lo vorranno, posso dare una mano alle prossime elezioni».

Niente a che vedere con la sua esperienza giovanile nel Pci?
«Sono stato iscritto alla Federazione giovanile comunista quasi trent’anni fa, quando ne era segretario Pietro Folena. Mi piaceva molto fare politica e anche solo impastare le pizze alla Festa dell’Unità. Poi sono diventato padre e ho dovuto lasciare. Avevo sedici anni».

Diventare padre a quell’età deve essere un’esperienza sconvolgente.
«Tutt’altro. A me ha salvato la vita. Ero molto scapestrato, a scuola e fuori. Non rispettavo nessuna autorità, facevo sega continuamente, giocavo tutto il giorno a biliardo. E mi sono anche fatto bocciare. Quando mio padre andò a parlare con un insegnante, si sentì dire: “Non abbiamo avuto ancora il piacere di conoscere suo figlio”. L’arrivo di Tai ha cambiato tutto».

Come?
«Dal giorno in cui è nata c’è stato un legame fortissimo. L’ho presa con me e con l’aiuto di mia madre, ho fatto davvero il padre. Ho recuperato l’anno in una scuola privata e, quando ho avuto 18 anni, i miei genitori mi hanno detto: “Ti diamo una mano a mantenerla, però tu devi lavorare”. Così ho fatto l’università mentre guadagnavo anche parecchi soldi come consulente finanziario».

Sembra un destino famigliare. Anche sua madre, Cristina Comencini, era ancora al liceo quando lei è nato.
«Già. E io l’ho fatta diventare nonna a 35 anni. Quando diceva di avere una nipote, pensavano che scherzasse».

La sua è una famiglia con una certa risonanza: un nonno materno come Luigi Comencini, un nonno paterno ambasciatore, un padre economista e scrittore, una madre scrittrice e regista, un patrigno produttore, e qua e là anche qualche impronta di nobiltà. Avere alle spalle un clan come questo è un peso o un vantaggio?
«All’inizio un grande peso e forse il motivo per cui da adolescente ero un disastro. Troppi input che a un certo punto hanno fatto saltare i miei circuiti. Ma poi ne ho capito anche i vantaggi. Mio nonno Luigi era un valdese, molto rigido, un regista con la mentalità da architetto. Quando avevo dieci anni, mi ha fatto fare una parte nello sceneggiato tratto dal libro “Cuore”, ma poi è stato molto felice che io abbia scelto un’altra strada».

Ma lei è stato mai tentato di continuare a recitare?
«Per fortuna recitavo come un cane e lo sapevo. E poi ho sempre avuto, sbagliando, la sensazione che il cinema fosse una cosa frivola. Tutta la serietà mi sembrava incarnata nel mio ramo paterno. Era una genia di grand commis d’Etat, un ambiente in cui si parlava solo di storia e di politica. Ogni sabato e domenica, mio padre mi portava al Foro romano e mi raccontava le storie dell’antica Roma. Non potevo che arrivare alla politica».

Ora ha una famiglia sua, con altri tre bambini.
«E una moglie amatissima. Sto con lei da quando avevo 18 anni. L’ho conosciuta a una festa e non l’ho più lasciata. Ci amiamo ancora follemente».

Pensi che formidabile coppia alla Macron sareste, in versione italiana naturalmente
«Non scherzi, so che lo dicono in giro, ma non funzionerebbe».

Perché no?
«Perché non ci sono né le condizioni soggettive né quelle oggettive per un salto del genere. Non è che devo stare in politica a tutti i costi. Pensavo di poterla fare con il Pd e con Renzi. Non è stato così, quindi amen. Troverò qualcos’altro. E poi mia moglie divorzierebbe subito. Detesta come me la vita sociale legata al lavoro. Soltanto una volta sono riuscito a trascinarla al Quirinale. Le ho detto “Almeno vediamoci una cena di gala, poi il governo finisce!”».

Dopo la sua esperienza di giovane “mammo”, che padre di bambini piccoli è oggi?
«Affettuoso ma anche rigido. Passo con i bambini tutti i week end e tutto il tempo possibile, ma su alcune cose non transigo: niente videogiochi e niente cellulari, perché distruggono la capacità di concentrazione. Mio figlio Giulio, che ha 11 anni, ha avuto un cellulare limitato alle telefonate soltanto perché doveva passare un periodo all’estero. È la lettura che cerco di stimolare».

E lei che cosa legge?
«Ho appena finito il libro di Ezio Mauro “L’anno del ferro e del fuoco” e venivo dalla lettura di “Lenin sul treno” di Catherine Merridale».

È appassionato di rivoluzione russa?
«No, mi interessa Lenin, anzi un dato specifico che lo riguarda. Come ha fatto, tornato dalla Germania, in minoranza nel partito bolscevico, di fatto marginalizzato, con le giornate di ottobre organizzate da Trockij, a riconquistare rapidamente il potere? Mi sono incaponito in questa curiosità».

Non ne ha su altri argomenti?
«Le cito ancora due libri che ho letto quest’anno, “Sapiens” e “La storia di domani” di Yuval Noah Harari. Vi si dice che siamo alle soglie di un salto evoluzionistico che, nel giro di cinquant’anni, ci avvicinerà all’immortalità».

Si aspetta questo dalla scienza?
«Sono ipotesi, non certezze. Ma è probabile che andrà così. L’uomo avrà una vita infinitamente lunga, avrà la capacità di aumentare l’intelligenza, di svincolarsi dal lavoro manuale e, se pure non sconfiggesse la morte, avrà una vecchiaia protratta, sana e potenziata. È per questo che il progresso tecnologico non può essere soltanto promosso, come è sempre stato fatto, ma deve essere governato. Per la prima volta in Occidente le classi dirigenti liberal democratiche si trovano davanti a questa situazione. È un cambiamento di una portata straordinaria, ma noi qui l’affrontiamo parlando di dentiere per tutti».

Le confesso che, ascoltandola, sono sempre meno convinta che smetterà di fare politica. Comunque, le elenco alcuni aggettivi che circolano su di lei: preciso, caparbio, ordinato, sicuro. Ne scelga uno per lasciare un’impronta.
«Sono tutti orrendi. Preferisco quello che lei ha usato poco fa: appassionato. Ecco, innanzi tutto penso di essere una persona che sa cos’è la passione».


© Riproduzione riservata 18 dicembre 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/12/18/news/carlo-calenda-il-pd-un-circolo-chiuso-e-se-dici-a-matteo-renzi-che-sta-sbagliando-diventi-suo-nemico-1.316220
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!