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Autore Discussione: GLORIA RIVA. Il Servizio sanitario nazionale compie quarantanni, sempre più ...  (Letto 2257 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Gennaio 18, 2018, 11:25:22 am »

Più di 120 giorni per una mammografia. Intrappolati nelle liste 31 milioni di malati
Situazione più grave al Sud: il 70 per cento dei cittadini attende per mesi.
C’è chi per curarsi è costretto a indebitarsi ma molti rinunciano alle terapie
Il programma nazionale di governo delle liste d’attesa 2010-2012 è tuttora in vigore ma disatteso.
Regioni e ASL dovrebbero pubblicare sui loro siti gli elenchi con le 58 prestazioni e i relativi tempi di attesa ma i dati divulgati risultano essere imprecisi

Pubblicato il 18/01/2018

FLAVIA AMABILE
ROMA

Può capitare di aver bisogno di un esame o di una visita in tempi rapidi. Ma può anche capitare che la risposta sia un appuntamento dopo mesi, a volte persino dopo più di un anno. Chi ne ha la possibilità paga e si rivolge al settore privato. Chi non può si rassegna ad aspettare e sperare che tutto si risolva comunque nel migliore dei modi. 

È la crudele realtà della sanità pubblica italiana con il lievitare delle liste d’attesa che creano un potente divario tra chi, in caso di bisogno estremo, può permettersi un’alternativa, e chi non può. Il Censis ha fornito anche le cifre di questo fenomeno che quasi tutti hanno vissuto sulla propria pelle: sono 31,6 milioni gli italiani che si sono trovati in questa situazione ma le cifre possono diventare estremamente più drammatiche se si considerano le diverse aree geografiche: è accaduto al 72,9% dei residenti al Sud-Isole, al 68,9% al Centro, al 54,3% al Nord-Est ed al 50,8% al Nord-Ovest. È accaduto anche al 64,7% dei non autosufficienti ed al 72,6% delle famiglie con figli fino a 3 anni. 

Accade soprattutto quando si ha bisogno di visite presso medici specialisti: il 52% degli italiani dichiara di avere optato per uno specialista privato a causa dell’attesa troppo lunga per l’accesso al pubblico.

I tempi che fanno fuggire dalla sanità pubblica chi ha i mezzi per farlo sono 67 giorni di attesa media per una visita cardiologica. Nella migliore delle ipotesi si aspettano 51 giorni nel Nord-Est, nella peggiore 79 giorni nel Centro Italia. 

Per una visita ginecologica bisogna mettere in conto una media di 47 giorni, che diventano 32 nel Nord Est ma possono arrivare a 72 al Centro. 

Per la visita oculistica si aspettano 87 giorni: vuol dire la bellezza di 74 giorni al Sud-Isole e di 104 giorni, più di tre mesi, al Nord-Est. Per la visita ortopedica siamo su una media di 66 giorni, con 53 giorni al Nord-Ovest e un picco di 77 giorni nell’area Sud-Isole. Per una colonscopia si attendono 93 giorni, passando da un minimo di 50 giorni al Nord-Est ad un massimo di 109 giorni al Centro. Per una mammografia la media è di 122 giorni, passando da un minimo di 89 giorni al Nord-Ovest e arrivando a 142 giorni (quasi cinque mesi) al Sud. Per un’ecografia 62 giorni, con un minimo di 42 giorni al Nord-Ovest fino alla media di 81 giorni al Centro. Per una risonanza magnetica 80 giorni, da 50 giorni al Nord-Ovest a 111 giorni al Sud.

Si dirà che è un problema antico e che si sta provando a intervenire. In realtà le liste d’attesa, nonostante le numerose denunce, sono in aumento. Negli anni che vanno dal 2014 al 2017, il Censis ha registrato che, per esempio, le attese per le visite cardiologiche sono aumentate di 8 giorni. Identico l’aumento per chi ha provato a prenotare una visita ginecologica mentre per le visite oculistiche e ortopediche si aspettano ben 18 giorni in più. Per le mammografie l’attesa è addirittura raddoppiata passando da 62 a 122 giorni. 

Tempi di attesa molto lunghi anche nelle segnalazioni ricevute nel 2016 da Cittadinanzattiva-Tribunale dei diritti del malato. Per gli interventi chirurgici, le aree specialistiche più interessate da ritardi sono quella ortopedica (30,7% nel 2015, 28,4% nel 2016), di chirurgia generale (9,8% nel 2015, 14,3% nel 2016) e persino l’area oncologica che dovrebbe essere invece particolarmente urgente (13,1% nel 2015, 12,6% nel 2016). 

Cittadinanzattiva fornisce anche i tempi segnalati per alcune prestazioni specifiche: protesi al ginocchio, cataratta e chirurgia vascolare, tutti con attese di 12 mesi. Si attende anche per gli esami diagnostici: il 19% gli italiani hanno denunciato lunghe attese per un’ecografia, nel 10,5% dei casi per una Tac e nel 10% per una radiografia. In realtà un’alternativa ci sarebbe: se le attese sono incompatibili con i propri bisogni di cura, si ha diritto a esigere la prestazione in tempi certi, in base a quanto stabilisce il Piano nazionale di governo delle liste d’attesa (Pngla) 2010-2012, tuttora in vigore. Però la realtà trova sempre un modo per aggirare le regole. Il Piano Nazionale prevede anche che Regioni e Aziende sanitarie debbano pubblicare sui loro siti ufficiali gli elenchi con le 58 prestazioni e i relativi tempi di attesa. Ma in base alle indagini a campione condotte da Cittadinanzattiva nel 2016 emerge soprattutto tanta approssimazione: attese medie invece di tempi reali, dati non aggiornati, non leggibili, a volte del tutto assenti. 

Uno scenario perfetto per il proliferare di scorciatoie non sempre legali. Secondo un’indagine del Censis, nel 2016 13,5 milioni di italiani hanno saltato la lista di attesa ricorrendo a conoscenze, amicizie, raccomandazioni oppure facendo regali. L’ultimo Rapporto «Curiamo la corruzione» curato da Transparency International Italia, Censis, ISPE Sanità e RiSSC, conferma che la gestione delle liste di attesa è tra le aree dove maggiore è il rischio di corruzione in sanità. La conseguenza è un aumento delle spese di tasca propria creando «un gorgo di difficoltà e disuguaglianze che risucchia milioni di persone e che, ad oggi, è troppo poco compreso», come rileva il Censis. 

Ci sono almeno 13 milioni di italiani hanno avuto difficoltà economiche con, ad esempio, una riduzione del tenore di vita, 7,8 milioni che hanno dovuto utilizzare tutti i propri risparmi e/o indebitarsi. Infine 1,8 milioni di persone sono entrate nell’area della povertà, sono una nuova categoria: i «saluteimpoveriti».

 Licenza Creative Commons
Alcuni diritti riservati

Da - http://www.lastampa.it/2018/01/18/italia/cronache/pi-di-giorni-per-una-mammografia-intrappolati-nelle-liste-milioni-di-malati-nb51EpzlxJyntED19VWpiJ/pagina.html
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« Risposta #1 inserito:: Gennaio 18, 2018, 09:00:35 pm »

Intramoenia, la nuova disciplina

I temi di questa sezione sono a cura di: Direzione generale delle professioni sanitarie e delle risorse umane del Servizio Sanitario Nazionale

Web editing: Claudia Spicola, Daniela Sordi

La libera professione intramuraria chiamata anche "intramoenia" si riferisce alle prestazioni erogate al di fuori del normale orario di lavoro dai medici di un ospedale, i quali utilizzano le strutture ambulatoriali e diagnostiche dell'ospedale stesso a fronte del pagamento da parte del paziente di una tariffa. Il medico è tenuto al rilascio di regolare fattura e la spesa, come tutte le spese sanitarie, è detraibile dalle imposte. Le prestazioni sono generalmente le medesime che il medico deve erogare, sulla base del suo contratto di lavoro con il Servizio Sanitario Nazionale, attraverso la normale operatività come medico ospedaliero. Le prestazioni erogate in regime di intramoenia garantiscono al cittadino la possibilità di scegliere il medico a cui rivolgersi per una prestazione.

La Legge 8 novembre 2012, n. 189 "Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 13 settembre 2012, n. 158, recante disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute", per la libera attività intramuraria prevede:
la proroga al 31 dicembre 2014 della realizzazione delle strutture per l’ attività libero professionale intramuraria (Alpi)
Le Regioni provvedono ad una ricognizione degli spazi disponibili e ad una valutazione dei volumi delle prestazioni effettuate negli ultimi due anni entro il 31 dicembre 2012.
Le Regioni, dove non siano disponibili spazi ad hoc, possono adottare, un programma sperimentale per svolgere l’Alpi presso studi professionali privati collegati in rete, previa sottoscrizione di una convenzione annuale rinnovabile tra il professionista interessato e l'azienda sanitaria di appartenenza, sulla base di uno schema tipo approvato con accordo sancito dalla Conferenza Stato – Regioni.

L’attivazione, entro il 31 marzo 2013, di un’infrastruttura di rete telematica per il collegamento in voce o in dati delle strutture che erogano le prestazioni in Alpi per gestire prenotazioni, impegno orario del medico, pazienti visitati, prescrizioni ed estremi dei pagamenti, anche in raccordo con il fascicolo sanitario elettronico.

Le modalità tecniche per la realizzazione di tale infrastruttura sono determinate entro il 30 novembre 2012 con decreto del Ministro della Salute, previa intesa in Conferenza Stato – Regioni.

E’ possibile la temporanea prosecuzione dell’attuale svolgimento di attività libero professionali presso studi professionali già autorizzati fino all’attivazione del collegamento in rete e comunque non oltre il 30 aprile 2013.

Il pagamento di prestazioni direttamente alla competente struttura tramite mezzi di pagamento che assicurino la tracciabilità della corresponsione di qualsiasi importo. Nel caso di singoli studi professionali in rete, la necessaria strumentazione è acquisita dal titolare dello studio a suo carico entro il 30 aprile 2013.

La determinazione delle tariffe sulla base di importi idonei a remunerare il professionista, l’equipe, il personale di supporto, i costi pro-quota per l'ammortamento e la manutenzione delle apparecchiature nonché ad assicurare la copertura di tutti i costi diretti ed indiretti sostenuti dalle aziende.

il divieto di svolgere l’attività libero professionale presso studi professionali collegati in rete dove operano anche professionisti non dipendenti o non convenzionati del Ssn ovvero dipendenti non in regime di esclusività, salvo deroga dell’azienda del Ssn e a condizione che sia garantita la completa tracciabilità delle singole prestazioni.
Per i direttori generali che non organizzeranno l’attività è prevista la decurtazione dalla retribuzione di risultato pari ad almeno il 20% o, nel caso di grave inadempienza, la destituzione dell’incarico.
 
Data di pubblicazione: 16 gennaio 2013, ultimo aggiornamento 26 febbraio 2013

Da - http://www.salute.gov.it/portale/temi/p2_6.jsp?id=3310&area=professioni-sanitarie&menu=intramuraria
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« Risposta #2 inserito:: Gennaio 24, 2018, 11:53:37 pm »

Così stanno uccidendo la sanità pubblica
Il Servizio sanitario nazionale compie quarantanni, sempre più aggredito da tagli e privatizzazioni.
E mentre la fetta di Pil per gli ospedali sta scendendo sotto la soglia che garantisce l’accesso alle cure, le liste d’attesa si allungano, i giovani medici vengono sottopagati e gli infermieri sono costretti a turni di 16 ore

DI GLORIA RIVA
23 gennaio 2018

Quella mattina del 24 agosto Giuseppe Teori, ortopedico all’ospedale San Camillo de Lellis di Rieti, se la ricorda benissimo, anche se ha perso il conto dei volti scioccati che gli sono passati davanti. Su 240 barelle allineate c’erano i corpi martoriati degli abitanti di Amatrice. Lesioni, ferite di ogni tipo, fratture da schiacciamento. Nella notte, mentre dormivano, la terra aveva tremato e le case erano crollate su di loro. «È stato un miracolo», racconta l’ortopedico. Già, ma il miracolo l’hanno fatto soprattutto i 400 giovani medici accorsi da tutte le province del Lazio per salvare vite umane: «Molti di loro li conosco, è gente che da 16 anni tira avanti con un contratto a termine, sono giovani che prendono 100 euro per una guardia medica notturna o si accontentano di 20 euro e una pizza per fare il medico alla partita di pallone». E un altro miracolo, quel giorno, l’hanno fatto i macchinari dell’ospedale che una volta tanto non si sono inceppati, nonostante vent’anni di carriera e rattoppi continui, che spesso obbligano il dottore a ripetere più volte gli esami.

Quella dell’estate 2016 è stata una situazione straordinaria, estrema, in cui il Sistema sanitario nazionale ha dimostrato di essere all’altezza di una catastrofe. Ma poi ci sono poi i miracoli ordinari, nelle corsie d’Italia. Quelli che si fanno tutti i giorni da dieci anni, da quando è cominciato il mantra dei tagli: meno 70 mila posti letto, meno diecimila professionisti, meno 175 ospedali. Giovani medici precari, macchinari nell’83 per cento dei casi obsoleti. E vecchi primari: il 52 per cento dei camici bianchi ha più di 55 anni, record europeo.

Nel 2018 il Servizio sanitario nazionale compie quarant’anni. Fu istituito nel ‘78 (Tina Anselmi ministro della Sanità) con il compito non solo di curare la malattia, ma anche di prevenirla e di educare i cittadini alla salute. Un compleanno poco allegro. Perché proprio quest’anno, per la prima volta in assoluto, l’Organizzazione mondiale della sanità ha lanciato l’allarme sulla sostenibilità del modello italiano.

La spesa sul Pil cala
Stando ai dati pubblicati dal Consiglio dei ministri nel Documento di economia e finanza, nel 2018 il rapporto tra la spesa sanitaria e la ricchezza prodotta nel Paese, cioè il Pil, scenderà a quota 6,5 per cento, soglia limite indicata dall’Oms. Sotto, non è più possibile garantire un’assistenza di qualità e neppure l’accesso alle cure, con una conseguente riduzione dell’aspettativa di vita. L’emergenza continuerà nel 2019, quando si scenderà al 6,4 per cento, per poi sprofondare al 6,3 nel 2020. «Fino al 2015 i tagli sembravano giustificati dalla crisi economica, ma anche adesso che abbiamo imboccato la ripresa il definanziamento è inarrestabile», dice Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, dove da anni si studia con analisi e report la sanità italiana.

Impietosa è la fotografia scattata dal Cergas, il centro studi dell’Università Bocconi di Milano, che ogni anno tasta il polso alla salute nel nostro Paese. «Il nostro è il sistema che costa meno in assoluto: con pochi soldi riusciamo ad avere livelli qualitativi di cure intensive simili a Francia e Germania. Ma stiamo ponendo una pesante ipoteca sul futuro, perché manca tutto il resto. Dopo l’ospedale, non c’è assistenza per gli anziani non autosufficienti, che oggi sono 2,8 milioni e tra 10 anni saranno 3 e mezzo. Non avendo altro posto dove stare, il 60 per cento di quelle persone continua a entrare e uscire dagli ospedali, ingolfandoli. E il carico dell’invecchiamento è sulle spalle delle famiglie, che non possono reggere oltre», spiega Francesco Longo, direttore del Cergas.

Liste d'attesa fuori controllo
Un segno tangibile dell’affanno del sistema sono le liste d’attesa fuori controllo. Qualche esempio? Tre mesi e mezzo per una visita oculistica a Milano, quasi quattro per una mammografia al Sud, dicono i numeri di Cittadinanza Attiva. Il risultato è che molti italiani “consumano meno sanità”, cioè spesso rinunciano: alle analisi, alla prevenzione, alle terapie. Dice l’Istat che il 6,5 per cento della popolazione ritarda o non si cura più.

Eppure qualcuno ce l’ha fatta ad affrontare il problema delle liste. Come l’Emilia Romagna, che ha usato la strategia del bastone e della carota. La carota sono i 15 milioni l’anno di incentivi alle aziende sanitarie virtuose; il bastone è stata la minaccia di licenziare i dirigenti incapaci di risolvere l’emergenza entro 18 mesi. In più la regione si è dotata di un software che settimanalmente monitora il servizio in ogni struttura. «Siamo disposti a regalare il nostro modello alle altre regioni», dice Antonio Brambilla, responsabile sanità dell’Emilia. Chissà chi accetterà la sfida. Per ora solo il Lazio si è messo in scia. L’Emilia ha anche messo una spada di Damocle sui reparti che funzionano peggio, minacciando la sospensione della libera professione fino a che non si riducono le liste d’attesa. Già, perché la metà dei medici del Servizio sanitario nazionale ha l’abitudine di tenere il piede in due scarpe, metà giornata lavora nel pubblico, l’altra nel privato. Tutto legale, ci mancherebbe. Ma discriminante socialmente: i benestanti possono avere diagnosi e terapie molto prima di chi benestante non è.

La correlazione fra libera professione dei medici e liste d’attesa è un tema su cui si sofferma anche Raffaele Cantone, il capo dell’Anac, l’agenzia nazionale contro la corruzione: «La sanità è ai primi posti per il rischio corruzione e le liste d’attesa ne sono uno snodo importante, perché rappresentano uno degli strumenti attraverso cui si verifica lo sviamento dal pubblico. È legittimo che un cittadino scelga il sistema privato, ma quando quest’ultimo diventa di fatto obbligatorio, allora è certamente un fatto illecito. Servono regole più chiare», avverte Cantone. Del resto le cifre parlano da sole: le liste d’attesa hanno fatto impennare la spesa privata per la salute, le famiglie sono arrivate a sborsare - di tasca propria o tramite una mutua privata - oltre 35 miliardi.

Eppure l’ultima classifica Bloomberg colloca la sanità italiana al terzo posto al mondo per efficacia: «Succede perché l’ente americano mette in relazione l’aspettativa di vita con i soldi spesi per la salute. E visto che gli italiani, per vari motivi, sono particolarmente longevi, la contestuale riduzione del finanziamento ci fa conquistare il podio», spiega Cartabellotta. Che mostra invece il dato più puntuale (e drammatico) dell’Euro Index Consumer Health: qui l’Italia è al ventiduesimo posto su 35 paesi, ma soprattutto è crollata di 11 posizioni in dieci anni. Uno dei nostri beni più preziosi, in termini di welfare, si sta sgretolando. Aggiunge Cartabellotta: «L’indice più accurato per valutare l’efficacia del sistema sanitario è la cosiddetta “aspettativa di vita in buona salute”, per la quale siamo al di sotto della media europea. Insomma viviamo sì a lungo, ma peggio che altrove».

La vergogna dei doppi turni
Intanto i sindacati di medici e infermieri hanno deciso di entrare in “stato d’agitazione” dal 22 gennaio, preannunciando disagi negli ospedali pubblici. La protesta, dicono, è l’unico modo per attirare l’attenzione dei politici, tutti presi dalla campagna elettorale. «Il diritto alla salute è già stato tolto. E i politici hanno il dovere di dirci quale modello di sanità intendono dare agli italiani», dice Costantino Troise, segretario dell’Anaao, il maggior sindacato dei medici.

Anche il ministro uscente della Salute, Beatrice Lorenzin, è in campagna elettorale con il suo nuovo partito, Civica Popolare, per il quale ha lanciato lo slogan «nido gratis per tutti». Ma secondo Troise la sua gestione della sanità non merita la sufficienza: «Sono state fatte anche cose positive, non lo nego. Ad esempio l’Italia è fra i pochi paesi a garantire i costosi farmaci per la cura dell’epatite C. Ma questa è anche la legislatura che ha accentuato più di tutte il definanziamento del servizio sanitario. Forse perché è il ministero dell’Economia a decidere tutto?», si domanda Troise. E snocciola i dati: nel 2013 la quota di spesa pubblica era del 7,1 per cento sul Pil, nel 2018 è scivolata al 6,5. «Francia e Germania spendono il 30 per cento più di noi», incalza il sindacalista dei medici.

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I dottori chiedono anche più soldi (i loro salari sono fermi da dieci anni) e lo sblocco del turnover, che consentirebbe l’ingresso di nuovo personale negli ospedali. Legittimo, ma il rapporto Cergas dice che l’emergenza più grave è un’altra: mentre il numero dei medici è pressoché in linea con quello della Germania e della media europea, sul fronte degli infermieri andiamo malissimo: ci sono 5,4 unità ogni mille abitanti contro i 9 della media Ocse, i 10,2 della Germania, i 18 della Svizzera. E in Italia quelli in servizio, sia per far quadrare i conti famigliari (guadagnano 1.200 euro al mese o meno) sia per non lasciare i reparti scoperti, sono spesso costretti a doppi turni, fino a 16 ore consecutive: con un inevitabile crollo d’ attenzione e di cura per i pazienti e con un massacro per loro. All’inizio di gennaio, ad esempio, un’infermiera di 66 anni dell’ospedale di Anzio ha dovuto fare un doppio turno al termine del quale è caduta a terra colpita da un’emorragia cerebrale. Come - o peggio - che in un film di Ken Loach.

Anche per i posti letto in Italia siamo molto indietro: 3 ogni mille abitanti contro i 4 della media Ocse e gli 8,1 della Germania. «In Italia un medico costa come tre infermieri. Forse bisognerebbe puntare su questi ultimi, ma una svolta di questo tipo, in Italia, non è facile da mettere in atto», dice il professor Longo della Bocconi.

L’altra emergenza sono i giovani. Spiega Andrea Filippi della Cgil medici che il calvario della precarietà è iniziato nel 2001, quando sono comparsi i primi contratti a termine. Oggi ci sono 12 mila specialisti con rinnovo annuale e una paga base di circa 80 euro al giorno. Gli anni di attesa per una stabilizzazione sono 15. Dalle regioni al collasso, tipo la Campania e la Calabria, i giovani fuggono e cercano lavoro al nord. Come ha fatto Chiara (nome di fantasia necessario per garantirle il suo posto da medico precario), napoletana, emigrata in terra comasca: «Ho provato a cercare lavoro a Capua, dove riuscivo a guadagnare 100 euro netti ogni dodici ore di turno in guardia medica, meno di una colf. Poi sono venuta in Brianza: qui ho un contratto di sostituzione in guardia medica e prendo 240 euro per 12 ore di turno notturno, sempre con partita Iva. Ma non basta per arrivare alla fine del mese, così nelle altre notti lavoro all’Humanitas, un ospedale privato di Milano che mi paga 14 euro netti all’ora».

Ma per i medici la discesa verso gli inferi del precariato è ancora lunga e dal girone del cottimo si passa a quello del caporalato. Così lo definisce Alessandro Vergallo, presidente dei medici anestesisti e rianimatori, che ha inviato una serie di segnalazioni al ministero indicando i nomi delle cooperative che, in regime di subappalto, gestiscono interi reparti di ospedali pubblici e cercano urgentemente medici. Succede a Caorle e Bibione, dove la cooperativa Cssa cerca medici «per il weekend nei punti di primo intervento». Succede al San Camillo di Roma e all’ospedale di Cervia dove la Medical Line Consulting cerca specialisti per poterli inserire «all’interno di alcuni di questi progetti lavorativi», come recita l’annuncio. Accade a Pieve di Coriano (Mantova), dove la Medical Service Assistance ricerca «collaboratori per il presidio ospedaliero, da inserire in sala operatoria». Vergallo sostiene che l’assunzione di medici attraverso coop è diventata una prassi, avallata dalla patologica carenza di personale: «Un fenomeno che fior di commissari e direttori generali nominati dalla politica non sono stati in grado di prevedere. La situazione è drammatica, ma non per questo bisogna tappare i buchi in modo illegale», dice Vergallo.

Camici bianchi in fuga
In fondo alla catena sanitaria, gli ultimi sono i medici neolaureati e gli specializzandi. Il sistema formativo permette a un solo medico laureato su due di accedere al percorso di specializzazione. Quest’anno per 6.676 contratti di specialistica, si sono presentati in 15 mila, dicono da Federspecializzandi. Sono rimasti appiedati ottomila neolaureati, costati allo Stato 24 mila euro ciascuno per la formazione. Ed è probabile che molti prenderanno la via dell’estero, e che saranno ben accolti da Inghilterra, Germania e Francia.

Chi invece resta in Italia per la specializzazione si fa carico di grossissime responsabilità. Carte alla mano, il sindacato dei medici anestesisti mostra come alle volte nelle sale operatorie di Borgo Trento e nell’azienda ospedaliera universitaria integrata di Padova l’unico anestesista presente sia in realtà un giovane specializzando, che in teoria dovrebbe essere affiancato da un anestesista vero. Idem nelle sale rianimazione post operatorie. «Per far fronte all’assenza di anestesisti, in una sala operatoria interviene lo specializzando che si registra con la sigla Mif, “medico in formazione”. In un’altra sta l’anestesista, che fa da tutor e, in caso di urgenza, dovrebbe correre ad aiutare il giovane», racconta Vergallo. È sempre filato tutto liscio, tranne una volta. Era il 2008 e un giovane anestesista, lasciato solo in sala rianimazione, sbagliò una manovra. Il paziente morì. Il giovane fu accusato di omicidio colposo. Il miracolo, quella volta, non ci fu.

© Riproduzione riservata 23 gennaio 2018

Da - http://espresso.repubblica.it/inchieste/2018/01/22/news/cosi-stanno-uccidendo-la-sanita-pubblica-1.317368?ref=RHRR-BE
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