LA-U dell'OLIVO
Aprile 19, 2024, 07:44:20 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: [1]
  Stampa  
Autore Discussione: Emanuele FELICE e le origini storiche delle disuguaglianze sociali  (Letto 1502 volte)
Arlecchino
Global Moderator
Hero Member
*****
Scollegato Scollegato

Messaggi: 7.754


Mostra profilo
« inserito:: Gennaio 14, 2018, 11:21:53 am »

Emanuele Felice e le origini storiche delle disuguaglianze sociali

Pubblicato il 12-01-2018

Emanuele Felice, docente di Storia economica, ha pubblicato di recente il volume “Storia economica della felicità”, dalla cui lettura è possibile ricavare, non tanto la possibilità di valutare se nei secoli è aumentata o diminuita le felicità (intesa, in astratto, come miglioramento o peggioramento di un generico senso della vita), quanto la consapevolezza del come, nel “corso della storia umana”, è cresciuto progressivamente il divario “tra il potere di cui dispone l’Homo sapiens e la sua dimensione etica”; divario, che è diventato un abisso negli ultimi due secoli, a seguito della Rivoluzione industriale, per via della profonda contraddizione della quale essa è stata, e continua ad essere, portatrice: “Da un lato, il progresso tecnologico ha posto gli esseri umani nelle condizione di distruggere il pianeta, se stessi. Dall'altro, l’assenza di un significativo cambiamento sul piano etico ha comportato che l’umanità di fatto corresse, e ancora corra, proprio questo rischio”. Il divario, però, non ha aperto per l’umanità un abisso dal quale sia impossibile salvarsi; ciò, perché esso lascia intravedere flebili segnali che “potrebbero aiutare a risalire dal fondo”.

Secondo l’autore, il lungo cammino del genere umano è stato contrassegnato da tre grandi rivoluzioni, ognuna di portata millenaria, che hanno causato profonde trasformazioni, culturali innanzitutto, ma anche sociali ed economiche. La prima è la Rivoluzione cognitiva, quella che ha dotato gli uomini di tratti che sono serviti a trasformarli in esseri umani moderni e a distinguerli dai loro antenati e da altre linee estinte di ominidi; dalla Rivoluzione cognitiva hanno tratto origine i cacciatori-raccoglitori, che hanno cambiato il modo di pensare, di vivere e di produrre. La seconda è la Rivoluzione agricola, occorsa 11-10 mila anni fa, che ha trasformato il modo di vivere nomade ed erratico in stanziale ed ha consentito agli uomini di produrre direttamente ciò di cui avevano bisogno per la sopravvivenza. Infine, la terza è la Rivoluzione industriale, avvenuta nel corso del Settecento, che ha portato alla sostituzione della fatica umana e animale con il lavoro delle macchine, il cui svolgimento, ancora in corso, caratterizzerà la storia dell’umanità nei secoli successivi.
Considerando i profondi mutamenti avvenuti a seguito del succedersi delle tre rivoluzioni, viene spontanea la domanda: come sia stato possibile che, dopo millenni di stagnazione, abbia avuto inizio un processo cumulativo che ha dato origine al crescente divario tra il potere e le disponibilità materiali di cui gli uomini hanno potuto disporre (a partire soprattutto dalla Rivoluzione agricola) e la dimensione etica che ha regolato il modo in cui è stata attuata la distribuzione intersoggettiva delle disponibilità che venivano acquisite. L’inizio del divario ha tratto origine dalla nascita dell’agricoltura; questa però, secondo alcuni antropologi e storici economici, avrebbe dato luogo a una “trappola”, perché si è trasformata nel motore che ha alimentato il processo cumulativo delle disuguaglianze tra gli uomini. Com’è potuto accadere?
La risposta all'interrogativo può essere formulata nei termini che seguono: nelle società agricole si è affermata “una medesima disposizione esistenziale”, supportata da istituzioni analoghe; queste, ovunque hanno regolano la disuguaglianza che si è formata tra i vari gruppi creatisi durante il lento processo di divisione sociale del lavoro, indotta dal continuo aumento della popolazione, reso possibile dal miglioramento delle condizioni materiali. Si è trattato, afferma Felice, di un modello di vita deterministico, che ha promosso un processo inevitabile, senza ammettere alcuna scelta da parte dell’uomo, se non quella, inconsapevole, operata a monte, di lasciare che aumentasse la popolazione.

Con la Rivoluzione agricola, via via che la popolazione è aumentata, è stato necessario incrementare la produzione, per cui si sono imposte, da un lato, la specializzazione del lavoro e, dall'altro lato, una cultura che ha comportato la formazione di istituzioni che giustificassero la divisione della società in classi, alcune dedite all'esecuzione dei lavori più usuranti, altre alle attività di direzione e comando, o alle attività di “propaganda ideologica” per la conservazione dell’ordine costituito. Si è trattato di un processo durato millenni, che, pur in presenza di un continuo e lento miglioramento delle condizioni del “vivere insieme”, ha conservato l’uomo in uno stato di povertà che ha connotato l’esistenzialità di tutte le classi sociali, indipendentemente dal consolidamento delle disuguaglianze sociali che la Rivoluzione agricola era valsa ad affermare.

Le cose sono radicalmente cambiate con l’avvento, nel corso del XVIII secolo, della Rivoluzione industriale, verificatasi soprattutto in Europa e caratterizzata dal fatto che nella produzione di quanto era necessario per la sopravvivenza la fatica umana e animale è stata sostituita dalle macchine; ciò, grazie alla crescita del capitale umano, in termini di conoscenza e istruzione, verificatasi sin dal basso Medioevo, per la fede che l’uomo aveva interiorizzato sulla possibilità di migliorare le proprie condizioni di vita con il progresso realizzabile attraverso riforme istituzionali.
Tuttavia, “come era accaduto millenni prima con la Rivoluzione agricola – afferma Felice -, inizialmente sembrò che anche la rivoluzione industriale non fosse un buon affare per le persone coinvolte”, a causa del peggioramento delle condizioni di lavoro ed esistenziali. Grazie al movimento resistenziale delle classi sociali subalterne, però, la situazione generale è cominciata a migliorare. Nei decenni successivi, dall'Ottocento sino a gran parte del Novecento, la popolazione dei Paesi nei quali maggiormente è cresciuta la capacità di produzione, pur vivendo l’esperienza negativa di dittature di diversa ispirazione e di due guerre mondiali, ha potuto godere dei benefici della dichiarazione dell’uguaglianza dei diritti e della nascita della “società del benessere”, nonché della costituzione del “villaggio globale”, formatosi a seguito del fenomeno della globalizzazione; tutto ciò è accaduto in virtù dei principi politici affermatisi, prima con la Rivoluzione inglese (1688-1689), poi con la Rivoluzione americana (1775-1783) e la Rivoluzione francese (1789).

La Rivoluzione industriale, quindi, ha segnato il momento, secondo Felice, a partire dal quale è iniziata la “grande fuga” dalla povertà e dall’indigenza dell’umanità; in linea di principio, è iniziata la fuga dalle ineguaglianze sociali. Queste ultime, infatti, hanno cessato di essere necessarie, come lo erano invece nelle società sorte dopo la Rivoluzione agricola; perciò, il paradigma fondativo, proprio della società agricola, è venuto meno, per essere sostituito da un nuovo paradigma espresso dall'affermata uguaglianza dei diritti, non solo tra tutti gli uomini, ma anche tra tutte le nazioni.
In realtà, è accaduto il contrario, nel senso che, con la Rivoluzione industriale, le ineguaglianze sono enormemente cresciute; sono cresciute soprattutto tra le nazioni, fra quelle che sono state le prime ad iniziare la “grande fuga” e quelle che sono rimaste “prigioniere del vecchio mondo”. Le conseguenze dell’approfondimento delle disuguaglianze è – sostiene Felice – che i divari tra gli esseri umani e tra le nazioni “non sono mai stati così evidenti, preoccupanti (per i ricchi) e sofferti (per gli altri)”; ciò ha rappresentato, e continua a rappresentare, per il principio dell’affermata uguaglianza dei diritti, una seria minaccia, nel senso che ne ha “messo a rischio” la possibilità della sua conservazione.
Da dove origina la contraddizione intrinseca al modo proprio di funzionare delle società industriali? Secondo Felice, deriva dal fatto che uno dei postulati su cui il funzionamento si regge, “incarnatosi nel capitalismo industriale”, è “l’arricchimento personale”, affermatosi con la nascita dell’economia politica classica. Il postulato è valso ad assumere che ogni singolo soggetto fosse lasciato libero di perseguire egoisticamente il proprio vantaggio personale e che solo in questo modo sarebbe divenuto possibile perseguire la massimizzazione del vantaggio complessivo di tutti, nel senso che l’interesse individuale, motore dell’’iniziativa di ogni singolo, avrebbe coinciso con quello dell’interesse collettivo.
Secondo Felice, il postulato è di natura utopistica, in quanto basato “sul convincimento di una fondamentale bontà dell’essere umano”, proprio dei padri fondatori dell’economia politica, i quali erano fermamente convinti che gli uomini fossero dotati di un’innata bontà, che però poteva essere corrotta da istituzioni sociali, le cui regole imbrigliassero o corrompessero gli esiti del libero operare del principio dell’arricchimento personale. Questo postulato, però, ritiene Felice, avrebbe potuto avere “esiti migliori” se fosse stato reso operante per tutti e non fosse affermato come riserva esclusiva solo per ristretti gruppi sociali privilegiati.
Nel mondo attuale, al fine di orientare diversamente il postulato dell’arricchimento personale, sarebbe necessaria una svolta culturale che, a livello globale, favorisse, sul piano istituzionale e sociale, la sua sostituzione con il nuovo postulato della “valorizzazione delle relazioni umane”; ciò renderebbe possibile il compimento di una “Rivoluzione etica” con cui rimediare agli esiti negativi della contraddizione che sinora ha contrassegnato la storia dell’umanità: crescita e sviluppo continui delle condizioni materiali di sopravvivenza che, in linea di principio, potrebbero consentire la fuga dalla povertà dell’intera umanità in condizioni di giustizia distributiva, da un lato, e reale peggioramento delle disuguaglianze tra gli uomini e tra le nazioni da rendere conflittuale, instabile e precaria la convivenza sociale, dall’altro.
Concludendo, Felice sostiene che proprio “la valorizzazione delle relazioni umane può arrivare a configurarsi come un nuovo pilastro di un diverso paradigma” che, pur sempre ispirato ai principi sanciti dalle moderne Rivoluzioni politiche (inglese, americana e francese, alle quali si può aggiungere sul piano del significato ideale anche quella russa del 1917), ma adattato a un mondo non più afflitto dal fenomeno della povertà e caratterizzato dal “diritto alla felicità” e al benessere, cioè all’uguaglianza sostanziale degli uomini e delle nazioni; un mondo cioè idoneo a “colmare il divario che si è spalancato tra sviluppo tecnologico e dimensione etica”.
Non è detto però che questo obiettivo sia facilmente perseguibile; ciò perché, come lo stesso Felice afferma, “l’essere umano è l’unico animale che non trova inscritto il suo comportamento nel Dna (se non in parte): lo assume dall’esperienza”; egli, perciò può rivelarsi altruista ed empatico oppure egoista, oltre che per la sua struttura genetica, anche e soprattutto per la cultura che lo plasma e per le istituzioni che ne orientano l’agire: se la cultura e le istituzioni “gli dicono di privilegiare l’arricchimento personale sulle relazioni umane, e comunque il proprio gruppo di appartenenza sull’idea di una fratellanza universale”, la conseguenza non può che essere un ulteriore allargamento e approfondimento delle disuguaglianze, la cui conseguenza è inevitabilmente il sacrificio della possibilità per l’intera umanità di vivere senza possibili conflitti in uno stato di felicità.
Considerando lo stato attuale del mondo (soprattutto di quella parte di esso rappresentata dai Paesi più avanzati sul piano della produzione materiale) e l’ideologia che lo pervade (quella neoliberista) l’auspicio e le speranze di Felice sono destinati a conservarsi nello stato di una irremovibile distopia. La dominante ideologia neoliberista, che predica l’arricchimento personale da perseguire a qualsiasi costo, anche al prezzo del sacrificio dei principi affermatisi con le grandi rivoluzioni politiche, non è di conforto al raggiungimento, sia pure in un tempo futuro remoto, di un possibile abbandono dell’attuale stato “infelice” del mondo.

Gianfranco Sabattini
More Posts
Registrato
Pagine: [1]
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!