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Autore Discussione: Pietro ICHINO. -  (Letto 25014 volte)
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« inserito:: Giugno 24, 2007, 04:25:24 pm »

Montezemolo e i fannulloni

Un codice etico per il sindacato


I vertici delle confederazioni sindacali maggiori si sono molto indignati per la battuta del presidente degli industriali Luca Cordero di Montezemolo sul rischio che il sindacato si riduca a «difensore dei fannulloni». Qualche ragione ce l'hanno: al di là della polemica sui fannulloni, non si può imputare a colpa del sindacato il fatto che esso difenda i lavoratori più deboli, i meno produttivi, poiché questo rientra nella sua funzione essenziale e ineliminabile. In quella battuta c’è però la denuncia di un rischio grave.

Un rischio per il sindacato stesso, prima ancora che per l’intera collettività: che il sindacato si riduca a difendere solo i lavoratori meno produttivi, lasciando gli altri di fatto privi di rappresentanza. È questo un rischio che il sindacato in Italia sta correndo in modo sempre più grave ed evidente. Nel settore pubblico, innanzitutto, dove la disponibilità a una politica di differenziazione dei trattamenti in funzione dell'efficienza delle strutture amministrative e del merito individuale, manifestata genericamente da Cgil, Cisl e Uil nel Memorandum firmato col governo nel gennaio scorso, è vistosamente contraddetta dal loro comportamento effettivo non appena si tratta di passare alle misure concrete.

È sotto gli occhi di tutti il violentissimo fuoco di sbarramento che le tre confederazioni hanno aperto contro la proposta del ministro Nicolais di affidare a una commissione centrale indipendente il compito di attivare e garantire gli strumenti di valutazione, controllo e trasparenza in ciascun comparto dell'impiego pubblico. Ma quello di privilegiare troppo i meno produttivi è un rischio che — sia pure in misura minore — il sindacato corre anche nel settore privato. Quando dal lavoro manuale si passa al lavoro impiegatizio, è tipico e in qualche misura inevitabile che siano più propensi a impegnarsi nella militanza sindacale i lavoratori meno assorbiti dal proprio lavoro, quelli che da esso traggono minori soddisfazioni; e quindi anche il fatto che le iscrizioni si addensino nella parte più debole degli appartenenti a ciascuna categoria.

Questo fenomeno, però, sconfina nella patologia quando accade addirittura — e questo si verifica con una frequenza davvero eccessiva, al punto da essere considerato normale da chi si occupa professionalmente di gestione delle risorse umane—che il sindacato entri per la primavolta in una azienda per iniziativa di un lavoratore che ha commesso una grave mancanza e che si fa nominare rappresentante sindacale per ottenere una protezione impropria contro il probabile licenziamento; o comunque che il sindacato offra con grande facilità i galloni di r.s.a. al lavoratore cui è stata appena notificata (o sta per esserlo) la contestazione disciplinare; oppure a un lavoratore che usa permessi e aspettative sindacali per i propri comodi privati.
Quando la rappresentanza in azienda si costituisce su queste basi, è il Dna del sindacato a subire una degenerazione; e la sua missione effettiva viene percepita dalla generalità dei lavoratori non come quella di proteggere i più deboli, ma come quella di abbassare il livello minimo dovuto di correttezza e di impegno produttivo. Qui c’è un evidente conflitto d’interessi; e il sindacato dovrebbe — per il proprio buon nome, prima di tutto—darsi un codice etico che individui esplicitamente quel possibile conflitto e impedisca il diffondersi del fenomeno.

Più in generale, il sindacato deve curare — con attenzione molto maggiore di quanto non faccia oggi—che il proprio naturale e doveroso impegno nella difesa della parte più debole dei lavoratori si coniughi con il riconoscimento e la difesa anche dell'interesse della parte più forte professionalmente e più produttiva. Altrimenti, prima o poi quest'ultima si ribella.Ègià accaduto nel 1980 con la «marcia dei 40.000». Gli errori del sindacato che hanno generato allora quella rivolta non sono molto diversi da quelli cui assistiamo oggi; soprattutto nel settore pubblico, dove il sindacato è più forte e quindi più capace di imporre la propria legge.

Pietro Ichino
24 giugno 2007
 
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« Risposta #1 inserito:: Agosto 29, 2007, 05:51:42 pm »

 
27-05-2003

Dialogo sul lavoro

Pietro Ichino e Bruno Trentin

Dialogo sul lavoro: Bruno Trentin a colloquio con Pietro Ichino


Pietro Ichino. Hai scritto a Paolo Mieli che non vedi l'ora di parlare con me di qualche cosa di diverso dall'articolo 18. Ti propongo di partire da un tema caro a Mieli, quello della "cornice" dei rapporti tra diversi, riferito al movimento sindacale. Non pensi che, in questa fase di grave frattura tra le confederazioni maggiori, si debba puntare a costruire una "cornice" in cui inserire il confronto tra posizioni anche fra loro inconciliabili, basata su di un meccanismo di misurazione della rappresentatività di ciascuno e sul riconoscimento del diritto della coalizione maggioritaria di negoziare con effetti estesi all'intera categoria?

Bruno Trentin*. Sono pienamente d'accordo. È quello che si è realizzato nel pubblico impiego, dove tra l'altro questa "cornice" ha sostanzialmente premiato il sindacalismo confederale. Nel settore privato questa scelta è stata compiuta, in linea di principio, da tutte le confederazioni e dalla Confindustria, con il protocollo Giugni del luglio 1993; ma poi non le si è data attuazione sul piano legislativo, non si è realizzato il meccanismo di votazione periodica nei luoghi di lavoro e rilevazione sistematica dei risultati indispensabile per consentire la soluzione della questione dell'efficacia generalizzata dei contratti collettivi.

P. I. Se ci fosse un meccanismo che consentisse di misurare e certificare periodicamente la rappresentatività dei sindacati, anche gli "accordi separati", cioè i contratti collettivi stipulati da una parte soltanto dei sindacati, potrebbero non essere considerati più come una anomalia: dove il dissenso è insanabile, contratta chi rappresenta la maggioranza dei lavoratori nell'ambito della categoria. E alla prossima scadenza elettorale i lavoratori decideranno se confermare o no la fiducia alla coalizione maggioritaria. Se si crede nella libertà sindacale e quindi nel pluralismo sindacale, dobbiamo muovere in questa direzione.

B. T. È così, a meno che non si decida di passare ad altri sistemi, molto lontani dalla nostra tradizione sindacale, come quelli praticati nei Paesi anglosassoni. Quei sistemi, certo, presuppongono altre regole; ma pure lì delle regole ci sono, e anche di fonte legislativa.

P. I. La Uil è favorevole a un intervento legislativo che regoli la materia, anche in funzione dell'efficacia erga omnes dei contratti collettivi. La Cisl invece oggi rifiuta la prospettiva della misurazione della rappresentatività in riferimento alla generalità dei lavoratori, sostenendo che il sindacato risponde prioritariamente ai propri iscritti e che non si possono trasferire i meccanismi della democrazia parlamentare sul terreno delle relazioni sindacali.

B. T. Questa posizione della Cisl ha radici antiche e molto rispettabili. Ma occorre tener conto del fatto che nell'ordinamento italiano il contratto collettivo ha di fatto – ed è necessario che abbia, se non vogliamo cambiare radicalmente sistema - un campo di applicazione che va ben al di là del novero degli iscritti a questo o quel sindacato stipulante. Non si può negare a questa parte dei lavoratori, i cui interessi sono inevitabilmente coinvolti, la possibilità di influire sulle scelte negoziali.

P. I. Oggi la Cgil tende a soddisfare questa esigenza attraverso il referendum per la convalida dell'ipotesi di accordo raggiunta al tavolo delle trattative. La Cisl rifiuta questo metodo, denunciando il rischio che in questo modo si finisca con lo svalutare il rapporto associativo tra il sindacato e i suoi iscritti, privilegiando un consenso o dissenso effimero e volatile, facilmente influenzabile dagli umori assembleari del momento. Il sindacato – si dice – deve poter elaborare e perseguire strategie contrattuali di lungo respiro, implicanti talvolta anche scelte impopolari nell'immediato, i cui buoni frutti si vedranno nel medio e lungo termine.

B. T. Questa obiezione ha un fondamento; anch'io ho molte riserve sul ricorso al referendum come strumento normale di consultazione dei lavoratori e di convalida dei contratti. Ma non si può neppure cadere in una sorta di "illuminismo sindacale", legittimando il sindacato a decidere per conto di tutti, sulla base di una presunzione di rappresentatività non verificata. Credo che su questo punto si possa trovare una soluzione, anche legislativa, che concilii entrambe le esigenze di cui abbiamo parlato. Del resto, sulla necessità di questa soluzione legislativa anche la Cisl ha concordato, firmando il protocollo del luglio 1993. Poi i sindacati, nell'esercizio della loro libertà nei luoghi di lavoro, ben possono -come abbiamo sperimentato in passato - creare delegazioni di lavoratori con cui consultarsi di volta in volta durante le negoziazioni nazionali, oppure attivare assemblee nelle quali le ipotesi di accordo vengano discusse analiticamente, e nelle quali si arrivi anche a un voto; così come possono in alcuni casi avvalersi del referendum; ma questo deve essere frutto di una scelta libera di ciascun sindacato, non una procedura decisionale o negoziale fissata per legge.

P. I. La conciliazione tra la posizione della Cgil e quella della Cisl potrebbe dunque essere questa: contratta per tutti solo la coalizione che, nell'ambito della categoria o dell'azienda, ha conseguito la maggioranza dei consensi nell'ultima consultazione. E, tra una consultazione e l'altra, ciascun sindacato o coalizione può scegliere le forme di rapporto con i lavoratori che preferisce, praticare il modello di democrazia sindacale che meglio corrisponde alla sua tradizione e al suo statuto.

B. T. Sono d'accordo; e credo che anche per la Cisl questa soluzione sia accettabile. Occorre lavorare per far maturare un consenso unitario su questo punto.

P. I. – L'insuccesso del disegno di legge Smuraglia su questa materia, nelle due passate legislature, è dovuto probabilmente al fatto che lì non veniva salvaguardato il rapporto organico tra il sindacato e i suoi rappresentanti in azienda: la rappresentanza sindacale costituiva un soggetto sindacale a sé stante, autonomo, creato per legge: un corpo estraneo rispetto al sistema delle relazioni industriali. Su questo punto credo che l'opposizione della Cisl non fosse ingiustificata. Ma vorrei sentire da te che cosa pensi di un'altra obiezione che ho sentito sollevare in alcuni dibattiti, negli ultimi tempi, contro la prospettiva di un intervento legislativo su questa materia, e questa volta dall'ala sinistra del movimento sindacale: la preoccupazione che una legge sulla rappresentanza sindacale possa costituire il primo passo sulla strada della limitazione alla sola coalizione maggioritaria della facoltà di proclamare lo sciopero, nei servizi pubblici.

B. T. Ricordo di avere percepito questa preoccupazione molto tempo fa, quando si discuteva della legge tedesca, che richiedeva una certa maggioranza per proclamare uno sciopero e, curiosamente, una maggioranza assai più esigua per stipulare validamente il contratto collettivo. Ma erano anni lontani, in cui si esaminava criticamente questa esperienza. Riproporre oggi quella preoccupazione mi parrebbe, francamente, un po' retrogrado; e porterebbe a un paradossale rovesciamento di posizioni, con lo spostamento della Cgil sulla posizione della parte della Cisl che si oppone a una disciplina generale della rappresentanza sindacale.

P. I. Abbiamo quasi esaurito lo spazio che abbiamo a disposizione. Prima di salutarci, però, una domanda sulla questione della disciplina dei licenziamenti me la devi consentire: non pensi che nella primavera di un anno fa se la Cgil si fosse unita alla Cisl e alla Uil (che erano disponibili per questo) per proporre insieme una riforma modellata sulla legge tedesca, le tre confederazioni avrebbero potuto negoziare con il Governo da una posizione di forza e al tempo stesso assumere una posizione unitaria più forte e credibile contro il referendum di Bertinotti?

B. T. No: non sarebbe stato comunque evitato il problema del referendum di Bertinotti, che è stato promosso con fini politici evidenti, senza alcun riferimento ai contenuti del rapporto di lavoro. E a quel punto era troppo tardi anche per evitare l'iniziativa della Confindustria e del Governo contro l'articolo 18.

P. I. Ma su quella linea il movimento sindacale avrebbe potuto evitare di spaccarsi; e, unito, avrebbe avuto anche una forza negoziale assai maggiore nei confronti del Governo.

B. T. Chi lo sa? Io credo che a quel punto una iniziativa di quel genere non avrebbe scongiurato nulla di quello che è avvenuto e sta avvenendo; perché si sarebbe collocata in una situazione in cui la sola distinzione che contava era tra chi era pro e chi era contro l'articolo 18.  Ritengo probabile che il Governo non l'avrebbe accettata. Quell'iniziativa è venuta troppo tardi; ed è stata in qualche modo compromessa dalle proposte che l'hanno preceduta. Sì, penso in particolare proprio alla prima proposta, ben più radicale, avanzata da te e presentata in Parlamento da Franco Debenedetti nel 1997. Io non ho alcuna obiezione ideologica nei confronti della soluzione tedesca; ma parliamone in un altro contesto politico, stabilendo una netta separazione rispetto al discorso degli ultimi anni. Deve essere ben chiara la differenza tra il modello tedesco e quella tua prima proposta, che prevedeva l'indennizzo automatico, convertibile in parte dal lavoratore in "preavviso lungo", come scelta liberatoria anche nei confronti di un pronunciamento giudiziale e come unica tutela contro il licenziamento per motivi economici. Potremo riparlarne, del modello tedesco, ma non ora: solo in un diverso contesto politico, dopo che saranno state archiviate le proposte oggi sul tappeto e lo scontro in atto su di esse.

* Segretario generale della CGIL dal 1988 al giugno del 1994
 

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« Risposta #2 inserito:: Agosto 29, 2007, 05:53:13 pm »

27-05-2003

Dialogo sul lavoro

Pietro Ichino e Bruno Trentin

Rappresentanze sindacali e licenziamenti: un glossario, a cura di Pietro Ichino

Breve glossario di temi, proposte e leggi richiamate e discusse da Pietro Ichino e Bruno Trentin nel loro dialogo su accordi separati, misurazione della rappresentatività dei sindacati e modello tedesco di disciplina dei licenziamenti.


Protocollo Giugni 23 luglio 1993. Nel capitolo "assetti contrattuali" del Protocollo del luglio 1993 (sottoscritto da Cgil, Cisl, Uil e numerose altre organizzazioni sindacali, con Confindustria e altre associazioni imprenditoriali, nonché con il Governo, e tuttora in vigore), sotto il paragrafo "rappresentanze sindacali", alla lettera f si legge: "le parti auspicano un intervento legislativo finalizzato, tra l'altro, a una generalizzazione dell'efficacia soggettiva dei contratti collettivi aziendali che siano espressione della maggioranza dei lavoratori, nonché alla eliminazione delle norme legislative in contrasto con tali principi. Il Governo si impegna ad emanare un apposito provvedimento legislativo inteso a garantire l'efficacia erga omnes nei settori produttivi dove essa appaia necessaria al fine di normalizzare le condizioni concorrenziali delle azienda".

Campo di applicazione del contratto collettivo. L'articolo 39 della Costituzione italiana prevede un meccanismo di registrazione delle associazioni sindacali presso il ministero del Lavoro e stabilisce che "I sindacati registrati (...) possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce". Nell'inutile attesa – che si protrae ormai da 55 anni – dell'attuazione o modifica di questa disposizione costituzionale, i giudici del lavoro generalmente adottano i contratti collettivi come parametri per la determinazione della "giusta retribuzione" anche per i lavoratori non iscritti ai sindacati stipulanti, così attribuendo indirettamente ai contratti stessi quella efficacia erga omnes che altrimenti, sulla base del diritto civile comune, essi non avrebbero.

Inoltre, alcuni rilevanti sgravi contributivi concessi dalla legge sono condizionati all'applicazione integrale del contratto collettivo nazionale della categoria alla quale l'impresa appartiene. E l'articolo 36 dello Statuto dei lavoratori del 1970 subordina alla stessa condizione la possibilità per qualsiasi azienda di ottenere appalti pubblici, contributi o benefici pubblici di qualsiasi genere. Con queste norme, l'estensione erga omnes dell'efficacia dei contratti collettivi è stata sostanzialmente conseguita, ma in forma non corrispondente a quanto previsto dalla Costituzione. La questione torna di grande attualità nel momento in cui alcuni rilevanti accordi e contratti collettivi nazionali vengono stipulati soltanto da Cisl e Uil, nel dissenso della Cgil: possono anche questi accordi e contratti "separati" essere assunti come parametro del "giusto trattamento" dovuto al lavoratore, senza una verifica della rappresentatività maggioritaria delle associazioni sindacali stipulanti?

Disegno di legge Smuraglia sulle rappresentanze sindacali. Il 3 maggio 1995 il Senato ha approvato in prima lettura un disegno di legge per l'istituzione e disciplina delle "rappresentanze sindacali unitarie", che prese il nome dal presidente della commissione Lavoro Carlo Smuraglia, risultante dall'unificazione di sette disegni presentati nell'XI e nella XII legislatura, dei quali uno di iniziativa popolare patrocinato dalla Cgil e uno di iniziativa governativa. Le rappresentanze sindacali unitarie, secondo quel disegno di legge, avrebbero dovuto essere elette dai lavoratori nei luoghi di lavoro con cadenza triennale e con meccanismo elettorale rigorosamente proporzionalista, senza alcun vincolo di mandato per i rappresentanti eletti. In questo modo si recideva ogni rapporto organico tra l'associazione sindacale e il rappresentante, con conseguente espropriazione parziale delle organizzazioni sindacali delle prerogative e dei diritti attribuiti loro in azienda dallo Statuto del 1970, prerogative e diritti che venivano per la maggior parte attribuiti a un soggetto diverso, istituzionalmente indipendente. Per questo motivo la Cisl e la Confindustria denunciarono il rischio della nascita di un sistema di comitati di base creato per legge; qualcuno parlò a questo proposito di una "quarta confederazione sindacale" costituita dall'insieme delle nuove Rsu.

Effettivamente, quelle che nel disegno di legge venivano chiamate "rappresentanze sindacali" non erano organi "sindacali" in senso proprio: non erano, cioè, organi dell'associazione sindacale esterna: esse, traendo la propria investitura soltanto dal basso, per mezzo dell'elezione, erano destinate a rispondere soltanto ai propri elettori. Per questo aspetto, il disegno di legge Smuraglia avrebbe avuto l'effetto di un rovesciamento netto della scelta operata dal legislatore del 1970: al modello delineato nell'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, che privilegia il rapporto organico tra l'associazione e la rappresentanza aziendale configurando la seconda come organo periferico della prima assoggettato alla sua disciplina statutaria e lasciando la prima pienamente libera nella scelta delle modalità di organizzazione della seconda, si sarebbe sostituito un modello che privilegiava l'investitura dei rappresentanti dal basso; il modello, cioè, nel quale i lavoratori sono rappresentati in azienda direttamente da un organo eletto a suffragio universale, prima e più che dalle rispettive associazioni sindacali.

A temperamento di questo effetto, i sostenitori del disegno di legge Smuraglia avvertirono la necessità di inserirvi, in seconda lettura alla Camera dei Deputati, una norma che prevedeva l'"affiancamento" delle associazioni sindacali territoriali alle "rappresentanze unitarie" aziendali nella contrattazione collettiva d'impresa. Senonché, soprattutto a causa dell'opposizione di Cisl e Confindustria, il disegno di legge non giunse al termine del suo iter parlamentare. Esso non è stato ripresentato nella legislatura attuale.

Legge tedesca sui licenziamenti. In Germania la legge affida al giudice, se questi ritiene che il licenziamento sia ingiustificato, di determinare caso per caso se condannare l'impresa a reintegrare il lavoratore, oppure soltanto a pagargli un indennizzo (che può arrivare al massimo a 18 mensilità dell'ultima retribuzione), tenendo conto di tutte le circostanze e in particolare del comportamento delle parti prima e dopo il licenziamento, nonché anche ovviamente delle dimensioni dell'azienda. Questo regime si applica a tutte le aziende dai 5 dipendenti in su.

Su di un progetto di legge ispirato al modello tedesco, elaborato da Pietro Ichino, nell'aprile 2002 avevano manifestato il proprio consenso i segretari generali della Cisl, Savino Pezzotta, e della Uil, Luigi Angeletti, i quali sarebbero stati disposti a promuovere in proposito un'iniziativa unitaria nei confronti del Governo, se la Cgil fosse stata disponibile. In seguito il progetto di legge – che prevede un limite massimo di indennizzo differenziato a seconda delle dimensioni dell'azienda, fino a un limite assoluto di 36 mensilità - è stato fatto proprio dalla Uil e presentato in Parlamento da un gruppo di parlamentari dell'area dei liberal diessini, della Margherita e dello Sdi.

Se fosse stata emanata in tempo utile, una legge di questo genere avrebbe avuto l'effetto di evitare il referendum del 15 giugno, poiché con la riduzione della soglia a 5 dipendenti sarebbe stato sostanzialmente eliminato il "doppio regime" della disciplina dei licenziamenti contro il quale il quesito referendario è diretto.

Il disegno di legge Debenedetti. Nel 1997 il senatore Franco Debenedetti ha presentato un disegno di legge per la riforma della disciplina dei licenziamenti, ispirato alla proposta contenuta nel libro di Pietro Ichino Il lavoro e il mercato (Mondadori, 1996); lo ha poi ripresentato nella XIV legislatura. Il Ddl conserva la sanzione della reintegrazione nel posto di lavoro soltanto per il caso di licenziamento discriminatorio o di rappresaglia. Quanto al caso del licenziamento di natura non disciplinare (cioè non motivato con una colpa del lavoratore), il disegno di legge prevede che il datore di lavoro debba accollarsi in ogni caso un indennizzo rilevante, tanto maggiore quanto maggiore è l'anzianità di servizio del lavoratore, fino a un massimo di 36 mensilità dell'ultima retribuzione, lasciando al lavoratore stesso la facoltà di convertire a sua scelta una parte di questo indennizzo nella prosecuzione del rapporto con la normale retribuzione fino al periodo massimo di un anno. In questo modo il disegno di legge si propone di escludere che il lavoratore possa essere messo fuori dall'azienda senza sua colpa da un giorno all'altro o da un mese all'altro: si consente al lavoratore di cercare con calma un nuovo lavoro dalla posizione di occupato e non di disoccupato; e soprattutto lo si incentiva a cercarlo attivamente, perché più presto lo troverà, maggiore sarà l'indennizzo residuo che potrà intascare.

L'idea di fondo sulla quale si basa questo progetto è quella del cosiddetto "filtro automatico" delle scelte dell'imprenditore: una volta escluso che il licenziamento abbia natura discriminatoria o di rappresaglia (e i giudici del lavoro – sostengono i fautori di questa scelta - sono capacissimi di accertarlo efficacemente, anche sulla base di presunzioni semplici), se l'imprenditore è disposto ad accollarsi il costo di quel cospicuo indennizzo, ciò costituisce la prova migliore del fatto che, effettivamente, dalla prosecuzione del rapporto egli si attende una perdita maggiore.

Il disegno di legge Debenedetti prevede che questo regime si applichi, sia pure con le opportune modulazioni dell'entità dell'indennizzo, in tutte le imprese e anche ai rapporti di collaborazione autonoma coordinata e continuativa (c.d. lavoratori "parasubordinati" o co.co.co). Esso delinea pertanto una forma di protezione suscettibile di essere estesa a tutti i circa diciassette milioni di lavoratori italiani operanti in condizioni di sostanziale dipendenza da un datore di lavoro o committente; una forma di protezione suscettibile, altresì, di costituire strumento per il riassorbimento nell'area del rapporto di lavoro a tempo indeterminato di gran parte dei rapporti di lavoro a termine o comunque precari (poiché la predeterminazione certa del costo del recesso in forma di indennizzo, e la convertibilità dell'indennizzo in preavviso di recesso, consente di restringere notevolmente l'area dei contratti a termine e delle altre forme di lavoro precario).
 
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« Risposta #3 inserito:: Novembre 27, 2007, 05:34:10 pm »

Editoriali       

LA FATICA DEL LAVORARE BENE

Il merito e il salario

di Pietro Ichino


Il presidente di Confindustria, Montezemolo, ha rilanciato con forza, in questi giorni, la parola d’ordine della meritocrazia; e il segretario della Cisl, Bonanni, gli ha risposto positivamente: «Il nostro obiettivo è lavorare meglio e di più, per produrre e guadagnare di più». Su questo tema, invece, la Cgil resta abbottonata. Questa sua riluttanza non risponde a ragioni tattiche contingenti: ha radici profonde nella cultura della sinistra. E niente affatto disprezzabili.

A sinistra l’idea dominante è che la produttività non sia un attributo del lavoratore, bensì dell’organizzazione aziendale in cui egli è inserito. «Prendi un ingegnere bravissimo e mettilo a spaccare le pietre: otterrai probabilmente un lavoratore molto meno produttivo di uno spaccapietre analfabeta». Se, poi, nessuno domanda pietre, entrambi stanno fermi e la produttività di entrambi è zero. Nel dibattito di tutto lo scorso anno sui nullafacenti del settore pubblico, questo è stato immancabilmente il concetto che veniva contrapposto all’idea di commisurare le retribuzioni anche ai meriti individuali: «Il risultato penosamente basso di molti uffici — si è detto da sinistra — ma anche il difetto di impegno di molti impiegati dipendono dal pessimo livello di organizzazione e strumentazione ».

C’è del vero in questo argomento; ma a sinistra si cade spesso nell’errore di fermarsi qui. È l’errore che il grande Jacovitti rappresentò con l’indimenticabile vignetta dove una mucca dall’aria torpida e pigra diceva: «Sono una mucca per colpa della società». La realtà è che la produttività del lavoro dipende da entrambe le variabili: sia dall’organizzazione, e talvolta da circostanze esterne incontrollabili, sia dalla competenza e dall’impegno del singolo addetto. E conta anche il suo impegno nel cercare l’azienda dove il proprio lavoro può essere meglio valorizzato.

Commisurare interamente la retribuzione al risultato significa, certo, scaricare sul lavoratore tutto il rischio di un esito negativo che può non dipendere da suo demerito. Ma garantire una retribuzione del tutto stabile e indifferente al risultato significa cadere nell’eccesso opposto: così viene meno l’incentivo alla fatica del far bene il proprio lavoro e del muoversi alla ricerca del lavoro più utile, per gli altri e per se stessi. Questa stabilità e indifferenza della retribuzione è la regola oggi di fatto imperante in tutto il settore pubblico, ma troppo largamente applicata anche in quello privato, per effetto di contratti collettivi che lasciano uno spazio del tutto insufficiente al premio legato al risultato.

E questo è uno dei motivi —insieme, certo, a tanti altri difetti strutturali e imprenditoriali — della bassa produttività media del lavoro nel nostro Paese. Per uno stipendio magari basso, che però matura qualsiasi cosa accada, ci sono sempre i lavoratori che si impegnano a fondo, se non altro per rispetto verso se stessi, e si ribellano alle situazioni di improduttività; ma ce ne sono sempre anche altri che se la prendono comoda, fino al limite del non far nulla. Un’iniezione di meritocrazia nei contratti collettivi e individuali fa certamente bene anche a questi ultimi.

27 novembre 2007

da corriere.it
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« Risposta #4 inserito:: Febbraio 21, 2008, 03:53:41 pm »

Il professor Ichino: bene accetto l’offerta di Walter

Oreste Pivetta


La scelta. «Ho accettato la candidatura alle elezioni nelle liste del Pd perché ho la garanzia del pieno diritto di cittadinanza nel nuovo partito per mie idee e le mie proposte. Di fronte alla richiesta di una persona limpida e coraggiosa come Walter Veltroni, in un momento così difficile per il nostro paese, ho ritenuto di non avere il diritto di rifiutare. Anche se questa scelta comporterà parecchi sacrifici sul piano personale». Lo dice all’Unità Pietro Ichino, il giuslavorista, mentre sta scrivendo un articolo per il Corriere della Sera, quotidiano al quale collabora, editorialista da quasi un decennio (ma ha scritto spesso anche sul nostro giornale), con l’intenzione di spiegare, appunto, la sua decisione. Lo leggeremo oggi.

Con il Pd, dunque, Pietro Ichino ritrova una strada parlamentare che aveva già percorso tra il 1979 e il 1983, ottava legislatura, quando fu eletto come indipendente nelle file del Partito comunista (e quando fu membro della commissione lavoro della Camera). Ichino è milanese, cinquantottenne, giornalista e professore universitario, conosciuto e spesso discusso per i suoi orientamenti, «troppo modernisti, troppo liberisti» come sostengono i suoi critici, per le sue battaglie a volte durissime, che hanno suscitato polemiche e talvolta qualcosa di più delle polemiche: Ichino era stato minacciato anche dalle presunte nuove brigate rosse, dopo i suoi interventi sul Corriere, interventi poi raccolti in un volumetto dal titolo assai chiaro: I nullafacenti. E un sottotitolo che spiegava (e smorzava la provocazione): «Perché e come reagire alla più grave ingiustizia della nostra amministrazione pubblica».

Ichino voleva denunciare la scarsa produttività, l’inefficienza, il malcostume, gli opportunismi, l’incapacità che possono affliggere l’universo mondo del lavoro e soprattutto l’universo mondo del lavoro pubblico, tra statali e comunali e regionali, tra le gigantesche macchine della nostra burocrazia, con costi enormi per la collettività, costi economici, ma anche morali, culturali, per la cattiva lezione che ne discende e che tutto alla fine inquina. E che alimenta malpancismo, qualunquismo, grillismo, separatismo, eccetera eccetera, cioè la deriva antipolitica e il “fastidio” per quanto sa di “pubblico”. E che dà, come si deduce dalle cronache, molto daffare ai tribunali. E di più potrebbe darne.

Lo “scandalo” Ichino lo sollevò proprio con un articolo sul Corriere della Sera, alla fine di agosto del 2006. Chiedeva, in via del tutto retorica, il professor Ichino: «Perché, mentre si discute di tagli dolorosi alla spesa pubblica per risanare i conti dello Stato, nessuno propone di cominciare a tagliare l’odiosa rendita parassitaria dei nullafacenti?». Il mite professore, che aveva cominciato appena ventenne a frequentare la Camera del lavoro di Milano (dirigente della Fiom Cgil) e appena laureato, dopo il servizio militare, era diventato il responsabile del suo ufficio legale, aveva scagliato la pietra, aveva usato la parola proibita, contro i white collars, i colletti bianchi, intruppati nel nostro stato e nel nostro parastato. Aveva d’un colpo dato voce al sentimento comune a migliaia e migliaia di italiani, le vittime delle code, degli sportelli, dei timbri e delle carte bollate.

In un articolo di qualche giorno dopo Ichino aveva criticato il “no” secco dei sindacati di categoria: semmai, chiedevano i sindacati, mobilità e incentivi... «Però - commentava soddisfatto Ichino - hanno riconosciuto che il problema esiste... tutti concordano che nell’amministrazione pubblica c’è una quota rilevante di nullafacenti». Tutti, tutti. Ecco, dopo gli articoli, un fiorire di messaggi al quotidiano di via Solferino, solidarietà e nuove denunce, incoraggiamenti e molte proposte. Pubblicati in appendice al volumetto, edito da Mondadori: «Ormai il sistema adottato dai nullafacenti è talmente sofisticato, che ora nemmeno alcuni si prendono la briga di timbrare...», «Nella scuola è molto radicata l’idea che sia normale che ogni insegnante faccia 30 giorni di malattia ogni anno...». Eccetera eccetera.

Furono giorni di grande celebrità, tra plauso e ostilità (compresa la contestazione alla presentazione del libro a Roma), per Pietro Ichino, che in realtà non ama la celebrità (rarissime le sue presenze televisive) ed è soprattutto studioso e ricercatore di grande rigore e di grande intelligenza, professor ordinario adesso di diritto del lavoro alla Statale di Milano (dove fu studente negli anni del Sessantotto), nel segno della coerenza con un obiettivo: la modernizzazione del sistema-lavoro nel sistema-Paese. Per un mercato del lavoro più agile (anche in senso liberista), più dinamico, che riconosca merito e impegno. Che non conceda insomma garanzie a vita e tutele d’acciaio anche ai nullafacenti. Traguardi ambiziosi, in una società stretta tra privilegi eterni, chiusure familistiche, mafie, camorre da una parte e dall’altra lavoro nero e sommerso, precariato a vita, evasione, in una società che per modernizzarsi veramente avrebbe bisogno di un welfare sostanzioso, soprattutto non immobile, che aiutasse il lavoro e non incentivasse il “parassitismo”.

Pubblicato il: 21.02.08
Modificato il: 21.02.08 alle ore 13.15   
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« Risposta #5 inserito:: Febbraio 25, 2008, 05:39:03 pm »

Ichino: contro il precariato un nuovo diritto del lavoro

Rianaldo Gianola


Le idee e le proposte di Pietro Ichino sul mondo del lavoro non passano mai inosservate. I suoi articoli e i suoi libri sono fonte di discussioni e polemiche. E non poteva passare sotto silenzio la sua scelta di candidarsi nel Partito democratico.

Appena è stata resa nota la tua candidatura nel Pd, la sinistra radicale ti ha attaccato come il teorico della precarietà, quello che ha l’ossessione dell’articolo 18, fino all’epiteto classico di "servo del padrone". Te l’aspettatevi?
«A me pare che l’ossessione dell’articolo 18 ce l’abbiano loro. La mia ossessione, se ne ho una, è diversa: è la preoccupazione per un diritto del lavoro che si applica soltanto a metà dei lavoratori dipendenti, lasciando fuori tutti gli altri».

I diritti attuali sono vecchi?
«Lo Statuto dei lavoratori del 1970 nella sua interezza, compreso l’articolo 18 e il titolo III sui diritti sindacali, si applica soltanto a 3,6 milioni di dipendenti pubblici e 5,8 milioni di dipendenti di aziende private sopra i 15. In tutto, circa 9 milioni e mezzo, su di una forza-lavoro di oltre 22. Restano fuori quasi altrettanti lavoratori in posizione di dipendenza: non solo quelli delle piccole imprese, ma anche i collaboratori autonomi, i lavoratori a progetto, gli irregolari. Questo dualismo, questo regime di apartheid è la grande ingiustizia del nostro sistema attuale di protezione. Poi ci sono gli esclusi totali».

Chi sono?
«Il nostro tasso di occupazione è di 10 punti inferiore rispetto a quello che potrebbe essere: se il mercato del lavoro funzionasse come quello britannico, avremmo 5 milioni di italiani in più al lavoro, soprattutto donne».

Il Pd che cosa propone per combattere questa carenza?
«Al primo posto nel programma c’è un’azione molto incisiva volta ad aumentare drasticamente il tasso di occupazione femminile, incrementando i servizi e agendo sulla leva fiscale. E poi la lotta alla piaga del precariato permanente».

Come?
«Il Pd è un grande partito laico, nel quale militano tanti giuslavoristi, sindacalisti, lavoratori, imprenditori, uniti su questo obiettivo e sull’assumere come punto di riferimento le migliori esperienze europee di flexicurity, ma con idee e proposte diverse sul come. Condurle a una sintesi operativa sarà l’impegno dei prossimi mesi. La novità rispetto alla vecchia sinistra, però, è che il dibattito su questo punto sarà laico, pragmatico, senza tabù, aperto al contributo delle scienze sociali».

Qual è la tua proposta.
«Un’intesa fra lavoratori e imprenditori: si abolisce la giungla dei contratti "atipici"; salvo il lavoro stagionale o puramente occasionale, tutti i nuovi rapporti si costituiscono con un contratto a tempo indeterminato, che prevede una protezione della stabilità crescente con il crescere dell’anzianità di servizio».

E l’articolo 18?
«Continua ad applicarsi, fin dall’inizio, per i licenziamenti disciplinari e contro quelli per motivo illecito, di discriminazione o di rappresaglia. Se invece il motivo è economico od organizzativo, la protezione del lavoratore è costituita da un congruo indennizzo commisurato all’anzianità e da un’assicurazione contro la disoccupazione di livello scandinavo, con contributo interamente a carico dell’azienda, secondo il criterio bonus/malus: l’imprenditore meno capace di praticare il manpower planning, a ogni licenziamento vede aumentare i costi aziendali».

Il direttore di Liberazione sostiene che, invece, superare il dualismo del mercato del lavoro si può estendendo l’art. 18 a tutta la forza lavoro esclusa.
«La grande maggioranza degli italiani, e del movimento sindacale, sa bene che questa ricetta è impraticabile.Oggi la metà non protetta dei lavoratori - dipendenti di piccole imprese appaltatrici o "terziste", co.co.co., lavoratori a progetto, "associati in partecipazione", false partite Iva, irregolari - porta sulle spalle tutta la flessibilità di cui il sistema ha bisogno; mentre nella metà protetta l’inamovibilità genera inefficienze gravi e anche posizioni di rendita inaccettabili. Il precariato permanente è l’altra faccia dell’inamovibilità dei "lavoratori regolari"».

La rinuncia a riformare il vecchio diritto del lavoro ci condanna al precariato?
«È così. Se accettiamo la politica dei tabù, rischiamo di allinearci al programma della destra: il p.d.l. Sacconi riconferma il dualismo, limitandosi a promettere agli "atipici" la garanzia dei diritti costituzionali di libertà, dignità e sicurezza: ma sarebbe una pura ripetizione dell’articolo 41 della Costituzione. Se vogliamo dare concretezza all’obiettivo della lotta al precariato permanente, dobbiamo discutere quale debba essere il nuovo equilibrio tra flessibilità e sicurezza nel nuovo contratto di lavoro; ma dobbiamo trovare un equilibrio che sia applicabile a tutti i nuovi contratti che si stipuleranno d’ora in poi».

Non ti pare che la difesa dell’art. 18 da parte di molti sia un’adesione ideale e morale a una stagione di alto valore, mentre oggi navighiamo nel vuoto?
«Per molti, a sinistra e a destra, l’articolo 18 rappresenta il valore della sicurezza e il benessere dei lavoratori. È un valore importantissimo: la civiltà di una nazione si misura dalla sicurezza e dal benessere che essa sa garantire ai propri membri più deboli. I problemi sono essenzialmente due. Il primo è quello che ho detto: il nostro diritto attuale, articolo 18 compreso, esclude metà dei lavoratori».

E il secondo?
«Impedire alle aziende gli aggiustamenti necessari, la possibilità di ristrutturarsi, di aprirsi rapidamente all’innovazione, finisce coll’indebolirle, riducendo la sicurezza di tutti i loro dipendenti. Guardiamo all’esperienza Alitalia, di cui si è impedita la ristrutturazione per tanti anni: forse che i suoi dipendenti oggi possono considerarsi sicuri?»

Il 14 aprile il Pd vince le elezioni. Da dove s’inizia?
«Occorre una iniziativa forte per far crescere stabilmente le retribuzioni: per questo è necessario, oltre allo sgravio fiscale a cominciare dai salari più bassi, aumentare la domanda di lavoro, imparando ad attirare in Italia il meglio dell’imprenditoria mondiale; il che significa anche aprire il sistema all’innovazione e dare più spazio alla contrattazione aziendale, sia sulla struttura delle retribuzioni, sia sull’organizzazione del lavoro. Solo dall’innovazione può derivare un aumento della produttività del lavoro, che è anch’esso indispensabile per una crescita stabile delle retribuzioni».

Negli ultimi anni ti sei impegnato anche nelle amministrazioni pubbliche. Perchè?
«Perchè è un punto centrale per il risanamento del Paese. Nelle amministrazioni occorre diffondere e radicare la cultura della trasparenza totale, della valutazione, della misurazione, anche per poter retribuire meglio chi lavora bene e sanzionare chi non fa il proprio dovere, incominciando dai dirigenti. E bandire in modo drastico le interferenze indebite dei politici. Su questo fronte sono impegnato con il presidente Marrazzo in un progetto operativo per la Regione Lazio».

Qual è il Paese a cui il Pd dovrebbe ispirare le politiche del welfare?
«Il programma indica la direzione di marcia della "migliore flexicurity europea". I buoni modelli sono tanti. E l’unico aspetto positivo dell’essere un Paese arretrato sta nella possibilità di bruciare le tappe sfruttando le esperienze migliori. In un mio libro del 1996 indicavo come il modello danese, dove i più deboli sono infinitamente più "sicuri" di quanto sarebbero in Italia. Da allora in molti, anche nella vecchia sinistra, hanno iniziato a studiare e apprezzare quel modello».

Gli studiosi come te sono bravissimi a denunciare le resistenze del mondo del lavoro, soprattutto sulle pagine del Corriere, ma assai più indulgenti quando bisogna indicare le responsabilità delle imprese. La Confindustria non è un cenacolo di anime belle...
«Non ho mai mancato di denunciare il conservatorismo dell’apparato confindustriale: per esempio sulla questione della struttura centralizzata della contrattazione collettiva. Oppure il silenzio degli imprenditori nella battaglia contro il dualismo del mercato del lavoro: solo in questi giorni, la Confindustria ha manifestato un’apertura sul "contratto unico" a stabilità progressiva. Ma il sistema di relazioni industriali è un gioco sistemico: i ritardi della Confindustria sono lo specchio dei ritardi del sindacato, e viceversa».

Sul Sole 24 Ore D’Alema, pur parlando bene di te, ha detto però che una cosa è fare lo studioso, altra il politico.
«La mia scommessa - che Veltroni ha accettato - è di riuscire a mantenere, pur nel ruolo di parlamentare, la stessa schiettezza e libertà di giudizio su cui si è costruita negli ultimi 25 anni la fiducia nei miei confronti di centinaia di migliaia di lettori e studenti. Conservare, anzi accrescere questa fiducia è comunque la cosa a cui tengo di più».

Vivi ancora sotto scorta?
«Sì, da sei anni. E la tensione creatasi intorno alla mia candidatura in questi giorni, per qualche uscita sconsiderata di esponenti della vecchia sinistra, al di là delle loro intenzioni, rende la scorta oggi più necessaria di prima».

Pubblicato il: 25.02.08
Modificato il: 25.02.08 alle ore 8.34   
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« Risposta #6 inserito:: Aprile 27, 2008, 07:10:20 pm »

Lavoro bipartisan

Come favorire la svolta

di PIETRO ICHINO


Direttore,
devo una risposta all'editoriale di Angelo Panebianco sul Corriere di ieri, ai numerosi articoli comparsi su altri giornali nei giorni scorsi, alle centinaia di messaggi che mi sono pervenuti, dopo la mia risposta negativa alla proposta di Silvio Berlusconi di assumere la carica di ministro del Lavoro nel suo governo. In questi messaggi di amici e sostenitori, circa due terzi esprimono pieno consenso (in qualche caso con motivazioni che non condivido, perché venate di manicheismo politico). Gli altri esprimono dissenso e talvolta anche delusione. È soprattutto a questi ultimi che voglio rispondere. Qualcuno mi ha ricordato la scelta compiuta nel 2001da Marco Biagi, socialista, di collaborare con il governo di centrodestra proprio per superare le vecchie, sterili contrapposizioni ideologiche sulle politiche del lavoro. Ma Marco non aveva partecipato alla fondazione del partito opposto, non si era impegnato nella costruzione della sua cultura e politica del lavoro, non era stato eletto nelle sue liste. E il suo ruolo è stato di consulente del ministro.

È vero — e va detto chiaramente— che Silvio Berlusconi non mi ha prospettato affatto di «tradire» il mio partito e i miei elettori. Ciò che egli mi ha proposto è invece di farmi garante, nella veste di membro del nuovo esecutivo, di un accordo tra maggioranza e opposizione sulla politica del lavoro di questa nuova legislatura: accordo, certo, auspicabile, considerati i difetti gravissimi di funzionamento del nostro mercato del lavoro. Il problema è che, prima di una nuova politica del lavoro bipartisan — esperimento possibile, ma inedito nel panorama internazionale — logica vorrebbe che si incominciasse con lo sperimentare l'accordo sul terreno su cui solitamente maggioranza e opposizione cooperano nelle democrazie più mature della nostra: che venissero dunque negoziate almeno le linee delle riforme istituzionali più urgenti, in particolare di quella elettorale; che si instaurasse un rapporto di cooperazione responsabile sul terreno della politica europea, incominciando dalla scelta del commissario italiano a Bruxelles; e sul terreno della politica estera.

Se maggioranza e opposizione non sono capaci di un accordo su queste materie fondamentali, come può reggere per un'intera legislatura un accordo limitato alla politica del lavoro? Per far parte utilmente e stabilmente di un governo non basta essere d'accordo con il premier e con gli altri ministri sul solo programma del proprio dicastero. Occorre anche condividere con loro, quanto meno, la visione generale della direzione in cui muoversi e la parte dei programmi degli altri dicasteri che più direttamente si intreccia con quello di propria competenza: oltre alla politica relativa alle riforme istituzionali, anche la politica indu-striale, quella fiscale, quella relativa alle amministrazioni pubbliche e altre ancora. Senza accordo su questi temi, un programma bipartisan sulla politica del lavoro avrebbe ben poco respiro politico. Per fare soltanto due esempi, come ministro di un governo Berlusconi sarei in grave difficoltà a condividerne la linea di protezione dell'«italianità » di Alitalia (come di altre grandi imprese) che invece da tempo denuncio come pesantemente negativa; e sarei in grave imbarazzo — dopo aver presentato agli elettori con convinzione le proposte del Pd di forte incentivazione del lavoro femminile — nel dover approvare scelte della maggioranza che mi sembrano ispirate a una concezione molto diversa, quale quella sul «coefficiente fiscale familiare».

Se su queste materie non c'è un'intesa piena, l'entrare nella compagine di governo può soltanto dar luogo a situazioni imbarazzanti per tutti. Per questo, pur apprezzando molto il significato positivo della proposta che mi è stata rivolta, mi sembra di poter essere più utile al Paese continuando a dare il mio contributo alla politica del lavoro del Pd, nel contempo incalzando la maggioranza su questo terreno e lavorando per un'intesa sui singoli punti su cui questa risulterà possibile. Nulla impedirà che tra maggioranza e opposizione si attivi — in modo trasparente e nel rispetto dei rispettivi ruoli — una cooperazione in iniziative legislative o amministrative incisive per il migliore funzionamento del mercato del lavoro, per aumentare la produttività e le retribuzioni, per contrastare efficacemente le disuguaglianze crescenti tra lavoratori forti e deboli e tra protetti e non protetti, per favorire e indirizzare l'autoriforma del sistema delle relazioni sindacali, per ridare efficienza e prestigio al lavoro nelle amministrazioni pubbliche e combattere gli sprechi enormi che oggi si osservano in questo settore. Se su queste materie la maggioranza è disponibile a un'elaborazione e un'iniziativa comuni con l'opposizione, le cose di buon senso che si possono fare insieme sono davvero molte. Facciamole.


27 aprile 2008

da corriere.it
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« Risposta #7 inserito:: Maggio 18, 2008, 11:11:01 pm »

L’impegno del Pd

Pietro Ichino


Giovedì prossimo l’assemblea degli industriali insedierà alla presidenza di Confindustria Emma Marcegaglia. Poco dopo si avvierà il negoziato con Cgil, Cisl e Uil per la riforma della rappresentanza sindacale e della struttura della contrattazione collettiva. Le tre confederazioni proporranno come base di discussione il documento sul quale hanno raggiunto l’accordo nei giorni scorsi e che sarà discusso nei luoghi di lavoro nei giorni prossimi.

Sul primo punto, nuove regole per una misurazione precisa della rappresentatività di ciascuna organizzazione; sul secondo, più spazio alla contrattazione aziendale, per far crescere i salari legandone una parte maggiore ai risultati. Confindustria si presenterà alla trattativa proponendo uno spostamento ancora più deciso del baricentro della contrattazione verso le aziende.

La nuova presidente degli industriali cercherà comunque, con la determinazione che la contraddistingue, un accordo innovativo. Uno dei suoi primi atti, per sottolineare l’urgenza della riforma, potrebbe essere un preavviso di disdetta del protocollo del luglio 1993, che già oggi è largamente disapplicato: un preavviso che è stato peraltro ventilato nei mesi scorsi anche da qualche dirigente di Cisl e Uil. Ma la trattativa non sarà facile, perché sul versante confindustriale c’è chi a un accordo poco incisivo preferisce il non accordo; e sul versante sindacale c’è chi, simmetricamente, preferisce quest’ultima ipotesi a quella di un accordo che sposti troppo il baricentro della contrattazione verso la periferia. Chi invece, da una parte e dall’altra, vuole il rilancio del sistema delle relazioni sindacali sta studiando le soluzioni possibili perché il difficile punto di intesa possa essere raggiunto.

Nel frattempo, il nuovo Governo emanerà probabilmente il decreto sulla detassazione della parte variabile delle retribuzioni. Se la riduzione dell’Irpef sugli straordinari lascerà uno spazio adeguato alla riduzione sui premi aziendali, questo allargherà le prospettive di un accordo interconfederale; altrimenti, se prevarrà nettamente la detassazione degli straordinari, indipendentemente dalla contrattazione, l’effetto sarà presumibilmente quello opposto. Dalla scelta dell’equilibrio tra le due voci si vedrà il ruolo che il Governo stesso intende giocare nella partita.

Un ruolo di grande rilievo, su questa materia, può però giocarlo anche l’opposizione, cui competerà di confrontarsi in Parlamento con la maggioranza sulla conversione in legge del decreto. Pur nella sua inferiorità numerica, sul terreno delle politiche del lavoro l’opposizione ha rispetto alla maggioranza un vantaggio strutturale, che nasce da una scelta compiuta fin dall’inizio della campagna elettorale: nella sua compagine parlamentare essa annovera numerosi esponenti molto qualificati sia degli imprenditori dell’industria, del terziario e del settore artigiano, sia delle confederazioni sindacali maggiori. Se il Governo-ombra saprà elaborare una soluzione innovativa e condivisa da entrambe queste componenti sui contenuti precisi delle misure legislative che sono all’ordine del giorno, coerente con i contenuti di un accordo interconfederale realisticamente perseguibile, questa proposta avrà un peso rilevantissimo nella partita politico-sindacale che sta per aprirsi: la linea proposta dal Governo-ombra offrirà, infatti, una solida sponda a tutti coloro che cercano il successo della trattativa, sia in seno alle associazioni imprenditoriali, sia in seno alle confederazioni sindacali, indicando un equilibrio credibilmente a portata di mano. E a quel punto il ministro del Welfare difficilmente potrà esimersi dal fare anch’egli riferimento all’equilibrio proposto dall’opposizione.

Qualcuno obietterà che un sistema di relazioni sindacali degno di questo nome deve essere in grado di funzionare, cioè di produrre accordi, indipendentemente dalla dialettica tra le forze politiche. È vero. Oggi, però, il nostro sistema di relazioni sindacali è in grave affanno. La politica può, legittimamente, stare alla finestra, indifferente agli esiti di questa crisi; può addirittura operare per un suo aggravamento ulteriore; oppure può operare per favorire l’autoriforma del sistema di relazioni sindacali e l’avvio di una sua nuova stagione positiva. Quest’ultima è, in modo molto netto, la scelta del PD. Quale sia, su questo terreno, la scelta del quarto Governo Berlusconi, e del suo ministro del Welfare in particolare, lo sapremo nei prossimi giorni.

Pubblicato il: 18.05.08
Modificato il: 18.05.08 alle ore 15.01   
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 21, 2008, 07:28:11 pm »

Illogico usare la cassa integrazione con chi rifiuta un vero negoziato

di PIETRO ICHINO


Caro Direttore, l'applauso dei piloti e degli assitenti di volo, a iumicino, alla notizia della rottura della trattativa con la nuova compagnia Cai, col conseguente probabile fallimento di Alitalia, non è «un episodio paradossale», come qualcuno ha detto: in realtà lo si può spiegare facilmente.

Quelli che hanno applaudito fanno conto sull'intervento di una Cassa integrazione guadagni o su di un trattamento di disoccupazione speciale erogato proprio per consentire loro di attendere con calma il nuovo lavoro. Qualcuno dovrà pure, prima o poi, far volare gli aerei sulle nostre rotte al posto di Alitalia; e piloti e personale di volo non si sostituiscono così facilmente. Logico? No, per nulla. Perché in nessun Paese serio si erogano trattamenti di disoccupazione o integrazione salariale, neppure per pochi mesi, a chi rifiuta l'offerta di un rapporto di lavoro regolare, confacente alla sua professionalità, come certamente era l'offerta di Cai.

Se anche in Italia sapessimo gestire in modo serio questi «ammortizzatori sociali», a Fiumicino giovedì scorso non ci sarebbe stato alcun applauso; e probabilmente la trattativa non sarebbe stata rotta, perché il rifiuto dell'offerta Cai avrebbe precluso il godimento delle misure di sostegno. Chiediamoci: quanto ci costa e ci è costata, anche in passato, questa incapacità di gestione appropriata del sostegno del reddito dei disoccupati? Questo è solo uno dei nodi cruciali del funzionamento del nostro ordinamento del lavoro e del nostro sistema di relazioni industriali che la crisi Alitalia ha fatto venire al pettine, addirittura portandolo sul teleschermo in prima serata. E fornendoci così un'occasione unica di riflessione pubblica di massa su questi temi. Nei giorni precedenti, si era vista la Cgil subordinare la propria firma dell'accordo alla firma dei sindacati autonomi. Se non sono d'accordo tutti e nove i sindacati operanti in azienda, non se ne fa nulla. È il principio non scritto che regola le relazioni industriali nella maggior parte dei settori dei nostri servizi pubblici, dove anche il sindacato più piccolo può esercitare un diritto di veto, proclamando uno sciopero ben congegnato, capace di bloccare l'intera azienda e talvolta intere parti del Paese.

L'applicazione di fatto di questo principio, nei decenni passati, ha svenato le confederazioni maggiori nel settore dei servizi pubblici, consentendo ai sindacati autonomi di ridicolizzare, paralizzandoli, gli accordi più importanti e impegnativi che esse avevano stipulato per ridare efficienza ed economicità alle aziende. Occorrono invece regole chiare sulla misurazione della rappresentanza nei luoghi di lavoro, che favoriscano il pluralismo sindacale, cioè il confronto aperto fra visioni diverse, ma non la frammentazione. E che, come in quasi tutti i maggiori Paesi europei, consentano ai lavoratori di scegliere a maggioranza la coalizione sindacale legittimata a proclamare uno sciopero e quella legittimata a negoziare con efficacia estesa a tutti i dipendenti dell'azienda. Che fine ha fatto questo tema della riforma della rappresentanza nella grande trattativa in corso tra Confindustria e sindacati? Un altro nodo che è venuto al pettine nella crisi Alitalia è l'incapacità totale del sindacato di operare come intelligenza collettiva che consente ai lavoratori di valutare i piani industriali disponibili, l'affidabilità di chi li propone, e scegliere il migliore tra quelli realisticamente praticabili.

Questa incapacità ha portato la Cisl, nel marzo scorso, a guidare il fronte del «no» pregiudiziale alla proposta Air France-KLM («no» cui si è improvvidamente associato Berlusconi), salvo poi passare a guidare il fronte del «sì» alla proposta di una compagnia incomparabilmente più debole sotto tutti i punti di vista, e che offre condizioni di lavoro per diversi aspetti meno vantaggiose. Il collettivo dei lavoratori Alitalia avrebbe dovuto porsi in grado di scegliere il meglio dell'imprenditoria mondiale in questo settore; ma questo non è possibile quando il leader sindacale che guida le danze, Raffaele Bonanni, dichiara come criterio di preferenza decisivo che dall'altra parte del tavolo ci siano imprenditori «che parlano italiano»!

Lo stesso può dirsi dell'altro leader sindacale maggiore quando egli chiede a gran voce una «trattativa vera», chiarendo che tale non può considerarsi una trattativa che dura soltanto quattro giorni o una settimana. «Trattativa vera», dunque, sono soltanto i vetusti riti nostrani delle defatiganti negoziazioni notturne che durano mesi? Epifani dovrebbe sapere, ormai, che quei riti nulla hanno a che vedere con i tempi dell'economia attuale, con i modi nei quali comunemente si tratta e si decide un investimento nella grande platea globale. Finché questa sarà la nostra cultura sindacale dominante, sarà più difficile per l'Italia guadagnare posizioni nella graduatoria dei Paesi d'Europa più capaci di intercettare gli investimenti nel mercato globale: una graduatoria che la vede oggi fanalino di coda.


21 settembre 2008

da corriere.it
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« Risposta #9 inserito:: Settembre 22, 2008, 10:24:04 am »

22/9/2008 (7:23) - ALITALIA

E D'Alema rincuora la cordata
 
Tra i soci c’è chi vi legge il segnale della svolta tanto attesa


ROBERTO GIOVANNINI


ROMA
«Hai letto, hai letto D’Alema sul Sole?». È cominciata così la domenica mattina di diversi imprenditori della cordata riunita nella Compagnia Aerea Italiana. Tutti o quasi hanno interpretato l’intervista rilasciata dall’ex ministro degli Esteri Massimo D’Alema al quotidiano della Confindustria come la svolta tanto attesa. «Non abbiamo mai lavorato per lo sfascio», diceva D’Alema confermando la «fiducia nelle capacità di Roberto Colaninno» e l’auspicio che la cordata e i sindacati possano «recuperare i fili del confronto». «È il segno - rifletteva un esponente della Cai che ricordava anche le prese di posizioni di Ichino, Enrico Letta e Bersani - che Veltroni ed Epifani sono tagliati fuori, che nel Pd si rafforza il partito del dialogo anche su giustizia e riforme». Insomma, anche se ieri sono andati avanti semplici contatti telefonici, c’è la convinzione che la situazione sia matura per una Canossa della Cgil, magari con un primo segnale di disponibilità cui seguirebbe un comunicato della Cai che - si sussurra - addirittura sarebbe già pronto. Anche nel governo si giura che un «piano B» per Alitalia non esiste. C’è la cordata, e solo il progetto della cordata Colaninno, che non può essere mediato o corretto. Oppure il fallimento. Al ministero del Welfare di Maurizio Sacconi spiegano che non è nemmeno un caso se da parte dell’Esecutivo si sia smesso in queste ore di assestare bastonate a Guglielmo Epifani e alla Cgil. La Cgil deve accettare senza condizioni e aggiustamenti il piano Colanninno, perché non si può accettare che Cisl-Uil-Ugl vengano spiazzate; e i piloti, beh, con i piloti si vedrà. Magari anche loro come la Cgil dovranno tornare al tavolo per firmare con - così si è espresso un autorevole ministro - «le mutande in mano».

Se non che, a sentire i «cattivi» piloti dell’Anpac nulla è cambiato: nella quotidiana newsletter spedita per mail agli associati, il comandante e leader Anpac Fabio Berti ribadisce che nonostante le «enormi pressioni» ricevute la linea non cambia. Stessa musica in casa Cgil: a Corso d’Italia si fa notare che l’intervista di D’Alema - semmai - è perfettamente in linea con le ultime prese di posizione di Epifani sulla necessità di cercare un compratore estero. «Se fossi nel commissario (straordinario Alitalia Fantozzi, ndr) - afferma D’Alema - telefonerei a qualcuno del ramo. Non penso che alle stesse condizioni di Cai siano pochi i possibili compratori». Fatto sta che ieri il commissario Augusto Fantozzi ha formalmente attivato la procedura per sollecitare possibili manifestazioni d’interesse.

I collaboratori di Fantozzi puntualizzano che certo, finora né Lufthansa né British Airways o Air France-Klm hanno dichiarato di volersi muovere, ma che «il Commissario deve fare il proprio dovere, di cui risponde in prima persona di fronte alla legge». Ovvero, anche se Palazzo Chigi come noto preferisce il fallimento alla vendita «allo straniero», il messaggio di Fantozzi al premier è che lui in galera (come minacciato da un certo Di Pietro) non ci vuol finire. E se arriverà - per iscritto - un’offerta da Lufthansa (in pole position, dicono tutti i bene informati) o dai Jean-Cyril Spinetta, il commissario venderà.

da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Novembre 27, 2008, 10:13:39 pm »

La casta teme la trasparenza

di Emiliano Fittipaldi

Un ordine del giorno per rendere pubblici soldi e beni dei senatori.

Presentato da Ichino e accolto da Schifani.

Ma subito bloccato. Colloquio con Pietro



Lo stipendio da parlamentare che riceve è di 12.496 euro al mese. I contributi mensili versati al Partito democratico superano di poco i 3.500 euro. Il collaboratore (contratto part-time) gli costa 1.200 euro, per l'affitto a Roma e altre uscite varie escono dal suo portafogli, "facendo molta attenzione", 1.600 euro mensili. Nel 2007 il reddito, sommando quello da professore con le attività dello studio, era di 496 mila euro lordi. Eletto alla Camera, teme che il suo reddito possa subire un brusco calo.

Pietro Ichino, ordinario all'Università di Milano e deputato democrat, è stato di parola: tifoso della trasparenza 'senza se e senza ma', sul suo sito Internet fa sfoggio di coerenza elencando nel dettaglio entrate e uscite del suo budget, senza dimenticare case e interessi vari. Un appartamento a Milano in comproprietà della moglie ("Ci vive anche mia figlia minore" tiene a chiosare), uno a Courmayeur ("Piccolo"), un altro a Forte dei Marmi (con mansarda).

Ichino è preciso, quasi pignolo: "Ho una Renault Espace del 2001 e una Fiat Panda del 2007, intestata a mia moglie. Non posseggo invece né aerei né barche". Ci crede talmente tanto, nella trasparenza, che uno dei suoi primi atti è stato quello di presentare un ordine del giorno per mettere on line i beni e gli interessi dei colleghi. Un appello alla trasparenza rimasto, per ora, lettera morta.

Prima ancora del caso di Renato Brunetta, che ha invocato la privacy sulle sue proprietà immobiliari, lei aveva presentato una proposta. In cosa consiste?
"Testualmente il documento dice che il Senato, considerata la necessità di rendere noti i dati patrimoniali nonché gli interessi economici e finanziari degli eletti, 'impegna il Collegio dei questori a pubblicare su Internet in formati standard, liberi e aperti (ad esempio XML), le dichiarazioni dei senatori circa la situazione patrimoniale, immobiliare e mobiliare propria, di cui all'articolo 2 della legge 5 luglio 1982'".


Perché ha presentato una proposta di questo tipo?
"C'era stata pochi giorni prima una sollecitazione di Tito Boeri. E stava partendo un'iniziativa dei radicali. In quel periodo, inoltre, il Senato discute del bilancio e della propria auto-amministrazione. Il momento era propizio".

L'ordine del giorno è stato approvato?
"Non è stato messo ai voti perché, con una piccola modifica, è stato direttamente accolto dalla presidenza del Senato. In altre parole, Renato Schifani ha preso l'impegno di fare quanto era indicato nel documento".

Perché secondo lei è così importante pubblicare le informazioni sensibili dei parlamentari su Internet?
"Quando venne emanata la legge del 1982 citata in quell'ordine del giorno, Internet non esisteva ancora. Oggi, l'accessibilità dei dati implica che essi siano disponibili in Rete".

Dunque le informazioni sono già pubbliche?

"La legge prevede la pubblicazione congiunta, da parte di Camera e Senato, mediante un bollettino cartaceo. In pratica, occorre recarsi presso un ufficio del Parlamento e chiedere di leggere i tabulati. È una forma di pubblicità molto rudimentale, poco accessibile e dunque totalmente inefficace".

Cosa succede negli altri paesi?

"In Svezia e in Gran Bretagna, che hanno introdotto per prime il principio della 'total disclosure', cioè della trasparenza totale, tutti i dati sono disponibili on line. Sono gli Stati che il Pd ha preso a modello per il proprio disegno di legge sulla trasparenza e valutazione nelle amministrazioni pubbliche. E proprio il Senato ha approvato, due settimane fa, un disegno di legge che recepisce questo principio".

Sarà, ma la tutela della privacy resta sacra.
"Non c'è dubbio che le nostre amministrazioni pubbliche siano tra le più opache dell'Occidente. E neppure i politici, in generale, amano molto la trasparenza".

Perché in Italia il principio della privacy resta prioritario anche in politica?
"La trasparenza della cosa pubblica e di chi vi si dedica è uno degli elementi essenziali di qualsiasi democrazia. Diciamo che la nostra democrazia è un po' indietro rispetto alle altre maggiori".

La trasparenza potrebbe limitare possibili conflitti d'interessi?
"Certo che sì! La visibilità del patrimonio mobiliare e immobiliare di ciascun parlamentare non potrà mettere a nudo tutti i suoi interessi personali privati, ma ne rivelerà sicuramente una buona parte".

In molti obiettano che il conflitto di interessi di Silvio Berlusconi rende ridicoli gli altri.
"Se guardiamo alle dimensioni del suo patrimonio, certo, quello della maggior parte degli altri parlamentari appare minuscolo. Ma degli interessi personali di Berlusconi sappiamo quasi tutto: paradossalmente sono più trasparenti di quelli di tanti oscuri peones. Eppure anche questi, ogni giorno, soprattutto nel lavoro nelle commissioni, possono influire in modo decisivo su tante decisioni, grandi e piccole".

Sono passati quattro mesi, ma l'ordine del giorno è rimasto soltanto sulla carta. Come mai?
"Ne ho chiesto conto all'ufficio dei questori: mi hanno risposto che la pubblicazione on line è impossibile, perché la legge dispone la pubblicazione congiunta per i senatori e i deputati. E mi hanno detto che la Camera non è vincolata da quell'ordine".

Ma la presidenza del Senato non potrebbe muoversi in maniera autonoma?
"Non vedo che cosa le impedisca di incominciare con l'adempiere l'impegno che ha assunto, mettendo sul sito del Senato i dati relativi ai senatori. Nessuno glielo vieta".

Forse la sua proposta non è stata molto apprezzata dai colleghi di maggioranza e opposizione...
"Qualcuno l'ha presa con simpatia, altri sono più scettici. Credo che quelli che non gradiscono l'iniziativa non si siano espressi affatto".

Non è che anche i parlamentari del Pd preferirebbero non mettere in piazza i propri interessi?
"Non ho motivo per pensarlo".

Se Schifani non prenderà posizione, come intende portare avanti il progetto?
"Per quel che mi riguarda, dal luglio scorso ho messo on line i redditi degli ultimi due anni e le mie proprietà. Chiunque può esaminarli sul mio sito www.pietroichino.it, sezione 'Rendiconti'. Forse la stampa potrebbe sollecitare ogni parlamentare a fare la stessa cosa. In questi giorni, poi, tornerò alla carica con la presidenza per chiedere conto dell'impegno assunto a luglio. Ora c'è di mezzo anche una questione di coerenza".

In che senso?
"Visto che abbiamo varato pochi giorni fa, in commissione Affari costituzionali, un disegno di legge che introduce il principio della trasparenza totale delle amministrazioni pubbliche, sarebbe curioso che il Senato approvasse questo principio a carico degli altri comparti dello Stato ma rifiutasse ad applicarlo a se stesso".

(27 novembre 2008)
da espresso.repubblica.it
« Ultima modifica: Marzo 24, 2012, 04:36:54 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #11 inserito:: Febbraio 10, 2009, 05:43:16 pm »

10/2/2009
 
Non nominare Dio invano
 
PIETRO ICHINO*
 

Vorrei distinguere la parte che svolgo nella mia veste di politico e quella che svolgo come credente. Non perché questo mi conduca a due conclusioni diverse, ma perché mi sembra necessario sottolineare una distinzione tra i due piani del discorso, che troppo sovente è ignorata o trascurata.

Nella veste di membro, laico, del Parlamento di una Repubblica laica, chiamato a stabilire quale sia il confine tra vita meramente biologica e vita umana, tra stato vegetativo reversibile e irreversibile, ritengo che la legge debba limitarsi a definire il confine al di qua del quale c’è sicuramente vita umana da difendere con ogni mezzo, e il diverso confine al di là del quale il corpo umano può e deve essere considerato a tutti gli effetti morto. Questi sono i soli certi fines, i confini sicuri, che un ordinamento civile può e deve porre. Ed essi non sempre coincidono tra loro. Dico che non coincidono perché tra di essi talvolta si presenta una sorta di zona grigia, una zona di ragionevole opinabilità – corrispondente a quella che gli anglosassoni chiamano band of reasonableness delle opzioni possibili – dove possono verificarsi un’infinità di situazioni-limite particolari la cui qualificazione è controvertibile. Qui, a ogni cittadino deve essere consentito, con l’assistenza del medico o di altro consigliere qualificato di sua scelta, agire secondo la propria coscienza.

Per quel che mi riguarda, in una situazione nella quale, come nel caso di Eluana Englaro, fosse ragionevole ritenere irreversibile la mia totale perdita di coscienza, cioè ritenere il mio corpo di fatto condannato a una vita puramente vegetativa, privato irreversibilmente di mente e coscienza, sentirei gravemente lesa la dignità della mia persona se quel corpo venisse mantenuto in vita per lungo tempo, ancorché nel modo più amorevole e rispettoso. Penso che questo senso di ribellione all’idea di una prolungata permanenza forzata in vita del proprio corpo privato per sempre della coscienza sia condivisa dalla grande maggioranza dei miei concittadini. Per questo ritengo che un legislatore laico, fissati i confini della zona di ragionevole opinabilità, debba riconoscere ai familiari di chiunque si trovi in una situazione di questo genere la libertà di scegliere secondo coscienza: di scegliere, cioè, se continuare o no ad alimentare una vita che può essere altrettanto ragionevole ritenere ancora vita umana, quanto non ritenerla più tale. (...).

Detto questo, e parlo ancora come membro, laico, del Parlamento di una Repubblica laica, rispetto e difendo il diritto di chiunque, nel nostro Paese, quindi anche dei vescovi e in generale del Magistero ecclesiastico cattolico, come degli esponenti di ogni altra chiesa o comunità religiosa, di esprimere liberamente la propria opinione sul discrimine tra vita e morte, tra vita biologica e vita umana, e anche su che cosa la legge dovrebbe stabilire al riguardo: dissento dunque recisamente da chi vede negli interventi delle Autorità religiose sul terreno politico-legislativo una ingerenza indebita o comunque una scorrettezza.

È come cristiano – forse sarebbe meglio dire: come persona impegnata a coltivare intensamente il patrimonio plurimillenario della tradizione biblica –, è in questa veste che mi rammarico di interventi del tipo di quelli che la Chiesa cattolica con frequenza compie su ciò che questo Parlamento deve o non deve fare. E mi rammarico dell’atteggiamento – che non esito a definire clericale, nel senso peggiore del termine - di un Governo che a questi interventi assoggetta programmaticamente e sistematicamente il proprio agire; incurante, oltretutto, del fatto che della nostra tradizione biblica non è depositaria soltanto la Chiesa cattolica, ma anche altre, come quelle protestanti e in particolare quella valdese; ne è depositaria pure, e da molto prima, la Comunità ebraica. E tutte queste, dalle Scritture, traggono insegnamenti di etica politica talora profondamente diversi rispetto alla Chiesa cattolica.

In consonanza con tanta parte di questa grande comunità di persone che nella tradizione biblica cercano il senso della propria vita, penso che la testimonianza di una Chiesa cristiana non debba mai consistere nell’indicare la soluzione giuridico-legislativa specifica da preferire, né tanto meno le concrete modalità dell’impegno politico; penso che essa invece debba educare i cristiani all’esercizio responsabile della loro coscienza, lasciando che proprio quest’ultima - la coscienza - resti il punto di riferimento fondamentale per ciascuno di loro nelle scelte politiche, giuridiche, tecniche. Pietro Scoppola amava citare, a questo proposito, un’affermazione del Concilio Lateranense IV del 1215: «Quidquid fit contra conscientiam aedificat ad Gehennam» («qualsiasi cosa che si faccia contro la propria coscienza prepara all’Inferno»). Ultimamente, la Gaudium et Spes del Concilio Vaticano II ha detto, con altre parole, la stessa cosa (§ 16): «L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al suo cuore: obbedire ad essa è la dignità stessa dell’uomo e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio». Nelle materie che vanno «rese a Cesare» (Mt., XXII, 21) – e tra queste vi è certamente la materia della legislazione civile - le scelte operative devono esprimere i valori in cui crediamo attraverso la mediazione della coscienza di ciascuno di noi.

«Rendere a Cesare quel che è di Cesare» significa rispettare la laicità dello Stato, della sua politica, della sua legislazione. Questa laicità è sostanzialmente il metodo che consente a tutte le persone di buona volontà di trovare un terreno comune sul quale mettere in comunicazione le loro coscienze, ispirate a fedi e filosofie anche molto diverse, per cooperare nella ricerca delle soluzioni tecniche, politiche, legislative migliori per il bene del Paese. Quel terreno comune viene meno se c’è qualcuno che su di esso (cioè in quello spazio che il Vangelo ci invita a «rendere a Cesare»), si presenta con la verità in tasca, già bell’e confezionata, certificata con il sigillo della conformità alla volontà di Dio. Con gli occhi di chi legge la Bibbia, vedo in questa pretesa una violazione del secondo Comandamento: «Non nominare il nome di Dio invano».

Per concludere, chiedo alla Chiesa di affermare con forza il valore della vita; ma di rendere alla scienza ciò che le è proprio. Lasciare, cioè ai neurologi la valutazione tecnica circa l’irreversibilità della scomparsa di una componente essenziale della vita umana: la mente, la coscienza; lasciare, più in generale, ai medici la scelta del modo concretamente più umano e caritatevole di trattare, nella loro infinita varietà, i casi in cui si determina questa scomparsa irreversibile. È compito della Chiesa continuare a educare con rigore e passione le persone ai valori evangelici; ma essa deve lasciare loro – e in particolare a quelle che sono impegnate negli organi legislativi e amministrativi dello Stato – la libertà di compiere secondo coscienza le scelte proprie della funzione civile o professionale che esse svolgono, confrontandosi in proposito con le persone di fede diversa senza la pretesa di possedere in quel campo una verità rivelata, direttamente attinta dalla volontà divina. Anzi, credo che la Chiesa debba vegliare a che nessuno avanzi questa pretesa, nessuno violi il secondo Comandamento.

Al Governo e al Parlamento chiedo di riconoscere e proteggere, come impone la Costituzione, nella zona tra i due confini - della certezza di vita umana da una parte, della certezza di morte dall’altra -, quella band of reasonableness delle opzioni possibili, all’interno della quale ogni cittadino, cristiano o no, deve poter decidere e agire secondo la propria coscienza.


* L’intervento che il senatore del Pd avrebbe tenuto ieri sera a Palazzo Madama se la seduta non fosse stata sospesa
 
da lastampa.it
« Ultima modifica: Febbraio 16, 2009, 11:02:12 am da Admin » Registrato
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« Risposta #12 inserito:: Febbraio 26, 2009, 03:46:42 pm »

26/2/2009 (7:15) - INTERVISTA

Ichino: "Non è contro i sindacati Anche il Pd può votarlo"
 
Il giuslavorista: negli altri Paesi le regole ci sono già

SUSANNA MARZOLLA
MILANO


Un testo dal titolo inequivocabile, «Disegno di legge sullo sciopero virtuale», giace al Senato già da quattro mesi, esattamente dal 30 ottobre dell’anno scorso. Quattro articoli preceduti da una relazione in cui si spiega che «per sciopero virtuale si intende la forma di agitazione collettiva proclamata al fine di esercitare pressione sulla controparte imprenditoriale in modo diretto, incidendo immediatamente sul suo bilancio, senza recare pregiudizio agli utenti o alla collettività». Un altro testo, «Disegno di legge sullo sciopero dei trasporti pubblici», parte con questa premessa: «In questo settore chiave solo nuove regole di democrazia sindacale possono riportare il conflitto alla sua funzione economico-sociale originaria». Per diverso tempo è stato solo una bozza di lavoro. Fino a ieri, quando Pietro Ichino, senatore del Pd e noto giuslavorista lo ha presentato alla Presidenza del Senato; quasi in contemporanea con l’elaborato del governo.

Sembra proprio la premessa di una norma “bipartisan”. Senatore Ichino, ritiene che la bozza del governo rispecchi quanto già contenuto nelle sue proposte?
«Per gran parte sì, sia sullo sciopero virtuale che, oltre alla mia, ha come prime firme quelle di Treu, Morando, Bianco; sia sullo sciopero (tradizionale) nel settore dei trasporti. Quest'ultimo disegno di legge lo abbiamo discusso nel novembre scorso con i sindacati, con le imprese e con i rappresentanti degli utenti. Entrambi sono disponibili sul mio sito (www.pietroichino.it) già da diversi mesi e quindi possono essere oggetto di confronto con quanto elaborato dal governo».

Quali sono, a suo parere, le principali differenze?
«La prima, per quel che riguarda lo sciopero virtuale, è che noi lo consideriamo sempre come strumento aggiuntivo e facoltativo rispetto allo sciopero tradizionale: mai come sostitutivo. Il governo, invece, ne fa in alcuni casi la sola forma di lotta sindacale possibile».

E per lo sciopero nei trasporti?
«La bozza del governo contiene anche l'obbligo per i lavoratori di comunicare preventivamente l'adesione allo sciopero, che il nostro progetto non contiene».

Ma il provvedimento potrebbe essere votato anche dal Partito democratico
«Su entrambe le materie - sciopero virtuale e sciopero nei trasporti - si sta aprendo un tavolo di negoziazione tra sindacati e imprenditori; se da quella trattativa verrà fuori un buon accordo, come mi sembra senz'altro possibile, su quella base sarà facile realizzare una convergenza parlamentare anche tra maggioranza e opposizione».

Ci sono però alcune modifiche che pensa saranno necessarie?
«Tutte quelle che saranno suggerite, appunto, dagli accordi che si troveranno al tavolo tra le parti sociali»

C’è però chi - esponenti di Rifondazione comunista, dei sindacati di base - ritiene la bozza un puro attacco al diritto di sciopero. Che cosa risponde?
«Rispondo che in Italia, in quasi tutti i comparti del settore dei trasporti pubblici, la frequenza media degli scioperi da decenni è superiore a uno al mese. Questo non accade in alcun altro Paese europeo. E questa non è lotta sindacale: è diventata una caricatura grottesca del sindacalismo. D'altra parte, in tutti i maggiori Paesi europei, tranne la Francia, sono in vigore da anni regole simili a quelle contenute nel disegno di legge che abbiamo presentato oggi. Forse il Prc sostiene che sono tutti Paesi dove il sindacato e i lavoratori sono conculcati?».

Pensa che a questo punto i sindacati di base si adegueranno o ci saranno ancora i cosiddetti “scioperi selvaggi”?
«Se il sistema delle sanzioni sarà applicato con il dovuto rigore, dovranno adeguarsi».

da lastampa.it
« Ultima modifica: Febbraio 13, 2012, 11:23:30 am da Admin » Registrato
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« Risposta #13 inserito:: Marzo 06, 2009, 03:52:45 pm »

NOTE TECNICHE SULL'ACCORDO INTERCONFEDERALE DEL 22 GENNAIO

di Pietro Ichino* 30.01.2009


Il motivo principale per cui la Cgil ha rifiutato l’accordo sulla riforma della contrattazione collettiva è la prospettiva che nei futuri rinnovi nazionali esso produca una riduzione degli adeguamenti retributivi rispetto all’inflazione. Cisl, Uil, Ugl e Confindustria, che lo hanno firmato, negano invece questa prospettiva. Cerchiamo di capire come stanno realmente le cose.
Occorre considerare, innanzitutto, che il nuovo accordo prevede esplicitamente che sia negoziato in ogni impresa un premio di produzione: sindacato e lavoratori avranno dunque un vero e proprio diritto all’apertura della trattativa per l’istituzione del premio di produzione in ciascuna azienda in cui il nuovo sistema si applicherà. Questo deve portare a un mutamento di grande rilievo, sia dal punto di vista dell’estensione della contrattazione aziendale, sia nella struttura delle retribuzioni. I sindacati che sapranno riformare se stessi e mettersi in grado di svolgere incisivamente questa funzione attiveranno un modello di relazioni industriali significativamente diverso da quello attuale. Ed è subito evidente che, se non si tiene conto di questo dato, tutti i confronti fra vecchio e nuovo sistema sono inattendibili.

LIVELLO NAZIONALE E LIVELLO AZIENDALE

Per quel che riguarda la parte della retribuzione negoziata al livello nazionale, l’accordo istituisce un meccanismo di adeguamento dei minimi tabellari secondo un indice previsionale costruito sulla base dell’Ipca (indice dei prezzi al consumo armonizzato in ambito europeo) che non è di per sé meno protettivo rispetto al meccanismo precedente, fondato sul riferimento all’“inflazione programmata”: esso, semmai, è destinato a portare un adeguamento più vicino all’inflazione reale, rispetto a quanto accaduto nel quindicennio passato.
Nel nuovo sistema il sindacato rinuncia a negoziare al livello nazionale aumenti retributivi collegati agli aumenti di produttività (come avveniva nel vecchio sistema), al fine di lasciare più spazio allo sviluppo della contrattazione al livello aziendale su questa materia. L’accordo, però, prevede pure che i contratti nazionali di settore istituiscano un “elemento retributivo di garanzia” (Erg), destinato a scattare nelle imprese dove la contrattazione di secondo livello di fatto non si attivi. È sostanzialmente una generalizzazione del meccanismo già da tempo previsto dal contratto collettivo dei metalmeccanici, dove è chiamato “assegno perequativo”. Anche se si considera soltanto la parte di retribuzione negoziata al livello centrale, non si può ragionevolmente affermare che il risultato di queste nuove norme-quadro sarà una sua riduzione prima di conoscere l’entità dell’Erg che verrà stabilita da ciascun contratto nazionale.
La Cgil esprime a questo proposito il timore che, nei settori in cui il sindacato è più debole, l’Erg di fatto non venga contrattato, o venga determinato in misura troppo bassa. Ma dove il sindacato è più debole era più difficile anche il “recupero di produttività” che veniva negoziato al livello nazionale nel vecchio sistema.
Finora, nel quadro dell’accordo del 1993, al livello nazionale si negoziava una parte maggiore della retribuzione complessiva, secondo un criterio tendenzialmente uguale per tutti i settori; si lasciava così uno spazio più ridotto alla parte di retribuzione legata agli aumenti di produttività o redditività effettivi e si sacrificavano sul piano nazionale le retribuzioni delle aziende più dinamiche. È possibile che anche questo abbia contribuito a tenere il livello generale delle nostre retribuzioni nettamente più basso rispetto a quelli di tutti i nostri maggiori partner europei.
D’altra parte, aumentare le retribuzioni è possibile soltanto in due modi. Il primo consiste nell’erosione del profitto, dove c’è, a vantaggio dei redditi di lavoro; per questo lo strumento più efficace e penetrante – almeno in riferimento alle aziende con produttività e redditività più alte della media ‑ non è certamente la negoziazione di uno standard nazionale che deve andar bene anche per i settori dove produttività e redditività sono più basse. Il secondo consiste nel rendere più produttivo il lavoro; questo è possibile soltanto attraverso l’innovazione; e l’innovazione che più conta, quella che sovente è portata dall’imprenditore straniero, la si contratta al livello aziendale, non a quello nazionale. Sindacati e lavoratori italiani finora hanno fatto troppo poco questo mestiere; non si può ragionevolmente negare che il nuovo accordo interconfederale apra maggiori spazi per svolgerlo.
Nel maggio scorso avevo proposto una formulazione della clausola relativa all’Erg suscettibile di offrire una “garanzia” assai efficace, pur mantenendo uno stretto collegamento di questa voce retributiva con l’andamento di ciascuna azienda. Si trattava della traduzione in linguaggio contrattuale di un’idea originariamente proposta da Tito Boeri e Pietro Garibaldi: un premio di produttività “di default” collegato al margine operativo lordo di ciascuna azienda, ma i cui parametri minimi fossero stabiliti a livello nazionale, per il caso di difetto di negoziazione nella singola impresa. Questo avrebbe anche costituito una sorta di “traccia” per la contrattazione aziendale anche nelle piccolissime aziende, da parte di lavoratori o sindacalisti privi di qualsiasi esperienza in questa materia. Vi è ragione di ritenere che, se la Cgil, nella trattativa svoltasi nel corso del 2008, avesse sostenuto un meccanismo di questo genere, la Confindustria non avrebbe opposto un rifiuto pregiudiziale. È vero che questo meccanismo non avrebbe prodotto aumenti retributivi nelle aziende che più soffrono l’attuale fase di recessione; ma questo non è necessariamente un male: la flessibilità della retribuzione in relazione all’andamento aziendale favorisce la continuità dell’occupazione ed evita le sospensioni del lavoro e i licenziamenti.

LA RAPPRESENTATIVITÀ

L’accordo del 22 gennaio prevede la stipulazione entro tre mesi di un accordo ulteriore, per la definizione dei criteri di misurazione della rappresentatività dei sindacati, al livello nazionale e a quello aziendale. È evidente che un sistema di regole sulla rappresentanza non può funzionare se non lo firma anche la confederazione sindacale maggiore. Mi sembra difficile, però, che la Cgil possa sottrarsi alla negoziazione e stipulazione di questo secondo accordo, essendo sempre stata proprio la fissazione delle regole sulla misurazione della rappresentatività dei sindacati la bandiera della stessa Cgil. Quanto al contenuto di questo futuro accordo, fin dal maggio scorso le tre confederazioni maggiori hanno raggiunto un’intesa abbastanza precisa sulle regole da istituire.
Questo secondo passaggio potrebbe costituire l’occasione per ricucire lo “strappo” tra le confederazioni. E a quel punto, anche la riforma della struttura della contrattazione collettiva potrebbe decollare, nonostante il probabile permanere del dissenso della Cgil: una volta stabilito il criterio di misurazione della rappresentatività, settore per settore sarà la coalizione sindacale maggioritaria a decidere se applicare o no le nuove regole. Così avremo, per esempio, a seconda della maggioranza sindacale operante in ciascun settore, quello tessile e quello chimico che applicheranno le nuove regole, il settore metalmeccanico e quello del commercio che non le applicheranno; e ci sarà la possibilità di misurare e verificare gli effetti dell’uno e dell’altro assetto della contrattazione collettiva. A ben vedere, un vero pluralismo sindacale significa proprio questo: possibilità per modelli diversi di relazioni industriali di confrontarsi e competere tra di loro, in modo che i lavoratori possano compiere la loro scelta a ragion veduta, in modo pragmatico e non soltanto sulla base di opzioni ideologiche. Rinvio in proposito al dialogo con Eugenio Scalfari pubblicato in questo sito nel febbraio 2006.

DEROGHE AL CCNL

Tra le altre novità contenute nell’accordo, una di grande rilievo è costituita dalla previsione della possibilità che il contratto aziendale – se stipulato dalla coalizione sindacale maggioritaria– deroghi al contratto nazionale, sia in materia retributiva, sia in materia “normativa”; e questo sia in situazioni di difficoltà economica, dove è necessaria una riduzione dello standard retributivo, sia, al contrario, nelle situazioni in cui la deroga è necessaria per introdurre un’innovazione nell’organizzazione del lavoro non compatibile con il modello fissato dal contratto nazionale. Su questo punto è profondamente cambiata la filosofia stessa dell’accordo, rispetto al testo che era stato proposto dalla Confindustria nella primavera scorsa. Chi ha letto quanto ho scritto su questo punto (in particolare, il libro “A che cosa serve il sindacato?” e il saggio “Che cosa impedisce ai lavoratori di scegliersi l’imprenditore” ) sa perché considero indispensabile questo ampliamento dello spazio della contrattazione aziendale per aprire maggiormente il nostro sistema all’innovazione e agli investimenti stranieri, che sono il solo modo per ottenere un forte aumento delle nostre retribuzioni.
A dire il vero, nel mio libro testé citato non propongo che la facoltà di deroga venga attribuita a qualsiasi coalizione sindacale che sia maggioritaria nella singola azienda: propongo invece l’istituzione di un filtro ulteriore, costituito dall’appartenenza dei sindacati stipulanti al livello aziendale ad associazioni radicate in almeno tre altre Regioni. Questo al fine di evitare possibili degenerazioni del meccanismo, soprattutto nel Mezzogiorno. Credo che adottare questo filtro ulteriore in questo accordo interconfederale non sarebbe stato male (e le parti sono ancora in tempo per farlo); ma sono altrettanto convinto che in questa materia la possibilità di degenerazioni marginali non debba indurre a paralizzare o appesantire eccessivamente l’intero sistema nazionale.

IL SETTORE PUBBLICO

Ho, invece, forti perplessità sulla possibilità di buon funzionamento del nuovo assetto della contrattazione collettiva nel settore pubblico. Fino a che non sarà stato attivato il sistema di valutazione indipendente e trasparente delle performance delle singole amministrazioni previsto dal disegno di legge approvato nel dicembre scorso dal Senato e attualmente in discussione alla Camera, non vedo come la contrattazione decentrata possa svolgere correttamente, in questo settore, la funzione di collegamento delle retribuzioni all’andamento gestionale.

 da lavoce.it
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« Risposta #14 inserito:: Marzo 08, 2009, 09:27:40 am »

8/3/2009
 
La forza laica di Londra "teocratica"
 
PIETRO ICHINO
 
La regina o il re, in Gran Bretagna, oltre che capo dello Stato è anche capo della Chiesa anglicana; la quale è a tutti gli effetti qualificabile a sua volta come «Chiesa di Stato». Della House of Lords, la Camera alta di Londra, fanno parte di diritto gli arcivescovi di Canterbury e di York, i vescovi di Londra, Durham e Winchester, nonché altri ventuno vescovi diocesani. Parrebbero, queste, le caratteristiche tipiche di uno Stato teocratico: potremmo, cioè, pensare che queste siano le premesse per lo sviluppo di un ordinamento civile fortemente permeato dal principio di conformità della legge a una volontà divina. Altrimenti, perché tanti interpreti autorizzati di quella verità siederebbero di diritto in Parlamento?

Accade invece che nessuno, in quel Parlamento, abbia mai la pretesa di possedere una verità direttamente desumibile dalle Sacre Scritture circa le misure legislative migliori da adottare. Neppure sulle materie eticamente più sensibili, come il matrimonio, l’aborto, la ricerca sulle cellule embrionali, il trattamento medico al confine tra la vita e la morte. In quelle splendide aule i vescovi, pur legittimati a interloquire direttamente, di fatto se ne astengono, così rendendo quotidianamente «a Cesare quel che è di Cesare»; né pretendono che altri si faccia portatore di verità rivelate per loro conto. Ciò consente di sperimentare la laicità come metodo di incontro e cooperazione per il bene comune tra persone di fede diversa, assai più di quanto si faccia nel nostro Parlamento, dove i vescovi formalmente non mettono mai piede. Donde una conclusione: la laicità di uno Stato è frutto più della cultura della nazione che delle sue istituzioni.
 
da lastampa.it
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