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Autore Discussione: Tonino GUERRA. Narratore, poeta e sceneggiatore cinematografico ...  (Letto 3975 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Dicembre 23, 2017, 09:14:36 pm »

GUERRA, Antonio, detto Tonino

Di Giuseppe Leonelli - Enciclopedia Italiana - V Appendice (1992)

GUERRA, Antonio, detto Tonino

Narratore, poeta e sceneggiatore cinematografico, nato a Sant'Arcangelo di Romagna (Forlì) il 16 marzo 1920. Deportato in Germania durante la seconda guerra mondiale e internato nel campo di concentramento di Troisdorf, scrisse le prime poesie nel dialetto della sua terra. Tornato in Italia, si è laureato in pedagogia all'università di Urbino, e ha insegnato a Savignano sul Rubicone per oltre dieci anni.
Trasferitosi a Roma alla fine degli anni Cinquanta, ha svolto un'intensa e proficua attività di sceneggiatore cinematografico, imponendosi in breve come una delle presenze più originali e interessanti del cinema italiano degli anni 1960-80.
Tra le moltissime sceneggiature si dovranno citare almeno quelle di film d'alto prestigio, quali L'avventura, La notte, Deserto rosso, Blow up, Zabriskie Point, di M. Antonioni; Amarcord di F. Fellini; Uomini contro, Lucky Luciano, Cristo si è fermato a Eboli, di F. Rosi; I giorni contati di E. Petri; Matrimonio all'italiana di V. De Sica.
Come poeta dialettale si è imposto con la raccolta I scarabócc (1946, "Gli scarabocchi"), uscita con prefazione di C. Bo, cui seguirono La s-ciuptèda (1950, "La schioppettata"), Lunario (1954) e I bu (1972, "I buoi", con prefazione di G. Contini), che raccoglie le poesie dei libri precedenti con l'aggiunta di una nuova sezione, Eultum vers ("Ultimi versi").
In queste opere G. − che fu subito notato e incluso da P. P. Pasolini e M. Dell'Arco nell'antologia Poesia dialettale del Novecento- dà voce a un mondo di miseria e di emarginazione, assillato dai bisogni elementari: un'umile Italia romagnola che sembrò intonata alle coordinate letterarie del neorealismo. In seguito, la critica si rivolse piuttosto alla sostanza idillica, magica e favolosa di quel mondo posto sì ai margini della storia, ma anche via di rifugio e recupero, nel dialetto, delle parole dell'infanzia; un mondo tutelato, come buona parte della poesia dialettale novecentesca (tra cui, soprattutto, quella del coetaneo Pasolini) dal grande archetipo romagnolo e nazionale di Pascoli.
Questo carattere mitologico-regressivo, che rende incantato, scintillante della ''meraviglia'' del fanciullino pascoliano ogni frammento, anche il più misero e appartato della quotidianità, tende a esaltarsi con il tempo e investe anche la produzione narrativa in lingua di G., aperta da due romanzi sostanzialmente neorealisti, La storia di Fortunato (1952) e Dopo i leoni (1956), e proseguita su un piano decisamente più originale, con suggestive implicazioni culturali e tematiche di timbro espressionistico, con L'equilibrio (1967), L'uomo parallelo (1969), I cento uccelli (1974, presentato da I. Calvino), fino ai più recenti, e meno felici, Il polverone (1978), I guardatori della luna (1981), L'aquilone. Una favola del nostro tempo (1982, in collaborazione con M. Antonioni), La pioggia tiepida (1984) e i racconti di Cenere (1990).
Nel 1981 G. pubblica Il miele, che segna il ritorno alla poesia dialettale, improntata ora a una percettibile attenuazione del vernacolo: riduzione programmatica che intende rispecchiare la nuova condizione del dialetto, sempre più ''italianizzato'' anche nella realtà quotidiana; e si tratta inoltre di una lirica narrativamente più distesa di quanto non fosse precedentemente, come confermano i successivi poemetti La capanna (1985), Il viaggio (1986), L'orto di Eliseo (1989) e Il profilo del conte (1990), quasi tutti imperniati, come anche le prose dialettali di Il libro delle chiese abbandonate (1988), sui temi esistenziali del viaggio e della morte.


Bibl.: P. P. Pasolini, Introduzione a P. P. Pasolini-M. Dell'Arco, Poesia dialettale del Novecento, Milano 1952, poi in Passione e ideologia, ivi 1960; G. Contini, Letteratura dell'Italia unita 1861-1968, Firenze 1968; C. Garboli, La stanza separata, Milano 1969; AA.VV., Lingua, dialetto e poesia. Atti del seminario popolare su Tonino Guerra e la poesia dialettale del Novecento (Santarcangelo, 16-17 giugno 1973), Ravenna 1976; R. Bertacchini, Antonio Guerra, in Letteratura italiana, I contemporanei, v, Milano 1974; G. Amoroso, Tonino Guerra, in Letteratura italiana contemporanea, a cura di G. Mariani e M. Petrucciani, i, Roma 1979; Poeti dialettali del Novecento, a cura di F. Brevini, Torino 1987; F. Brevini, Le lingue perdute. Dialetti e poesia del nostro secolo, ivi 1990; Poesia dialettale dal Rinascimento ad oggi, a cura di G. Spagnoletti e C. Vivaldi, i, Milano 1991.

Da - http://www.treccani.it/enciclopedia/guerra-antonio-detto-tonino_%28Enciclopedia-Italiana%29/
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 23, 2017, 09:17:36 pm »

TESTIMONI. Andrej Tarkovskij: «Il mio stalker è Don Chisciotte»

Roberto Copello
Mercoledì 28 dicembre 2011

Faceva molto caldo, quel giorno del luglio 1984, a Milano. Ancor più nel salone del Circolo della Stampa, stipato di giornalisti, fotogra­fi, cameramen, intellettuali disorgani­ci. L’afa era insopportabile, ma un bri­vido corse nella schiena di tutti quan­do apparve quell’omino nervoso, dal­la fisionomia vagamente tartara; occhi vivacissimi, baffi ispidi, una foresta di rughe sul volto. Andrej Tarkovskij quel giorno era teso come una corda di vio­lino. Pensavo al suo primo cortome­traggio, noto solo ai cinefili più acca­niti: Il rullo compressore e il violino. Se ora il violino era lui, il rullo compres­sore era il regime sovietico che voleva spezzarne le sue corde, impedirgli di suonare. Tanto che quel giorno di lu­glio il geniale regista di Andrej Rubliov e di Solaris, de Lo specchio e di Nostal­ghia, aveva deciso di annunciare che avrebbe tagliato il cordone ombelica­le con l’adorata Madre Russia, avreb­be scelto l’Occidente. «Ragioni ve ne sono tante», spiegò alla stampa di tut­to il mondo che gli chiedeva le ragioni del suo 'basta' urlato in faccia al Crem­lino. «Ma me ne vado soprattutto per­ché le autorità del mio paese ormai mi considerano una non-persona: per il Cremlino non esisto». E a chi insiste­va per sapere a quale paese avrebbe chiesto asilo politico, ribatteva con sar­casmo: «Domanda strana: è come se vedendomi distrutto per la morte di u­na persona cara mi chiedessero dove voglio seppellirla. Che importanza ha?» Il dolore dell’esilio era davvero troppo. Chissà se fu quello a fare ammalare Tarkovskij: due anni dopo, il regista si spegneva a Parigi, a soli 54 anni. Era il 29 dicembre 1986, esattamente 25 an­ni fa. In Svezia, aveva ancora fatto in tempo a girare il profetico Il sacrificio. Un film che, quel caldo giorno di lu­glio, era già ben chiaro nella sua testa. Come ci aveva spiegato, appena poche ore dopo la storica conferenza stampa, in un lungo colloquio a metà fra la con­fessione e il testamento. Parole, le sue, che un quarto di secolo dopo stupi­scono per la loro attualità. Le propo­niamo qui per la prima volta al lettore italiano.
R.Cop.

Andrej Tarkovskij, non teme di occidentalizzarsi lontano dalla Russia? Di perdere la "russità" che intride i suoi film? «Non penso, non so lavorare in un modo diverso dal mio. Non sono ca­pace di cambiare. Alcuni la ritengo­no una qualità: forse non lo è, ma anche quando mi viene il desiderio di cambiare, non ci riesco proprio. Per un artista l’importante è rima­nere se stesso. Cosa che vale per tut­ti, in ogni circostanza della vita. E questa russità, se è dentro di te, non occorre tenerla in vita artificialmen¬te». «Forse ora mancheran­no l’acqua, o le dacie russe... «Mancheranno per forza molte cose, ma anche altre co­se dentro. Comunque molti russi hanno lavorato con successo all’e­stero. Ivan Bunin (Nobel per le lette­ratura nel 1933, ndr) mal sopportava l’esilio e provò la nostalgìa come nessun altro, eppure scrisse in Fran­cia i suoi libri migliori, come La vita di Arseniev. E prenda Gogol: le Ani­me morte sono state scritte a Roma. Essere emigrati è durissimo, ma la vita è la vita. La nostalgia nei russi è diversa da quella che nutrono gli al­tri emigrati: la nostra è irreversibile perché non possiamo tornare in pa­tria». Si dice che i suoi film siano difficili. Questa «difficoltà» deriva da un’esi­genza personale o anche dal biso­gno di aggirare la censura sovie­tica? «Non ho mai avuto scontri di­retti con la censura. E non credo che i miei film siano difficili. In effetti, colleghi registi come Rjazanov e Bondarciuk sostengono che nessu­no li capisce e nessuno li guarda. Un giudizio che non corrisponde alla realtà. Quando uscì Lo specchio, a Mosca era impossibile trovare i bi­glietti e proiettavano il primo spet­tacolo alle 7 di mattina! Poi alla dire­zione statale per il cinema e la radio seppero del successo, e tolsero il film dalla programmazione. Quan­do è uscito Stalker, la “Komsomol­skaja Pravda”, giornale della gio­ventù comunista, lo ha citato fra i sei film di maggiore incasso nella stagione. Dunque, i miei film sono per un’élite? Sono incomprensibili? Poi, se il cinema è arte, è ridicolo di­stinguere fra arte facile e arte diffici­le. Chi è più facile e più difficile tra Leonardo e Michelangelo? O tra Dante e Pe­trarca? Forse i sonetti di Pe­trarca sono più facili? Ri­dicolo. Certo, se il cinema è una merce, tipo chewing­gum, allora non si può pa­ragonarlo ad altri tipi di arte. Ma a mio avviso il cinema è arte, ha un’altissima qualità poetica e si pone a livello delle altre muse, delle arti più antiche e nobili. Goethe so­steneva che scrivere un buon libro è altrettanto difficile che leggerlo. O piuttosto: leggere un buon libro è altrettanto difficile che scri­verlo. Il pubblico, dunque, è anche un principio creatore». Al centro del suo cinema c’è sempre l’uomo. Ḕ tale interes­se che rende possibile l’opera d’arte? «Ma è così in qualunque arte, anche nella pittura astratta! Persino i film che sembrano trascurare l’uomo, mettendolo in secondo piano, in realtà lo hanno al centro». I suoi film sono anche pieni di sim­boli… «A me pare il contrario: non ci sono simboli nei miei film. Ci sono im­magini, che vanno intese letteral­mente, non in senso figurato. Qual è la differenza? Che il simbolo può es­sere decifrato, un’immagine no, per­ché porta sempre in sé un riflesso del mondo, infinito, e non ha un si­gnificato definito. Alla fin fine, un’immagine racchiude un immen­so numero di interpretazioni. In questo, mi sento vicino a una visio­ne zen dell’arte». Quanto è presente Dostoevskij nei suoi film? Lo Stalker per esempio sembra un puro di cuore come il principe Myshkin dell’«Idiota». «Può essere, ma allora perché non dire anche che somiglia a Don Chi­sciotte? Il fatto è che lo Stalker ap­partiene a una categoria di figure i­deali, come Myshkin o Don Chi­sciotte o certi personaggi di Dickens. Poco numerose nella lette­ratura mondiale, però ci sono. Quanto a Dostoevskij, ogni russo ha idea di che cosa significhi la dostoevscina (il «dostoevskismo», co­me lo definì spregiativamente Gorkij, ndr). I critici però compiono tutti un errore: fanno paragoni tra i personaggi, notano le somiglianze. Invece nell’arte (ma anche nella scienza) ha più senso chiarire la specificità di un fenomeno». Ognuno però ha i suoi maestri... «Tutto è legato, si capisce, e questi legami si possono studiare. Ma non è fruttuoso come lo studio delle ca­ratteristiche specifiche. Come disse Puskin, un’opera va giudicata se­condo le leggi date dal suo autore». Nei suoi film spesso la speranza pa­re affidata ai bambini... «Sarebbe poco originale. I bambini sono importanti in quanto esprimo­no non l’idea della speranza, ma l’i­dea della tradizione, della ripetizione, il dover ripetere la vita delle ge­nerazioni precedenti». A fronte di un Occidente razionali­sta e cartesiano, l’Oriente a volte non cade nell’eccesso opposto, di un esagerato misticismo? «Certo. Però il misticismo può esse­re eccessivo? Il pragmatismo può es­serlo, ma il misticismo o c’è o non c’è. Non esiste misticismo eccessivo. Come non può esserci bene eccessi­vo. Il bene è il bene. Un misticismo meno profondo? Non sarebbe più misticismo. In ogni caso sono più vi­cino alla visione orientale, ben più spirituale del modo di vedere occi­dentale, europeo o americano. Prendiamo la musica classica occi­dentale: anche nei suoi più grandi rappresentanti, come Beethoven, e­sprime l’idea della personalità, la sua pretesa, il suo dolore, i suoi sen­timenti. Mentre la musica orientale esprime l’idea dell’assenza della personalità, il suo tendere a dissol­versi nell’infinito e ad appartenere a qualcosa d’altro. È un’assenza asso­luta di pragmatismo nel senso psi­cologico della parola. Ed è proprio ciò che mi attira». Si sente un mistico della macchina da presa? «Capisco poco le definizioni che gli altri danno di me. Giudicare se stes­si è la cosa di cui siamo meno capa­ci. La lascio ai critici e agli spettato­ri». Andrej Rubliov, il grande pittore di icone, nel film decide di non dipin­gere più. Tarkovskij, lei ha mai avu­to la tentazione dì dire «non filmerò più»? «No, è qualcosa che non ho mai pro¬vato».

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Da - https://www.avvenire.it/agora/pagine/tarkovskijdonchisciotte
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