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Autore Discussione: EMILIANO FITTIPALDI. Perché Matteo Renzi è il più odiato d'Italia.  (Letto 7618 volte)
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« inserito:: Ottobre 30, 2011, 05:47:35 pm »

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Chiesa/2

Vaticano, il frate ha fatto crac

di Emiliano Fittipaldi

Dopo il San Raffaele, un altro buco per centinaia di milioni: quello dell'Idi, mega ospedale dermatologico retto da un potente religioso dell'Immacolata Concezione. In pratica, il don Verzè romano. Che accumula debiti ma si compra case di lusso

(27 ottobre 2011)

Fratel Franco Decaminada l'8 dicembre di ogni anno va in chiesa per rinnovare i voti fatti alla Madonna. E' la legge della Congregazione a cui appartiene, quella dei "Figli dell'Immacolata Concezione": bisogna promettere castità, obbedienza, povertà. Da sempre Decaminada per i suoi fratelli è un padre spirituale, una guida sicura che indica la retta via. Anche nell'intricata giungla degli affari: la Congregazione gli ha affidato tutto il suo impero, e soprattutto i suoi beni più preziosi. Ossia l'ospedale San Carlo e l'Idi, l'Istituto dermopatico dell'Immacolata, uno dei più importanti centri dermatologici d'Europa.

"Castità, obbedienza, povertà", recita il regolamento. Che Decaminada segue a modo suo: tre anni fa s'è comprato una villa di 18 stanze in Toscana circondata da 23 mila metri quadrati di terreno e prati. Peccato veniale, si potrebbe dire. Il fatto è che mentre i lavori di ristrutturazione della magione sono quasi finiti, la Congregazione è in crisi e registra un buco mostruoso in bilancio, stimato da autorevoli fonti vaticane tra i 300 e i 400 milioni di euro. Un'esposizione che pesa soprattutto sulle banche, Unicredit in particolare, e che fa tremare i polsi ai migliaia di dipendenti degli ospedali. "Decaminada", sussurrano preoccupati nei corridoi, "rischia di diventare il don Verzè del Lazio, e l'Idi il nostro San Raffaele. Sarebbe un peccato mortale".

Tra affari e politici. Andiamo con ordine, perché la storia della Congregazione è emblematica di come, troppo spesso, gli enti religiosi del Vaticano navighino con poca accortezza nei mari della finanza, finendo per assomigliare a spericolati hedge fund più che a enti no profit. Padre Franco - che tutti chiamano "presidente", anche se il capo dell'istituto religioso è il suo amico Ruggero Valentini - è l'indiscusso comandante che ha manovrato la nave negli ultimi lustri. Consigliere delegato dell'Idi, è grazie a lui che i suoi fratelli fanno il salto di qualità. Nati nel 1857, anno in cui don Luigi Maria Monti fonda la Congregazione, celebri all'inizio del Novecento per le pomate per la cura della tigna dei contadini, oggi i frati controllano oltre ai due grandi ospedali romani "Villa Paola" in provincia di Viterbo, una dozzina tra case di cura e orfanotrofi sparsi in tutta Italia, una società farmaceutica che fattura 20 milioni di euro l'anno, il centro oncologico di Nerviano, vicino Milano, e l'Elea, un'azienda fondata dall'Olivetti specializzata in formazione.

I "concezionisti" sono dunque una realtà importante. Soprattutto nella capitale, dove sono riveriti e omaggiati. In primis dalla politica. Ogni mese i frati-laici invitano ai loro eventi (che definiscono la "Cernobbio in riva al Tevere") deputati e big di partito che discettano di fede, politica, televisione, crisi internazionale e Vangelo: dai ministri Franco Frattini e Giulio Tremonti a Marco Tronchetti Provera fino all'attrice Vittoria Puccini (che ha letto agli astanti le poesie di Prévert), alla corte di Decaminada ci vanno tutti. La settimana scorsa hanno presentato i loro ultimi libri due pezzi da novanta come monsignor Rino Fisichella e il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Ad applaudirli 300 persone, in mezzo senatori democrat, qualche lobbista e l'immancabile Mario Baccini dell'Udc, che dei fratelli è grande amico.

Se gli illustri ospiti probabilmente non hanno idea che la barca rischia di affondare, il Vaticano sa che la situazione finanziaria è compromessa. Qualche giorno fa (dopo le proteste dei medici dell'Idi che da mesi vengono pagati in ritardo) il cardinal Tarcisio Bertone ha spedito un visitatore apostolico per spulciare i conti e cercare di capire cos'è accaduto in questi ultimi anni. Non sarà facile, ma già ora i più pessimisti temono addirittura che il fallimento sia vicino. Sarà un caso, ma a "l'Espresso" risulta che i due enti della Congregazione che controllano le varie attività sono stati cancellati poche settimane fa dalla Camera di commercio di Roma.
 
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« Risposta #1 inserito:: Giugno 06, 2012, 04:45:51 pm »

Esclusivo

Ior, la mail segreta di Gotti Tedeschi

di Emiliano Fittpaldi


L'Espresso ha avuto accesso a una lettera spedita dall'ex presidente Gotti-Tedeschi al segretario di Stato Tarcisio Bertone in cui spiega la genesi del tentativo di comprare l'ospedale San Raffaele da parte del Vaticano.

E parla di "sollecitazioni" e incontri riservati con Passera, Letta, Formigoni e Guzzetti

(30 maggio 2012)

Il tentativo di acquistare il San Raffaele da parte della Santa Sede non sarebbe partito solo dalle ambizioni del segretario di Stato Tarcisio Bertone, ma pure dalle «sollecitazioni» politiche arrivate all'ex presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi.

"L'Espresso" ha letto una e-mail mandata da Gotti Tedeschi al segretario particolare di Bertone, don Lech Piechota. L'oggetto della mail, spedita il 4 ottobre scorso, recita così: "Memo per Sua Eccellenza Reverendissima - da parte di Ettore Gotti Tedeschi". La missiva traccia la genesi del rapporto tra lo Ior e il San Raffaele. Il banchiere amico di Giulio Tremonti, già inviso agli occhi di Bertone per aver accennato ai magistrati italiani di conti cifrati della banca vaticana, scrive parlando di sé in terza persona. «Nel periodo fine maggio, inizio giugno di quest'anno Ettore Gotti Tedeschi viene sollecitato da più parti a verificare l'interesse della Santa Sede al "salvataggio" del San Raffaele».

Da dove e da chi vengono le sollecitazioni per aiutare la banca di Don Verzè schiacciata da oltre un miliardo e mezzo di debiti? Gotti Tedeschi fa nomi e cognomi: «Dal dottor Carlo Salvatori, ex amministratore delegato di Cariplo e ex presidente di Unicredit, al momento consigliere di amministratore del San Raffaele; dal professor Giuseppe Guzzetti, presidente Fondazione Cariplo; successivamente Corrado Passera, ad di Banca Intesa; dal presidente della Regione Lombardia, Formigoni».

Non manca nella lista il nome di Gianni Letta, che si sarebbe avvicinato al capo dello Ior «informalmente». Per la cronaca, ricordiamo che le banche più esposte nei confronti del crac sono Intesa e Unicredit. Il mittente continua: «Gotti tedeschi riferisce a Sua Eccellenza Reverendissima segretario di Stato, che autorizza l'inizio di analisi con il presidente del Bambin Gesù, professor Giuseppe Profiti».

E' il capo dello Ior, nelle settimane successive, a organizzare a Milano gli incontri con pezzi da novanta come Guzzetti, Passera e lo stesso Don Verzè. Alla fine del giro delle sette chiese, il Vaticano decide di andare avanti. «Terminati i quali (gli incontri, ndr) si procede nel progetto che si sviluppa nelle settimane successive con una procedura concordata con il tribunale di Milano e indicando i quattro membri del consiglio». Sappiamo com'è andata a finire: l'offerta dello Ior (250 milioni) verrà superata da quella di Giuseppe Rotelli. Un'operazione nata male e finita peggio. In cui Gotti sembra aver avuto un ruolo attivo di assoluto rilievo.

 
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 25, 2017, 12:08:53 pm »

ESCLUSIVO

“Oltre 483 milioni di lire spesi dal Vaticano per l'allontanamento di Emanuela Orlandi”
Un documento choc esce dalla Santa Sede.
È il cuore di un libro-inchiesta di Emiliano Fittipaldi, “Gli impostori”.
Se è vero, apre squarci clamorosi sulla vicenda della ragazzina scomparsa nel 1983.
Se falso, segnala uno scontro di potere senza precedenti nel pontificato di Francesco.
Ecco un'anticipazione

Di EMILIANO FITTIPALDI
18 settembre 2017

Prima di consegnarmi i documenti, la fonte aveva tergiversato per settimane. Nei primi due incontri, durante i quali avevo chiesto consigli su come raggiungere l’obiettivo, aveva escluso con fermezza di avere le carte che cercavo. “Le ho solo lette, se le avessi te le darei, figurati,” aveva chiarito seccamente di fronte alle mie insistenze. Non ero convinto che dicesse la verità, ma tentai le strade alternative che mi aveva indicato. Capii presto che era fatica sprecata, e dopo un po’ tornai alla carica.

Alla fine, al terzo appuntamento, la fonte ha ammesso di avere il dossier. “Te li do solo perché credo che sia venuto il momento di far luce sulla storia.” Al quarto incontro, avvenuto in un bar del centro di Roma, mi consegnò una cartellina verde. Me ne tornai a casa di corsa senza neanche guardarci dentro.

Appena varcata la porta del mio studio, la aprii. C’erano dei fogli: una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998. È scritta al computer o, forse, con una telescrivente, ed è inviata (così leggo in calce) dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell’Apsa (l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), ai monsignori Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran.

Al tempo, Giovanni Battista Re era il sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede; Jean-Louis Tauran era il numero uno dei Rapporti con gli stati, un’altra sezione del dicastero della Curia romana che “più da vicino”, come spiega il sito del Vaticano, “coadiuva il Sommo Pontefice nell’esercizio della sua suprema missione”.

Insomma, Re e Tauran erano nei vertici della Curia e, secondo l'estensore del documento, si sarebbero occupati direttamente della vicenda Orlandi. Il nome di Re era spuntato fuori già dalla lettura della prima sentenza istruttoria sul caso, firmata dal giudice Adele Rando nel 1997.

GUARDA E SFOGLIA IL DOCUMENTO DOSSIER SUL CASO ORLANDI

La presunta missiva di Antonetti, come molte altre a cui ho avuto accesso nelle mie inchieste sulla Santa Sede, non era firmata a penna. Alla fine, l’autore chiariva che non era stata nemmeno protocollata, “come da richiesta”. Leggo il testo della prima pagina tutto d’un fiato.

“Resoconto sommario delle spese sostenute dallo stato città del vaticano per le attività relative alla cittadina emanuela orlandi (roma 14 gennaio1968),”, è il titolo.

“La prefettura dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha ricevuto mandato di redigere un documento di sintesi delle prestazioni economiche resosi necessarie a sostenere le attività svolte a seguito dell’allontanamento domiciliare e delle fasi successive allo stesso della cittadina Emanuela Orlandi.

“La sezione di riferimento, sotto la mia supervisione, ha provveduto a raccogliere il materiale attraverso gli attori dello Stato che hanno interagito con la vicenda.

“Moltissimi limiti nella ricostruzione sono stati riscontrati nell’impossibilità di rintracciare documentazione relativa agli agenti di supporto utilizzati sul suolo italiano stante il divieto postomi di interrogare le fonti, incaricando esclusivamente il capo della Gendarmeria Vaticana in questo senso.

“L’attività di Analisi è suddivisa in archi temporali rilevanti per avvenimenti e per spese sostenute.

“Il documento non include l’attività commissionata da Sua Eminenza Reverendissima Cardinale Segretario di Stato Emerito Agostino Casaroli al ‘Commando 1’, in quanto alcun organo a noi noto o raggiungibile è a conoscenza di quanto emerso e della quantità di denaro investita nell’attività citata. “I documenti allegati (197 pagine) al presente rapporto sono presentati in originale per la parte relativa ai pagamenti per i quali è stata rilasciata quietanza, sono presentati in forma di resoconto bancario le quantità di denaro utilizzate e prelevate per spese non fatturate.”

La lettera che ho in mano sembra, o vuole sembrare, un documento di accompagnamento a una serie di fatture e materiali allegati di quasi duecento pagine che comproverebbero alla segreteria di Stato le spese sostenute per Emanuela Orlandi in un arco di tempo che va dal 1983 al 1997. Scorro rapidamente le fredde voci di costo elencate. Delineano scenari nuovi e oscuri su una vicenda di cui si è scritto e ipotizzato molto, e su cui il Vaticano ha sempre negato di avere informazioni ulteriori rispetto a quanto raccontato e condiviso con i giudici italiani che hanno investigato in questi ultimi trentaquattro anni.

"Era importante pubblicare questo documento perché se fosse vero aprirebbe squarci impensabili. Se fosse falso sarebbe sconvolgente, perché vorrebbe dire che è stato costruito ad arte per seminare sconcerto e per un ricatto". Così il giornalista dell'Espresso Emiliano Fittipaldi parla del dossier sui 483 milioni di lire che il Vaticano avrebbe speso tra il 1983 e il 1997 tenere lontano dall'Italia Emanuela Orlandi. Un dossier pubblicato nel suo libro Gli impostori (Feltrinelli). "Qualsiasi documento può essere falso, ma questo era in una cassaforte del Vaticano - spiega Fittipaldi - Io ho faticato molto per averlo e ora la Santa Sede ci deve delle spiegazioni”

Il dossier sintetizza gli esborsi sostenuti dal Vaticano dal 1983 al 1997. La somma totale investita nella vicenda Orlandi è ingente: oltre 483 milioni, quasi mezzo miliardo di lire.

L’elenco riempie pagina due, tre, quattro e, in parte, cinque del rendiconto. La prima voce riguarda il pagamento di una “fonte investigativa presso Atelier di moda Sorelle Fontana”. La Orlandi, nell’ultima telefonata alla famiglia prima della sparizione, aveva in effetti detto che qualcuno le aveva proposto di pubblicizzare i prodotti di una marca di cosmetici, la Avon, durante una sfilata delle stiliste Fontana. Per la fonte, la Santa Sede aveva sborsato 450.000 lire. C’era un’altra spesa per la “preparazione all’attività investigativa estera” costata altre 450.000 lire, uno “spostamento” da ben 4 milioni di lire e, soprattutto, le “rette vitto e alloggio 176 Chapman Road Londra”.

Chi ha scritto il documento, come vedremo, aveva digitato male l’indirizzo: a quello giusto c’è la sede londinese dei padri scalabriniani, la congregazione dei missionari di San Carlo fondata nel 1887 da Giovanni Battista Scalabrini. Dagli anni sessanta gestiscono un ostello della gioventù destinato esclusivamente a ragazze e studentesse. Nel periodo 1983-1985, per le rette, erano stati versati 8 milioni di lire. Il prezzo giusto, mi dico, per ospitare una persona in quell’arco temporale (per dare un ordine di misura, nel 1983, secondo i dati storici della Banca d’Italia, lo stipendio medio di operai e impiegati era di circa 500.000, 600.000 lire nette al mese).

La prima pagina si chiude con i costi per l’“indagine formale in collaborazione con Roma” (23 milioni) e con la misteriosa “attività di indagine riservata extra ‘Commando 1’, direzione diretta Cardinale Casaroli”, per una cifra di 50 milioni di lire. Agostino Casaroli era il segretario di Stato che nella vicenda Orlandi ha avuto un ruolo importante, soprattutto all’inizio.

La nota, nella seconda e nella terza pagina, racconta i costi sostenuti per l’“allontanamento domiciliare” di Emanuela nel periodo “febbraio 1985-febbraio 1988”. Si elencano dispendiosi viaggi a Londra di esponenti vaticani di altissimo livello, soldi investiti per la “attività investigativa relativa al depistaggio”, spese mediche in ospedali e fatture per specialisti in “ginecologia”. Si parla di “un secondo” e di “un terzo trasferimento”, di decine di milioni di lire per “rette omnicomprensive” di vitto e alloggio.

Gli anni scorrono. Arrivo all’ultima pagina. Il documento segnala che il resoconto dei costi per le attività relative alla cittadina Orlandi e al suo “allontanamento domiciliare” si riferisce stavolta al periodo “aprile 1993-luglio 1997”. Le voci del quadriennio sono solo tre: oltre alle solite rette (con “il dettaglio mensile e annuale in allegato 22”) e ad altre “spese sanitarie forfettarie”, figura il capitolato finale. Mi si gela il sangue: “Attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano, con relativo disbrigo pratiche finali: L. 21.000.000”.

La lista finisce qui, ma in fondo alla quinta pagina il mittente aggiunge una postilla. “Il presente documento è presentato in triplice copia, per dovuta conoscenza ad entrambi i destinatari, si rimanda a documentazione allegata sulle modalità di redazione. Non si espleta funzione di protocollazione come da richiesta. APSA è sollevata dalla custodia della documentazione allegata presentata in originale. In fede, Lorenzo Cardinale Antonetti. Stato Città del Vaticano, A.D. 1998, mese di marzo giorno 28.”

Smetto di leggere. Il documento, che esce certamente dal Vaticano, anche se non protocollato e privo di firma del suo estensore, pare verosimile. Ma quasi incredibile nel suo contenuto. Dunque, delle due l'una: o è vero, e allora apre per la prima volta squarci impensabili e clamorosi su una delle vicende più oscure della Santa Sede. O è un falso, un documento apocrifo, che mischia con grande abilità tra loro elementi veritieri che inducono il lettore ad arrivare a conclusioni errate.

Non si è fatta attendere la smentita della Santa Sede al documento pubblicato dall'Espresso. Anche Giovanni Battista Re, arcivescovo destinatario delle cinque pagine, risponde: «Mai viste quelle carte»

In entrambi i casi, il pezzo di carta che ho in mano è inquietante. Perché, fosse un documento non genuino, significherebbe che gira da almeno tre anni un dossier devastante fabbricato ad arte per aprire una nuova stagione di ricatti e di veleni in Vaticano. Chi e quando avrebbe costruito un simile documento, che come vedremo contiene dettagli, indirizzi, nomi e circostanze molto particolari che solo un soggetto “interno” alla Città Santa poteva conoscere così bene? Se non è davvero stato scritto dal cardinale Antonetti, chi l'ha redatto con tale maestria, e chi l'ha poi messo, anni fa, nella cassaforte della Prefettura?

Difficile rispondere ora a queste domande. Ma è chiaro che, se il documento fosse falso, la Gendarmeria guidata da Domenico Giani avrà parecchio da lavorare. Il report fasullo potrebbe essere rimasto nascosto per anni in qualche cassetto, mai usato (almeno fino ad ora) e infine dimenticato. O potrebbe essere stato costruito ad hoc più di recente, dopo il furto del marzo del 2014, e restituito dai ladri insieme ad altri documenti certamente veritieri. Ma se è così, perché monsignor Abbondi non ha detto davanti ai magistrati di papa Francesco che lo interrogavano sul contenuto del plico anonimo con i documenti rubati che era tornato, tra gli altri, anche un dossier sulla Orlandi che non aveva mai visto, e quindi forse fasullo? Perché ha parlato genericamente di carte “sgradevoli”?

È pure evidente, però, che il report non spiega chiaramente cosa sia accaduto alla ragazzina che amava le canzoni di Gino Paoli, né accusa con nome e cognome qualcuno di responsabilità specifiche sul rapimento e sulla fine di Emanuela. Per quanto incredibile, cerco di costringermi a pensare che il documento possa essere anche una lettera autentica. Il report di un burocrate, il cardinale Antonetti appunto, che rendiconta minuziosamente ai due destinatari tutte le spese sostenute per “l’allontanamento domiciliare” della Orlandi, spese divise per quattro archi temporali definiti. Una pratica obbligatoria nei servizi segreti di ogni Stato del pianeta: alla fine di un'operazione, anche quelle in cui vengono usati fondi neri, i responsabili devono presentare il consuntivo di ogni spesa effettuata ai superiori.

La missiva è “presentata in triplice copia”, come si usa fare da sempre in Vaticano anche per i documenti riservati (uno va ai destinatari dei vari dicasteri coinvolti, un altro resta nell'archivio dell'Apsa). Stavolta una copia è finita anche negli archivi della Prefettura degli affari economici, cioè il ministero della Santa Sede che aveva il compito di supervisionare le uscite dei vari enti vaticani. Non è una stranezza: nell'enorme armadio blindato che i ladri hanno aperto nel marzo del 2014 ci sono migliaia di documenti provenienti anche da altri enti vaticani. Tra cui, per esempio, le lettere di Michele Sindona spedite non in Prefettura, ma ai cardinali presidenti di pontificie commissioni.

Fosse veritiero, dunque, il rendiconto datato marzo 1998, pur in assenza delle 197 pagine di fatture, darebbe indicazioni e notizie sbalorditive che potrebbero aiutare a dipanare la matassa di un mistero irrisolto dal 1983. Perché dimostrerebbe, in primis, l’esistenza di un dossier sulla Orlandi mandato alla segreteria di Stato, mai consegnato né discusso con le autorità italiane che hanno investigato per decenni senza successo sulla scomparsa della ragazzina. Perché evidenzierebbe come la chiesa di Giovanni Paolo II abbia fatto investimenti economici importanti su un’attività investigativa propria, sia in Italia sia all’estero, i cui risultati sono a oggi del tutto sconosciuti. Perché il dossier citerebbe un fantomatico “Commando1” guidato direttamente da Agostino Casaroli, potente segretario di Stato della Santa Sede, forse un gruppo di persone composto da pezzi dei servizi segreti vaticani (il corpo della Gendarmeria ha funzioni di ordine pubblico e di polizia giudiziaria, ma svolge anche lavoro di intelligence per la sicurezza dello stato) che ha preso parte alle attività successive alla scomparsa della ragazza.

Ma, soprattutto, il resoconto diventa clamoroso quando mostra come tra il 1983 e la fine del 1984 il Vaticano, dopo indagini autonome, avrebbe investe in un primo “spostamento” la bellezza di 4 milioni di lire.

Da allora il campo da gioco dei monsignori che si sarebbero occupati della vicenda di Emanuela si sposta in Inghilterra. In particolare, a Londra.

Possibile che Emanuela Orlandi sia stata ritrovata viva dal Vaticano e poi nascosta in gran segreto nella capitale inglese? Se non è così, e se il documento è autentico, a chi la Santa Sede ha pagato per quattordici anni “rette vitto e alloggio” elencate in un report che ha come titolo “Resoconto sommario delle spese sostenute dallo Stato Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi” e per il suo “allontanamento domiciliare”? Come mai nella nota sulla ragazza viene indicato che il capo della Gendarmeria del tempo, Camillo Cibin, avrebbe sborsato la bellezza di 18 milioni di lire, tra il 1985 e il 1988, per andare avanti e indietro da Londra? Chi sarebbe andato a trovare qualche tempo dopo il medico personale di papa Wojtyła, Renato Buzzonetti, insieme a Cibin, “presso la sede l. 21”, una “trasferta” da 7 milioni di lire? Perché e a chi, all’inizio degli anni novanta, il Vaticano avrebbe pagato spese sanitarie – come segnala ancora l'estensore dello scritto – per i controlli (o addirittura un ricovero) alla Clinica St. Mary, sempre a Londra? Chi è andata, sola o accompagnata, a farsi visitare dalla “dottoressa Leasly Regan, Department of Obstetrics & Gynaecology” dello stesso nosocomio un’unica “attività economica a rimborso” di cui il capo dell’Apsa non indica la spesa precisa, invitando a leggere i “dettagli in allegato 28”? (contattata da l'Espresso, la Regan nega di avere fatture a nome della Orlandi, e dice di non poter ricordare, dopo tanti anni, se ha curato una ragazza con le fattezze di Emanuela)

La storia, secondo il documento, non sembra finire bene. Perché la lista si conclude con un ultimo capitolato di spesa, sull' “attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali”. Il trasferimento è il quarto segnalato nel report: chi viene portato in Vaticano? Perché nel luglio 1997 la “pratica” di Emanuela Orlandi viene considerata chiusa?

A metà giugno del 2017 capisco, dal Corriere della Sera, che qualcun altro è a conoscenza del documento misterioso. La famiglia Orlandi ha infatti presentato un'istanza di accesso agli atti per poter visionare «un dossier custodito in Vaticano». Il quotidiano accredita che il fascicolo possa contenere resoconti di attività inedite fino al 1997, con dettagli anche di natura amministrativa svolta dalla segreteria di Stato ai fini del ritrovamento». Capisco che si tratta proprio del report che ho in mano. Il giorno dopo monsignor Angelo Becciu, sostituto per gli Affari generali della segreteria, nega l'esistenza di qualsiasi carta riservata: «Abbiamo già dato tutti i chiarimenti che ci sono stati richiesti. Il caso per noi è chiuso». Anche il cardinale Re interviene, assicurando che «la Segreteria di Stato» di cui nel 1997 lui era sostituto «non aveva proprio niente da nascondere.

Essendo uno dei due destinatari della presunta lettera di Antonetti, decido di chiamarlo, e domandargli se ha mai ricevuto quel report “sull’allontanamento domiciliare” di Emanuela Orlandi, e se in caso contrario quello che ho in mano è un report apocrifo che vuole inchiodarlo a responsabilità che lui non ha. L'inizio del colloquio è rilassato. Appena gli leggo il titolo, il cardinale, senza chiedermi nulla nel merito del documento, tronca improvvisamente la conversazione: «Guardi io non so di questo. E mi dispiace non poterla aiutare. Sono qui con altre persone». Clic.

La mia ricerca è iniziata nel febbraio del 2017. Leggendo il libro di Francesca Chaoqui e dell'ex direttore della sala stampa del Vaticano Federico Lombardi. Quest'ultimo ricordava come un testimone eccellente del processo che mi vedeva coinvolto, quello su Vatileaks 2, aveva parlato di alcuni documenti trafugati. Il test era monsignor Maurizio Abbondi, capo ufficio della Prefettura degli Affari economici.

La parte più interessante del suo interrogatorio riguarda un misterioso furto avvenuto nelle stanze di quell’ufficio nella notte tra il 29 e il 30 marzo 2014.

Dopo mezzanotte, qualcuno si era introdotto nel palazzo senza rompere alcuna serratura dei portoni di accesso, aveva sgraffignato qualche spicciolo negli uffici delle congregazioni ai primi piani dell’immobile e s’era poi concentrato sulla cassaforte e su uno soltanto dei dodici armadi blindati nascosti in una delle stanze della Prefettura, al quarto piano del grande edificio che si affaccia su piazza San Pietro.

A don Abbondi, la mattina del 14 maggio 2016, i magistrati chiedono conto di quella singolare vicenda. Il prelato spiega che nell’ufficio esisteva “un archivio riservato che era sotto la responsabilità del segretario Balda”, custodito inizialmente “in un armadio in una stanza vicina a quella del monsignore”; aggiunge che “dopo il furto, l’archivio riservato venne piazzato direttamente nella stanza di Vallejo”. Quando il promotore di giustizia gli domanda cosa avessero rubato i ladri, Abbondi specifica che, se dalla piccola cassaforte “portarono via soldi e delle monete, dall’armadio blindato prelevarono invece dei documenti dell’archivio riservato… alcuni dei quali vennero poi riconsegnati in busta chiusa nella cassetta della posta del dicastero”.

Proprio così: alcune carte trafugate vennero rispedite in un plico anonimo, quasi un mese dopo lo scasso. Un dettaglio già raccontato da Gianluigi Nuzzi. Non solo. Il giornalista aveva pubblicato anche alcuni dei documenti restituiti alla Prefettura, tra cui diverse lettere mandate dal “Banchiere di Dio”, Michele Sindona, a esponenti delle gerarchie vaticane, oltre a missive con riferimenti a Umberto Ortolani, fondatore – insieme a Licio Gelli – della loggia massonica deviata P2.

“Cosa c’era nel plico?” chiede diretto il promotore di giustizia a don Abbondi. “Documenti di dieci, vent’anni fa, che di fatto non avevano più alcun valore,” risponde il prelato. “Nel riordinare i fogli dopo l’effrazione, vidi che gli atti contenuti nell’archivio non erano tanto relativi alla sicurezza dello stato,” ma a fatti che il monsignore definisce “sgradevoli”. “Sgradevoli,” ripeto tra me e me.

Riponendo il libro mi domandai se, come ipotizzavano Abbondi e numerosi esponenti della Santa Sede, restituendo alcuni o tutti i documenti trafugati, i ladri avessero voluto lanciare un avvertimento, una minaccia, o se il furto nascondesse in realtà altre motivazioni. Certamente vi avevano collaborato persone informate dei segreti della Prefettura, visto che i banditi, violando un solo armadio blindato, erano andati a colpo sicuro. Di certo Abbondi fa intendere ai magistrati vaticani che i documenti ritornati dopo il furto non sono diversi da quelli che lui sapeva essere conservati nella cassaforte.

Cominciai a leggere il volume della Chaouqui...Senza tanti giri di parole, la Chaouqui fa poi capire al lettore che, dalla discussione avuta quella mattina con il suo amico (i due in seguito diventeranno acerrimi nemici), aveva compreso che era stato lo stesso Balda a compiere l’effrazione, forse con il supporto di manovalanza esterna. Un’accusa pesantissima.

Balda, che era già stato sentito dalla Gendarmeria insieme ad altri dipendenti dell’ufficio, ha sempre negato ogni addebito...L’avvocatessa calabrese – che nel 2014, ricordiamolo, era membro della Cosea e lavorava negli uffici della Prefettura che ospitavano la commissione – è uno dei pochissimi testimoni diretti di ciò che avvenne negli uffici dopo l’effrazione. E, come aveva fatto monsignor Abbondi in tribunale durante la sua deposizione, decide di raccontare nel suo libro il momento in cui tornano le carte sottratte un mese prima. Ma se il prete aveva parlato genericamente di documenti “sgradevoli”, la Chaouqui entra nei dettagli, narrando in prima persona: “Alla fine i fascicoli ricompaiono, spediti da mano ignota agli uffici della Prefettura. C’è il dossier su un vescovo molto potente e sulle delicate questioni legate a un’eredità ricevuta quando era nunzio in Francia. Ci sono i resoconti delle spese ‘politiche’ di Giovanni Paolo II ai tempi della Guerra fredda e di Solidarność. C’è il carteggio tra il banchiere Michele Sindona e il faccendiere Umberto Ortolani, che il Vaticano avrebbe cercato in capo al mondo. C’è il file di Emanuela Orlandi e capisco il finale di una storia che deve rimanere sepolta” ...

Ora ho deciso di pubblicare il documento. Avessero ragione Becciu e il cardinale Re, il documento sarebbe certamente un falso. Sarebbe importante capire allora chi sono gli impostori che l'hanno architettato, e per quali oscuri motivi la storia di una ragazza scomparsa nel 1983 venga ancora usata per ricatti e lotte intestine della città sacra. Ma se le verosimiglianze impressionanti delle note spese del dossier fossero confermate da nuovi elementi determinati, il Vaticano e i suoi alti esponenti avrebbe mentito ancora una volta. E gli impostori sarebbero loro.
© Riproduzione riservata 18 settembre 2017

Da - http://espresso.repubblica.it/inchieste/2017/09/18/news/oltre-483-milioni-di-lire-spesi-dal-vaticano-per-l-allontanamento-di-emanuela-orlandi-1.310165?ref=HEF_RULLO
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« Risposta #3 inserito:: Febbraio 04, 2018, 09:01:36 pm »

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Perché Matteo Renzi è il più odiato d'Italia
Aveva promesso la rivoluzione.
E invece hanno prevalso i vecchi metodi: raccomandazioni, conflitti d'interesse, rapporti con i poteri forti.
Così l'ex golden boy affonda nei sondaggi. Insieme al Pd. Diagnosi di una parabola

DI EMILIANO FITTIPALDI
30 gennaio 2018

Quando Matteo Renzi ha mostrato alle telecamere di Matrix l’estratto conto da 15.859 euro per dimostrare che non si è arricchito durante il premierato, alcuni suoi collaboratori si sono messi le mani davanti agli occhi. «Non sono un traffichino», ha aggiunto il segretario del Pd sventolando i fogli. «Se vuoi fare soldi vai nelle banche d’affari, non fai politica».

L’excusatio non petita ha mostrato con chiarezza, a poco più di un mese dalle elezioni del 4 marzo, qual è il timore maggiore di Renzi: quello di essere ormai percepito da una fetta crescente dell’opinione pubblica come un “traffichino” appunto, il capo di una banda intenta, più che a governare il Paese, a curare i propri interessi e quelli degli amici degli amici. E così, nonostante le precisazioni e i distinguo, se negli ultimi rilevamenti il partito è precipitato intorno a un terrificante 22 per cento (ben sotto la quota della non-vittoria che nel 2013 costò a Pier Luigi Bersani la poltrona al Nazareno), anche il consenso personale di Renzi è sceso a un misero 23 per cento. E il sondaggista Nicola Piepoli sostiene che oltre due terzi degli italiani non lo vogliono vedere neanche dipinto.

Matteo è diventato in pochi mesi il leader politico meno amato d’Italia, dietro pure a Salvini e a Di Maio, più odiato persino del pregiudicato e redivivo Silvio Berlusconi. Dato ancor più significativo se confrontato con quello del premier Paolo Gentiloni che, pur a capo di un governo identico a quello di Renzi, oggi gode dall’alto di un gradimento del 100 per cento più alto rispetto a quello del suo segretario.

Risalire la china non sarà facile. Perché le promesse e gli elenchi delle cose fatte (che pure non sono poche) non sembrano scalfire il convincimento negativo dell’elettorato. Nell’ultimo mese la “questione renziana” è sbucata fuori un giorno sì e un giorno anche. Prima con l’audizione dell’ex amministratore delegato di Unicredit Federico Ghizzoni dello scorso 20 dicembre su Banca Etruria. Poi per colpa di un’imbarazzante mail al banchiere da parte dell’amico fraterno di Matteo Marco Carrai. Infine con la pubblicazione di un’intercettazione di Carlo De Benedetti (presidente onorario del Gruppo Gedi, di cui L’Espresso fa parte), in cui Renzi sembrava agevolare gli investimenti - la procura di Roma ha già chiesto l’archiviazione - di un editore di primissimo piano.
«I renziani sono supini alle lobby e all’establishment», cantano in coro le opposizioni e gli antipatizzanti sui social. L’ansia, al Nazareno, è aumentata a dismisura dopo l’analisi approfondita degli ultimi trend sui collegi uninominali: il Pd rischia di venire massacrato al Nord dalla destra e al Sud dai grillini.

Renzi aveva promesso rottamazione e «l'arrivo dei migliori». Invece nelle Spa pubbliche ha nominato raccomandati di ferro, amici senza curriculum, manager privi di laurea. Spuntano anche i rapporti tra il nuovo presidente della Cassa Depositi e Prestiti con Luigi Bisignani. E l'incarico a uno dei finanziatori della fondazione del premier
Solo Toscana ed Emilia (e il listino proporzionale bloccato) garantiranno un posto al sole nel prossimo Parlamento. Nella guerra civile per le candidature tra correnti nel Pd, per il segretario piazzare i suoi non è stato affatto un’operazione semplice: fino all’ultimo Luca Lotti e altri fedelissimi (come Giuliano Da Empoli, l’economista Tommaso Nannicini, il tesoriere Francesco Bonifazi, i parlamentari Ernesto Carbone e Gennaro Migliore) hanno ballato tra un collegio sicuro e i listini bloccati. E soprattutto il destino di una big come Maria Elena Boschi, la preferita di Matteo, è stato a lungo incerto. La vicenda Etruria l’ha costretta a girovagare tra la Toscana, Ercolano (che è un collegio amico) e l’Alto Adige. «Il problema», sospirano dal Pd, «è che non la vuole nessuno. Con lei in lista si perdono un sacco di voti».

Cos’è dunque successo al giovin rottamatore che meno di quattro anni fa portava il Pd a superare il 40 per cento alle europee e da meno di un anno trionfatore delle primarie? Come mai i successi indiscutibili sui diritti civili e la ripresa economica certificata dall’Istat e dall’Ocse non hanno fatto breccia nell’opinione pubblica, nemmeno tra chi ha sempre votato centrosinistra? Com’è possibile che persino il decreto sui sacchetti biodegradabili a pagamento abbia generato tonnellate di indignazione popolare contro il segretario dem, costretto a difendersi per giorni dalla fake news secondo cui la decisione sarebbe stata presa «per favorire una produttrice di bioplastiche cugina di Renzi»?

L’origine dello scontento anti-Matteo ha radici profonde. E poggia sulla sfilza di errori imputabili alla sua leadership. Che ha deluso non solo Sergio Marchionne, ma anche tanti altri supporter stanchi dello spread crescente tra le parole e i fatti.

L’ex sindaco fiorentino aveva conquistato prima il Pd e poi i palazzi romani con la promessa di una rivoluzione radicale, di una rottamazione non solo degli anziani leader del partito ma anche dei vecchi metodi della politica italiana. «Metteremo sulle poltrone di comando i più bravi in modo da far ripartire il paese. L’Italia con me sarà un posto dove trovi lavoro se conosci qualcosa, non se conosci qualcuno!», s’impegnò Renzi nel 2012. E poi: «La meritocrazia è l’unica medicina per la politica, per l’impresa, per la ricerca, per la pubblica amministrazione. Gli amici degli amici se ne faranno una ragione», proclamò nel 2014, appena scippata la poltrona ad Enrico Letta.
Ma, evidenze alla mano, il toscano il rinnovamento non l’ha mai davvero realizzato. Al contrario. Invece di basarsi sul merito ha selezionato la nuova classe dirigente del partito e della sua amministrazione con i soliti metodi. Fondati sulla cooptazione, sulle relazioni personali e amicali, sulle spartizioni partitocratiche e la mediazione - ça va sans dire - con gli immarcescibili potentati.

Non solo Tiziano Renzi, papà dell’ex premier, e il fedele Luca Lotti. C’è anche Denis Verdini nel sodalizio di pressioni e ricatti che puntava agli appalti di Stato
Appena arrivato al vertice, Renzi ha in primis occupato molte poltrone con leopoldini, fiorentini e vecchi sodali. La lista è lunghissima, possiamo solo riassumerla: l’amico tributarista Ernesto Ruffini è diventato prima ad di Equitalia e poi, qualche mese fa, numero uno dell’Agenzia delle Entrate. Marco Seracini, commercialista di Matteo, già revisore del comune di Rignano e presidente del collegio sindacale della Leopolda, è stato preso nel collegio sindacale dell’Eni. Lapo Pistelli è stato mandato alla vicepresidenza del colosso energetico mentre era viceministro degli Esteri. Il coordinatore della campagna delle primarie del 2012, l’ingegnere elettrotecnico Roberto Reggi, piazzato inizialmente come sottosegretario all’Istruzione, è stato poi deviato all’agenzia del Demanio, dove non si occupa né di scuola né di elettronica, ma di patrimonio immobiliare. Ma il suo stipendio è lievitato a 240 mila euro l’anno.

Anche nei palazzi romani la strategia è stata identica: invece del merito, Renzi ha prediletto il rapporto personale. Giovanni Palumbo, ad esempio, è stato assunto nella segreteria tecnica. Seguiva Renzi dai tempi della Provincia di Firenze, quando era stato chiamato dal suo capo senza avere i titoli necessari (cioè una laurea). Anche Antonella Manzione è stata prelevata, a 207 mila euro l’anno, dal gruppo dei compagni toscani: ex capo dei vigili urbani di Firenze, autrice del romanzo “Martina va alla guerra” e seminarista sul tema “Disturbo della quiete pubblica”, Matteo ha voluto lei, e solo lei, nel delicatissimo ruolo di capo del dipartimento per gli Affari giuridici e legislativi della presidenza del Consiglio. Non c’era nessun altro in grado di affrontare decreti e provvedimenti di legge? Pare di no. Prima di andar via da Palazzo Chigi nel dicembre 2016, Renzi le ha fatto l’ultimo regalo, nominandola consigliere di Stato.

Un paracadute che Maria Elena Boschi ha offerto anche al suo collaboratore (indubbiamente preparato, ma sconfitto con lei nella battaglia referendaria), il segretario generale di Palazzo Chigi Paolo Aquilanti. Una nomina prestigiosa e remunerativa che, secondo accuse recenti del M5S, potrebbe ora ottenere anche un’altra strettissima collaboratrice di Boschi, il dirigente del dipartimento per le Riforme Carla Ciuffetti.
Delle polemiche politiche il capo del Pd se n’è sempre infischiato. Spiegando che “così fan tutti”, e che lui sceglieva «sempre tra i più bravi». Il leader però ha sottovalutato l’impatto mediatico di promozioni discutibili, come quella del suo spin doctor personale Guelfo Guelfi a membro del cda Rai. O come quella di Gabriele Beni, produttore di scarpe e soprattutto finanziatore della fondazione renziana Open con 45 mila euro, diventato vicepresidente di Ismea, l’Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare controllato dal ministro piddino Maurizio Martina.

Tutti gli affari dell’avvocato di Renzi
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Ma ad aver causato i danni politici e d’immagine più gravi sono state proprio le mosse dei membri di Open, cuore del potere renziano. Dove siedono Boschi, Lotti e Carrai. Oltre al presidente, Alberto Bianchi, avvocato personale e consigliere di Renzi. Tutti originari della Toscana: tra Laterina, Empoli, Pistoia e Rignano sull’Arno. Tutti coinvolti in scandali politici e giudiziari. Tutti, nonostante tutto, ancora oggi tenacemente difesi da Matteo.

Boschi, anche se non è mai stata indagata, è colei che ha creato maggior imbarazzo al partito e contribuito in modo determinante al buco nero nel consenso. Per gli osservatori le sue responsabilità sono due. Da un lato la disastrosa sconfitta al referendum del 4 dicembre 2016 (il ministro per le Riforme, architetta del riordino costituzionale bocciato dagli italiani, invece di uscire di scena come aveva giurato è stata addirittura promossa nel nuovo governo Gentiloni). Dall’altro, Boschi e Renzi pagano il comportamento della ministra durante la crisi di Banca Etruria.

E le ultime settimane, a causa delle clamorose audizioni alla commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche voluta dallo stesso Pd, sono state fatali. Gli italiani già sapevano che il padre della Boschi era indagato e che quando era vicepresidente dell’istituto usava frequentare massoni e faccendieri come Flavio Carboni per chiedere consigli e pareri. Ma - come accennato sopra - lo scorso 20 dicembre hanno avuto anche conferma definitiva dall’ex amministratore di Unicredit Federico Ghizzoni che Maria Elena le aveva davvero chiesto di «valutare, nel 2014, l’acquisizione o un intervento su Banca Etruria». Esattamente come aveva scritto Ferruccio De Bortoli lo scorso maggio, notizia smentita da Maria Elena con forza e sprezzo. «La richiesta avvenne durante un colloquio cordiale», ha aggiunto Ghizzoni, «non avvertii pressioni da parte della Boschi». De Bortoli, però mai aveva parlato di «pressioni», ma solo dell’evidente conflitto di interessi di un ministro potente ma non competente (le banche sono questioni riguardanti il dicastero dell’Economia) di chiedere «una possibile acquisizione» dell’istituto tanto caro alla famiglia dell’allora ministra. Oltre al fatto in sé, è stata la gestione mediatica della vicenda a lasciare sbigottiti pezzi del partito e del popolo della sinistra: la Boschi, evidenze alla mano, sembra infatti aver pubblicamente mentito. O, quanto meno, sembra essere stata reticente. La volontà di Renzi di proteggerla ad ogni costo, prima impuntandosi per la sua promozione nel governo Gentiloni poi ricandidandola alle politiche, non sembra aiutare il recupero del consenso smarrito. E neppure candidare nel centrosinistra il capo della commissione banche, l’ex alleato di Berlusconi Pier Ferdinando Casini, è sembrata un’idea geniale.

Anche il rapporto personale con Marco Carrai ha creato più di un problema al segretario. Sponsorizzato a fine nel 2015 dall’ex premier per un incarico a Palazzo Chigi come responsabile della cyber sicurezza, s’è presto scoperto che “Marchino” qualche mese prima aveva fondato la Cys4. Una spa che avrebbe potuto mirare ai futuri appalti banditi dal governo dopo la creazione del nucleo per la sicurezza cibernetica.
Il trasferimento di Carrai a Roma è stato così stoppato dalle polemiche sui conflitti di interessi. Ma l’amico ventennale è tornato sulle prime pagine dei giornali un mese fa, quando Ghizzoni ha rivelato che anche lui, attraverso una email, aveva chiesto delucidazioni su Etruria. «Ciao Federico», aveva scritto l’imprenditore nel gennaio 2015, «solo per dirti che su Etruria mi è stato chiesto di sollecitarti, se possibile e nel rispetto dei ruoli, per una risposta». A che titolo il renziano “sollecitava” l’ad di Unicredit? «Ero solo consulente di un cliente privato interessato a Banca Del Vecchio, controllata da Etruria», s’è giustificato Carrai, «Renzi non sapeva niente, e se in quella banca c’era il padre della Boschi a me non interessava nulla. Non sono un politico e non appartengo a nessun partito. Non mi cibo di questi banchetti mediatici».

Sarà. Ma se Carrai sembra spesso dimenticare di essere seduto nel board dell’ente che raccoglie denaro per Renzi e la Leopolda, qualcuno ha pure notato, forse con malizia, che le aziende dell’imprenditore di Greve in Chianti abbiano preso il volo proprio durante l’ascesa politica di Renzi. In primis la Cmc Labs, società che tra il 2013 e il 2015 ha in effetti quadruplicato il fatturato e aumentato l’utile di 30 volte.

Tra i business del 2015, come risulta a L’Espresso, spunta anche un affare tra un’altra azienda di Carrai e di suo fratello Stefano, la Cgnal spa, e l’Unicredit di Ghizzoni. A febbraio di quell’anno, qualche settimana dopo aver mandato la mail su Etruria, la banca milanese firmò con la spa di Marchino una ricca commessa per “profilare” al meglio i big data dei clienti dell’istituto. La collaborazione tra Ghizzoni e l’amico dell’allora premier è durata solo otto mesi, e non fu rinnovata. Anche perché Unicredit è proprietaria al 100 per cento di Ubis, una delle più grandi realtà europee di information management: non si capisce come mai Ghizzoni abbia affidato un contratto alla piccola società di Carrai, nata appena due mesi prima.

La sensazione di parte dell’elettorato è che Renzi e parte del Giglio magico abbiano dunque creato a Palazzo Chigi, come ai tempi di D’Alema e dei capitani coraggiosi di Roberto Colaninno, una specie di merchant bank: che forse parla anche un po’ d’inglese, ma con un forte accento fiorentino. Una percezione forse eccessiva, ma che di certo si è diffusa anche per colpa delle scelte di Matteo. Se ogni politico ha il diritto di chiamare al suo fianco uomini fidati, Renzi ha scelto troppo spesso non tra i più capaci d’Italia, come ha sottolineato Ezio Mauro su Repubblica, ma «tra i più bravi di Rignano». La speranza di proteggere la sua leadership attraverso una rete di fedelissimi s’è così trasformata in un groviglio di relazioni, in cui ora la sua leadership rischia di rimanere impiccata.

Il caso Consip ha cementato questa impressione diffusa: al netto delle gravissime accuse che la procura rivolge ai carabinieri del Noe sui falsi fabbricati ad hoc per incastrare il babbo di Matteo, il manager - anche lui toscano - Luigi Marroni (chiamato dal governo Renzi a guidare la stazione appaltante dello Stato) ha parlato ai pm di «pressioni e ricatti» da parte di Tiziano Renzi e del suo sodale Carlo Russo. Obiettivo: condizionare l’assegnazione di alcune ricchissime commesse pubbliche. I pm romani hanno iscritto l’illustre parente per traffico di influenze illecite. E anche Lotti, l’altro “fratello gemello” di Matteo, è indagato nella stessa inchiesta: l’accusa dei magistrati è quella di aver rivelato l’esistenza dell’inchiesta allo stesso Marroni, complicando il lavoro degli inquirenti.

La Consip non ha portato fortuna nemmeno al presidente di Open, l’avvocato Alberto Bianchi (piazzato anche nel cda dell’Enel): L’Espresso ha scoperto che ha ottenuto dalla società pubblica consulenze per quasi 350 mila euro.

«Addosso a me pm e giornalisti possono indagare all’infinito, non mi troveranno attaccato nemmeno un centesimo», ribadisce Renzi, che si sente ingiustamente accerchiato. Eppure, ai più sembra che le congreghe amicali e familistiche interessate al potere, agli appalti e al denaro e non al bene del Paese abbiano davvero azzoppato una carriera politica che aveva il vento in poppa. Alle critiche il segretario resta allergico. E nemmeno di fronte al rischio imminente di un disastro elettorale sembra voler cambiare passo.
© Riproduzione riservata 30 gennaio 2018

Da - http://espresso.repubblica.it/attualita/2018/01/25/news/perche-matteo-renzi-e-il-piu-odiato-d-italia-1.317543?ref=RHRR-BE
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