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Autore Discussione: LIETTA TORNABUONI  (Letto 59666 volte)
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« Risposta #60 inserito:: Ottobre 18, 2009, 05:20:51 pm »

18/10/2009


Con George licenziare è un piacere
   
LIETTA TORNABUONI


Hai un protagonista quasi odioso? Fallo recitare dall’attore più affascinante, da quel nuovo Cary Grant che è l’adorato George Clooney. E Tra le nuvole (Up in the Air) diventa una commedia riuscita, intelligente, divertente, attuale, applauditissima al festival di Roma. E non è la sola vera idea del film diretto da Jason Reitman (Juno) e tratto dal romanzo di Walter Kirn, storia di un uomo che di mestiere licenzia gli altri e che pensa di non aver bisogno di nessuno e di nulla, neppure di affetti o d’una casa.

Il «tagliatore di teste» viaggia 300 giorni l’anno, licenziando in ogni città degli Stati Uniti. Ama viaggiare, ama gli aeroporti e tutto ciò che li popola (vetro, metallo, desk, edicole, ristoranti, alberghi globalizzati, ovunque sempre uguali), ne ama gli incontri fugaci e i benefit. Ama il suo straziante mestiere: le aziende preferiscono affidare il compito di licenziare (esercizio frequentissimo in tempo di crisi) a estranei che non conoscono nessuno, ma lui è fiero di farlo bene, con eloquenza e umanità. Finché anche il suo lavoro è insidiato per la proposta di una ragazza «ottimizzatrice»: licenziare in videoconferenza, per risparmiare spese di viaggio; e la sua solitudine privata vacilla nell’incontro con una giovane donna.

I cambiamenti mutano i personaggi. Clooney è meraviglioso, Vera Farmiga e Anna Kendrick sono brave. Il regista Reitman è autore con Sheldon Turner di una sceneggiatura scritta benissimo, scintillante di battute non soltanto brillanti. Idee: trascendere i generi, realizzare una commedia seria che accosta fatti drammatici a situazioni comiche; le sequenze veloci e perfette di preparazione dell’unico bagaglio a mano e dei passaggi al metal detector, che restituiscono la familiarità e l’appagamento del viaggiatore. E aver fatto interpretare i licenziati non da attori ma da persone comuni che davvero hanno perduto il lavoro: «Autentici, realistici disoccupati di Detroit e St. Louis», dice il regista: «Bravissimi». Sfido.

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« Risposta #61 inserito:: Ottobre 25, 2009, 07:15:08 am »

24/10/2009

Cinema Roma, meglio abolire i premi
   
LIETTA TORNABUONI


Premi? Helen Mirren è fuori discussione: premiare un’altra attrice quando c’era lei, moglie di Tolstoi in The Last Station, sarebbe stato non soltanto ingiusto, anche sciocco. Gli altri risultati del lavoro della giuria presieduta da Milos Forman al Festival di Roma sono invece ampiamente discutibili.

Premiare Sergio Castellitto in un film dimezzato come Alza la testa di Angelini, quando c’era George Clooney perfetto nell’applauditissima commedia Tra le nuvole di Jason Reitman, è davvero un errore. Dare il primo premio a Brotherhood di Donato e il secondo a L’uomo che verrà di Diritti è assurdo. Quello danese è un film buono (più che un buon film) contro i razzisti neonazisti e a favore dei gay. Posizione ovvia e molto attuale, se si pensa alle infamie recenti compiute in Italia dai picchiatori di omosessuali: ma, come film, qualunque. L’uomo che verrà di Diritti è un film italiano contro i nazisti e a favore della gente di Monte Sole, Comune di Marzabotto, a una trentina di chilometri da Bologna. Vita e morte di 770 persone massacrate (donne, vecchi, bambini) nel ’44 dai nazisti, raccontate con bellissima sobrietà, emozione e uno stile che non è secondo a nessuno.

Il fatto è che a questo Festival, avaro di opere di qualità, i premi erano più numerosi dei premiabili: sarebbe stato meglio non darli per niente, i premi.

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« Risposta #62 inserito:: Ottobre 29, 2009, 10:23:23 am »

29/10/2009 - PERSONE

Se la tv chiede di fare la carità
   
LIETTA TORNABUONI


Chi ha detto «Uno per tutti, tutti per uno», i Tre Moschettieri o i Fantastici Quattro? Chi scrisse «Per me si va nella città dolente», Dante o Carducci? Chi cantava «Nessuno mi può giudicare nemmeno tu», Renato Zero o Caterina Caselli? Di che colore è la bandiera italiana, bianca, rossa, blu oppure bianca, rossa, verde? Di tal genere, se non tali appunto, sono le domande che la Rai rivolge ai suoi telespettatori per intascare qualche soldo. Sarebbe un concorso o un gioco, presente adesso in quasi tutte le trasmissioni dette «di intrattenimento»: il concorrente telefona la sua risposta, può vincere mille euro al giorno in buoni acquisto, ma la partecipazione costa un euro e vincitore quotidiano è uno solo. Le domande sono elementari, così molti sono tentati a partecipare: con un euro ciascuno la Rai mette insieme una sommetta al giorno senza spendere nulla. Anzi risparmia, perché occupa il tempo televisivo gratis; e questo tempo va ad aggiungersi agli spot benefici, ideologico-didattici della presidenza del Consiglio; agli spot istituzionali che chiedono soldi per i malati di leucemia, gli affetti da distrofia, gli afflitti da malattie rare, i cardiopatici, i disabili, bambini o adulti, attraverso acquisto di frutta e fiori oppure in cambio di nulla.

Poi ci sono la pubblicità autoreferenziale redazionale per programmi vari (fatta anonimamente oppure dai conduttori); la pubblicità assegnata ai protagonisti televisivi (se non la fai non lavori); la pubblicità-pubblicità. Tutta roba che occupa il tempo delle trasmissioni senza che la Rai debba spendere, senza che nessuno si preoccupi se i telespettatori arrivano all’esasperazione e non ne possono più.

Oltre la televisione, che è la più frequente e insistente perché la più seguita, le richieste di soldi ci assediano ovunque, per qualsiasi preteso scopo. Ma perché? Non paghiamo già con le tasse la Sanità, la nettezza urbana, il canone televisivo? Quante volte dovremmo pagare, nonostante la crisi finanziario-economica e l’impoverimento generale? Per quanto tempo, e quante volte, dobbiamo venir tristemente tormentati dalla vecchia invocazione dei mendicanti, «Fate la carità», carità che magari chissà dove va a finire?

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« Risposta #63 inserito:: Novembre 05, 2009, 10:16:08 am »

5/11/2009


Tff, largo ai giovani
   
LIETTA TORNABUONI


Gianni Amelio ringrazia Nanni Moretti: «Ho ricevuto un Torino Film Festival in forma eccellente; la popolarità personale di Nanni ha anche dato alla manifestazione una bella visibilità che io non avrei saputo assicurare». È singolare e significativo che in quattro anni (Amelio ha dato la propria disponibilità anche per il 2010) il Festival abbia avuto come direttori i due registi italiani più bravi, più rispettati e noti all’estero; anche se non si somigliano troppo né hanno gli stessi pensieri.

In questa 27esima edizione, ad esempio, Amelio ha deciso di mettere in concorso un numero limitato di film (16, di 13 diversi Paesi) e di riservare la gara con i suoi premi soltanto alle prime e seconde (eccezionalmente alle terze) opere di un regista: cosa giusta, adeguata alla tradizione torinese del cinema giovane, all’opposto degli usi di Cannes o Venezia che prediligono spesso gli anziani classici. Gli autori italiani, che da anni mancavano a Torino, quest’anno sono due: cosa più giusta dello snobismo nazionale, se i film sono pregevoli.

I temi affrontati nei film in competizione non sono eclettici, appartengono invece all’universo sentimentale delle persone giovani: musica, famiglia, coppie, viaggi. Perfino il linguaggio è cambiato, al Festival di Amelio: i soliti termini («Evento speciale», «Fuori concorso») sono sostituiti da titoli di opere letterarie («Festa mobile», «Figli e amanti»): anche lo scambio di uno stereotipo con un altro può essere divertente. L’altro cinema non manca certo: le retrospettive si occupano dell’opera di due idoli d’altra generazione, Nicholas Ray e Nagisa Oshima; a Francis Ford Coppola è dedicata una riflessione molto interessante che include il suo nuovo Storie di famiglia; i componenti la giurìa sono pochi, presieduti da Sandro Petraglia.

Insomma, si conserva l’identità del Festival, con una ricchezza che dovrà seguitare ad allargarsi. Senza indulgenze ma senza rigidità, dice Amelio: «Nel calcio si sa che non bisogna confondere il rigore con l’autogol: occorre andare in porta all’avversario, non a se stessi». Il nuovo direttore ha suggerito il manifesto del 27° Tff. Un ripetuto abbraccio, visto come in un caleidoscopio, di Orson Welles giovanissimo e Rita Hayworth bionda platino ne La signora di Shangai: una stretta amorosa di genio e bellezza, di dramma e dolcezza.

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« Risposta #64 inserito:: Novembre 06, 2009, 09:35:35 am »

6/11/2009 - PERSONE

Non potevano pensarci prima?
   
LIETTA TORNABUONI


Ma perché non ci hanno pensato prima? Un’altra prova clamorosa dell’indifferenza e/o incapacità del governo, quella dell’influenza A. Pare ieri che i governanti assicuravano che in Italia l’influenza suina non sarebbe arrivata mai, perché i controlli sugli animali importati erano severi e impeccabili. Pare ieri che i governanti prendevano in giro i giapponesi, i messicani o gli spagnoli che giravano per via con la faccia a metà coperta dalla mascherina bianca, trattandoli come gente primitiva piena di pregiudizi. Pare ieri (era estate) che i governanti ripetevano balle rassicuranti e che magari gli italiani ci credevano con tranquilla superficialità: noi siamo esclusi da ogni rischio (e perché?), comunque c’è il vaccino che a settembre sarà pronto e che agisce fulmineamente.

Il vaccino arriva adesso, a novembre, e non basta: oltre Napoli quasi non l’hanno ancora visto mai, e già si scopre che i suoi effetti sono molto dubbi, che nel caso dei morti italiani non ha funzionato per niente.

Ma perché comportarsi in modo così irresponsabile? Per non saper cosa fare? Per incredulità e speranze mal riposte? Per malavoglia di occuparsene, proprio d’estate? Per fiducia nel fatto che da noi (e perché?) tutto sarebbe andato per il meglio? A tanta leggerezza adesso seguono conseguenze pesanti: la gente muore, i bambini si ammalano, gli ospedali sono sotto assedio, i medici non sanno cosa fare, i genitori piangono di paura. Bel modo di governare, alternare incoscienza e spavento. Complimenti.

Intanto ci rassicurano: la crisi finanziario-economica è già alle spalle, ci vorrà un po’ di tempo ma è finita, ne saremo fuori prima e meglio di altri Paesi. Neppure si accorgono, a esempio, di quanto in modo prodigioso si siano moltiplicate le inserzioni pubblicitarie dei compratori d’oro («Compro oro, pagamento immediato contanti») che approfittano del bisogno altrui. Basta pettegolare: da giorni gli stessi che si indignavano per gli attentati alla privacy prostitutoria di Berlusconi, si accaniscono sulla privacy ermafroditoria di Marrazzo.

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« Risposta #65 inserito:: Novembre 12, 2009, 10:05:39 am »

12/11/2009 - PERSONE

Fare il possibile non basta
   
LIETTA TORNABUONI


Se ha gli anni richiesti e i contributi necessari, se è stanco e non ce la fa più, se dopo otto anni a capo della Protezione civile gli è venuto qualche dubbio sul suo lavoro, se lo desidera come ha detto, il dottor Bertolaso fa bene ad andare in pensione o magari ad assumere un altro incarico nel governo. A noi può dispiacere, anche perché il suo stile calmo sarà difficile da ritrovare; ma può indurre a riflettere.

In una società moderna, è ovvio, non ci sono uomini onnipotenti. Per quanto intelligente, bravo e onesto uno possa essere, i problemi che è chiamato a risolvere non sono questione di capacità personale: sono fatti collettivi, della comunità sociale. Gli sforzi individuali diventano patetici o presuntuosi. Bertolaso avrà fatto il possibile per risolvere la crisi dei rifiuti a Napoli, in Campania e altrove; per portare aiuto a popolazioni colpite dal terremoto, dall’inondazione, dalla frana. Ma il possibile non basta, quando i problemi nascono dal degrado sociopolitico imposto dalla criminalità o dal dissesto idrogeologico a cui non s’è provveduto. Guai del genere, nessun uomo solo può evitarli o risolverli: al massimo può prevederli e annunciarli, trasformandosi in una figura jettatoria di cui i governanti presto sono stufi. Sono i guai non soltanto di un governo ma di diversi governi per lungo tempo, e di tutta la comunità nazionale.

E’ un’abitudine cattiva e ingannevole, quella del presidente del Consiglio di pretendere di risolvere ogni questione aperta nel Paese nominando un responsabile di tutto (oppure facendo approvare dai suoi qualche legge relativa, come se l’esistenza di una legge bastasse a garantirne il rispetto). Serve a nulla, oppure soltanto ad avere qualcuno su cui scaricare le responsabilità, sollevandone se stessi: è infatti il metodo sempre usato dagli amministratori delegati delle aziende industriali, troppo comodo perché la sua inutilità riesca mai a convincere a rinunciarvi. Se davvero Bertolaso andrà in pensione come ha detto o assumerà nel governo un incarico differente, sarà difficile che venga sostituito alla Protezione civile con una persona migliore, in ogni caso con una persona che possa fare meglio e più di lui: i problemi sono altri, e il possibile non basta.

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« Risposta #66 inserito:: Novembre 15, 2009, 10:32:58 am »

15/11/2009

Nowhere boy, un film affettuoso ma troppo educato
   
LIETTA TORNABUONI


Nell’americano medio in concorso Get Low (letteralmente: rallenta), primo lungometraggio di Aaron Scheider, il protagonista è un vecchio selvatico abitante le foreste del Tennessee, Robert Duvall coperto di stracci, con gran barba bianca e modi brutali, impegnato nel programmare il proprio funerale. È meno funereo il film inglese fuori concorso che ha inaugurato il Torino Film Festival, anzi vi circola un’aria affettuosa e si capisce: la regista Sam Taylor Wood e il protagonista Aaron Johnson sono sul punto di sposarsi.

Il film, si sa, racconta l’adolescenza e alcuni ricordi d’infanzia a Liverpool di John Lennon con gli occhiali, il più intellettuale e il più nevrotico dei Beatles. Nowhere Boy, carino, ha nulla di straordinario: ma è interessante la storia di una prima giovinezza tormentosa e gli interpreti sono bravi (soprattutto Kristin Scott Thomas, esemplare zia austera e severa). Lennon, figlio d’una ragazza dai capelli rossi vitale, vivace e di un uomo che l’aveva lasciata, venne allevato ed educato dalla zia Mimi. Ragazzo, continuò a vedere la madre che abitava poco lontano, sposata e mamma di tre bambine.

Lo tormentava l’idea di essere stato abbandonato da piccolo nelle mani della zia e di non conoscere suo padre. La madre gli voleva bene e amava pure il ballo, il canto, la musica, il divertimento: la levità di lei lo affascinava, ma gli pareva inadatta a una madre. Su questo fondo sentimentale diviso e inquieto si innesta la passione del ragazzo per la musica: l’abilità nel suonare l’armonica, il banjo, poi la chitarra, la folgorazione (come tutti) per Elvis Presley e il rock’n’roll, la formazione d’una band di ragazzi e le prime occasioni di lavoro, la conoscenza e amicizia con Paul McCartney e con George Harrison. L’ambiente di Liverpool, dei suoi tanti locali e musicisti, è ignorato; tutto è semplice e semplificato, educato, ordinato, anche le esplosioni di Lennon paiono capricci di un bambino; la musica è bella.

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« Risposta #67 inserito:: Novembre 20, 2009, 11:50:54 am »

20/11/2009

Ma il cinema vince sempre
   
LIETTA TORNABUONI


Meglio andare fuori o restare dentro casa? Meglio l’oscurità di velluto o le lampade domestiche? Meglio la presenza di estranei forse affascinanti, o dei soliti parenti? Meglio il silenzio suggestivo dell’attesa e della paura, o il consueto chiasso di casa? La prima che ho detto, senz’altro, almeno per le persone giovani: anche per questo vedere un film al cinema è molto meglio che vederlo alla televisione.

Ci sono pure parecchi altri vantaggi, al cinema .Le figure,umane o animali, appaiono grandi, dominano dall’alto, vanno benissimo per chi ha qualche difetto di vista e vedono moiltiplicata la propria importanza. Le voci e i rumori sono chiari, perfettamente udibili (a meno che l’impianto sonoro del cinema non risalga al 1959). I film che si vedono al cinema,adesso che non nesistono più locali di seconda o terza visione,sono attuali,si riferiscono al presente,sono stati fatti poco tempo fa;la loro scelta è personale,esatta; la loro proiezione non costringe a salti della memoria, può invece incoraggiare le discussioni e gli incontri fortuiti.

In televisione, al contrario, tutto appare piccolo e trascurabile. La proiezione viene spesso interrotta dagli spot pubblicitari, autopromozionali e istituzionali, che si infittiscono malignamente soprattutto verso la fine del film, quando si desidera conoscere alla svelta la conclusione della storia. Comunque, non nè il caso d’interrogarsi con troppa ansia perchè alla TV film non ne trasmettono quasi più, tranne quelli vecchissimi visti già mille volte: costano, costano, a prenderli in affitto si buttano soldi, è più conveniente Carlo Conti.

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« Risposta #68 inserito:: Novembre 26, 2009, 10:54:18 am »

26/11/2009 - PERSONE

Paghiamo pure il caos tv
   
LIETTA TORNABUONI


C’è chi aprirebbe una fabbrica senza sperimentarne le nuove tecnologie? C’è chi inaugurerebbe un negozio senza aver messo in ordine gli articoli in vendita? Direi di no, non c’è: ma la Rai fa esattamente questo. Con tutto quello che s’è già speso per il digitale terrestre (televisori nuovi, decoder, tecnico venuto a sistemarli), adesso si ricomincia: nel Lazio e presto nella Campania bisogna pagare un’altra volta il tecnico perché venga a risintonizzare. E non è finita, dato che nulla funziona. Scompare il programma, compare l’avvertimento «segnale debole o assente» oppure «programma non disponibile». L’immagine si ferma di colpo, o saltella, si allunga o si dilata. Compare il canale «Storia» e non c’è verso di cambiarlo. Quando tutto va bene, non si riesce a registrare nulla: e alla fine si viene a sapere che un simile caos a pagamento (oltre tutto, già cominciano gli inviti pressanti a pagare il canone) non finirà prima di gennaio (marzo? il linguaggio ufficiale è impreciso).

Di questa fase di sperimentazione nessuno ci aveva detto nulla di preparatorio, né ci dice qualcosa. Nel mondo dei sogni e delle fiabe, tutto ci veniva descritto come liscio, facile, vantaggioso: invece costa, è spinoso e non finisce più. Della Rai, lo sappiamo, si parla sempre molto: ma quando si tratta di posti e di persone che dovrebbero occuparli; oppure di scandaletti da mezzo euro, litigi o parolacce in onda; o di attentati alla libertà e completezza dell’informazione. Succede un casino come quello descritto e nessuno dice una parola di fronte a una simile vergogna aziendale, a un simile menefreghismo verso gli spettatori pagatori del canone? Ma come si fa, come è possibile, perdipiù nella Regione della capitale? Nessuno spiega, nessuno chiede scusa, apparentemente nessuno si vergogna. I programmi procedono come se nulla fosse, come se giornalisti, presentatori o attori non si rendessero conto di venir percepiti di sbieco, in immagine fissa a bocca aperta, in atto di pronunciare le loro battute in un precipitoso e incomprensibile profluvio. I politici continuano a discutere su chi deve partecipare oppure no a certe trasmissioni, ignorando che spesso vengono sostituiti con «segnale debole o assente». Si vede che maltrattare e spremere la gente è ormai diventata una solida abitudine.

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« Risposta #69 inserito:: Dicembre 06, 2009, 11:10:09 am »

3/12/2009 - PERSONE

Scemenze necessarie
   
LIETTA TORNABUONI


Fini ha dato giudizi non lusinghieri su Berlusconi parlando in fuorionda con un magistrato, senza accorgersi di essere ascoltato. Sai che novità. Mille volte il presidente della Camera ha espresso pubblicamente il suo dissenso da Berlusconi. Del resto, la reciproca condizione rende la cosa naturale, se non fatale. L’uno aspira a sostituire l’altro come capo del centrodestra e fa di tutto per procurarsi il consenso indispensabile, con tenacia divenuta nel tempo sempre più astuta ed evidente. L’altro si rende ben conto della rivalità e cerca di sconfiggerla prima ancora che si presenti come imminente. Tanto amici non possono essere, e nessuno presume che lo siano.

Eppure l’ultimo incidente viene presentato come qualcosa di sensazionale o almeno d’importante, e non sono molti i lettori o spettatori che vanno oltre con indifferenza, considerando la faccenda per quello che è, un’ovvietà se non una stupidaggine. O uno spasso. Non si può negare che l’episodio sia divertente, una di quelle gaffes o brutte figure o magre di cui si farebbe volentieri a meno: ma non più che malignamente divertente. Non rilevante, non serio, sicuramente non grave, mostra nella considerazione da cui è circondato una mentalità da cortigiani per cui ogni scemenza riguardante la corte alimenta chiacchiere infinite, oppure una mentalità da travet sempre curiosi di quanto anche di minimo accade al capufficio. Gli utenti elettori non sono diversi, s’interessano: l’episodio è leggero, pettegolo, coinvolge due presidenti la cui carica non prevede fatti del genere; l’attenzione (moralità comprese) si divide tra Fini-Berlusconi e il video erotico fantasma tra deputato e deputata. Quella di occuparsi di balle o sciocchezze è una necessità, un bisogno vero e proprio, un appetito che consente di restare lontani dal resto, dal peggio, dalla realtà. E che allo stesso tempo permette di sfottere due degli esponenti politici ai quali vengono attribuiti i nostri guai. Tra due milioni di disoccupati e il fuorionda, meglio il fuorionda, è garantito.

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« Risposta #70 inserito:: Dicembre 31, 2009, 04:54:55 pm »

31/12/2009 - PERSONE

Il pranzo di Capodanno
   
LIETTA TORNABUONI

Il pranzo di Capodanno, a casa di mio nonno, dal 1947 era sempre lo stesso: cappelletti in brodo, cotechino con lenticchie, panettone e mandarini. A volte qualche scheggia di torrone, ma non spesso. Nel pomeriggio i bambini andavano con la mamma a teatro a vedere «Natale in casa Cupiello» dei De Filippo: non si stancavano mai di ascoltarlo né di impararne a memoria le battute. Oppure i bambini andavano al cinema da soli, al primo spettacolo. La cena era leggerissima. Andavano a letto con l’idea felice di aver passato una giornata bellissima.

Non divertente: bella. Insieme con le proteste per il freddo, le piogge, i viaggi, si sentono descrivere adesso banchetti stravaganti, pesanti, abbondanti: due tipi di carne con contorno dopo la pasta imbottita al forno e la pausa del pesce mescolato all’insalata russa condita alla maionese, pollo arrosto farcito di carne macinata piccante, tre tipi di dolci; oppure couscous, quattro varietà di pasta fresca, tacchino arrosto farcito, gelati e sorbetti. Anche il cibo possibilmente dev’essere sorprendente, variato, insomma divertente: come se la tradizione ingenerata dalla ripetizione non esistesse affatto, come se il divertimento fosse l’unica sensazione capace di rendere accettabile una festa. Ma Capodanno può essere pure sereno, dolce, chiassoso, tranquillo, ansioso, commovente, bello, senza essere particolarmente divertente.

Il divertimento (distacco da pensieri gravi o malinconici, il divergere dagli affanni consueti) è diventato un’esigenza ossessiva che dovrebbe caratterizzare libri, film, programmi televisivi, musica, incontri, momenti di pausa. Come se non esistesse altro. È un atteggiamento che si capisce benissimo, data la vita che quasi tutti facciamo: però maniacale. Restringe il mondo di sentimenti ed emozioni, impedisce di sentirsi soddisfatti perché il divertimento non basta mai e la troppa voglia di divertimento impedisce di divertirsi.

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« Risposta #71 inserito:: Gennaio 05, 2010, 08:12:31 am »

5/1/2010

Indifferenti alle paure degli altri
   
LIETTA TORNABUONI


L’aeroporto di Newark diventa un inferno di viaggiatori ammassati ovunque.

Vengono tirati giù dagli aerei in partenza, obbligati ad attese di molte ore: gli agenti hanno intravisto sui teleschermi un uomo che correva controcorrente, e non l’hanno rintracciato subito. Allarme frenetico per quattro pacchi (bombe?) appoggiati alla sede della Regione Veneto, per l’esplosivo di Reggio Calabria, per la bomba all’Università Bocconi di Milano. Vertici dal ministro dell’Interno, polemiche, accuse di inadempienza a bodyguard e corpi speciali di sicurezza. Viviamo nella paura?

Chi ha sperimentato gli autentici anni dello spavento sa che non è così. Anche allora, diciamo soprattutto nel 1975-’78 del terrorismo, la gente comune non aveva timori se non quelli di ladri e rapinatori. Per la prima volta nella storia italiana recente, oggetto della violenza era la classe dirigente diffusa, gli esponenti grandi, medi o piccoli del potere economico, politico, amministrativo, giudiziario, insieme con gli uomini incaricati di proteggerli. E, dato che la classe dirigente produce la cultura, l’immagine d’Italia pareva quella di una società mortifera.

Esercito e mezzi corazzati, per la prima volta nell’Italia repubblicana, venivano impiegati in funzione d’ordine pubblico. La capitale sempre più spesso appariva come una città in stato d’assedio: il Parlamento, Palazzo Chigi sede del governo, i ministeri, il palazzo di Giustizia, la Rai, le sedi di speciali riunioni o cerimonie erano presidiati giorno e notte da armati. Gli attentati alle sedi di partiti, sindacati, caserme, giornali, erano oltre 2000 l’anno. Gli uomini delle polizie private erano più numerosi di quelli della polizia di Stato: 80.000 effettivi e più. Migliaia di apparecchi telefonici erano sotto controllo. Centinaia di esponenti della classe dirigente diffusa tenevano la pistola alla cintura dei pantaloni o nel cassetto dell’auto, abitavano in case blindate, protetti/prigionieri di macchine di scorta, guardie del corpo, cani da difesa; trovavano il proprio nome negli elenchi di bersagli futuri, meditavano l’emigrazione all’estero, passavano le vacanze fuori d’Italia o sotto la protezione dei carabinieri (come era costretto a fare il Presidente della Repubblica). Il privilegio sociale o finanziario si capovolgeva in possibile premessa di morte.

Ma la gente qualunque (tranne agenti e sottufficiali della polizia penitenziaria) sapeva di non essere il bersaglio di terrorismi di alcun tipo, e non era spaventata: al massimo temeva il clima cupo del Paese, dalle stragi in piazza, in banca o in treno erano passati anni. Così può forse accadere oggi. Istituzioni o personalità sembrano ancora più remote ai cittadini comuni. La tendenza a occuparsi soltanto dei fatti propri e a considerare la vita, anche rischiosa e crudele, da semplici spettatori, si è ancora accentuata. La collettività si indigna, compatisce, esprime solidarietà: ma non ha paura. Per fortuna.

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« Risposta #72 inserito:: Gennaio 07, 2010, 04:58:43 pm »

7/1/2010
 
Siamo tutti poligami
 
LIETTA TORNABUONI
 

Sentir discutere d’amore e di matrimonio nei talk show pomeridiani della televisione è veramente fantastico. Persone carine impreparate a tutto siedono sui divani mostrando le cosce e dibattono con passione: l’amore eterno esiste, non è vero non c’è; ecco una coppia sposata da tre giorni, pensate che il vostro amore durerà per sempre?; ecco una coppia sposata da quarant’anni, qual è il vostro segreto?; tu hai mai tradito?; e tu, se sapessi di un tradimento porresti fine al matrimonio?; gli uomini sono i più bugiardi e traditori; da ragazza ero molto gelosa, ma adesso...

Le premesse di tutti sono almeno due: amore e matrimonio sono la stessa cosa, indivisibile; il matrimonio è tornato ad essere indissolubile nonostante il divorzio per motivi di soldi, soltanto mariti davvero ricchi possono pagare gli alimenti senza ridursi all’elemosina. Ma amore e matrimonio sono due cose distinte, e manca totalmente un’altra premessa che pure non sarebbe priva di ragionevolezza: il matrimonio monogamico, l’unione fedele di uomo e donna per la vita, la famiglia, rappresentano una parte essenziale delle società, fondamento dell’organizzazione sociale quale la conosciamo in Occidente; ma sono costruite per le società, non per gli esseri umani.

Le persone, donne e uomini, non sono monogame: basta guardarsi intorno o guardare magari in casa propria, per rendersi conto del fatto che in una vita l’amore non è unico, gli amori piccoli o grandi sono svariati; che, almeno come temperamento amoroso, siamo tutti poligami. Possono essere amori minimi, leggeri come capricci, di breve durata, oppure grandi amori che esigono il capovolgimento della propria esistenza; possono venir vissuti o soltanto sognati; possono restare segreti o diventare palesi: ma l’esistenza femminile e maschile non si appaga di un solo amore, l’immaginazione e il desiderio sono meno poveri, come l’esperienza dimostra. Poi, naturalmente, ci sono le eccezioni: ma la realtà che viene ostentatamente ignorata sembra proprio questa.

Nel tempo, molte regole destinate a governare le passioni si sono modificate: forse non sarebbe male arrendersi alla razionalità pure in questo campo, evitando infinito dolore e anche tragedie.
 
 
da lastampa.it
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« Risposta #73 inserito:: Gennaio 14, 2010, 02:27:37 pm »

14/1/2010 - PESCE
 
Cibo sano e pesce marcio
 
LIETTA TORNABUONI
 
Stavolta sono quattordici tonnellate e si tratta di pesce cinese infetto di muffe e di vermi, pronto a venir distribuito sui mercati del Mezzogiorno. Ma, soltanto nell’ultimo mese, scoperte e sequestri sono stati anche più importanti: altro pesce marcio (cinquanta tonnellate), formaggio grattugiato composto in parte da plastica bianca, mele rosse fuori e nere dentro, panettoni di farina di mais. Come sempre e in ogni settore, pare che in Italia si viaggi su due binari paralleli che non s’incontrano mai: più la gente crede di fare attenzione a quanto mangia e cerca i costosissimi cibi genuini, più decifra nonostante i caratteri a stampa imperscrutabili le etichette, più ammattisce alla vana ricerca di alimenti sani, e più si diffondono importazioni alimentari fetide, vini velenosi, latte acquoso senza sostanza. Più cresce nei media la cultura del mangiare sano, più nella prassi si infittiscono le truffe.

Sarebbe interessante conoscere i responsabili, criminali di prim’ordine capaci di fare del male a infiniti loro simili, di danneggiare gravemente bambini, vecchi, donne in attesa di figli, soltanto per mettere in tasca qualche euro in più. Sarebbe interessante guardarli in faccia, fare domande: ma come possono? La notte, riescono poi a dormire? La mattina, sopportano la propria faccia nello specchio? Se scoperti, cosa direbbero ai propri figli? E, figli a parte, davvero non avvertono vergogna né rimorso?

Domande ingenue. Il motto popolare «Per i soldi si venderebbero la madre» non è mai stato tanto calzante. Peggiora la situazione sapere che è così dappertutto, che anche l’assenza d’un pilone centrale nell’edificio universitario dell’Aquila ha provocato la morte di otto ragazzi nel terremoto abruzzese. Peggiora le cose constatare anche un altro fenomeno: più leggi terrificanti vengono proclamate, e meno esse vengono rispettate. Per mancanza non casuale di controlli, per carenza di informazione, per menefreghismo, per avidità: a proposito del pesce marcio come degli immigrati sfruttati e trattati come bestie.
 
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« Risposta #74 inserito:: Gennaio 21, 2010, 12:15:02 pm »

21/1/2010 - PERSONE

La realtà si allontana
   
LIETTA TORNABUONI


Non è piacevole dire certe cose (e del resto sono in tanti a non averne bisogno, ci arrivano da soli), ma sarà meglio fare attenzione a chi dice cosa e perché, prima di prendere per buona una notizia o una riflessione. Si capisce che credere ciecamente agli informatori è un’ingenuità, che nessuno è abituato a farlo: ma il periodo attuale è particolare, inconsueto.

Non si vuol alludere al leader che oggi dice «diminuisco le tasse» e domani smentisce «non posso diminuire le tasse per via della crisi»: questa è la solita politica oppure sventatezza o mistificazione. C’è ora un meccanismo più generale, più complesso, che ci impedisce di conoscere le verità. Alla base di questo meccanismo sta il sistema pubblicitario della ripetizione: come la pubblicità ripete i suoi slogan finché non diventano realtà e sèguita a martellare le lodi dei prodotti, così un’informazione o un giudizio vengono ripetuti in sede soprattutto televisiva sino a essere creduti, a diventare un luogo comune, una collettiva idea ricevuta. Craxi era un grande statista? Un grande statista, un grande statista, un grande statista: alla fine quelle poche parole si trasformano in un dato di fatto, non ci si chiede più quali azioni e parole di Craxi giustifichino la definizione.

Il secondo sistema è l’esistenza di una rete compatta di ripetitori: non che non esista chi dice il contrario, ma viene considerato un poveraccio con problemi psichici o un eccentrico oppure uno dell’opposizione importabile, peggiore del demente e dello stravagante messi insieme. Il terzo sistema è il disprezzo della realtà, il trionfo della frase fatta che accarezzano la pigrizia o la distrazione della gente verso tutto ciò che non la riguardi direttamente, personalmente. Il quarto sistema consiste nel non fornire mai prove, testimonianze o spiegazioni di quanto si dice, ma nel limitarsi alla affermazione apodittica, come nel passato remoto faceva Mussolini: «Vinceremo!». Grazie a questi sistemi, sempre più ci allontaniamo dalle realtà di carattere generale, politico, nazionale; sempre più abbiamo l’impressione di essere inadeguati e non capire; sempre più pensiamo ad altro. Così lo scopo è stato raggiunto.

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