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« Risposta #15 inserito:: Agosto 23, 2008, 09:39:52 am » |
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CINEMA
Premiata ditta X Files
di Lietta Tornabuoni
Tornano al cinema, dopo nove stagioni tv e un primo film, gli ex agenti dell'FBI Fox Mulder e Dana Skully. Ma il mistero sulla trama non salva la pellicola dalla mediocrità Un vecchio sensitivo cammina cautamente sulla neve. Alle sue spalle, in lunga fila orizzontale, decine di poliziotti trafiggono il terreno con bastoni ferrati. Cercano un cadavere e non lo trovano. Ogni tanto il vecchio sensitivo si ferma, trema: scavando nella neve, si scoprono parti di corpo umano maschile o femminile (braccio, testa, piede) destinati a fabbricare nuovi mostri.
Nell'infanzia della televisione, 'X Files' fu il primo serial per gli appassionati di thriller, horror, racconti sovrannaturali: uno straordinario successo internazionale cominciato nel 1993 con il racconto delle avventure di due agenti dell'Fbi, David Duchovny e Gillian Anderson, incaricati di investigare su casi rimasti irrisolti, terminato nel 2002 dopo nove stagioni e 205 episodi.
Lo stile inconsueto, il mix di paura e paranoia, piacquero molto. Nel 1998 uscì il primo film basato sulla serie; dieci anni dopo, 'Voglio crederci' è il secondo film, sempre realizzato dalla stesso gruppo televisivo, regista, sceneggiatore, interpreti. Come sempre, i realizzatori hanno compiuto grandi sforzi per lasciare nel pieno segreto il film girato a Vancouver: ma il mistero non salva dalla mediocrità.
Sono interessanti i metodi controcorrente usati nel serial e nei film per acuire l'attenzione. Innanzi tutto il rapporto tra i protagonisti è platonico: si vogliono bene, sono complici, ma tra loro non c'è mai stato un bacio; si aiutano, si stimano, ma non fanno l'amore. Lui, ora psicologo e sensitivo, crede nell'occulto, nel sovrannaturale; lei, ora medico, ha fede soltanto nella razionalità. Amicizia e affetto non diventano mai passione.
Capita poi che spesso le vicende narrate negli episodi e nei film abbiano una conclusione oscura che non è uno scioglimento: senza fine, le storie sembrano acquisire maggior fascino. Infine, il segreto: all'opposto della pubblicità invadente che accompagna ogni film, lo spettatore può finalmente entrare al cinema in perfetta ignoranza.
X FiIes-Voglio crederci
di Chris Carter con David Duchovny, Gillian Armstrong (21 agosto 2008)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #16 inserito:: Settembre 18, 2008, 11:13:50 am » |
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18/9/2008 - PERSONE Integrazione a senso unico LIETTA TORNABUONI Il ragazzo nero di diciannove anni ammazzato a Milano a colpi di spranga in testa era cittadino italiano, viveva in Italia da tempo: porsi il problema dell’integrazione in questo caso è sbagliato, eppure di integrazione si continua a discutere in modo strano.
Di due cose si tiene poco conto, quando si parla di integrazione. La prima sta nel fatto che l’integrazione non è un fenomeno a senso unico, non è un compito riguardante soltanto gli emigrati, non è un dono che cade dal cielo sugli emigrati buoni, regolari, di buona volontà. Per realizzare l’integrazione, bisogna almeno essere in due: tu vuoi stare in questo Paese, io ti accolgo. Se uno desidera integrarsi e l’altro lo spranga a morte, se uno accoglie e l’altro lo deruba, difficilmente si realizzerà integrazione. Non è che tutti debbano diventare improvvisamente impeccabili, però il fenomeno sociale può avere migliore andamento se lo si osserva con consapevolezza.
Seconda cosa: l’integrazione è una faccenda lunga, graduale. Inutile pretendere che si realizzi velocemente, per un puro atto di volontà, come una chiamata al cellulare o una moneta nella macchina del caffè. Stolto immaginare che somigli a una dichiarazione scritta o a un documento da presentare allo sportello. Si può (si deve) chiedere agli emigrati di rispettare leggi e regole del Paese in cui vivono, ma integrarsi è un’altra cosa. Nel mondo, le comunità diverse hanno sempre faticato moltissimo a integrarsi nelle nuove società. Basta pensare agli italiani di New York, in parte ancora strettamente cittadini della loro Little Italy, con le feste di San Gennaro, i maccheroni e tutto; o ai cinesi di San Francisco, chiusi nelle loro strade e nei loro riti; o ai nordafricani della periferia di Parigi. In genere, bisogna aspettare un paio di generazioni perché alcuni (non tutti) risultino più o meno integrati: per le persone adulte o anziane, rinunciare alla propria esperienza, educazione, natura, cultura è un’operazione non soltanto difficile, ma anche impraticabile. In molti casi, storicamente il tramite dell’integrazione è stato il crimine, unica forma di potere esercitabile dagli emigrati: e anche su questo si potrà riflettere. Invece la mancanza di cultura, l’ignoranza della Storia, fanno sì che a noi ogni cosa sembri nuova ed esclusiva, mai vista né affrontata, senza precedenti, impossibile da risolvere: ma è già accaduta prima, tanto tempo fa.
da lastampa.it
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« Risposta #17 inserito:: Settembre 25, 2008, 12:00:39 pm » |
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25/9/2008 - PERSONE Inutili soldati in piazza LIETTA TORNABUONI
Cinquecento soldati inviati nel Sud a combattere la camorra: e cosa faranno? Se non conoscono il territorio né la criminalità organizzata, sarà piuttosto improbabile che possano svolgere con un profitto anche minimo un’attività di investigazione. Ma no, il ministro della Difesa dice che serviranno soprattutto a formare posti stradali di blocco e di controllo. Ora, a proposito dell’esercito usato in funzioni di ordine pubblico, ci sono un paio di cose su cui si può riflettere.
I soldati-poliziotti rappresentano, nel nostro sistema, una criticabile novità. Certo, si ricorda quando vennero impiegati brevemente dopo il rapimento di Aldo Moro: formarono posti di blocco per le strade, stettero a pencolare in piedi per un po’ senza sapere contro chi applicare i propri sospetti (non fermavano le auto con donne incinte o con persone dai capelli bianchi, ritenendoli terroristi impossibili), poi vennero ritirati. Utilità, quasi zero. L’allora ministro dell’Interno Cossiga sosteneva che costituissero un deterrente, che la loro presenza potesse limitare la circolazione di terroristi come lo spaventapasseri intimorisce gli uccelli: e infatti i terroristi stavano dentro un appartamento con Moro interrogandolo, mentre alle commissioni fuori casa erano addetti altri ragazzi dall’aspetto innocente o almeno comune. Nella storia europea o latinoamericana, poi, l’esercito in piazza è sempre stato un segno di minaccia, di situazioni estreme di rivolta o d’invasione: e l’Italia non è in queste situazioni, almeno in queste situazioni non è.
Per istruzione e addestramento, i soldati sono inadatti alle indagini. Per di più, in passato si trattava di soldati di leva, mentre ora sono volontari: e non si possono usare i volontari come domestici, spedendoli qua e là a fare un lavoro diverso dal proprio. Anche se vengono all’occasione pagati più del solito, inviarli sul fronte della spazzatura, della sicurezza o della camorra è una decisione abusiva, che può soltanto suscitare malcontento, mortificazione, protesta. Lo spadroneggiare, in questo settore, del presidente del Consiglio e dei suoi ministri, esprime esclusivamente il desiderio di dare (a spese altrui) l’impressione di star facendo qualcosa, di decidere, di compiere gesti forti e drastici: ma non è così, e la gente non è tanto scema da non saperlo. da lastampa.it
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« Risposta #18 inserito:: Ottobre 09, 2008, 10:36:12 am » |
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9/10/2008 Miliardi di milioni di miliardi LIETTA TORNABUONI Il presidente del Consiglio, che non lascia passare mezza giornata senza dichiarare qualcosa, anche un semplice «Non me ne frega niente» (se non appare in tv gli sembra di non esistere), nonostante tutto ha ripetuto la sua sbrasata, «Non accetterò che alcun italiano perda neppure un euro dei suoi risparmi». Beh, conviene prepararsi: personalmente conosco un italiano che teme di aver perduto diecimila euro, altro che un euro.
Nel 1999, quando nacque sua figlia, su consiglio del direttore (una signora) della sua banca (un’agenzia Unicredit) depositò appunto diecimila euro: con gli interessi e con modesti investimenti, la bambina si sarebbe ritrovata qualche soldo. Scadenza dieci anni. Capitale garantito. Adesso che l’operazione sta per scadere, ha ricevuto dalla banca una bella letterina. Siamo spiacentissimi, scrive la banca, ma è andata così: noi abbiamo affidato il lavoro alla Toro Assicurazioni; la Toro Assicurazioni è in generale garantita presso la banca americana Lehman Brothers; la Lehman Brothers è andata in fallimento.
Allora? «Noi stiamo alla finestra, vediamo come andrà a finire». Di restituire il capitale garantito non si parla affatto: chissà cosa stabilirà il liquidatore americano, magari il cliente potrà far causa in Italia dove i processi durano anche otto anni quando va bene... Un altro italiano che conosco ha ricevuto inopinatamente dalla sua banca una richiesta di 450 euro a titolo di «tassa comunale». Siccome non aveva mai sentito parlare di una tassa comunale sui conti correnti, è andato a domandare spiegazioni. Gli hanno chiesto 48 ore e 10 euro «per le ricerche», come se le spese bancarie non venissero già pagate dal correntista. Risultato: si è trattato di un errore della banca di cui molti possono non accorgersi. Scomparsi i dieci euro «per le ricerche».
Sono episodi minimi, che paiono ridicoli rispetto ai miliardi di milioni di miliardi di cui si parla nella crisi mondiale. Tutti dicono che le banche italiane sono in minore pericolo nel disastro perché più prudenti di quelle americane: in realtà, più che prudenti si potrebbe dirle inerti, non prestano un soldo se l’eventuale perdita non può essere scaricata sui clienti o sui garanti.
da lastampa.it
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« Risposta #19 inserito:: Ottobre 23, 2008, 04:46:22 pm » |
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23/10/2008 - PERSONE Manifestare non fa male LIETTA TORNABUONI Sono molto strani la paura e il disprezzo che il presidente del Consiglio mostra verso le manifestazioni popolari, in particolare verso la prossima prevista dall’opposizione a Roma dopodomani: «Bisogna lavorare, altro che manifestare». Oppure: «La piazza non risolve niente». Soltanto la destra italiana al governo (una destra particolarmente reazionaria, antiquata e testarda) può fare simili osservazioni. Soltanto una destra senile e padronale come la nostra può avere insofferenza e intolleranza verso le manifestazioni: nelle quali sembra vedere soprattutto una smentita all’unanimità del consenso verso il governo di destra, un attentato alla popolarità del suo leader, un atto di rivalità o di beffa.
Da quando siamo una democrazia e una Repubblica, l’Italia ha sempre manifestato: è anche ridicolo dover ripetere oggi quanto si scriveva quarant’anni fa. Ha manifestato contentezza alla caduta di Mussolini, anche abbattendo le statue del dittatore come in Iraq. Ha manifestato nel dopoguerra contro il carovita e contro la monarchia. Ha manifestato poi ogni volta che la realtà lo rendesse necessario: per occupare le terre da coltivare, per protestare contro gli abusi mafiosi e polizieschi o contro la democrazia cristiana al governo, per la parità dei diritti tra donne e uomini, per la libertà della cultura non soltanto universitaria, contro la disoccupazione o il terrorismo, per gli asili-nido o per l’aumento delle pensioni, per la gioia di essere in tanti a festeggiare il Primo Maggio o il 25 Aprile. Molte richieste o proteste che nutrivano le manifestazioni sono entrate a far parte della legislazione del Paese: non soltanto per merito della gente in piazza, ma anche con il suo aiuto. Tra i manifestanti, o tra manifestanti e polizia, ci sono stati anche brutti scontri: ma i gravi fatti di sangue e di morte, le stragi, non le hanno mai compiute i manifestanti.
Non c’è da aver paura. Non c’è da nominare «la piazza» con un orrore da aristocratico settecentesco; né da perdere i nervi perché il corteo blocca il traffico, come signore indispettite private dello shopping. Non è il caso di fingere di credere che i manifestanti siano pecore intruppate dall’opposizione: i cittadini vogliono farsi sentire da chi nemmeno pensa ad ascoltarli, ed è del tutto legittimo che lo facciano manifestando. Se qualcuno decreta di tagliare decine di scuole e quasi tutti i soldi, chi non andrebbe in corteo come gli studenti?
da lastampa.it
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« Risposta #20 inserito:: Novembre 14, 2008, 10:25:43 pm » |
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Diavoli a Los Angeles
di Lietta Tornabuoni
Clint Eastwood è il regista di una storia di violenza e amore materno ambientata nella Los Angeles degli anni Venti Angelina JolieÈ strano scoprire nel dizionario 'Cassell' che in inglese c'è una parola specifica per indicare un bambino sostituito (quante volte sarà accaduto, per giustificare l'esistenza del termine?): è 'Changeling', titolo del nuovo film di Clint Eastwood con Angelina Jolie. Ci si può chiedere pure se valga la pena, per un autore come Eastwood, fare un film per raccontare quanto fosse cattiva nel 1928 la polizia di Los Angeles. Sì, ne vale la pena: la storia vera di cronaca evocata dimostra molto di più.
Certo, la polizia procede a forza di malvagità, sopraffazione, menzogna. Una giovane donna, madre nubile, sorvegliante di telefoniste, denuncia la scomparsa del proprio figlio di nove anni. La polizia dopo cinque mesi presenta alla donna un ragazzino. Lei non lo riconosce. Non è suo figlio. Per non dire altro, ha sette centimetri in meno di statura ed è circonciso, mentre il figlio non lo è. La polizia insiste per non dover ammettere un errore né smentire un fatto intorno al quale si era fatta molta pubblicità. Lei nega: non è suo figlio. La chiudono in un ospedale per malati mentali (docce gelate, perquisizioni vaginali e rettali, maltrattamenti). Nonostante la complicità dei medici e dell'istituzione ospedaliera debbono rilasciarla. La diffamano: ecco una donna che rifiuta il figlio per essere libera. Lei resiste, con l'aiuto di un pugnace predicatore, d'un grande avvocato, della gente solidale. Un criminale rapitore e massacratore di bambini viene arrestato: il figlio della donna poteva essere tra le vittime. Lei ha vinto, dalla polizia e dall'ospedale vengono cacciati i responsabili delle soperchierie (nella realtà, la conclusione della storia fu incerta e l'assassino di bambini compiva il suo lavoro di sangue insieme con la madre).
Eastwood, si sa, è bravissimo. Il film classico, solido, bene sceneggiato e bene ambientato, appassionante, condanna la polizia e i suoi complici sociali, svela la malvagità nell'assassino dei piccoli e anche nei bambini; esalta la resistenza, il coraggio, la forza d'animo, la volontà di non piegarsi della giovane madre e dei suoi sostenitori. Ha molte virtù americane, forti qualità morali e professionali: Angelina Jolie non sa recitare granché, ma forse anche la sua ingenuità espressiva è un elemento di fascino.
Changeling di Clint Eastwood con Angelina Jolie, John Malkovich
(13 novembre 2008) da espresso.repubblica.it
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« Risposta #21 inserito:: Novembre 20, 2008, 11:07:34 am » |
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20/11/2008 - PERSONE Cosa fai tutto solo? LIETTA TORNABUONI
Chissà quando verremo a sapere che lo sgambetto umiliante subìto dalla sinistra parlamentare a proposito dell’elezione del capo della commissione di Vigilanza sulla Rai magari non era beffa nemica, ma fuoco amico. Chissà attraverso quali indiscrezioni, confessioni di transfughi, rivelazioni estorte, biografie non autorizzate, verremo a conoscere i particolari della battaglia occulta che magari si sta svolgendo all’interno dell’opposizione. Risolta oppure no che sia la faccenda (gli ottantacinque anni di Sergio Zavoli, candidato altrimenti perfetto, sarebbero molti anche per Sant’Agostino), adesso si può passare ad altro: per esempio, alla decisione di nominare un unico supermanager per tutti i musei, i parchi archeologici e i complessi monumentali italiani. Di affidare cioè la maggiore ricchezza d’Italia, quei beni culturali essenziali che costituiscono la materia e la ragione d’esistenza del relativo ministero, esclusivamente a un manager.
A parte il fatto che un Paese di piccole imprese spesso famigliari come il nostro manca di cultura manageriale e dispone di pochi manager a volte disastrosi o disonesti, questo è un tic del governo in carica: si nomina uno, ci pensi lui, risolva lui, se va bene meglio, se va male lo sostituiamo. È una maniera per liberarsi della responsabilità in settori spinosi, per sottoscrivere iniziative impopolari con una firma diversa da quella del governo o del presidente del Consiglio.
È anche frutto di una mentalità che per motivi di classe vuol credere nel talento salvifico del singolo, nella forza dell’onnipotenza almeno apparente: ma a sua volta il supermanager nominato scaricherà i propri compiti su un vice che farà lo stesso, in una catena destinata alla fine a cancellare ogni responsabilità. È una forma di divismo improduttivo e spiacevole. È un metodo autoritario di chi comanda, ottocentesco, superantiquato: la modernità (e anche la democrazia) tollera soltanto il lavoro collegiale, il buon funzionamento del sistema, l’efficienza dei controlli. Il potere solitario è inefficiente e pericoloso, può soltanto mandare tutto a rotoli: come appunto accade. da lastampa.it
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« Risposta #22 inserito:: Novembre 27, 2008, 03:46:16 pm » |
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27/11/2008 - PERSONE Infinite parole della crisi LIETTA TORNABUONI
Nei programmi televisivi detti (esagerando) di approfondimento, come è inevitabile si parla soltanto della crisi finanziario-economica. Tutti la giudicano grave. Tutti la prevedono lunga: 2010 circa. Tutti la immaginano sempre peggiore nel tempo. Su questo, l’unanimità è stata raggiunta. Poi c’è la solita suddivisione politica: i conversatori di centrodestra dicono che il governo in carica lotta e lotterà eroicamente come un leone contro la crisi; gli oratori del centrosinistra ripetono che da quando è in carica il governo ha fatto nulla, che non s’è visto un soldo.
Altra variante, la suddivisione tra ottimisti e pessimisti. I pessimisti, opinionisti trasversali in netta maggioranza, non potrebbero non esserlo, data la situazione (in particolare lo è chi sino a ieri mattina risultava fiducioso e sereno); mentre gli ottimisti hanno piuttosto un certo tono di paziente rassegnazione («Coraggio, tiriamo avanti», «È soltanto una fase»). Questa elencazione non riguarda i comuni cittadini: quelli, bestemmiano o quasi di fronte alla propria realtà, quando non sono disperati perché hanno perduto il lavoro. Eppure, questi diversi stili oratori sono destinati, grottescamente, appunto ai comuni cittadini. E se qualcuno pigia un po’ troppo il pedale, lo fa con la speranza che, nella nera confusione, ci scappi qualche mancia, appalto, soldo, tasso zero, avanzo o simili.
Il motivo determinante di tante chiacchiere, televisive o non, è un altro. Passato il tempo in cui alla gente si poteva tranquillamente dire il contrario della verità, in presenza d’una emergenza o d’un problema grave il metodo adesso è più americano: straparlarne. Parlare compulsivamente della sventura in atto, discuterne il più possibile, dilatare la trattazione fino all’assurdo. In questo modo, già al secondo giorno la gente non ne può più, e appena sente la parola crisi salta altrove, ben sapendo che tante parole non le porteranno il minimo vantaggio. Oppure, come cullate da una nenia ipnotica, le persone si abituano ai discorsi catastrofici, non li temono più, non ci fanno caso, non ci credono: almeno fino a quando non sentono fame. da lastampa.it
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« Risposta #23 inserito:: Dicembre 04, 2008, 09:55:17 am » |
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4/12/2008 - PERSONE Sono stato abbandonato LIETTA TORNABUONI
L’ultimo è stato l’assessore napoletano Giorgio Nugnes: interrrogandosi sui motivi del suo togliersi la vita, diversi amici o conoscenti hanno avanzato subito l’ipotesi «Si è sentito abbandonato». Accade continuamente. Persone colpite dalla sventura accusano con doloroso risentimento di essere state abbandonate: la comunità non s’è interessata, le autorità non hanno fornito sostegno né sussidi, la giustizia sta seguendo il suo solito lentissimo corso, la televisione è rimasta assente. Chissà perché, sembra che ogni sofferenza debba venire accompagnata da una pena comune, che ogni dolore individuale abbia diritto a un lutto collettivo. Se no, «siamo stati abbandonati».
È un atteggiamento relativamente recente. Prima, ciascuno affrontava una sciagura a suo modo, come poteva, con la forza che aveva, e non chiedeva alcunché: saper affrontare con coraggio e sobrietà le prove imposte dalla vita veniva considerata una qualità del carattere, della personalità. L’atteggiamento si è modificato poco per volta. Forse per il diffondersi di un sentimento più forte della solidarietà collettiva; forse per un accentuarsi della mentalità e della realtà assistenziale; forse per il protagonismo magari inconsapevole indotto dai media e dal loro uso di rendere pubblici i fatti privati, felici o penosi che siano. Forse per il desiderio o la speranza di ottenere qualche aiuto concreto: nelle circostanze peggiori, al dolore si unisce spesso lo smarrimento per la repentina necessità di affrontare spese impreviste magari troppo forti per le proprie possibilità immediate.
Sarà per l’uno o l’altro motivo: fatto sta che spesso nella sventura le persone paiono, più che donne e uomini, i bambini sperduti nel bosco della favola: tanto che l’aiuto della collettività diventa ai loro occhi un dovere, più che una eventuale aspirazione, e origina rancore se manca. Ma ci sono cose della vita che non si risolvono con l’applauso in chiesa, col funerale a spese dello Stato oppure con l’intervista a «La vita in diretta» o a «Chi l’ha visto?»: non è il caso di sentirsi abbandonati se si deve affrontare da soli le circostanze penose che appartengono all’esistenza come tutto il resto. da lastampa.it
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« Risposta #24 inserito:: Dicembre 11, 2008, 06:36:13 pm » |
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11/12/2008 - PERSONE Maledetto pensierino al mercatino LIETTA TORNABUONI
L’omaggio natalizio è stato da sempre suddiviso in diverse categorie decrescenti per importanza: dal dono al regalo, dal regalo al regalino, dal regalino al pensierino. Il pensierino era il più modesto, spesso rimediato tra le cose di casa oppure comprato per poco al mercatino: con la crisi, è diventato il primo della lista. Persone niente affatto ricche, che risparmiano ogni giorno, sono andate la settimana scorsa per tre giorni a Copenhagen per un giro dei mercatini, non più lussuosi di quelli italiani, non troppo diversi per le merci offerte (angioletti o animaletti di legno dipinto, bigiotteria di plastica multicolore, fodere di cotone imbottite per mantenere scottanti le teiere o le borse dell’acqua calda, roba così), però esotici. Anche se hanno trovato un volo low cost, anche se hanno digiunato, il viaggio per mercatini rappresenta comunque una certa spesa: e può simboleggiare la nostra disperata tendenza al superfluo così come il nostro attaccamento disperato a certe abitudini.
La colpa è americana, naturalmente. In Italia si celebravano i riti del Natale con misura e poca spesa, abbondando quasi esclusivamente nei pranzi e nelle cene, quando dagli Stati Uniti, nei primi Anni Sessanta, arrivò la voga dei regali per tutti, dei pacchi colorati con nastri dorati o argentati e bigliettini, del consumismo festivo. Non eravamo abituati: parve prima un piacere poi un dovere del benessere, gli elenchi di amici e parenti da contentare si allungarono, il Natale diventò un lavoro. Specialissimi erano i regali aziendali. Per gli uffici presero a circolare oggetti misteriosi, pesanti e lustri, dall’uso ignoto (temperamatite elettrico? portafotografie da tavolo?), ingombranti, quasi sempre inutili, e cominciarono a proporsi problemi: il regalo padronale va contraccambiato oppure no? Se lo si accetta e basta, si farà la figura del dipendente beneficato? Altrimenti, a chi e con cosa si può restituire il dono?
I regali aziendali si sono da anni rarefatti, i doni natalizi pure: ma resiste come una testimonianza di superbia o una prova di carattere l’uso maledetto del pensierino al mercatino, perdita di tempo, di soldi e forse di affetti, che sarebbe meglio lasciar perdere, al tempo d’ora. da lastampa.it
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« Risposta #25 inserito:: Dicembre 18, 2008, 10:41:29 am » |
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18/12/2008 - PERSONE Il governo comanda sulla vita? LIETTA TORNABUONI Come minimo si può dire che il ministro Sacconi se l’è presa comoda, per arrivare a proibire ad ogni struttura sanitaria pubblica qualsiasi ingerenza nella fine della povera Eluana Englaro che da quasi diciassette anni giace inerte in coma, e del suo povero papà: sono ormai anni che si discute di questo caso penosissimo, è già un po’ che un’alta sentenza ha autorizzato la morte della vittima. Il ministro, diciamo, si poteva risparmiare la comodità di arrivare all’ultimo minuto, si poteva dare una svegliata: ma anche quella sarebbe stata inutile, abusiva.
Un legge in proposito, infatti, non esiste. Che diritto hanno il ministro o il magistrato di vietare o consentire? In nome di che cosa, con quale autorità? Se ci si riflette un momento, la politica e il governo si sono già impicciati abbastanza nella vita privata dei cittadini, hanno già compiuto prepotenze poco sopportabili. Hanno stabilito se e dove e quando possiamo o non possiamo fumare, guidare l’auto, possedere la patria potestà sui figli, abitare in un Paese a scelta (se appartenenti ad altra nazionalità o a nessuna nazionalità), vedere un certo film eccetera: chi compie una violazione a queste regole viene punito, la volontà personale conta proprio nulla. E perché? Perché dovremmo per forza non diventare troppo grassi, star lontani dal tabacco e dall’alcol, mettere il grembiulino in seconda elementare, morire o non morire?
L’intrusione politico-pubblica in simili faccende non dipende dalla bontà dello Stato che ama i suoi cittadini e vorrebbe proteggerli come fossero bambini piccoli o persone incapaci. Il fatto è che il governo non è in grado (o non ha la volontà) di risolvere gli autentici problemi (di sopravvivenza, di lavoro, di alloggio) della gente, così si ostina a rompere le scatole a chi già patisce a sufficienza, a spadroneggiare su elementi secondari e superflui, a dare ordini a settori sottratti ai suoi poteri, a impicciarsi: tanto per mostrare che fa qualcosa, che qualcosa decide, che esiste anche se si occupa solo di leggi irrilevanti o personali. Ma la morte è la morte: attenzione, che almeno lascino la gente morire come vuole, come può. da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Gennaio 08, 2009, 03:56:09 pm » |
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8/1/2009 - PERSONE Buone feste buone LIETTA TORNABUONI
Il grande sonno delle ferie d’inverno ha immerso il Paese in un letargo inerte, lo ha fatto regredire a un’infanzia: quindici giorni di vacanze scolastiche (23 dicembre - 7 gennaio) ogni discorso concentrato su doni e roba da mangiare (soprattutto dolciumi da calza della Befana), lunghi sonni, giochi e scommesse. Salvo i venditori e compratori d’occasione, impossibile prendere una paio di scarpe: negozio aperto ma magazzino chiuso (23-7), chissà se c’è la misura giusta. Impossibile tentar di affrettare una pratica: impiegati assenti, a dispetto di Brunetta e delle sue vanterie. Impossibile cavarsela in banca senza fare una lunga fila: unico sportello in funzione, sportellisti in vacanza.
Impossibile uscire: freddo e gelo. Impossibile distrarsi con la tv: cancellati i programmi abituali, sospeso il campionato, invaso il piccolo schermo da telefilm americani con ragazzo, cane e cavallo, o da striduli auguri, oppure da cartoni animati con orsetti e giraffette (ci sono i bambini a casa e bisogna intrattenerli: come se le altre fasce d’età fossero tutte ai Caraibi). Il comportamento Rai, col suo motto untuoso «Buone Feste Buone», particolarmente tremendo: insieme con i programmi per i più piccini, invece di qualcosa che potesse interessare gli adulti, i malati, le persone sole, film vecchissimi (La principessa Sissi, roba tedesca di mezzo secolo fa, o qualche John Wayne altrettanto vetusto) e pubblicità esterna o interna. Non l’ha pensata male, il presidente francese Sarkozy, decidendo di mettere al bando sulla tv pubblica la pubblicità, adesso per alcune ore, in seguito del tutto. La tv nostra, a esempio, è diventata un accumulo pubblicitario: non soltanto con inserzioni o con raccolta di elemosine, ma con talk show e interviste affollati di interpreti televisivi che esaltano i propri stupendi programmi passati, presenti e futuri. Se uno provasse a pagare parte dell’abbonamento con fotocopie di euro, non sarebbe equilibrato?
È commovente ascoltare il presidente Napolitano esortare gli italiani all’attività, al lavoro, alla svolta, all’energia, alla fiducia nell’avvenire, mentre si affonda ogni giorno un po’. da lastampa.it
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« Risposta #27 inserito:: Gennaio 15, 2009, 03:32:35 pm » |
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15/1/2009 - PERSONE Quei deputati sonnacchiosi LIETTA TORNABUONI
Alcuni parlano di «centralità» del Parlamento, altri di «sovranità» del Parlamento. Termini piuttosto grandiosi, che sembrano in contrasto con la realtà: quell’«aula sorda e grigia» di Montecitorio che, disse Mussolini, «avrei potuto trasformare in un bivacco di manipoli» è diventata molto poco vitale. A volte strapiena (quando occorre votare), a volte semivuota (basta vedere lo spettacolo dell’emiciclo durante il question time televisivo). Pare un luogo addormentato. Non si discute, non ci sono scontri né conflitti. Circola un’aria sonnacchiosa, burocratica, distratta. Non c’è uno, tranne i deputati dell’opposizione pure loro scoraggiati, che sollevi obiezioni, proponga alternative, faccia proposte.
Si capisce che in una condizione politica in cui la maggioranza governa coi numeri, e la maggioranza consiste esclusivamente nel capo-coalizione indiscusso del centrodestra, Berlusconi, Montecitorio finisca per mutarsi in un luogo inerte dove andare a deporre il voto, a far merenda o a tagliarsi i capelli, a telefonare gratis. Basta osservare i pochi o molti deputati presenti nell’aula: in genere leggono il giornale o altre pubblicazioni, attivano il cellulare («Io sto qua, voi che fate?»), si esaminano le unghie delle mani con estrema attenzione, combattono coi polsini della camicia sempre troppo lunghi o troppo corti. Ma come fanno? Come non si annoiano a morte? Non si sentono umiliati dal dire sempre di sì? Non si vergognano di fare poco, di dipendere, di condurre una vita apparentemente vuota, di non manifestare in alcun modo il proprio pensiero, la propria personalità, le scelte proprie? Non li esaspera che a dar loro voce siano quattro pupazzi, sempre quelli, che ripetono alla tv sempre la stessa cosa?
Brutta storia, e non sembra derivare soltanto dalle continue votazioni di fiducia con cui il governo elimina ogni protesta, ogni dibattito. È la vitalità che manca, il senso di rispetto per il proprio incarico; come una coltre, domina il grande sonno italiano. da lastampa.it
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« Risposta #28 inserito:: Gennaio 22, 2009, 03:31:32 pm » |
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22/1/2009 - PERSONE Domande nel cuore d'inverno LIETTA TORNABUONI Nel cuore nero dell’inverno non c’è molto per tirarsi su, ma fortunatamente sfuggono (o vengono presto cancellate) anche certe dichiarazioni ufficiali. Il ministro degli Esteri Frattini, sempre così ben composto e ravviato, dichiara a esempio che a nome dell’Italia ha consegnato aiuti per la popolazione dopo la guerra sospesa di Gaza all’Onu e alla Croce Rossa, «ma non ad Hamas». Una simile dichiarazione sarebbe come dire che si consegnano aiuti all’Italia «ma non al suo governo Berlusconi». Come Berlusconi, Hamas ha vinto le ultime elezioni nel modo più democratico possibile, è un governo legale. Come quello di Berlusconi, il governo di Hamas può non piacere e venire accusato dei peggiori delitti compreso il terrorismo, ma questi sono giudizi politici. Se si dovesse valutare in base alle vittime della guerra di Gaza (oltre 1400 morti palestinesi, meno di 20 israeliani) chissà quali sarebbero i giudizi.
Alla fine, è vero che anche i primi governi fascista e nazista furono legalmente eletti, e acquistarono forza nel male anche dal rispetto europeo per la loro legittimità, il loro essere stati votati dai rispettivi elettorati, ma bisogna mettersi d’accordo: quando è illegittimo un governo eletto, quando non piace? cosa vale di più, i principii o il pragmatismo? E cos’è la democrazia, se va bene soltanto quando i suoi risultati hanno effetti apprezzati dalla comunità internazionale? E nel giudizio su un governo conta l’espansionismo e il voler stabilire un nuovo ordine mondiale, oppure no? Insomma, sono faccende troppo complesse per non rifletterci e non elaborare un pensiero comune, per affidarsi alle dichiarazioni del ministro degli Esteri.
Pure il presidente della Camera Fini ha dichiarato. Dice che ci vuole una legge, un decreto, un regolamento o un intervento delle forze dell’ordine che obblighi gli Imam a predicare nella moschea in lingua italiana. E perché? Per facilitare il lavoro a polizia o servizi segreti, per risparmiare sulle spese di traduzione? E la pretesa di far pregare in una lingua straniera si estenderebbe pure alle Chiese ortodossa e valdese, alle Sinagoghe? da lastampa.it
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« Risposta #29 inserito:: Gennaio 29, 2009, 11:08:12 pm » |
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29/1/2009 - PERSONE Se la battuta non è una battuta LIETTA TORNABUONI
Il presidente del Consiglio, per sostenere che contro gli stupri alle donne il governo non può davvero far niente, dice: «Dovremmo mettere un soldato a guardia di tutte le belle ragazze italiane». Gli uomini della sua scorta politica si precipitano in molti, con benevola indulgenza: è una battuta, al presidente piace alleggerire anche le cose più gravi, ama scherzare e anche per questo piace a tanti. Ma è una battuta? No. Non fa ridere, è grossolana e inopportuna come è capitato infinite altre volte. È un indizio: lascia pensare che nella mentalità del presidente lo stupro sarebbe una specie di omaggio alla bellezza, una sfrenatezza provocata dalla desiderabilità femminile.
Non l’avrebbe immaginato neppure Freud, che ha scritto le cose di meravigliosa intelligenza che sappiamo sui motti di spirito, la loro origine, le loro implicazioni, la loro significativa eloquenza. Il presidente potrebbe stare attento, frenarsi, rinunciare a volere far sempre lo spiritoso, rispettando il suo ruolo ed evitando di apparire come uno di quei nonni prigionieri del pensiero e del linguaggio ribaldo. Forse sarebbe pure consigliabile una maggior prudenza nell’uso dei sei telefonini che, dicono, si porta sempre dietro, due addosso e quattro affidati alla scorta fisica o all’auto.
Ma adesso la mancanza di rispetto per le parole è globale, quanto la trascuratezza verso il rapporto tra parole e realtà. Il ministro dell’Interno, di fronte alle violenze urbane, promette di raddoppiare il numero dei soldati in città. Non sono serviti a migliorare la sicurezza: li ritiriamo? Macché, ne mandiamo di più. Il ministro della Giustizia, di fronte alla sovrappopolazione carceraria, promette l’edificazione di nuove carceri. Andrà bene per i costruttori di galere, ma già quelle esistenti non hanno dato risultati: cambiamo sistema? No, moltiplichiamo le carceri. La presidente di Confindustria si rallegra perché l’accordo parziale sui contratti «elimina lo sbagliato conflitto» tra datori di lavoro e lavoratori. Ma se i primi non possono o non vogliono pagare di più, e i secondi non arrivano a campare, come può il conflitto naturale essere sbagliato?
da lastampa.it
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