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« inserito:: Novembre 27, 2007, 12:08:16 am » |
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26/11/2007 (8:49)
Quei tormenti minimalisti dell'Ora Blu Coppie in crisi a Los Angeles in "The Blue Hour" Storie di disperazione tra Oriente e Occidente.
Ayres cronista di passioni in "Home Song Stories"
LIETTA TORNABUONI TORINO
Cinema minimalista d’Occidente o d’Oriente e qualcosa di più. The Blue Hour (L’ora blu, ma anche «l’ora della malinconia») di Eric Nazarian, debuttante nel lungometraggio, armeno, cittadino americano, raccoglie in un quartiere popolare di Los Angeles attraversato da un fiume lurido, quattro piccole storie di strazio e passioni. Una writer tutta sola che sembra un ragazzo, disegna con le bombole sul lungofiume una bionda carina con un buco al posto del naso e una lacrima che goccia all’angolo interno dell’occhio. Il senzatetto investito e ucciso da un’auto in fuga era un professore di astronomia scomparso da anni. In una giovane famiglia, la bambina di quattro anni è morta per incidente: la madre sta male, il padre non sa cosa fare e beve, lei sparisce, lui la ritrova, forse sapranno riaversi. Un chitarrista nero visita all’ospedale la moglie, telefona al figlio perché venga e non riesce mai a parlargli; una mattina il letto è vuoto, è finita. Un ex militare della seconda guerra mondiale, vedovo, si alza al mattino, si lava e si veste con cura, esce zoppicando appoggiato al bastone, fa la spesa, poi va a far merenda disteso sul prato accanto a un tumulo di terra che è la tomba della moglie. I personaggi ogni tanto s’incrociano, sono testimoni della reciproca vita, ma a conoscerli è soltanto il regista: a Nazarian mancano l’ironia e la crudeltà di America oggi, ma racconta i suoi personaggi con affetto pietoso e sobrietà.
In un villaggio sulla costa della Malesia, devastato da una inondazione seguita da un’epidemia, un ragazzo e un uomo quasi vecchio che ha perduto tutto cercano di tirare avanti la loro povera vita tra il verde umido delle piante, l’acqua carica di detriti, i vizi invincibili, i sussidi governativi. Il ragazzo raccoglie per venderli i pesci fuor d’acqua, ancora boccheggianti, gioca alla lotteria, tende trappole agli animali del bosco (ci trova incastrato un bambino), vende una ragazzina ai ruffiani e poi se la riprende. L’altro getta nella spazzatura anche le ceneri della moglie morta nell’inondazione, ritrova vitalità andando con una prostituta, vede tra gli alberi la miracolosa immagine di un elefantino, tornando a casa trova un pulcino dal quale iniziare a mettere insieme un nuovo pollaio. The Elephant and the Sea (L’elefante e il mare) di Woo Ming Jin, 32 anni, malese di Ipoh, è un film sensibile, che oppone alla catastrofe pazienza e speranza.
Ma poi arriva in concorso The Home Song Stories (I racconti delle canzoni di casa) dell’australiano Tony Ayres, amore ardente, languido e rovinoso tra un marinaio australiano e una bellissima, fatale cantante di locali notturni a Hong Kong e allora si dimentica tutto il resto: tranne il fatto che il regista garantisce che la vicenda è vera, che ha coinvolto lui stesso e sua sorella fin quasi a morire, che era suo dovere raccontarla.
da lastampa.it
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« Risposta #1 inserito:: Dicembre 08, 2007, 05:17:22 pm » |
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CINEMA
Giochi proibiti
di Lietta Tornabuoni
Marianne Faithfull è Irina Palm, vedova ultracinquantenne che sbarca il lunario grazie alle sue mani abili e delicate...
Può essere un film patetico oppure un film sardonico, 'Irina Palm': a seconda degli umori dello spettatore. Al centro sta un esercizio sessuale forse davvero praticato o forse inventato dalla malignità del regista, che rappresenta nel settore il massimo della miseria: in un locale sessuale londinese, i clienti infilano il coso in un buco, dopo aver messo monete in una fessura; dall'altra parte della parete una persona li masturba senza parlare né lasciarsi vedere né fare alcun rumore; quando è finita, gli uomini vengono puliti coi fazzoletti di carta e se ne vanno.
Una vedova ultracinquantenne cerca lavoro o prestiti perché il proprio amato nipotino possa venir curato in Australia d'una rara malattia e rimanere vivo.
Quando a Londra, dopo tentativi falliti, vede il cartello 'Cercasi hostess', si presenta: viene a sapere che hostess è un eufemismo, deve mostrare le mani lisce, morbide e forti, viene assunta in prova. Si sforza di pensare che sia solo un impiego come un altro, sul lavoro porta un grembiule, si costruisce intorno un angolo famigliare con fotografie, fiori e centrini, più tardi legge.
Si rivela bravissima, si guadagna il nome allusivo ed esotico di Irina Palm, i clienti fanno la fila per lei, sullo sfondo la musica ripete l'ansimante ritmo coitale.
Il nipotino può andare a curarsi in Australia. Il figlio, che ha scoperto la sua attività, la aggredisce e insulta: ma poi si calma.
E lei, interpretata benissimo da Marianne Faithfull, migliora: non più una vedova provinciale perbenista, ma una donna libera, compassionevole, forse innamorata.
Irina Palm, di Sam Garbarski, con Marianne Faithfull
(06 dicembre 2007)
da espresso.repubblica.it
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« Risposta #2 inserito:: Aprile 17, 2008, 12:02:22 pm » |
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17/4/2008 Attenzione pochi partiti poco pensiero LIETTA TORNABUONI
Se uno ha il cellulare, da noi, non basta: ne compra altri, di altre forme e prestazioni, di altri colori (blu scuro, bianco, prugna, rosa). Se ha un’auto, lo stesso: ne è subito stufo, la cambia con un’altra, tanto per ogni modello ci sono tante varianti. Ogni vestito confezionato ha differenti tinte, bottoni, colletti. Ogni tipo di cibo ha caratteristiche diverse, è italiano oppure no, fatto con grano duro oppure no, mescolato a orzo e farro, da cuocersi in due minuti oppure no. E il caffè? Lungo, corretto, marocchino, con una goccia di latte, con zucchero, senza zucchero, sembra impossibile che così poco liquido consenta tante varianti. La medesima cosa succede per tutto: specialmente in Italia ma dovunque, il segreto del successo, il Bene è la diversificazione dei prodotti, la pluralità delle scelte possibili.
Soltanto nel pensiero o nell’agire politici non vale? Nei commenti postelettorali, è stato unanime il giubilo per la secca riduzione del numero dei partiti in Parlamento: tutti contenti, che bellezza, si risparmia e non si fa confusione, fantastico, i partiti erano trentanove e adesso sono sei o sette, è la gioiosa fine della frammentazione, degli accordi introvabili, di ciascuno che vuol dire la sua. Mah. Prima considerazione: da 39 a 7 (ammesso che le cifre siano esatte) è un’assoluta esagerazione, non può essere che il frutto di una insofferenza smaniosa, d’una pulsione modaiola oppure d’una vendetta antipolitica, d’una convinzione che condensare i voti sui due maggiori partiti fosse più utile. Seconda considerazione: quando, dei partiti sopravvissuti alla Camera e al Senato, uno conquista una maggioranza tale da consentirgli di fare quel che vuole, non siamo a una salutare riduzione del numero di partiti, ma al temibile partito unico.
Vantaggi pochissimi, dunque: e non si capisce perché rallegrarsene tanto. A una delle infinite discussioni postelettorali, uno degli uomini di Berlusconi, interrogato sulle prime mosse del nuovo governo, ha parlato candidamente di riforma della Costituzione e di federalismo fiscale. Si sa che Berlusconi desidererebbe diventare Presidente della Repubblica e che la Lega vorrebbe tenere al Nord le tasse raccolte sul territorio, quindi uno spasmo allo stomaco: rieccoli, con gli affari loro.
da lastampa.it
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« Risposta #3 inserito:: Aprile 24, 2008, 08:57:59 am » |
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24/4/2008 - PERSONE Politica in maniche di camicia LIETTA TORNABUONI Berlusconi ha portato camicia blu scura, quasi nera, con cravatta in tinta, e pazienza: è alla moda (a Milano la portano tutti i parrucchieri) e rétro, evocativa.
Sono più numerosi i candidati che durante la campagna elettorale per farsi fotografare o riprendere, per andare in mezzo alla folla, hanno rinunciato alla giacca per restare in maniche di camicia: per esempio Veltroni (raramente), Casini (camicia rigata aderente), Rutelli, persino Storace grosso com’è, pure il direttore del Tg1 Riotta (ampia camicia bianca alla maniera contadinesco-Dolce & Gabbana).
Niente di male, anzi: le maniche di camicia sono più giovanili, più disinvolte, eleganti e domestiche nello stesso tempo, da lavoratore e insieme in stile Kennedy.
Alle origini, invece, l’uso della camicia denotava una posizione antiborghese: le camicie brune di Hitler, le camicie nere di Mussolini, le camicie franchiste presenti pure in un inno («Cara al sol, camisa nueva»), le camicie dell’Unione Fascista inglese di Mosley, furono adottate per sottolineare una virilità semplice e combattente, antitetica rispetto agli usi del modo di vestire democratico dell’epoca.
Nel caso delle S.A. naziste, la camicia era addirittura una promessa di aggressività, una divisa da forzuti. Ma succedeva tanto tempo fa. Adesso le maniche di camicia conservano una punta di più mite atteggiamento antiborghese e insieme si ispirano alla praticità americana o giapponese, all’eleganza di chi è abbastanza ricco o potente da non essere costretto ad alcun formalismo.
È strano però che da noi la scelta della camicia sia stata dismessa appena si è arrivati al voto: come se la campagna elettorale fosse uno spettacolo per il quale si indossano adeguati costumi, un esercizio di seduzione, una cerimonia per la quale vestirsi in maniera particolare. Ecco allora cosa pensavano i candidati al mattino, preparandosi alla giornata politica: cosa mi metto?
da lastampa.it
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« Risposta #4 inserito:: Maggio 02, 2008, 10:51:16 am » |
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1/5/2008 - PERSONE Perché telefonare al vincitore? LIETTA TORNABUONI
Chi governa non vince le elezioni, nei periodi difficili: i bisogni e le aspettative degli elettori sono tali che nessuno riuscirebbe a soddisfarli. E per le sciocchezze? Alemanno quasi non era ancora sindaco di Roma, che Rutelli compunto annunciava in conferenza-stampa: «Gli ho già telefonato i miei auguri di buon lavoro». Aveva fatto lo stesso Veltroni vinto telefonando a Berlusconi vincitore: «L’ho chiamato per fargli gli auguri di buon lavoro». Ma perché telefonate? Per gentilezza, per amicizia? Per fare gli anglosassoni, per dimostrare fair play, per far sapere che mentre la sinistra sconfitta soffre voi pensate alla bella o brutta figura personale, per ostentarvi ancora una volta superiori dato che se aveste vinto voi Berlusconi o Alemanno mai vi avrebbero chiamato? Ma per cosa telefonate? Per etichetta, per formalismo?
Per gli elettori romani della sinistra, davvero la sconfitta è dolorosa. Sinora, negli anni della Repubblica, era successo che il sindaco di Roma fosse un uomo di destra: ma di quella destra democristiana composta e spietata, borghese. Roma era stata per vent’anni la sede di tutte le gerarchie e le istituzioni mussoliniane: i fascisti, palesi o occulti, nella città del dopoguerra restavano massa, prima di venir sostituiti dai democristiani. La destra neofascista era un’altra cosa. Accanto ai «fascisti in doppio petto» come il segretario Almirante: picchiatori, prepotenti, rissosi, tifosi, autori di irruzioni e peggio nelle feste popolari, maneschi all’Università e nelle scuole, scrittori sui muri di slogan raccapriccianti, portatori di emblemi nazi, sempre col braccio teso nel saluto romano.
Questi, davvero non erano mai arrivati al Campidoglio: però erano spesso testa a testa con la sinistra nelle elezioni cittadine. Persino adesso che «fascisti» è un termine più fuori moda che fuori tempo, adesso che sono passati tanti anni e i missini hanno cambiato nome e usi, l’avvento di Alemanno conserva per la sinistra romana qualcosa di allarmante, il suo benevolo proposito «Sarò il sindaco di tutti i romani» ha una sfumatura temibile. E tanti della sinistra patiscono pensando alle possibili conseguenze pratico-politiche e culturali: altro che telefonate.
da lastampa.it
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« Risposta #5 inserito:: Maggio 08, 2008, 06:44:34 pm » |
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8/5/2008 - PERSONE Dialogo diretto salvatutti LIETTA TORNABUONI Litigi e pastrocchi proprio come quando si formavano i governi democristiani; per contentare tutti, ministri e ministeri avrebbero dovuto essere almeno mille. Ci siamo abituati, ma per parlare d’altro non sarebbe stato meglio che, prima della scadenza del suo mandato alla fine di maggio o magari sin dall’inizio, il Commissario ai rifiuti De Gennaro avesse parlato con la gente delle difficoltà del suo lavoro? Non sarebbe meglio se fra cittadini e persone con incarichi specifici (anche ministri, si capisce) si stabilisse un nuovo tipo di comunicazione?
Adesso ci siamo presi il mònito internazionale con avviso di multa, i rifiuti cominciano a diventare un problema anche per Roma, una parte del Lazio ne ha già subìto l’invasione. Non solo non si sono ottenuti risultati, ma la situazione è peggiorata: e non stiamo qui a parlare dei danni disastrosi. La gente può pensare che il Commissario non abbia saputo fare nulla, non abbia potuto fare nulla; che sia pigro, insipiente, prigioniero. Sì, si son visti alla tv gruppi di persone opporsi alla costruzione o riesumazione di diverse discariche, si son visti costosi treni carichi di rifiuti in corsa verso la Germania che ne ricava bei soldi: ma cosa veramente sia accaduto non lo sappiamo. Se il Commissario, con pacatezza e precisione, ci avesse spiegato le sue difficoltà alla tv, almeno non penseremmo male delle istituzioni e di lui, non daremmo ragione a battutisti e qualunquisti.
Non si poteva instaurare con la gente un dialogo diretto, per niente lagnoso o disonorevole ma schietto, anche al di là dell’intervento dei media? Non si può ancora instaurare un rapporto vero, una occasione in cui i ministri e altri, a rotazione, rendono conto di quanto hanno fatto o non fatto? Ingenuità? Ammesso che sia sincera (vanterie e menzogne non servono a nessuno), non sarebbe un’iniziativa capace forse, se non è troppo tardi, di ravvicinare governanti e governati? Comunque, qualcosa di meglio dei redditi on-line, che sono falsi per natura: perché risalgono al 2005, perché le denunce dei redditi sono in maggioranza truccate e parziali. da lastampa.it
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« Risposta #6 inserito:: Maggio 14, 2008, 06:13:24 pm » |
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14/5/2008 - FESTIVAL DI CANNES Meno film, pochi party, stesso chic LIETTA TORNABUONI Film da libro, per cominciare: il 61° Festival s’inaugura con Blindness di Fernando Meirelles, tratto da Cecità di Josè Saramago (Einaudi). Una repentina epidemia di cecità colpisce la popolazione che perde la vista riuscendo a scorgere appena una coltre bianca, una parete lattea. I malati vengono chiusi in un manicomio abbandonato: ma aumentano ogni giorno, mancano cibo e spazio, la violenza si sfrena, la metafora si fa sempre più trasparente.
Molti altri film in concorso a questo Festival condensano un’angoscia simile, compresi i due italiani, Gomorra e Il divo, di Matteo Garrone e di Paolo Sorrentino, sulla camorra e sul declino della politica. Non capitava da molto tempo che ci fossero in gara per la Palma due nostri film: una delle ultime volte dev’essere stata nel 1972, quando La classe operaia va in paradiso di Elio Petri e Il caso Mattei di Francesco Rosi vinsero ex-aequo la Palma, mentre più tardi la Palma toccò a Padre padrone di Paolo e Vittorio Taviani nel ‘77 e a L’albero degli zoccoli di Ermanno Olmi nel ‘78. Non è il caso di preoccuparsi per l’immagine italiana: se si dovesse badare a cose simili, Stati Uniti e Inghilterra non avrebbero più alcuna immagine da un bel pezzo.
Non è neppure il caso di prendere la presenza di quei due film in concorso come una vittoria italiana, oppure come un segno di bella e fiorente produzione, oppure come un complotto antitaliano: simboleggiano nulla, semplicemente ci sono. Si può rallegrarsi perché sono molto belli, ma non rappresentano una tendenza né altro, soltanto la realtà che rispecchiano e i bravi autori che li hanno realizzati. Quest’anno al Festival? Meno film, meno feste, meno giornalisti, meno fan: logico, pure il Festival avverte la crisi economica occidentale.
Cannes riesce tuttavia a tenere alto il proprio prestigio: i nomi (le opere, si vedrà) dei partecipanti al concorso sono importanti e brillanti; non è male l’idea di celebrare i vecchi vincitori della Palma d’Oro e di risarcire gli autori dei film che non vennero proiettati nel dimezzato 1968; la Quindicina dei registi che festeggia quest’anno il quarantesimo compleanno è davvero una manifestazione parallela, offre un programma che il suo direttore Olivier Père definisce «radicale». Geograficamente parlando, il Festival è soprattutto sudamericano e belga più che americano o italiano.
Insieme con il prestigio va l’immagine del festival di Cannes, sempre splendente e radiosa anche col maltempo, fatta di cartelloni colorati, scollature, film, fiori, luci, odore di patate fritte e cerimonie, che neppure la implacabile (e benvenuta, almeno tutto funziona) routine riesce ad appannare.
da lastampa.it
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« Risposta #7 inserito:: Maggio 15, 2008, 11:12:31 am » |
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15/5/2008 - PERSONE Quali parole per dirlo LIETTA TORNABUONI Naturalmente, «dialogo» è la parola più in voga, ripetuta dai politici con insistenza e frequenza sospette, come un mantra inteso a invocare la fortuna e a calmare i nervi, come una preghiera: ma sono altre le parole che suscitano la massima sorpresa. Per esempio Fini, dicono, ha affidato a La Russa il ruolo di reggente del suo partito. Davvero? E chi è? Un sovrano, un imperatore, che può nominare un reggente? Non un sostituto, un vice, ma proprio un reggente, come i re? E il ciambellano cosa fa, s’è offeso, se l’è presa? E Vittorio Emanuele III, ex re d’Italia che nominò il figlio reggente o luogotenente, s’è rivoltato nella tomba? Qui si va perdendo la testa, o più semplicemente il senso delle parole.
Altra espressione interessante, il ministero della Semplificazione. Titolare a parte, è strano creare un ministero dedicato a una astrazione; è un po’ come fare il ministero della Disapprovazione o della Formalizzazione, della Lucidità, dell’Eleganza. Come potrà agire, questo ministro? Ficcandosi dappertutto a semplificare gli altri secondo il proprio criterio, indifferente alle competenze e ai settori? In questo caso, non potrebbe diventare un ministero dell’Intrusione?
Ma quello che più lascia stupefatti è il nuovo uso della parola «rispetto». Riassumiamo: alla televisione, Marco Travaglio espone alcuni fatti riguardanti il presidente del Senato. Apriti cielo. Grida alla mancanza di rispetto, rimproveri, richiesta di scuse ufficiali, minacce, scandalo, promesse di forte intervento contro la trasmissione «Che tempo che fa» e Fabio Fazio (luogo e conduttore dell’infamia). Il solito fiume torbido che accompagna i pretesti, anche se Travaglio ha sempre vinto ogni causa intentatagli, ha sempre detto e scritto fatti documentati e se i fatti in questione li ha già pubblicati in un libro senza la minima reazione. Ma in un libro va bene, tanto non lo legge che una trascurabile minoranza; alla televisione, no.
Ora, se quei fatti sono falsi si può querelare il falsario, e si vedrà. Se sono veri, da parte del presidente e di tutti sarà meglio lasciar perdere: non c’è alcuna mancanza di rispetto. Le cariche non garantiscono l’impunità, s’è visto mille volte. Montare una faccenda simile aiuta nel caso a pensare a uno strumentale attacco anti-Rai. Ricominciamo subito con le liste nere, le messe al bando, gli editti bulgari, le esclusioni, le persone da cacciare indicate col dito? da lastampa.it
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« Risposta #8 inserito:: Maggio 21, 2008, 05:50:53 pm » |
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19/5/2008 - CANNES Una terribile bellezza LIETTA TORNABUONI Bellissimo film in concorso, Gomorra di Matteo Garrone è parlato in dialetto con sottotitoli italiani:questo dà una sensazione remota. Come si sa, racconta la camorra nelle province di Napoli e di Caserta, ma la parola «camorra» nessuno la usa più:dicono piuttosto «il sistema»oppure dicono nulla, non servono definizioni. Le mafie italiane (informa Roberto Saviano, dal cui libro, edito da Mondadori con straordinario successo, è tratto il film) hanno un giro d’affari di 150 miliardi di euro l’anno: ad esempio, la Fiat ne fattura 58. La camorra ha ucciso 4 mila persone in trent’anni, più di ogni altra organizzazione criminale o terroristica. La camorra, nell’immensa ricchezza dei suoi investimenti diversificati, ha perfino acquistato azioni per la ricostruzione delle Torri Gemelle a New York e fa lavorare in nero per l’alta moda italiana tanto glamour.
Il regista (40 anni, romano,figlio di un critico teatrale, già pluripremiato per L’imbalsamatore e Primo amore) ha strutturato la sua opera magnifica e terribile in cinque storie: come i sei episodi di Paisà di Rossellini sull’Italia in guerra. Gli interpreti sono perfetti. In particolare, Toni Servillo, delinquente che tratta lo smaltimento illegale dei rifiuti tossici seppellendoli nelle campagne dove vivono i contadini,si ergono le ville dei boss, si coltivano le verdure cancerogene. Il film è nutrito di fatti realmente accaduti e che continuano ad accadere, di corpi morti, di soldi, di colpi secchi d’armi da fuoco, di addestramento criminale di ragazzini,di corridoi d’ospedale e di fatalità («Funziona così»). Termina sulla spiaggia, con due cadaveri di adolescenti che volevano essere indipendenti portati via lentamente da una ruspa, come un mucchio di sabbia. Così non si può dire che Gomorra sia grande ma senza cuore, che l’assenza di contrapposizione tra legalità e illegalità cancelli l’emozione: il film-analisi, il film d’antropologia sociale, vede tutto attraverso il linguaggio formale ed è anche questo a renderlo memorabile. da lastampa.it
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« Risposta #9 inserito:: Maggio 22, 2008, 10:21:56 am » |
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22/5/2008 - PERSONE Tolleranza zero che mistero LIETTA TORNABUONI A molti piace assai l’espressione «tolleranza zero ». Se la rigirano in bocca sentendosi onnipotenti, decisionisticomeunpreside innervosito: gente senza indulgenze, dura, implacabile quando è necessario, un po’ arrogante ma insomma ferma. Non si curano del fatto che si tratti di un’espressione americana tradotta malamente: anzi. Li fa sentire bene, persone che hanno trovato la soluzione. Permette di rispondere alle obiezioni con due parole spavalde come uno sparo che corrispondono a quel sentimento così attuale di impazienza verso i ragionamenti, di insofferenza alla riflessione.
Ad altri, invece, «tolleranza zero» non piace: pensano che sulla tolleranza (e non sulla durezza) si basi l’equilibrio precario del caoticomondocontemporaneo, che soltanto la tolleranza possa salvare dalle inevitabili migrazioni dei poveri nei Paesi dei ricchi, che la «tolleranza zero» sia una condanna per sé e magari per gli altri. A usare questa espressione in Italia e per l’Italia, poi, si sentirebbero ridicoli: come si fa a proclamare «tolleranza zero» quando ai poliziotti malpagati si negano anche pochi spiccioli di aumento e ogni motivazione o gratificazione, quando a Napoli e altrove ci sono migliaia di ordini di carcerazione da anni ineseguiti e ineseguibili, quando a certi Commissariati e Procure mancano pure i soldi per comprare la benzina e la carta, quando arrestare gli stranieri «colpevoli di immigrazione clandestina» vorrebbe dire (ammesso che gli arresti venissero eseguiti) devastare le nostre carceri già troppo popolate che avvicinandosi l’estate si preparano alle rivolte contro l’invivibilità, quando la comunità internazionale si risente e critica con severità? Sarebbe davvero meglio lasciar perdere, con l’assurda e militaresca «tolleranza zero», slogan usato per rigirare gli elettori di ieri e di domani, non calzante con alcuna condizione italiana.
Sarebbe meglio cambiare atteggiamento e spirito, neppure provare a confortarsi facendo la faccia feroce. Sarebbe meglio tentare le cose indispensabili con serietà, senza esibizioni di una forza che non si possiede, senza affidare i problemi a commissari soli e impotenti scaricandosi del peso di governare le situazioni più aspre, senza megalomanie, con concretezza e senza furie verbali: il guaio è che nonne sono capaci. da lastampa.it
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« Risposta #10 inserito:: Maggio 29, 2008, 05:04:57 pm » |
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29/5/2008 - PERSONE "Sono sereno" come mai? LIETTA TORNABUONI Pallidissimo, il prefetto di Napoli ripete: «Sono sereno, sono molto sereno». E come mai? Se non avesse pure guai giudiziari personali, dovrebbero bastare i guai di Napoli (rifiuti, ritardi, rivolta) a renderlo inquieto. Invece no: sereno. L’espressione (sono sereno, siamo molto sereni) è adesso la prediletta, è usata da Berlusconi e da tutti: concretamente indica la massima preoccupazione, ma in sede oratoria vuol dire «nulla al mondo mi turba». Ci sono altre parole per dirlo, però «sereno» ha in sé qualcosa di serafico, di calmo, di santa letizia o di temperamento chiesastico, che suona bene.
Non per gli ascoltatori, naturalmente. A quelli la serena impassibilità provoca invece esasperazione: ma come, noi non sappiamo più come cavarcela, siamo aggrediti dall’ansia e dall’insicurezza, e tu sei sereno? Come si potrebbe far capire ai politici questa reazione indispettita, questo senso di presa in giro? Ci sono poi persone a proposito delle quali la serenità non risulta credibile. Il ministro La Russa, per dire, col suo dinamismo verbale sulfureo e chiassoso; l’ex presidente della Camera Casini, con la sua eloquenza fluviale segnata da scoppi ed esplosioni vocali regolari; il ministro Tremonti, con i suoi toni monotoni e ostinati, un sussurro implacabile che non finisce mai; l’onorevole Di Pietro, con i suoi irritati accenti dialettali.
Dichiarare d’essere sereni non serve, soprattutto in questo periodo in cui l’azione di governare è un groviglio inestricabile: impossibile stabilire quale delle innumerevoli emergenze affrontare per prima, impossibile aver fiducia nella eventualità di risolvere anche problemi minori, impossibile fare qualcosa perché mancano i soldi così che quello che levi con la sinistra lo aggiungi con la destra, impossibile appagare i grandi desideri e bisogni dei cittadini. Impossibile anche tirare la gente dalla propria parte: ormai ha imparato i meccanismi, sa stare in guardia, è capace di rinfacciare il tradimento oppure l’alterazione delle troppe promesse, gli atteggiamenti da forzaioli senza forza. A pensarci bene, forse sarebbe più opportuno (e anche più schietto, meno provocatorio) dire, anziché «sono sereno», «sono preoccupato». da lastampa.it
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« Risposta #11 inserito:: Giugno 05, 2008, 10:22:14 am » |
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5/6/2008 - PERSONE Vacanze truffa della tv LIETTA TORNABUONI Personalmente non mi dispiace rivedere da ogni mese di giugno in poi l’ispettore Derrick, la Signora in Giallo, il cane poliziotto Rex. Anche se, come tutti, conosco le loro storie a memoria per averle viste e riviste da anni, sempre le stesse, i personaggi sono simpatici: Derrick ha una saggezza e un equilibrio un po’ noiosi ma rassicuranti; la Signora Fletcher (in Giallo) è intelligente, educata e ben pettinata; Rex è coraggioso, agilissimo e capisce tutto. Qualità che li rendono piacevoli. Naturalmente, a volte si ha nostalgia di qualcosa di nuovo: ma insomma meglio episodi vecchi e noti che niente.
Quello che davvero è impossibile capire è il ritmo delle vacanze tv. Quando arrivano gli ultimi giorni di maggio, comincia una vertigine di saluti, salutoni e salutini: dicono arrivederci Cominciamo bene e La prova del cuoco, dà appuntamento al futuro Che tempo che fa, rinviano a settembre Dimmi la verità e Ballarò, si sono già congedati Annozero e L’infedele, eccetera. Dove andranno? Come occuperanno quei mesi da giugno a settembre, o più spesso a ottobre? Possibile che, mentre le nostre vacanze si abbreviano spietatamente per mancanza di soldi (2 settimane, 10 giorni, 8 giorni), le loro consistano in quattro-cinque mesi, come le villeggiature dei bambini piccoli delle ricche famiglie ottocentesche? E perché riposano tanto a lungo, invece di dare aiuto ai telespettatori rimasti per forza in città, magari da soli o peggio circondati da un’intera famiglia innervosita dalla mancanza di vacanze? Non sarebbe, diciamo, un loro dovere sociale?
Al di là dell’etica, però, c’è un altro fatto: gli abbonati Rai pagano (quando lo pagano) l’abbonamento per 12 mesi l’anno, e ricevono invece intrattenimento, approfondimenti e spettacoli esclusivamente per 7-8 mesi. Per il resto, fondi di magazzino e repliche, i soliti vecchi Rex, Derrick e Signora in Giallo. Una vera truffa, si direbbe: come se il fruttivendolo ci obbligasse a pagare verdura e frutta anche per il periodo in cui sta chiuso per ferie. Perché, per fare giustizia, non pagare parte dell’abbonamento con soldi falsi oppure fotocopiati? da lastampa.it
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« Risposta #12 inserito:: Agosto 07, 2008, 09:33:20 am » |
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7/8/2008 - PERSONE Da capo signori da capo LIETTA TORNABUONI Votate in fretta e furia l’aritmetica oracolare del ministro Tremonti, l’ossessione numerica del governo, si può ricominciare: «Da capo, signori, da capo», come chiede il maestro direttore alle prove d’orchestra. Da capo la smania di doppiezza, di essere nello stesso tempo due cose contrastanti: Italia di guerra e pace, di lotta e di governo, di solidarietà e intolleranza. Il ministro degli Esteri viene incaricato d’assicurare una modesta ma ufficiale presenza all’inaugurazione delle Olimpiadi di Pechino; la meglio gioventù di destra (Gasparri, Meloni) incita gli atleti a fare gesti simbolici (alla Bossi, si suppone) d’ostilità alla Cina irrispettosa dei diritti umani e come gli Stati Uniti indulgente alla pena di morte, «un gesto, un nastro, un’assenza, un pugno chiuso, qualcosa che sappia esprimere il dissenso». Fini si tiene in bilico («i nostri atleti saranno certo in grado di esprimere»), Frattini si offende perché così la sua presenza verrebbe sminuita, gli atleti dicono di no. Un pasticcio. Pensassero piuttosto alle ripassate internazionali che ci siamo presi per via del trattamento riservato ai rom.
Da capo con l’abitudine di scaricare su qualcun altro (commissario straordinario o simili) le responsabilità che il governo non riesce a fronteggiare: il pacchetto sicurezza consiste soprattutto nell’affidare ai sindaci compiti che sarebbero della polizia, nell’inventare per i soldati doveri che sarebbero dei carabinieri, nell'attribuire a Bertolaso ogni lavoro per l’eliminazione dei rifiuti in Campania (compito terrificante e infatti inadempiuto). Sempre pronti a tendere il dito accusatore e a precisare: «Quello non era compito del governo. Noi non c’entriamo, glielo avevamo detto di sistemare l’annosa faccenda della prostituzione o dell’accattonaggio». Quanto ai soldati usati come forza d’ordine pubblico, sono uno dei principali incubi dei sinceri democratici: i soldati sono volontari, non li puoi sbattere qua e là; distribuire soldati nelle grandi città spopolate dalla piena estate è assurdo; persino la memorabile volta precedente, soldati armati durante il rapimento di Moro, queste forze servirono a nulla, come adesso serviranno per pura mostra, per far vedere che il governo ci pensa. Speriamo che l’estate finisca presto, che l’inverno non sia peggiore. da lastampa.it
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« Risposta #13 inserito:: Agosto 14, 2008, 07:55:14 am » |
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14/8/2008 - PERSONE Te ne vai alla prima che mi fai LIETTA TORNABUONI Otto operai a Genova sono stati licenziati da Trenitalia perché si facevano timbrare il cartellino da un collega, e qualche giornale li prende anche in giro: «Sgominata la banda dei fannulloni». Si poteva forse multarli, sospenderli o altro, ma no: licenziati. Otto licenziamenti operai, otto famiglie repentinamente sul lastrico, otto esperti del lavoro da sostituire con otto dilettanti, non sono una piccolezza. Specie quando si pensa all’assetto storicamente stabilito tra lo Stato o le aziende statali e i loro dipendenti.
C’è sempre stato, tra questi elementi, un tacito accordo: io ti pago poco, tu lavori poco. Era un accordo tra poveri, tra uno Stato squattrinato e lavoratori senza soldi, che danneggiava soltanto i cittadini, gli utenti. E’ stato rispettato per decenni senza che nessuno intervenisse a modificarlo: nemmeno i sindacati che avrebbero potuto essere un po’ più lungimiranti. Somigliava un po’, questo accordo, alle pensioni di invalidità, per scarse che fossero: si sapeva che tanta gente, soprattutto nel Sud, riceveva pensioni di invalidità senza averne davvero il diritto, ma si sapeva anche che, al di là del clientelismo, quelle piccole somme aiutavano a sopravvivere gente che non ce l’avrebbe fatta.
Queste cose i governi le hanno sempre sapute: non hanno avvertito alcuna urgenza di correggerle, e hanno fatto male. Adesso arrivano governanti alla padrone delle ferriere, i castigamatti, i punitori, gli inflessibili: e, come se il passato non esistesse né fosse mai esistito, picchiano in testa. Si capisce che usi come quelli citati debbono venir modificati, scomparire; ma non a forza di urlacci, insulti, facce feroci, minacce. Bisogna valutare con umanità le situazioni, riequilibrarle con saggezza sociologica: e non fare i padroncini alla signor Bonaventura, «Alla prima che mi fai / ti licenzio e te ne vai».
da lastampa.it
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« Risposta #14 inserito:: Agosto 21, 2008, 11:01:28 am » |
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21/8/2008 - PERSONE Stangata schizofrenica d'autunno LIETTA TORNABUONI Sembra di avvertire una sfumatura di golosità nelle sciagure preventive che si annunciano: in autunno le famiglie italiane vedranno aumentare le proprie spese di 600 euro l’anno (o di mille euro, di ottocento, di milleduecento), in autunno stangata garantita, in autunno costeranno di più elettricità, gas, alimentari. Senza parlare di cose meno strettamente necessarie come i telefonini (aumento del 60%?): il meccanismo è classico, prima diffondi a buon mercato un oggetto o un’abitudine, poi di colpo ne moltiplichi il prezzo, così la gente o paga qualsiasi cifra oppure s’immerge nella disperazione.
Cosa può fare chi non ci arriva anche senza questi aumenti? Logica e buon senso consiglierebbero di ridurre il proprio tenore di vita o di lavorare e guadagnare di più per far fronte alle nuove difficoltà: ma il lavoro non c’è, i guadagni sono insufficienti e già è stato intaccato fortemente il valore d’acquisto di stipendi e salari. Una forma continuamente crescente di schizofrenia: i prezzi crescono; i redditi s’immiseriscono; la forbice s’allarga sempre più; la gente non sa come fare, s’indebita insopportabilmente, mangia alle mense della carità oppure va ad accrescere il numero dei cittadini del Paese dei ladri.
In una simile situazione senza uscita, il governo si conserva remoto, distratto, quando non progetta alcune mancette: mance agli impiegati statali zelanti o ai bravi studenti (quelli con la media dell’8: vogliamo scherzare?), bonus per i neonati pure (che degnazione) di colore, sovvenzioni agli amici benintenzionati, premi ai fedeli, sempre all’insegna del motto «Si dice e non si fa». Al massimo, lamentarsi perché gli impoveriti non consumano, perché le aziende non producono e non vendono, perché gli arricchiti non continuano ad arricchire, perché «l’Italia è ferma».
È un comportamento che non ha nulla a che vedere con l’estate né con l’inverno, né tanto meno con l’autunno: il dovere di pensare alla cittadinanza è qualcosa che non dovrebbe seguire l’andare delle stagioni. da lastampa.it
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