COMBATTERE LA VERGOGNA CON IL SILENZIO È ANCORA BUONA COSA (BRIZZI E BOSCHI)?
MICHELE FUSCO
11 dicembre 2017
Uno dei grandi temi di questa epoca ha una tale profondità da rivestire persino un tratto estetico: come potersi difendere da un’infamia che in un certo momento della vita ci si rovescia addosso. Come viverla nel tempo, soprattutto, in attesa di una risoluzione giudiziaria che magari costerà anni e anni di tribunali. E se invece nessun giudice togato si esprimerà, resterà scolpita solo la ghigliottina di un tribunale del popolo? Non vi paia uno sfregio alla logica, ma qui paradossalmente importa ben poco la «verità» vera di tutta la questione e cioè se il soggetto sia effettivamente colpevole o innocente. Qui il centro è proprio un altro e riguarda semmai il tempo infinito dell’attesa, in cui la sentenza di colpevolezza è già stata emessa da giornali e dalla gente cosiddetta comune. Ecco, come si deve vivere quel tempo, come lo si deve vivere da “innocenti” perché, innocenti o colpevoli che siamo, nessuno di noi ammetterà mai d’aver compiuto qualcosa di riprovevole. Ammesso che qualcosa di riprovevole si sia compiuto. Spesso in questi casi si evoca il garantismo come ombrello protettivo di tutte le coscienze. Io sono garantista, ci si proclama così in genere nei salottini medio-buoni, evocando Enzo Tortora al minuto sette della prima discussione. Ma che cosa vuol dire in concreto? Spesso il garantismo c’entra nulla con quelle storiacce che hanno come interlocutore-avversario solo il sentimento comune. Prendiamo le molestie di casa Italia, che recentemente hanno portato un certo regista sulle prime pagine.
Che cosa ha a che fare il garantismo con la storia amara di Fausto Brizzi? Probabilmente non ci sarà un processo, non saranno interessate le istituzioni, magistrati non interverranno, dunque nulla che riconduca a “rigorosa osservanza della garanzie giuridiche a tutela dell’individuo sottoposto ad azione penale”. Il garantismo qui è solo un bellissimo concetto, espresso a sproposito. In questi casi, senza avvocatoni e super magistrati di mezzo, l’uomo comune riprende pienamente la sua personalità, senza mediazioni culturali imposte dall’alto, di chi spesso utilizza la cultura come medium sbilanciato per la formazione del consenso. Siamo finalmente soli a combattere le dicerie o piuttosto a dar seguito alle malevolenze più bieche. È una fatica improba a cui il semplice cittadino è chiamato nella pienezza dei suoi mezzi intellettuali: formarsi un’opinione personale sulla base non di carte giudiziarie e di soloni che le interpretano, ma “semplicemente” di sensazioni, del passaparola di amici e conoscenti, di ciò che raccontano i giornali, insomma quel tanto di strapaesano cha va maneggiato con moltissima cura. È un vero percorso ad ostacoli che merita la fatica del dubbio, anche se il trascinamento verso il basso sarebbe l’operazione più a buon mercato e più comoda. Bene, fatta la fatica, allora sì, la si potrà far valere nei luoghi deputati alle discussioni (famiglia, bar, ufficio, stadio, amici, gite fuori porta, ecc.). Non è un po’ riprendersi la radice della nostra vita sociale, senza indottrinamenti esterni?
Parimenti fondamentale è l’estetica dei comportamenti delle persone attraversata da un incubo mediatico e sociale. Non c’è una sola via e nessuno può dire con certezza quale sia quella più giusta. Certo fa impressione quando i soggetti investiti da uno scandalo scelgono (o forse è una vera costrizione) di eliminarsi dalla scena sociale, letteralmente spariscono, si autoeliminano fidando sul tempo che stinge ogni cosa e ogni cosa fa dimenticare. Due casi recenti, quello appunto del regista Brizzi e l’altro del papà di Maria Elena Boschi, qualcosa pur ci dicono. Il regista, accusato di molestie da un certo numero di soggetti, non è più mediatamente raggiungibile. Persino chi vi scrive lo ritrovava agevolmente la mattina in un certo bar di Roma, tal Settembrini, dove amava ricevere collaboratori o bere un caffè con la compagna. Ora è sparito, c’è chi lo dà chiuso in casa, patito e sofferente. Giusto una foto rubata per strada, mentre cammina con moglie e figlia (si è rasato la barba, come per una modesta trasformazione estetica). Da quando è scoppiato lo scandalo, le uniche parole le ha affidate al suo avvocato per declinare ogni responsabilità in merito ai racconti delle attrici che lo accusano. Ciò su cui ci si interroga è se esista anche un’altra via per mostrare la propria innocenza, per gridarla al mondo, per ristabilire l’ordine naturale della propria vita di persona perbene. E non può essere un tribunale perché probabilmente non ci saranno processi giudiziari. Dunque restano solo le mani nude, resta solo la voce. Rispetto alle accuse, che sono terribili, la risposta di sparire è di per sé, per l’opinione pubblica, una parziale ammissione di colpevolezza. Non sostenere la vergogna, non presentarsi con la propria faccia, non controbattere colpo su colpo, tutti indizi che portano a un convincimento “inevitabile”. Sarebbe ingeneroso – volendo credere alla versione di Fausto Brizzi – immaginarne uno scatto in avanti, un’uscita dal ghetto in cui si è rinchiuso, sarebbe pensabile di chiedere proprio a lui di urlare la proprio innocenza sulla pubblica piazza, incatenandosi fino alla fine delle forze, opponendo semplicemente la forza di sé stesso a tutto ciò che di terribile vogliono attribuirgli?
E così per Pier Luigi Boschi, padre di Maria Elena. L’impressione di vedere un signore settantenne che, fuori dalla propria casa, scappa incappucciato da un giornalista è stata davvero molto forte. Il padre di una importante carica dello Stato che nasconde il volto, la nostra parte più giudiziosa da opporre alle maldicenze del mondo. Che cosa si oppone tra il vergognarsi così platealmente e il rivolgere al cronista qualche semplice, gentile, ma altrettanto ferma parola di non disponibilità al dialogo? È così insostenibile assumere su di sé il peso di una disciplina comportamentale ed estetica che consentirebbe agli “esterni” di apprezzare magari il decoro con cui una certa personalità affronta le difficoltà della vita sociale? Si badi bene, qui non si chiede ai vari soggetti interessati di rispondere a domande, di dare qualsivoglia spiegazione al primo giornalista che passa. Per carità. Il diritto a non dir nulla è sacrosanto. Però, un’altro modo di stare al mondo dovrà pur esistere.
Marco Pannella ci ha raccontato perfettamente che una certa forma di violenza su di sé, da lui sempre professata e applicata, è stato il modo più efficace per cercare di “imporre” un diritto che in quel momento non era ancora tale. Forse si rendeva lucidamente conto che in questa società battersi per un diritto prelude a un combattimento molto aspro, in cui le regole non sono affatto definite. Si giocherà sporco, sapendolo. Crediamo che oggi, battersi per la propria innocenza richieda uno scatto in avanti (estetico e di contenuti) che possa contemplare dignità e provocazione.
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