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Autore Discussione: Enrico Deaglio. E qui ha portato il suo "Harlequino, on to Freedom".  (Letto 1564 volte)
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« inserito:: Luglio 12, 2016, 11:51:18 am »

Tim Robbins, un rivoluzionario a Hollywood
Le carceri sono lo specchio delle diseguaglianze in America, dice.
E qui ha portato il suo "Harlequino, on to Freedom".
Che ora presenta al Festival di Spoleto. Lo abbiamo incontrato

Di Enrico Deaglio
23 giugno 2016

LOS ANGELES. Arlecchino – il «nostro» Arlecchino – si tocca perplesso la maschera e si interroga sulla sua pelle: è davvero nero ebano. E allora lui, chi è? Arlecchino è sempre stato un servo, da cinquecento anni. Ma forse invece è uno schiavo? E che differenza c’è? È solo nel salario? Uno schiavo può amare? O prima deve ribellarsi? Colombina, dal canto suo, sospira: «Quanta gente sta in prigione perché ha amato troppo».

Sto assistendo al nuovo spettacolo della compagnia di Tim Robbins, non siamo in molti in sala. Però chi vi assiste, non solo si diverte, ma viene coinvolto nella magia del teatro perché questo, alla fine, ripete la sua missione: dare grazia e nobiltà alla natura umana e alle sue passioni. Se è così, allora – è una delle domande cruciali – dove dovrebbe essere rappresentato il teatro? La domanda se la fece, ormai parecchi anni fa, una star di Hollywood e la risposta fu: chi davvero lo necessita sono le peggiori prigioni della California. E cosa dovrebbe essere l’ambizione ultima di un attore? L’applauso del grande teatro? Oh, no! Piuttosto, insegnare a recitare in una prigione di massima sicurezza; vedere un detenuto – un essere umano disumanizzato, privato delle sue emozioni, che non siano quelle della rabbia, del rancore, del sospetto, con il corpo tormentato da tatuaggi – diventare Arlecchino, danzare, fare lazzi, controllare ed esprimere i suoi sentimenti, pitturarsi la faccia, addirittura dialogare con un altro essere rinchiuso con cui fino a ieri ci si scambiava coltellate sulla via della doccia.
Tim Robbins, un rivoluzionario a Hollywood
Questo è il lavoro che da dieci anni ha scelto di fare Tim Robbins. Ed è il tema e il fascino di Harlequino, on to Freedom, scritto e diretto dal famoso attore e regista più a sinistra di tutta Hollywood. Con questa pièce, e con una rivisitazione del 1984 di George Orwell, Robbins e la sua Actor’s Gang (in inglese, ma comprensibile a tutti grazie alla grande invenzione dei supertitles, i veri globalizzatori dell’opera e della commedia) saranno la principale attrazione teatrale al prossimo Festival dei 2Mondi a Spoleto. E 2Mondi saranno davvero, perché i nostri giullari, la nostra Commedia dell’arte, le maschere e i costumi, il teatro che gli italiani avevano inventato cinquecento anni fa (e che cinquant’anni fa avevamo esportato nel mondo con Dario Fo e Franca Rame) ci ritorneranno improvvisamente addosso dal Nuovo Mondo che alle maschere aveva sostituito gli eroi di celluloide e il consumo di popcorn nell’oscurità.

Sarà un po’ diverso dall’Arlecchino cui siamo abituati: meno furbo, meno astuto, meno democristiano, più sofferente, più eroico. E anche Colombina sarà diversa: meno servetta, meno paciosa, decisamente più militante, in tema di diritto all’amore. Sulla scena duetteranno l’Inquisitore, il Dottore, Pantalone, il Capitan Spavento, cui la fidanzata si rivolge continuamente, in italiano, con un languido «O capitano, o capitano dai muscoli pettorali morbidi», Pulcinella, la Bella Vedova. Teatro classico, ma con musica folk e jazz; più un unicorno, una bella nel bosco, un gran balletto da musical di Broadway, canzoni, comizi e monologhi sulla libertà, la censura, il ruolo dell’arte, e diciannove bravissimi attori in scena. Gli stessi che, guidati da Tim Robbins e Sabra Williams – una eccezionale attrice shakesperiana londinese-caraibica – da dieci anni insegnano recitazione nelle carceri della California.

Decisamente romantico il posto in cui Arlecchino e Pulcinella hanno trovato la loro nuova vita. La Actor’s Gang ha sede in un edificio bianco degli anni Trenta, un’antica sotto stazione ferroviaria, a Culver City, un tempo povero quartiere di Los Angeles, ma alle spalle di Hollywood e accanto ai grandi studios. Il palcoscenico è per nulla tecnologico: assi che scricchiolano, pochi mezzi, i costumi di scena appesi sulle grucce nelle stanzette che fanno da uffici, un grande disegno autografato da Dario Fo intitolato Mistero Buffo sopra la scrivania del direttore Tim Robbins. E in effetti, l’atmosfera, per chi se la ricorda, è quella de La Comune, il famoso teatro politico milanese degli anni Settanta. Dappertutto, inviti pressanti a sostenere la candidatura a presidente di Bernie Sanders.

E altrettanto romantica, la storia di come la nostra Commedia dell’arte abbia trovato nuova vita in America. All’inizio c’è un ragazzo che respira musica fin da piccolo perché il padre, Gil Robbins, è un famoso cantante folk sulla scena del village newyorkese, uno di quelli che ebbero a che fare con Bob Dylan e Dave Van Ronk. Tim fa le sue prime esperienze con il teatro di strada, tendenza «provocazione sociale», siamo ai tempi del Vietnam. Poi il ragazzo si trasferisce a Los Angeles e con alcuni amici mette insieme una squadra di softball e una compagnia di teatro sperimentale, la Actor’s Gang. Nel 1984, anno delle Olimpiadi a Los Angeles (culmine del reaganismo, con l’Urss e tutto il blocco sovietico che boicottano i giochi) i nostri ragazzi restano affascinati da una compagnia teatrale francese, il Théâtre du Soleil, che ha portato in America uno Shakespeare rivisitato dall’aria di libertà del maggio ‘68 parigino.

Uno dei loro attori, Georges Bigot, sceglie di fermarsi dopo la tournée e comincia a lavorare con la Actor’s Gang: tema, l’origine del teatro moderno, ovvero la nostra Commedia dell’arte, dalla quale i nostri rimangono stregati. «Non solo ce la fece conoscere» dice ora Tim Robbins, «ma ci insegnò molte cose. All’epoca noi avevamo energia e anarchia, ma con Bigot abbiamo imparato il vero teatro: la disciplina, la regolazione delle emozioni, l’espressione di diversi gradi di verità, l’uso che si può fare della libertà. Ormai sono trent’anni che lavoriamo su quelle maschere, inventate cinquecento anni fa. Sono l’universo della compagnia: l’ufficiale codardo, il servo intelligente, il vecchio avaro voglioso di donne giovani, l’amante appassionato, sono diventati la nostra umanità e ci divertiamo a inserirli in un paesaggio, in una città mutevole. E abbiamo ammirazione per quegli attori che, secoli fa, in una geografia vaga, tra il nord Italia e la Francia, cominciarono a portare in giro le loro storie e così facendo, provocarono la rivoluzione dell’arte. Diffusero idee, ribellione raccontando le cose che vedevano intorno a loro, furono spesso degli eroi e dei precursori».
«Una delle cose che mi affascina di più» continua Robbins «è la fase primordiale di questo teatro, quella non scritta. Noi conosciamo i testi della Commedia, per come ci sono stati consegnati, in particolare da Carlo Goldoni, ma i giullari e le loro maschere esistevano già da due secoli: canovacci, improvvisazioni, flash mob. Recitavano agli angoli delle strade, trasportavano notizie. Non erano dei predicatori, non si potevano permettere di essere imprecisi o noiosi o saccenti. Non lo facevano per denaro, ma per piacere, si divertivano della vita. Raccontavano che cosa fanno i ricchi dei loro corpi e dei loro soldi, come sono trattati gli umili, la speranza di amore, le novità della scienza».

«Nel lavoro che oggi portiamo nelle carceri californiane e che vedrete a Spoleto, Arlecchino parla della differenza tra servo e schiavo, si chiede se viene dall’Africa, quanto il suo padrone l’abbia pagato, che cosa sono le monete del suo salario. Io credo davvero che i giullari facessero discorsi simili sulle piazze italiane del Cinquecento. Dalle ricerche storiche, sappiamo che all’epoca in Italia esistevano, accanto ai servi, anche gli schiavi – ci sono pitture di Arlecchino con la pelle nera – e, dunque: come sottrarsi al fascino di rivedere quel mondo trasportato nella nostra modernità, nell’ingiustizia razziale di oggi, nelle migrazioni di intere popolazioni che arrivano sulle spiagge d’Europa, nei neri che affollano le carceri americane? Per me, quell’antico modo di fare teatro è forse la forma più alta di tutta la libertà artistica.

E ricordiamoci che quei giullari venivano anche chiamati a corte – come in Francia perché il Re voleva sentire quello che diceva il popolo, ma poi decideva se mettere o meno una censura. E sappiamo che il Gonzaga, il duca di Mantova, fece uccidere gli attori perché si era sentito offeso o insultato dai loro discorsi. Sono tempi lontani? No, sono oggi. Oggi sono stati uccisi a Parigi i giullari di Charlie Hebdo, oggi il potere è sempre più intollerante, sia in America che sotto il Califfato».

Sarà il teatro a salvare il mondo? Saranno i libri e non le bombe? Saranno Arlecchino, Colombina e Pantalone, i non eroi, ma semplicemente esseri umani? Tim Robbins è convinto di sì. L’arte, alla fine, sarà quella cosa che salverà il mondo. E il teatro in particolare. Storia esemplare e unica, la sua. Hollywood gli ha dato parecchio, ma lui non la ama. è stato l’attor giovane, ingenuo e snello, che arriva come talentuoso, ma acerbo battitore nella squadra di baseball dei Bull Durham, e consegnato alle cure della superfan, una favolosa Susan Sarandon («ti conviene: tutti quelli che sono venuti a letto con me hanno migliorato il loro rendimento»), che diventerà sua compagna nella vita; è stato il sogno di tutti i prigionieri, il detenuto che evade con destrezza nelle Ali della libertà; è stato premio Oscar per il ragazzo seviziato in Mystic River di Clint Eastwood; è stato uno degli attori preferiti di Robert Altman e lui stesso poi il regista di quel capolavoro di Dead Man Walking, il film che ha davvero messo in discussione la pena di morte negli Stati Uniti. Oggi, a 57 anni è un massiccio gigante che mantiene le grazie dell’adolescente e una passione per un teatro povero, ribelle, libero.

Signor Robbins, qual è lo stato dell’arte oggi in America?
«Tragico. Tutta la produzione televisiva un tempo era in mano a 500 persone e ora a 12. E fanno a gara a proporre al pubblico il peggio della nostra natura: violenza, sopraffazione, razzismo. Il cinema ha perso coraggio e funzione: andarci è diventato una scusa per poter controllare la mail e mandare messaggi».

C’è qualcosa che salverebbe?
«Stewart, il suo show televisivo è vero teatro libero».

Lo spettacolo della politica?
«È osceno. Nessun politico ha grazia. Abbiamo un candidato a presidente, Trump, una persona che dice tranquillamente che vuole deportare dieci milioni di immigrati, che vuole costruire un muro con il Messico, che aizza alla pulizia etnica. Ci sarebbe da vergognarsi, e invece la televisione ce lo propone tutti i giorni. Ci fanno sentire i suoi comizi, intervistano i suoi sostenitori che vanno ai suoi comizi per “sentire la verità”. Ci dicono che è la risposta alla rabbia del popolo. Una rabbia di cui Trump si è preso il monopolio».

Come sarà il suo 1984 a Spoleto?
«La saga del potere, revisited. Orwell lo scrisse pensando a Stalin, col quale però noi eravamo alleati: l’Occidente, l’eurasia, il dominio del mondo, la riscrittura del passato. Nella nostra versione ci sarà, all’inizio, l’uomo incappucciato nella prigione di Abu Ghraib. Ci sarà la guerra che abbiamo fatto in Iraq, la più terribile nella storia dell’umanità. E di cui l’Isis è solo lo specchio postumo».

 Il teatro deve fare politica?
«Certo! Io l’ho sempre fatta. Il teatro è la politica. Vuol sapere perché andiamo a portare Arlecchino nelle prigioni? Perché sono lo scandalo della cosiddetta democrazia americana. Milioni di persone – negli ultimi trent’anni – in America, sono state arrestate, condannate, imprigionate solo perché erano povere, nere, ispaniche. Il sistema delle prigioni americane è ancora ispirato allo schiavismo: lo schiavo deve essere punito, terrorizzato. E così fanno ancora. Li hanno disumanizzati e, anche quando hanno finito la pena, hanno tolto loro il diritto di voto. Milioni di potenziali Arlecchini, davvero!  Ma sono anche fiero dei nostri risultati. I detenuti che hanno fatto teatro con noi sono diventati più forti, più empatici, più sicuri di sé, quando escono hanno il minor tasso di recidive, sono diventati più coscienti dei loro diritti».

Arlecchino, grazie. E grazie anche a Tim e Sabra Williams. Bella l’idea di giocare con la Commedia dell’arte nelle carceri. Se ha funzionato in America, chissà che effetti potrebbe avere in Italia, che la Commedia dell’arte l’ha inventata e in cui il carcere – invocato, temuto – è ormai parte integrante del nostro paesaggio.

(24 giugno 2016)

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23 giugno 2016

Da - http://www.repubblica.it/venerdi/interviste/2016/06/23/news/arlecchino_ha_le_ali_della_liberta_-142657402/
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