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Autore Discussione: Bambini lavoratori, se 12 ore vi sembran poche  (Letto 3418 volte)
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« inserito:: Giugno 19, 2007, 12:15:46 pm »

Bambini lavoratori, se 12 ore vi sembran poche

Manuela Trinci


Porta la divisa: cravatta, camicia bianca, grembiule blu e un berrettino sul capo. Il suo nome è Raùl, ha dodici anni e quello che per i «nostri» bambini spesso è un gioco condiviso col babbo o la mamma per lui è un lavoro: imbusta la spesa dei clienti in un supermercato. Poi li aiuta portare le borse nel parcheggio dove stazionano le auto, sperando in pochi pesos di mancia. Un lavoro comune a Monterrey (Messico). Così come comune è vedere ragazzini per le strade a vendere i giornali , oppure a lavare i parabrezza nel traffico o a smerciare gelati, tirando faticosamente il carretto, o a raccogliere, di notte, cartoni e cianfrusaglie. Nessuno si meraviglia.

Sono i figli di un dio minore, i condannati fin dalla nascita a essere forza-lavoro, braccia per sfamare altri fratelli, una madre sola, un patrigno perverso, il tutto in una spirale di povertà, analfabetismo e supersfruttamento. Si chiamano Juanito, Ignacio, Juan, Josefina, Jesùs, Poncho, Elisa, Tomas, Isela, Bertha, Paulita; hanno dieci, dodici, quindici, quattordici ma anche otto nove o cinque anni. A scuola per lo più hanno smesso di andarci presto, a malapena hanno fatto la seconda o la quarta elementare, e in altri casi progettano comunque di abbandonarla presto: la scuola è ingiusta e troppo esigente coi poveri. E sono pochi quelli che riescono a conciliare la necessità di lavorare con la voglia di studiare. Hanno ritmi massacranti. Lavorano dalle dieci alle dodici ore al giorno. Ma anche di più. Alcune ragazzine fanno le domestiche, altri puliscono le strade, o sono manovali nei cantieri edili, oppure operai negli altoforni, altri ancora hanno già intrapreso la via della devianza, spacciano e annusano colla, si prostituiscono e si scontrano con la giustizia prima di avere toccato la soglia dell’adolescenza. Sono l’immagine più debole di una città, di una delle tante città, dove la povertà parla infinite lingue.

E sono proprio le loro storie, le loro testimonianze di bambini e ragazzini lavoratori, ad essere state riprese e raccolte in un libro da Sandra Arenal - scrittrice messicana, donna di mille battaglie, impareggiabile «pasionaria» al sevizio dei più deboli - adesso pubblicato in Italia per i tipi della Zoolibri in collaborazione con Arci. Non c’è tempo per giocare, il titolo. Anzi, «non è più tempo di giocare», come sostiene Juan, «oggi sono altri tempi». In alcuni dei piccoli protagonisti è, infatti, forte la convinzione che dieci anni siano il traguardo, l’età giusta per inventarsi o cercare un lavoro, seppure a rischio di incidenti mortali, senza mutua, garanzie sindacali e col minimo del salario.

Pur di fuggire illusoriamente dalla miseria e da famiglie dove si vive a suon di sbornie, bastonate, schiaffi e soprusi morali, si diventa rapidamente «adulti». Basta qualche pesos in tasca per mangiare tostadas, comprare le scarpe da ginnastica e sentirsi uguali ai propri coetanei.

Adolescenti, alla fine, in cerca d’identità, forse così bisognosi di tutto da diventare acquiescenti e «buonisti» nei confronti di chi li sfrutta, forse talmente deprivati nei loro bisogni primari di bambini da rifugiarsi e riconoscersi in padroni che, anziché gioco e giocattoli, propongono loro sacche di cemento, sesso, pesticidi e droga. Ma è proprio nella ricerca, nel bisogno di una identità - bisogno che in filigrana traspare da ogni storia - che Sandra Arenal contrasta quella pericolosa «sociologia d’accatto» che oggigiorno tende a giustificare tutto: perché in terra di povertà, si pensa comunemente, non è data scelta.

Invece, in un mondo difficile, a volte feroce, per un giovanissimo l’identificazione è la ciambella di salvataggio, la bussola che indica la direzione. In questo senso il libro si apre alla speranza. I ragazzini, spiegava Winnicott, possono cogliere, anche in condizioni di estrema marginalità, il positivo della «scelta» se trovano, nel mondo che li circonda, un «modello» reale del quale fidarsi e al quale affidarsi. Allora, se Raymundo vuole diventare tecnico qualificato come il fratello, Salvador elettricista come il padre, Carlos ingegnere, se Elisa vuole uscire dal giro della prostituzione, e Nicanor continuare a andare a scuola nonostante le bocciature, vuol dire che anche i poveri possono ipotizzare, grazie a uno specchio di positive identificazioni, un altro modo di progettarsi nel futuro che non sia solo una dolorosa ripetizione del destino familiare.

A rendere più efficaci le storie raccolte da Sandra Arenal ci sono poi le preziose illustrazioni di Mariana Chiesa. Ogni bambino ha così un nome e un volto tratteggiato a matita. Un modo per uscire dall’anonimato delle grandi cifre alle quali di solito si affidano lo sdegno e il raccapriccio per il lavoro illegale dei minori. Quelli di Mariana Chiesa sono ritratti impietosi di un’età rubata, di un «sentimento dell’infanzia» negato. Grandi occhi mesti e pensosi si accompagnano a corpi piegati nel lavoro e a mani ossute, ossute come quelle dei grandi, o più piccole e morbide come quelle dei bambini. Mani sempre in primo piano, fattive: così è più chiaro che queste vite raccontate sono vite ingiuste, che devono pretendere un riscatto. «Children in the shadow», bambini nell’ombra, circa 250 milioni di sfruttati, nel mondo. Colpa della globalizzazione economica, colpa dell’iniqua distribuzione della ricchezza a livello mondiale ma colpa pure, sostiene Arenal, del silenzio grigio di tutti. Dell’incapacità di misurarsi, di mettersi in gioco con la «diversità», avviluppati come siamo in una cultura bambinocentrica, che fa di ogni bambino un prezioso sovrano da vezzeggiare coccolare e trattenere nell’infanzia il più a lungo possibile, tanto da renderlo un consumatore prima che possa permetterselo!

«Alla guerra contro i bambini», sostiene ancora Arenal, nessuno dovrebbe rimanere indifferente. Ma quel che serve per risvegliare le coscienze, era solito dire Don Milani, non è certo la carità pelosa della gente, servono, piuttosto tante «tentazioni». La sacra collera che porta all’indignazione è una di queste, affermava provocatoriamente. Ma non basta. E allora noi, come lui, come il parroco di Barbiana, scegliamo invece quella di obbedire a qualsiasi «tentazione» che possa semplicemente renderli bambini felici.


Pubblicato il: 18.06.07
Modificato il: 18.06.07 alle ore 8.42   
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