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Autore Discussione: FABIO MINI - Così è morto il maresciallo Paladini... un soldato nuovo.  (Letto 2565 volte)
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« inserito:: Novembre 25, 2007, 11:53:34 pm »

ESTERI IL COMMENTO

Un uomo cosciente, un soldato nuovo

Così è morto il maresciallo Paladini

di FABIO MINI *


ERA UN pontiere, il maresciallo Daniele Paladini ucciso dall'attacco di un kamikaze talebano a 15 km da Kabul. Doveva assistere alla inaugurazione di un ponte e per un pontiere era un lavoro normale, per quanto di normale ci possa essere nell'aprire un ponte in Afghanistan dove le sponde opposte da ricongiungere sono infinite e infinitamente lontane. Da sempe i pontieri del genio militare muoiono negli incidenti di cantiere. Gli elementi di ponte sono grossi, pesanti, basta un errore o il cedimento di un elemento e si può morire.

Il maresciallo Paladini sapeva che un infortunio era sempre in agguato. In guerra i pontieri muoiono difendendo le opere che hanno costruito, ed anche questo per Paladini era nell'ordine delle cose. Non aveva avuto bisogno che gli spiegassero che in Afghanistan c'erano la guerra e un "ponte" qualsiasi da difendere per percepire il rischio di morire. Si era accorto da solo che lì un soldato può morire per mano di qualcuno che non lo conosce, che non sa da dove viene e non sa nulla della sua famiglia. Qualcuno che non lo vuole nemmeno sapere e che per ucciderti è disposto a uccidersi.

Paladini, come tutti i soldati suoi compagni, sapeva che anche questo poteva succedere, si augurava soltanto che non succedesse a lui e che il dolore della sua scomparsa fosse risparmiato alla sua famiglia, alla moglie e alla sua bambina. Quello che Paladini non sapeva era che sarebbe morto da Eroe, salvando la vita a decine di altre persone, di afghani, di commilitoni e di altri bambini come la sua Ilaria.

Quello che non sapeva era che i suoi familiari si sarebbero comportati con eroismo di fronte al dolore. Che la sua Alessandra avrebbe accolto gli ufficiali del Comando Esercito della Liguria con la dignità e la compostezza che può avere soltanto chi è consapevole di essere improvvisamente diventata suo malgrado un simbolo ed un esempio per tutta una nazione disabituata alle tragedie di guerra e indifferente a quelle di pace. Ciò che non sapeva era che l'Esercito intero si sarebbe stretto attorno a lui e alla sua famiglia e che per lui i generali sarebbero andati in televisione una volta tanto disarmati di retorica, con il cuore gonfio di dolore, commozione e umanità.

Non sapeva, il maresciallo Paladini, che sarebbe stato un colonnello medico ad occuparsi del supporto psicologico alla sua bambina aiutandola a diventare grande in un solo pomeriggio di novembre senza traumi irreparabili, come spetta alla figlia di un Eroe. Tutto il resto sul quale si accendono le polemiche e le strumentalizzazioni, Paladini e i suoi commilitoni, soldati in prima linea in Afghanistan, a Kabul e a Herat, lo sapevano benissimo. Da tempo si erano accorti che il clima era cambiato; la gente aveva paura e loro stessi non si fidavano più della gente. Nuovi capi senza scrupoli si affacciavano alla ribalta della triste cronaca degli attacchi terroristici, nuove formazioni di ribelli e di combattenti del jihad confluivano nell'Afghanistan occupato, come sempre, da eserciti stranieri.

Nuovi signorotti della guerra brigavano per la spartizione delle risorse, del potere e della droga. La polizia e le forze armate afghane sembravano non solo impotenti, ma ad un tempo conniventi e vittime ignare degli attacchi. Portare aiuto e progettare la cooperazione con i civili era diventato un compito sempre più difficile. Far mantenere alla missione l'etichetta di "operazione di pace" era sempre più una questione di fede che di realtà: un'operazione di marketing. Era persino diventato impossibile distinguere i civili innocenti dai ribelli, gli amici dai nemici.

Contrariamente ad altri soldati che avevano ovviato all'inconveniente dell'incertezza sparando su tutti, Paladini e i suoi commilitoni avevano voluto sviluppare una nuova professionalità all'insegna della civiltà, affinando l'osservazione della gente, cogliendo nei volti, nell'atteggiamento e nell'abbigliamento di chi sta intorno i segnali impercettibili e facilmente confondibili del pericolo imminente. Un lavoro difficile, che richiede capacità, sangue freddo e coraggio. Un lavoro che può essere svolto soltanto dai soldati migliori impegnati in una guerra tanto sottile, subdola e strisciante quanto reale e violenta.

Ed è cogliendo uno di quei segnali che il Maresciallo Paladini e i suoi compagni Salvatore Di Bartolo, Stefano Ferrari e Andrea Bariani si sono avviati per bloccare un sospetto rimanendo coinvolti nell'esplosione suicida prima che essa coinvolgesse altre decine di innocenti. Paladini è morto da Pontiere, dando sicurezza ad un ponte che doveva rappresentare la ricostruzione e la voglia di comunicare e di muoversi liberamente da parte di un popolo afflitto dalla guerra e dal terrorismo.
Paladini è morto da Eroe perché si è sacrificato coscientemente salvando altre persone e combattento corpo a corpo con un nemico armato.

Per tutto questo l'esercito e l'Italia sono orgogliosi di lui e dei suoi compagni. Ma Paladini è morto anche da Soldato Nuovo: da soldato che ha adottato un modus operandi selettivo, che è in grado di osservare l'ambiente, di capire l'avversario e che sceglie coscientemente d'intervenire sul singolo piuttosto che sparare nel mucchio. E per questo la morte di Paladini è ancora più dolorosa e amara. Un Eroe è sempre una persona eccezionale e il vuoto che lascia è incolmabile, ma perdere in Afghanistan un Soldato Nuovo che agisce come un Uomo tra uomini è una vera tragedia. Per tutti.

* Generale, già comandante della K Force in Kosovo

(25 novembre 2007)

da repubblica.it
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