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Autore Discussione: Pablo NERUDA. Paolo Rabissi e Franco Romanò  (Letto 2315 volte)
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« inserito:: Novembre 04, 2017, 07:37:40 am »

Blog di poesie, poetica e pensieri critici intorno all'epica e al multiverso della poesia contemporanea, italiana e non.

A cura di Paolo Rabissi e Franco Romanò.
(Nelle sezioni Riflessioni, Testi Manifesti, Coralia, Multiverso e Contemporanea si entra scorrendo la home page o cliccando sulle intestazioni nella colonna a destra).

Giovedì 26 ottobre 2017

Pablo Neruda.

Evidenziamo anche in questa prima pagina, il nuovo contributo che pubblicheremo anche nella sezione TESTI MANIFESTI del blog, dove abbiamo già pubblicato Cesare Pavese, Vittorio Sereni e Derek Walcott. A loro si aggiunge adesso Pablo Neruda.

La recentinchiesta da parte di una commissione internazionale avvalora il sospetto, sempre avanzato dalla famiglia, di un suo avvelenamento da parte della dittatura di Pinochet. La verità si sta facendo strada e tanto più, allora, tenere viva l’attenzione su di lui e sulla sua grande poesia è necessario nei nostri tempi a rischio costante di deprivazione della memoria.

Dal Canto General: Alturas de Machu Picchu.
VI

Entonces en la escala de la tierra he subido
entre la atroz maraña de las selvas perdidas
hasta ti, Macchu Picchu.
Alta ciudad de piedras escalares,
por fin morada del que lo terrestre
no escondió en las dormidas vestiduras.
En ti, como dos líneas paralelas,
la cuna del relámpago y del hombre
se mecían en un viento de espinas.
Madre de piedra, espuma de los cóndores.
Alto arrecife de la aurora humana.
Pala perdida en la primera arena.
Ésta fue la morada, éste es el sitio:
aquí los anchos granos del maíz ascendieron
y bajaron de nuevo como granizo rojo.
Aquí la hebra dorada salió de la vicuña
a vestir los amores, los túmulos, las madres,
el rey, las oraciones, los guerreros.
Aquí los pies del hombre descansaron de noche
junto a los pies del águila, en las altas guaridas
carniceras, y en la aurora
pisaron con los pies del trueno la niebla enrarecida,
y tocaron las tierras y las piedras
hasta reconocerlas en la noche o la muerte.
Miro las vestiduras y las manos,
el vestigio del agua en la oquedad sonora,
la pared suavizada por el tacto de un rostro
que miró con mis ojos las lámparas terrestres,
que aceitó con mis manos las desaparecidas
maderas: porque todo, ropaje, piel, vasijas,
palabras, vino, panes,
se fue, cayó a la tierra.
Y el aire entró con dedos
de azahar sobre todos los dormidos:
mil años de aire, meses, semanas de aire,
de viento azul, de cordillera férrea,
que fueron como suaves huracanes de pasos
lustrando el solitario recinto de la piedra.
X.
Piedra en la piedra, el hombre, dónde estuvo?
Aire en el aire, el hombre, dónde estuvo?
Tiempo en el tiempo, el hombre, dónde estuvo?
Fuiste también el pedacito roto
de hombre inconcluso, de águila vacía
que por las calles de hoy, que por las huellas,
que por las hojas del otoño muerto
va machacando el alma hasta la tumba?
La pobre mano, el pie, la pobre vida...
Los días de la luz deshilachada
en ti, como la lluvia
sobre las banderillas de la fiesta,
dieron pétalo a pétalo de su alimento oscuro
en la boca vacía?
Hambre, coral del hombre,
hambre, planta secreta, raíz de los leñadores,
hambre, subió tu raya de arrecife
hasta estas altas torres desprendidas?

Yo te interrogo, sal de los caminos,
muéstrame la cuchara, déjame, arquitectura,
roer con un palito los estambres de piedra,
subir todos los escalones del aire hasta el vacío,
rascar la entraña hasta tocar el hombre.
Macchu Picchu, pusiste
piedra en la piedra, y en la base, harapos?
Carbón sobre carbón, y en el fondo la lágrima?
Fuego en el oro, y en él, temblando el rojo
goterón de la sangre?
Devuélveme el esclavo que enterraste!
Sacude de las tierras el pan duro
del miserable, muéstrame los vestidos
del siervo y su ventana.
Dime cómo durmió cuando vivía.
Dime si fue su sueño
ronco, entreabierto, como un hoyo negro
hecho por la fatiga sobre el muro.
El muro, el muro! Si sobre su sueño
gravitó cada piso de piedra, y si cayó bajo ella
como bajo una luna, con el sueño!
Antigua América, novia sumergida,
también tus dedos,
al salir de la selva hacia el alto vacío de los dioses,
bajo los estandartes nupciales de la luz y el decoro,
mezclándose al trueno de los tambores y de las lanzas,
también, también tus dedos,
los que la rosa abstracta y la línea del frío, los
que el pecho sangriento del nuevo cereal trasladaron
hasta la tela de materia radiante, hasta las duras cavidades,
también, también, América enterrada, guardaste en lo más bajo
en el amargo intestino, como un águila, el hambre?
VI

Allora sulla scala della terra sono salito,
tra gli atroci meandri delle selve perdute,
fino a te, Machu Picchu.
Alta città di pietra scalinata,
dimora  degli esseri che il terrestre
non poté celare nelle vesti assonnate.
In te, come due linee parallele,
la culla del tempo e quella dell’uomo
si dondolano in un vento di rovi.

Madre di pietra, schiuma dei condor.
Alta scogliera dell’aurora umana.
Pala sperduta nella prima spiaggia.
Questa fu la dimora, questo è il luogo:
qui salirono i grossi chicchi del granoturco
e scesero di nuovo come grandine rossa.

Qui la gugliata sfuggì dalla vigogna
per vestire gli amori, i sepolcri, le madri,
il re, le preghiere, i guerrieri.

Qui i piedi dell’uomo riposarono la notte
accanto ai piedi dell’aquila, nelle alte tane
carnivore, e all’alba
calpestarono con i piedi del tuono la nebbia rarefatta,
e toccarono le terre e le pietre
per poi riconoscerle nella notte e nella morte.
Guardo i vestimenti e le mani,
la traccia dell’acqua nella cavità sonora,
la parete addolcita al contatto d'un volto
che guardò con i miei occhi le lampade terrene,
che unse con le mie mani gli scomparsi legni:
perché tutto, vesti, pelle, vasi,
parole, vino, pani,
tutto scomparve e ritornò alla terra.

E l’aria calò con dita
di zagara sui dormienti:
mille anni di aria, mesi, settimane di aria,
di vento azzurro, di ferrea cordigliera,
trascorsi come soavi uragani di passi
a levigare il remoto recinto della pietra.

X.

Pietra sulla pietra, e l’uomo dov’era?
Aria nell’aria, e l’uomo dov’era?
Tempo nel tempo, e l’uomo dov’era?
Forse la particella infranta fosti
dell’uomo incompiuto, dell’aquila vuota
che sulle strade d’oggi, sulle orme,
che sulle foglie dell’autunno morto
si stritola l’anima fino alla tomba?
Povera la mano, il piede, la vita...
Forse i giorni di luce sfilacciata
in te, come la pioggia
sopra le banderillas della fiesta,
diedero, petalo a petalo, il loro cibo
oscuro alla bocca vuota?
Fame, corallo dell’uomo,
fame, pianta segreta, radice dei taglialegna,
fame, è salita la tua linea di scogli
sino a queste alte torri distaccate?

Io t'interrogo, sale delle strade,
mostrami il cucchiaio, lasciami, architettura,
raschiare con uno stecco gli stami di pietra,
salire tutti i gradini dell’aria fino al vuoto,
grattare le viscere fino a toccare l’uomo.

Macchu Picchu, posasti tu
pietra su pietra, e, alla base, stracci?
Carbone su carbone, e, al fondo, pianto?
Fuoco nell’oro, e, in esso, tremante,
il rosso grondare del sangue?
Ridammi lo schiavo che hai seppellito!
Rimuovi dalle terre il duro pane
dell’infelice,  mostrami le vesti
del servo, la sua finestra.
Dimmi come dormì quando viveva.
Dimmi se fu il suo sonno
rauco, socchiuso, come un buco nero
scavato dalla fatica sul muro.
Il muro! Dimmi se sopra il suo sonno
gravò ogni strato di pietra, e s’egli vi cadde sotto
come sotto una luna, col suo sonno!
Antica America, sposa sommersa,
anche le tue dita,
nell’uscire dalla selva verso l’alto vuoto degli dei,
sotto gli stendardi nuziali della luce e del decoro,
mischiandosi al tuono dei tamburi e delle lance,
anche, anche le tue dita,
quelle che la rosa astratta e la linea del freddo,
quelle che il petto sanguigno
del nuovo cereale trasportarono
fine alla tela di materia radiosa,
fino alle dure cavità,
anche, anche tu, America sepolta,
conservasti nel più profondo,
giù nell’amaro intestino,
come un’aquila, la fame?

*** 

Io sono il pellegrino
dell’Isola di Pasqua, il cavaliere
strano, a bussare vengo alle porte del silenzio:
uno in più di quelli che porta l’aria
saltando in un volo tutto il mare:
son qui, come gli altri pesanti pellegrini
che in inglese allattano e innalzano rovine:
egregi commensali del turismo, uguali a Simbad
e a Colombo, senza altra scoperta
che il conto del bar…»
da Gli uomini
                                                                                                  ***
Il Dittatore.
È rimasto un odore tra i canneti:
un misto di sangue e carne,
un penetrante
petalo nauseabondo.
Tra le palme da cocco le tombe sono piene
di ossa demolite, di ammutoliti rantoli.
Il delicato satrapo conversa
tra coppe, colletti e cordoni d'oro.
Il piccolo palazzo luccica come un orologio
e le felpate e rapide risate
attraversano a volte i corridoi
e si riuniscono alle voci morte
e alle bocche azzurre sotterrate di fresco.
Il dolore è celato, simile ad una pianta
il cui seme cade senza tregua sul suolo
e fa crescere al buio le grandi foglie cieche.
L'odio si è formato squama su squama,
colpo su colpo, nell'acqua terribile della palude,
con un muso pieno di melma e silenzio.
                                                         ***
Il Canto General è l’opera più importante di Pablo Neruda, un lunghissimo poema di cui sono riportate qui sopra la parte sesta e la decima della sezione Alturas de Macchu Picchu: la traduzione italiana è di Giuseppe Bellini. A queste due sezioni del poema aggiungiamo due brevi ma assai significative poesie. Lo riproponiamo oggi nella convinzione che in Italia il nome di Neruda sia ora caduto in oblio, come fu invece maggiormente celebrato proprio a cavallo degli anni sessanta e settanta per i Cento Sonetti d’amore e una canzone disperata, opera che – pur importante – ci sembra tuttavia più scontata e datata.
Originale nella sua ispirazione, il Canto si discosta dai modelli precedenti ed europei nel modo di considerare la natura come un soggetto ed un oggetto di poesia epica che precede la storia umana e che poi la incontra e la interroga. Per un europeo è un testo sorprendente, affascinante per la sua lontananza e tuttavia capace di toccare corde profonde, le cui radici si perdono in una memoria arcaica. Lo sguardo di Neruda è rivolto in due direzioni per noi fuori dal comune: le altezze vertiginose della catena andina e le estensioni altrettanto vertiginose dell’Oceano Pacifico. Non è un caso che la sua poesia si estenda e arrivi a comprendere nel suo abbraccio l’Isola di Pasqua, quel punto estremo del mondo, cui sono legati miti diversi dai nostri: Rapa Nui e le avventure ancestrali di un popolo che, imbarcatosi sulle canoe per quelle lontane isole, non poté tornare indietro per via delle correnti avverse. Il nostro oceano è quello Atlantico, che da Colombo in poi è lo è per modo dire, con il suo vai e vieni continuo; abitatissimo, nonostante la distanza e con il continente europeo che si espone molto in là verso il nord di quello americano. Il Pacifico è un’altra cosa. Da quelle altezze e lontananze che ispirano naturalmente anche alla devozione, Neruda sa tuttavia tornare al lavoro, alla terra che offre il suo cibo, quello povero in particolare, come avviene in un testo straordinario come l’Ode alla cipolla. 
Vi è però una seconda ragione che fa di Neruda un poeta diverso anche dagli altri del continente latino americano. Nonostante il suo rapporto d’amore viscerale con la Spagna della Repubblica, che lo vide fra i protagonisti di quella vicenda tragica, nel 1936, egli resta comunque meno europeo e più sudamericano di molti altri, forse di tutti, nonostante alcuni critici lo associno in qualche modo alla poetica surrealista; il solo che gli si può accostare, forse è il brasiliano Joao Guimaraes Rosa. Altri scrittori e poeti importanti di quel continente, hanno nell’Europa un punti di riferimento spesso decisivo, simile alla relazione che i primi poeti e narratori statunitensi avevano con l’Inghilterra o con Parigi agli inizi del ‘900 e che nel caso dei latino americani, gli argentini in particolare, è vivo ancora oggi. Neruda, invece, guarda il mondo dal suo continente e ne fa materia di una grande poesia epica. Anche la sua ostilità nei confronti del nord statunitense è diversa da quella di altri, a volte dettata da una rabbia subalterna, piuttosto che dalla sprezzatura di chi sa coltivare le proprie grandezze. La distanza dal mondo anglo-statunitense è, per queste ragioni, culturale prima che politica e precede la sua militanza comunista, che fu altrettanto intransigente. Lo testimonia il primo dei due brevi testi finali. Pellegrino umile e devoto verso l’isola di Pasqua, guarda di uno sguardo sprezzante i pesanti pellegrini inglesi che allattano e innalzano rovine   e i commensali del turismo. Infine la poesia di chiusura ci riporta alla tragedia della dittatura di Pinochet.

Segnalato da Franco Romanò (che ringrazio).
ggiannig

Da - https://diepicanuova.blogspot.it/2017/10/pablo-neruda.html?spref=fb
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