Il Presidente, un uomo solo al Quirinale
Pubblicato il 04/05/2018 - Ultima modifica il 04/05/2018 alle ore 10:59
MARCELLO SORGI
Il laconico comunicato con cui il Quirinale ha annunciato per lunedì un terzo giro di consultazioni, «per verificare se i partiti abbiano altre prospettive di maggioranza di governo», ha dato il senso di una condizione che è emersa via via più evidente dai meandri della crisi irrisolta. Mattarella è solo: venuta meno la solidarietà dei 5 Stelle, il Movimento che, paradossalmente, per tutta la durata delle trattative si era mosso più di sponda con il Quirinale, accettando il ruolo pedagogico del Capo dello Stato e lasciandosi in sostanza condurre per mano, la solitudine del Presidente si allarga in uno spazio senza confini, dove i partiti restano lontani e immobili, fermi nei loro veti.
Mai come stavolta il costituzionalista siciliano, ex ministro ed ex giudice costituzionale, cresciuto in una stagione di forti conflitti ma anche di solidi e radicati rapporti tra le forze politiche, s’era trovato a fronteggiare una situazione di incomunicabilità: e non perché i protagonisti della crisi non si parlino, o non si scambino proposte e ambasciate informali, o non facciano quel gioco di sponda tra parti del tutto che sempre è stato l’anticamera di ogni intesa. Si parlano, ma non si capiscono. E non si intendono perché appartengono ancora all’epoca maggioritaria del «tutto o niente».
E non hanno né voglia, né capacità di adattarsi ai compromessi tipici della partitocrazia proporzionale. Nessuno dei predecessori di Mattarella ha dovuto scontare fino a tal punto questa difficoltà. Cossiga no: pur trasformatosi in «picconatore», nei giorni della rottura con la Dc trovò l’appoggio di Craxi; e neanche Scalfaro, che dovette fronteggiare l’ondata distruttiva di Tangentopoli e quella arrembante del berlusconismo; né Ciampi, chiamato a convivere con le più discutibili scelte dei governi guidati dal Cavaliere, ma al quale non mancò mai la solidarietà del centrosinistra; né Napolitano, chiamato a cimentarsi con il Parlamento dei «non vincitori».
Invece, sull’attuale inquilino del Colle, per primo è sceso il gelo del suo (ex) partito, con il pesante silenzio di Renzi, sia nell’ultima stagione della sua segreteria, quando il motivo della rottura è stato la riconferma del governatore di Bankitalia Visco, sia dopo la sconfitta che lo ha portato a rinunciare - solo formalmente, a quanto sembra - alla guida del Pd. Ma un Capo dello Stato che non possa contare neppure sul sostegno di chi lo ha voluto al Quirinale, che sente sprezzantemente definire «collisti» i vecchi amici della Margherita che lo cercano per recargli conforto, che addirittura si vede additato come stratega-ombra di un complotto che avrebbe dovuto portare al governo Di Maio-Pd, non può che essere amareggiato, e per forza di cose indebolito, dal comportamento dell’ex premier, oggi senatore di Firenze e Scandicci, che dovrebbe essere suo naturale interlocutore.
Quanto al rapporto con i 5 Stelle, e segnatamente con il capo politico e candidato premier del Movimento, il Presidente, alla luce del sole, è partito dall’idea che i «grillini», fin qui emblema del populismo e dell’antipolitica, dopo il risultato elettorale che li ha confermati prima forza politica per consensi, con il voto di un italiano su tre, dovessero essere ricondotti nell’alveo di un normale confronto politico e costituzionale. Questo sarebbe potuto avvenire solo riconoscendogli piena dignità nelle trattative per il governo, e chiedendogli altrettanto piena disponibilità a non impuntarsi sui veti. Tra Mattarella e Di Maio, insomma, non è mai esistito un patto per portare il capo politico pentastellato alla presidenza del consiglio. In un certo senso, il Presidente s’è comportato come Moro, che considera suo maestro, e non diceva mai né di sì né di no. Il risultato finale del negoziato su cui è piovuta la doccia fredda televisiva di Renzi si sarebbe visto alla fine di un lavoro che, necessariamente, non sarebbe stato né breve né facile, e alla fine avrebbe anche potuto concludersi con Di Maio al governo, in un ruolo di primo piano, ma magari non a Palazzo Chigi, insieme a una delegazione ministeriale rappresentativa del peso elettorale dei 5 Stelle.
Il Capo dello Stato si era comportato allo stesso modo nei giorni in cui sembrava che dovesse maturare l’accordo tra Di Maio e Salvini, poi tramontato, dopo l’esplorazione della Casellati, per la pregiudiziale antiberlusconiana dei 5 Stelle. E mentre con Berlusconi - al di là del teatrino inscenato nelle consultazioni, mentre parlava il leader leghista alla prima uscita pubblica del centrodestra unito -, se non altro, s’è ristabilito un rapporto di reciproca comprensione, dopo la fredda accoglienza accordata tre anni fa alla sua elezione, tra Mattarella e Salvini non è rimasto nulla, oltre all’indispensabile formalità che richiede di fingere di aver dimenticato i numerosi attacchi del Carroccio al Colle.
Con questo non certo ingente, nel complesso, patrimonio di rapporti, il Presidente si avvia a sedersi di nuovo lunedì davanti alle delegazioni dei partiti. Cercherà di fare della solitudine la sua forza, mettendoli di fronte alle loro responsabilità e prospettandogli il bivio finale a cui è giunta la crisi: o accettano un governo d’emergenza, che metta mano ai problemi economici insorgenti e rassicuri i partners europei, o dovrà necessariamente por fine alla farsa e alla tragedia di questa legislatura nata morta.
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