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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 287037 volte)
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« Risposta #645 inserito:: Aprile 25, 2018, 04:23:52 pm »

Il rischio di tre temibili conseguenze

Pubblicato il 24/04/2018 - Ultima modifica il 24/04/2018 alle ore 16:58

MARCELLO SORGI

Senza voler essere pessimisti a tutti i costi, il mandato esplorativo al presidente della Camera Fico, per approfondire l’ipotesi di una maggioranza tra 5 Stelle e Pd, rischia di essere dirompente come e forse più del precedente, appena concluso, dalla presidente del Senato. Se l’effetto dell’esplorazione della Alberti Casellati, infatti, è stato l’esplosione del centrodestra - che poi ha miracolosamente, e un po’ misteriosamente vinto le elezioni in Molise l’altro ieri, e risulta ben piazzato anche per domenica prossima in Friuli - le conseguenze prevedibili del nuovo compito affidato al primo inquilino di Montecitorio sono tre, una più temibile dell’altra.

La prima, emersa subito, anche prima che Fico annunciasse il calendario dei suoi colloqui, è un’altra, simmetrica deflagrazione, questa volta del Pd. Cioè del partito che, giova ricordarlo, per tutta la campagna elettorale era stato additato da Di Maio e dal suo stato maggiore, premiati con il 32 per cento dell’elettorato, come causa di tutti i mali, ruberie bancarie e non, e accaparramenti di poltrone, da battere e da condannare con il voto. E adesso, solo poche settimane dopo, viene presentato come partner naturale del contratto di governo che dovrebbe portare lo stesso Di Maio a premier.

I renziani, non a caso, hanno già fatto capire di non aver alcuna intenzione di stringere con il Movimento, e visti i numeri su cui possono contare al Senato, si può già dire che una maggioranza o un governo con queste due gambe non riuscirebbe a camminare. Inoltre non è impossibile che uno dei più brillanti esponenti del partito o del più largo campo del centrosinistra se ne esca obiettando che con Di Maio non si può fare, ma con Fico, che è stato ribattezzato di sinistra anche oltre le sue stesse intenzioni, invece si potrebbe.

Con il bel risultato - e sarebbe la seconda conseguenza - di provocare una reazione contrariata quanto legittima del capo politico pentastellato, che ricorda continuamente di aver raccolto undici milioni di voti sulla propria candidatura a Palazzo Chigi. E pur fidandosi pienamente dell’amico che ha appena innalzato sullo scranno più alto della Camera, non accetterebbe una tale eventuale conclusione dell’esplorazione, che potrebbe far pensare, magari non a lui stesso, ma a qualcuno di quei militanti che hanno scritto sul Blog delle stelle che Fico esploratore è «la rovina del Movimento», che il presidente della Camera voglia lavorare per sé.

La terza conseguenza, più che verosimile, annunciata, è che la sola ipotesi - al momento fuori dalla realtà - di un’intesa 5 Stelle - Pd spinga Di Maio e Salvini, veri soci mancati della non-vittoria del 4 marzo e del non-governo di questi due mesi di trattative infruttuose, ad adoperarsi in ogni modo affinché il loro asse, già pieno di crepe, non si spezzi. Qualcosa hanno già cominciato a fare in serata (Salvini annunciando anche, con toni non proprio concilianti, una manifestazione a Roma), a riprova che l’incubo della convergenza a sorpresa dei due maggiori avversari dell’ultima campagna elettorale è destinato a turbare le loro notti insonni.

È inutile nascondersi, poi, che la somma di queste conseguenze - che speriamo non si verifichino tutte e tre insieme - sarebbe esiziale anche per l’ultima scialuppa che dal Quirinale, e dalla nave impazzita della politica italiana, ci si stava apprestando a calare in mare, malgrado la tempesta non accenni a placarsi, per consentire al Paese una navigazione d’emergenza, difficile quanto si vuole ma necessaria, per i prossimi mesi, in attesa che la guerra di tutti contro tutti si plachi, o che, ultimati gli adempimenti più urgenti, gli elettori debbano malauguratamente essere richiamati alle urne. Aspettarsi un gesto razionale o una prova di generosità da chi ha già ricominciato la campagna elettorale non è logico. Lo stato d’animo sconfortato ed esasperato che il presidente Mattarella ha lasciato trapelare in queste ore, per l’irresponsabilità dei partiti sordi a qualsiasi richiamo, è del tutto motivato. Tra un po’, altro che scialuppe: siamo al si salvi chi può.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/04/24/cultura/il-rischio-di-tre-temibili-conseguenze-JJwW1yDPdsp3fkv2nudryK/pagina.html
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« Risposta #646 inserito:: Maggio 01, 2018, 12:11:47 pm »

All'orizzonte si profila il ballottaggio

Pubblicato il 01/05/2018 - Ultima modifica il 01/05/2018 alle ore 07:44

MARCELLO SORGI

Dai risultati del voto regionale in Friuli arriva una spinta molto forte verso nuove elezioni anticipate, un rischio mai escluso, del resto, nei due mesi di inutili trattative per il governo dopo il 4 marzo. È abbastanza semplice capire perché, sebbene le dimensioni esigue della consultazione locale, rispetto alla posta in gioco nazionale, non siano paragonabili. 

Pesa ovviamente di più l’inconcludenza del negoziato, la liturgia, incomprensibile ai più, delle consultazioni e delle esplorazioni, la mancata nascita del governo dei (non) vincitori, i tentativi confusi di mescolare, nella stessa improbabile maggioranza (che mai s’è manifestata come tale), il più radicale movimento d’opposizione premiato con il primo posto in termini percentuali con il maggior partito (ex) di governo, uscito sconfitto dalle urne. L’insieme di questi fattori s’è tradotto così nel voto dei cittadini del Nord-Est. 

La Lega ha stravinto, trainando dietro di sé anche gli alleati Forza Italia e Fratelli d’Italia, incoronando nuovo governatore della regione Massimiliano Fedriga, fino a qualche mese fa capogruppo salviniano del Carroccio alla Camera, e confermando definitivamente Salvini leader di tutta la coalizione. Il Pd, che aveva fino a ieri l’amministrazione del Friuli, ha perso, collocandosi più o meno ai livelli delle politiche e un po’ meglio come centrosinistra. Il Movimento 5 Stelle è crollato al di sotto di ogni possibile previsione negativa, al punto da far pensare a una diserzione del temuto esercito dei suoi militanti, demotivati dal pendolo di Di Maio tra centrodestra e Pd. 

Se ne ricava che finisce qui la serie di tentativi di fare un governo mettendo insieme due delle tre forze politiche protagoniste del voto di due mesi fa. Salvini adesso è il meglio piazzato per una nuova tornata elettorale che il suo rivale/alleato Di Maio, augurandosi che si possa tenere entro giugno, ha già definito il «ballottaggio» del 4 marzo. Il leader leghista non ha ceduto alle sirene pentastellate che lo allettavano con un ruolo di primo piano al governo se solo avesse lasciato per strada Berlusconi e Meloni, e s’è invece aggrappato con tutte le sue forze all’alleanza di cui è divenuto padrone. Inoltre il fallito dialogo tra M5S e Pd gli ha fornito un argomento prezioso per la prossima campagna elettorale. Potrà ben dire: noi avevamo vinto, abbiamo cercato un compromesso per dare un governo al Paese, ma il regime ce lo ha impedito proponendo un inciucio tra il movimento del finto cambiamento di Di Maio e il Pd dei passati governi rifiutati dagli elettori. Ora ci servono i voti che mancano per governare davvero.

Anticipato da Grillo, che sempre lo precede quasi ad autorizzarlo, Di Maio aveva già deciso la svolta pro-elezioni, dopo aver sentito Renzi in tv far saltare il confronto con i 5 Stelle di cui il Pd s’apprestava a discutere nella direzione convocata il 3 maggio. La doccia fredda dei risultati del Friuli lo ha vieppiù indirizzato verso il voto. La solidarietà ricevuta da Di Battista, leader dell’ala autenticamente movimentista, sta a significare che il capo politico e mancato premier del governo del cambiamento avrà bisogno di un aiutino per riciclarsi, dalla sonnolenta tattica «democristiana», com’è stata impropriamente definita nelle ultime settimane, alla caffeina della prossima campagna elettorale. Dirà anche lui: eravamo i vincitori, ma il regime ci ha messo i bastoni tra le ruote; pur consapevole che dell’odiato regime, per otto lunghe settimane, è apparso un esponente di primo piano, in giacca e cravatta istituzionale.

Quanto al Pd, peggio di com’è messo, non potrebbe. Gli manca un leader, un condottiero adatto a guidarlo nell’estrema battaglia che lo aspetta, questione di vita o di morte. Il ritorno in campo televisivo di Renzi può significare che il leader dimissionario è pronto a riprendersi il suo posto, se il Pd accetterà o si arrenderà al suo ritorno, o a fondare un suo nuovo partito, sulle macerie di quello moribondo, per tentare una rivincita, al momento assai improbabile.

Resta da dire di Mattarella: ha fatto tutto il possibile, finora, per cercare di riportare alla ragionevolezza partiti e movimenti assurdamente convinti che il 4 marzo fosse solo il primo tempo di un regolamento di conti epocale, e subito proiettati verso il secondo turno, che da ieri invocano a gran voce. Con la stessa legge elettorale e senza neppure la possibilità di tentare di riformarla, all’ombra di un governo chiamato a sbrigare gli affari più urgenti, è alto il rischio che il prossimo risultato non si discosti molto dall’esito sterile dell’ultima volta, precipitando l’Italia in una condizione a metà strada tra la Spagna e la Grecia di questi ultimi anni. Non di semplice scioglimento delle Camere, si tratterebbe, in quel caso: ma di dissoluzione.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/05/01/cultura/allorizzonte-si-profila-il-ballottaggio-ksthsZMRckvKh2xnLgV5eJ/pagina.html
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« Risposta #647 inserito:: Maggio 06, 2018, 06:29:46 pm »

Il Presidente, un uomo solo al Quirinale

Pubblicato il 04/05/2018 - Ultima modifica il 04/05/2018 alle ore 10:59

MARCELLO SORGI

Il laconico comunicato con cui il Quirinale ha annunciato per lunedì un terzo giro di consultazioni, «per verificare se i partiti abbiano altre prospettive di maggioranza di governo», ha dato il senso di una condizione che è emersa via via più evidente dai meandri della crisi irrisolta. Mattarella è solo: venuta meno la solidarietà dei 5 Stelle, il Movimento che, paradossalmente, per tutta la durata delle trattative si era mosso più di sponda con il Quirinale, accettando il ruolo pedagogico del Capo dello Stato e lasciandosi in sostanza condurre per mano, la solitudine del Presidente si allarga in uno spazio senza confini, dove i partiti restano lontani e immobili, fermi nei loro veti.

Mai come stavolta il costituzionalista siciliano, ex ministro ed ex giudice costituzionale, cresciuto in una stagione di forti conflitti ma anche di solidi e radicati rapporti tra le forze politiche, s’era trovato a fronteggiare una situazione di incomunicabilità: e non perché i protagonisti della crisi non si parlino, o non si scambino proposte e ambasciate informali, o non facciano quel gioco di sponda tra parti del tutto che sempre è stato l’anticamera di ogni intesa. Si parlano, ma non si capiscono. E non si intendono perché appartengono ancora all’epoca maggioritaria del «tutto o niente».

E non hanno né voglia, né capacità di adattarsi ai compromessi tipici della partitocrazia proporzionale. Nessuno dei predecessori di Mattarella ha dovuto scontare fino a tal punto questa difficoltà. Cossiga no: pur trasformatosi in «picconatore», nei giorni della rottura con la Dc trovò l’appoggio di Craxi; e neanche Scalfaro, che dovette fronteggiare l’ondata distruttiva di Tangentopoli e quella arrembante del berlusconismo; né Ciampi, chiamato a convivere con le più discutibili scelte dei governi guidati dal Cavaliere, ma al quale non mancò mai la solidarietà del centrosinistra; né Napolitano, chiamato a cimentarsi con il Parlamento dei «non vincitori».

Invece, sull’attuale inquilino del Colle, per primo è sceso il gelo del suo (ex) partito, con il pesante silenzio di Renzi, sia nell’ultima stagione della sua segreteria, quando il motivo della rottura è stato la riconferma del governatore di Bankitalia Visco, sia dopo la sconfitta che lo ha portato a rinunciare - solo formalmente, a quanto sembra - alla guida del Pd. Ma un Capo dello Stato che non possa contare neppure sul sostegno di chi lo ha voluto al Quirinale, che sente sprezzantemente definire «collisti» i vecchi amici della Margherita che lo cercano per recargli conforto, che addirittura si vede additato come stratega-ombra di un complotto che avrebbe dovuto portare al governo Di Maio-Pd, non può che essere amareggiato, e per forza di cose indebolito, dal comportamento dell’ex premier, oggi senatore di Firenze e Scandicci, che dovrebbe essere suo naturale interlocutore.

Quanto al rapporto con i 5 Stelle, e segnatamente con il capo politico e candidato premier del Movimento, il Presidente, alla luce del sole, è partito dall’idea che i «grillini», fin qui emblema del populismo e dell’antipolitica, dopo il risultato elettorale che li ha confermati prima forza politica per consensi, con il voto di un italiano su tre, dovessero essere ricondotti nell’alveo di un normale confronto politico e costituzionale. Questo sarebbe potuto avvenire solo riconoscendogli piena dignità nelle trattative per il governo, e chiedendogli altrettanto piena disponibilità a non impuntarsi sui veti. Tra Mattarella e Di Maio, insomma, non è mai esistito un patto per portare il capo politico pentastellato alla presidenza del consiglio. In un certo senso, il Presidente s’è comportato come Moro, che considera suo maestro, e non diceva mai né di sì né di no. Il risultato finale del negoziato su cui è piovuta la doccia fredda televisiva di Renzi si sarebbe visto alla fine di un lavoro che, necessariamente, non sarebbe stato né breve né facile, e alla fine avrebbe anche potuto concludersi con Di Maio al governo, in un ruolo di primo piano, ma magari non a Palazzo Chigi, insieme a una delegazione ministeriale rappresentativa del peso elettorale dei 5 Stelle.

Il Capo dello Stato si era comportato allo stesso modo nei giorni in cui sembrava che dovesse maturare l’accordo tra Di Maio e Salvini, poi tramontato, dopo l’esplorazione della Casellati, per la pregiudiziale antiberlusconiana dei 5 Stelle. E mentre con Berlusconi - al di là del teatrino inscenato nelle consultazioni, mentre parlava il leader leghista alla prima uscita pubblica del centrodestra unito -, se non altro, s’è ristabilito un rapporto di reciproca comprensione, dopo la fredda accoglienza accordata tre anni fa alla sua elezione, tra Mattarella e Salvini non è rimasto nulla, oltre all’indispensabile formalità che richiede di fingere di aver dimenticato i numerosi attacchi del Carroccio al Colle.

Con questo non certo ingente, nel complesso, patrimonio di rapporti, il Presidente si avvia a sedersi di nuovo lunedì davanti alle delegazioni dei partiti. Cercherà di fare della solitudine la sua forza, mettendoli di fronte alle loro responsabilità e prospettandogli il bivio finale a cui è giunta la crisi: o accettano un governo d’emergenza, che metta mano ai problemi economici insorgenti e rassicuri i partners europei, o dovrà necessariamente por fine alla farsa e alla tragedia di questa legislatura nata morta.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/05/04/cultura/il-presidente-un-uomo-solo-al-quirinale-cE5ydleTIDuiiztiMd5p0N/pagina.html
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