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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 252241 volte)
Arlecchino
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« Risposta #630 inserito:: Agosto 27, 2017, 09:11:47 pm »

Il partito unico dei condoni

Pubblicato il 24/08/2017

MARCELLO SORGI

È inutile rimpiangere o versare lacrime da coccodrillo: siamo un popolo di abusivi. E abbiamo avuto e continuiamo ad avere una classe dirigente - non tutta ma neppure esclusivamente locale, come quella di Ischia e della Campania - che in nome della «necessità» ha incoraggiato e legittimato l’abusivismo negli ultimi trent’anni e più, dal 1983, quando il governo Craxi annunciò per la prima volta un decreto per rilegittimare le costruzioni abusive, con l’obiettivo di risanare, almeno in parte, i conti pubblici, a oggi. 

Se poi di condono in genere, e non solo edilizio, si vuol parlare, si può risalire indietro di altri dieci anni, al 1973 del IV governo Rumor che varò una delle tante sanatorie fiscali (allora non c’era la fantasia di definirle «scudo»). Di lì in poi, la cadenza subì un’accelerazione: 1982, governo Spadolini e nuovo condono per gli evasori; 1985, entrata in vigore del già citato provvedimento del governo Craxi; 1991, nuova sanatoria fiscale del VI governo Andreotti; 1995, doppio condono, edilizio e fiscale, del governo Dini; 2003, nuova doppietta, stavolta di Berlusconi, che replica nel 2009 con la norma per agevolare il rientro dei capitali, cosiddetti «scudati», illecitamente portati all’estero.
 
Complessivamente, secondo un calcolo della Cgia di Mestre, giudicato ottimistico da altri osservatori tecnici, i condoni di qualsiasi tipo degli ultimi tre decenni avrebbero portato nelle casse dello Stato 104,5 miliardi di euro, meno di quanti ne sottragga (anche in questo caso la stima è limitata) l’evasione fiscale in un solo anno. A conti fatti, un pessimo affare, anche se c’è chi dice, non si sa se per celia o sul serio, che bisognerebbe aggiungere, ricalcolandolo in valuta di oggi, il ricavato in sesterzi del primo, primissimo condono, voluto nel 119 dopo Cristo dall’imperatore romano Adriano. 
 
Ma al di là della convenienza economica inesistente per i governi, e dei rischi per le popolazioni di abitanti di case edificate illegalmente, in spregio alle più elementari regole di sicurezza, è interessante anche ricostruire la genesi politica di questo genere di provvedimenti, varati sempre senza quasi opposizione - anzi, in una sorta di regime di unità nazionale - e riproposti, rimodellati e ampliati localmente, come appunto è accaduto in Campania per la legge del governatore De Luca (impugnata dal governo Gentiloni di fronte alla Corte Costituzionale) e come stava per accadere in Sicilia per le case al mare costruite sulla battigia. Se si esclude una piccola pattuglia di coraggiosi giornalisti come Antonio Cederna, Mario Fazio, Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo, associazioni povere di mezzi come, ma non solo, Italia Nostra, e i Verdi, ma non tutti, nessuno ha fatto battaglie vere contro l’abusivismo. Ai tempi dello storico decreto Nicolazzi - il ministro dei Lavori pubblici di Craxi che concepì la prima sanatoria nazionale e ne reiterò il decreto per 21 volte, anche per dilatarne i tempi di efficacia -, in Parlamento, formalmente, si opponeva il Pci. 
 
Ma nelle piazze era il sindaco comunista di Ragusa Paolo Monello a guidare le manifestazioni degli abusivi «per necessità». Monello, antesignano dell’esponente marxista leninista Gennaro Savio - che portò in piazza 600 dei 27 mila abusivi di Ischia nel 2010, minacciando di far saltare le elezioni regionali e ottenendo dall’allora ministra Mara Carfagna e dal candidato, poi eletto governatore della Campania, Stefano Caldoro la promessa di un nuovo decreto per bloccare le demolizioni - era stato il primo a coniare gli slogan più espliciti e efficaci della lotta contro l’antiabusivismo, tipo «Il popolo costruisce, il governo demolisce», oppure «No all’adeguamento antisismico», che sarebbe quasi un invito al suicidio legalizzato, stando ai terremoti verificatisi, dopo Belice, Friuli e Irpinia, nel periodo successivo, dall’Umbria all’Abruzzo al Centro Italia, con migliaia di vittime, senza-tetto e case crollate anche con scosse di media entità, alle quali, come a Ischia, avrebbero dovuto invece resistere.
 
Nell’isola ultima colpita da un sisma, dal 1981 al 2006 sono stati costruiti oltre centomila vani abusivi; nel solo 2004 e soltanto nel Comune di Forio sono stati sequestrati 200 cantieri fuorilegge; una famiglia ischitana ogni 2,5 (in pratica quasi tutte, considerando cuginanze e parentele di secondo grado) ha chiesto il condono. Nel resto d’Italia nei quindici anni tra il 1982 e il ’97 i nuovi manufatti abusivi sono stati quasi un milione (970 mila). Un’enormità del genere non ha eguali in Europa, forse perfino nel mondo.
 
E dopo il pentapartito e i comunisti negli Anni Ottanta, i marxista-leninisti nei Novanta e il centrodestra all’inizio del millennio, sono ora i 5 stelle, in Sicilia, a unirsi al partito unico nazionale dell’abuso. Lo ha fatto, pur vantandosi di aver fatto prima demolire una palazzina da 700 metri quadri di un mafioso, il sindaco stellato di Bagheria Patrizio Cinque, autore di una delibera comunale che tenderebbe a dare abitabilità provvisoria alle costruzioni abusive occupate per necessità; e lo hanno fatto, negli stessi termini, il candidato governatore M5S della regione Giancarlo Cancelleri, spalleggiato dall’aspirante premier Luigi Di Maio, negli stessi giorni in cui il sindaco Angelo Cambiano, l’unico a battersi davvero per l’abbattimento delle orrende villette costruite sulla spiaggia siciliana di Licata, veniva fatto fuori in consiglio comunale da una maggioranza trasversale e riceveva la solidarietà dei comici Ficarra & Picone, protagonisti del film «L’ora legale» che sembra una parodia della sorte del primo cittadino, ma è stato notevolmente superato dalla realtà. Così che non c’è alcun dubbio sul fatto che - chiunque vinca le regionali del 5 novembre - il prossimo condono partirà dalla Sicilia. 

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Da - http://www.lastampa.it/2017/08/24/cultura/il-partito-unico-dei-condoni-N3pe8GG9g0Cljw1hbwyRkK/pagina.html
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« Risposta #631 inserito:: Ottobre 05, 2017, 11:11:48 am »

La zampata di D’Alema sul governo

Pubblicato il 04/10/2017
MARCELLO SORGI

Quello che si temeva è accaduto: Mdp, il gruppo degli scissionisti bersanian-dalemiani, ha messo il primo piede fuori dalla maggioranza e si prepara a compiere anche il secondo passo. All’indomani dell’incontro tra Pisapia e il premier Gentiloni, in cui entrambi si erano impegnati a condurre un negoziato sulla politica economica del governo contenuta nella Nota di aggiornamento del Def e nella prossima legge di stabilità, Roberto Speranza ha annunciato che Articolo 1 - Mdp uscirà dall’aula per marcare il proprio dissenso dall’illustrazione fatta ieri in Senato dal ministro dell’Economia Padoan e voterà a favore dell’aggiornamento solo per evitare che scattino le clausole di salvaguardia sottoscritte di fronte alle autorità di Bruxelles. In altre parole, è la minaccia di una rottura che porterebbe alla crisi di governo. La zampata promessa da tempo da D’Alema è dunque arrivata, sia pure per interposto Speranza.
 
Va detto che nulla preludeva a un esito come questo. E forse, ad accelerarlo, è stata proprio la conclusione - interlocutoria ma non negativa - del faccia a faccia Gentiloni-Pisapia di lunedì. Sebbene Padoan avesse fatto qualche prudente apertura alle richieste della sinistra bersaniana, ricordando tuttavia che i margini sono stretti pure in presenza di una ripresa che si manifesta più marcatamente del previsto, la risposta di Speranza è stata un «no» secco. E a nulla è valso che nella stessa giornata la Banca d’Italia e la Corte dei Conti avessero fatto sentire le loro voci autorevoli, raccomandando cautela in un quadro economico che rimane delicato per l’Italia, rammentando che la priorità resta la riduzione dell’enorme (oltre due milioni di miliardi) debito pubblico e ammonendo dai rischi di tornare indietro rispetto a riforme, come quella delle pensioni, che hanno recato sollievo ai nostri sofferenti conti pubblici. 
 
La sensazione è che proprio nei gruppi parlamentari di Mdp, schieratisi all’unanimità, sia prevalsa la linea di D’Alema, che da mesi spiega pubblicamente che è necessario, per Articolo 1, passare il più velocemente possibile all’opposizione, lasciando al governo la responsabilità di condurre la sua politica economica, necessariamente (ma inaccettabilmente, per D’Alema), rigorosa, e inaugurando prima della fine della legislatura una campagna elettorale anti-Renzi e anti-Pd.
 
Di fronte a questa strategia, di cui ieri è stato dispiegato il primo atto, qualsiasi tentativo del governo di recuperare la parte sinistra della propria maggioranza rischia di trasformarsi in un insuccesso. Mentre infatti sono abbastanza chiare le implicazioni dello scontro e la suggestione di una campagna tutta all’attacco, con qualsiasi legge elettorale si vada a votare, per portare Renzi alla sconfitta e dargli la botta finale, per capire se esista uno spiraglio per convincere gli scissionisti a tornare indietro, basta porsi una semplice domanda: il giorno dopo, come spiegherebbero ai loro elettori di aver ritrovato l’intesa con il premier e il Pd, dopo aver descritto questo governo come un esempio di servilismo verso il rigore imposto da Bruxelles? La riduzione dei cosiddetti «superticket» sanitari, o impegni inevitabilmente contenuti nei campi della sanità pubblica, del lavoro e del diritto allo studio, in che modo potrebbero camuffare quella che apparirebbe una calata di brache, dopo aver dichiarato da tempo che con questo esecutivo non si può più venire a patti? Quando Speranza ha dichiarato che Mdp si sente ormai fuori dalla maggioranza, ha in sostanza detto questo. Con buona pace di Pisapia che, dopo il suo primo giorno da leader, è stato senza alcun rispetto smentito e costretto a fare una figura barbina di fronte a Gentiloni.
 
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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/04/cultura/opinioni/editoriali/la-zampata-di-dalema-sul-governo-v7myRssebhsscBt4ft2PBN/pagina.html
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« Risposta #632 inserito:: Ottobre 18, 2017, 07:06:31 pm »

Scelte casuali e convergenze parallele

Pubblicato il 17/10/2017

MARCELLO SORGI

È sempre complicato, in Italia, dedurre i cambiamenti della politica dai comportamenti parlamentari. Il Paese delle convergenze parallele è diventato quello degli incontri occasionali. Nella Prima Repubblica i radicali denunciavano spesso, come prova di consociativismo mai archiviato, il gran numero di votazioni che vedevano insieme Dc e Pci. Nella Seconda la stagione del bipolarismo non riuscì mai a impedire gli agganci tra centristi di qualsiasi natura e governi di ogni indirizzo. 

Per non dire del «ribaltone» che disarcionò Berlusconi diventando oggetto di studio nelle università. 
 
Nella terra di mezzo tra fine della Seconda Repubblica e mancata nascita della Terza, l’attenzione ovviamente è sull’avvicinamento tra Pd e Forza Italia: legittimo, alla luce del sole, all’inizio della legislatura e grazie all’incubatrice rappresentata dal patto del Nazareno, tra Berlusconi e Renzi. E continuato sotto traccia dopo la rottura tra i due sul Quirinale se è vero che al Senato, dove i governi Renzi e Gentiloni hanno avuto sempre maggioranze ballerine, il soccorso azzurro, magari in forma di assenze e uscite dall’aula, è stato decisivo nei momenti delicati.
 
Poi a un certo punto, dal fondo delle aule parlamentari, ha preso a soffiare più forte anche il vento dell’opposizione, rinvigorito dall’incontro di Lega e Movimento 5 stelle, che alleati con Fratelli d’Italia, soprattutto sull’immigrazione, hanno dato spesso battaglia, quasi prefigurando un nuovo polo populista e dandosi appuntamento dopo le elezioni per provare a mettere insieme una maggioranza e forse anche un governo. La rottura sul Rosatellum, lo schieramento del Carroccio con Pd, Ap e Forza Italia, gli insulti tra Grillo e Salvini, i malumori della Meloni verso la nuova legge elettorale hanno fatto a pezzi quell’embrione ancora tutto da coltivare. I sondaggi oggi dicono che per Lega e FdI la partita più interessante resta quella del centrodestra, con Berlusconi che promette che se non avrà la maggioranza è pronto a ritirarsi. Così anche quel terzo o poco più di votazioni in cui il partito dell’ex Cavaliere s’è trovato accanto al Pd non basta certo a rappresentare l’anticipo di quel che potrà avvenire nella prossima legislatura. 
 
Perché la verità è che in quella che va a concludersi è successo tutto e il contrario di tutto. A ogni stormir di fronde le strategie, chiamiamole così, sono cambiate. E deve ancora arrivare il 5 novembre, con i risultati delle regionali siciliane, per farci assistere a un nuovo terremoto: stavolta, c’è chi è pronto a scommetterci, tra Pd e centrosinistra.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/17/cultura/opinioni/editoriali/scelte-casuali-e-convergenze-parallele-Pdja9EiVTG00hCqFs3c60J/pagina.html
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« Risposta #633 inserito:: Ottobre 28, 2017, 06:11:42 pm »

Il territorio laboratorio di leadership

Pubblicato il 24/10/2017

MARCELLO SORGI

Dalle urne del referendum di Veneto e Lombardia, oltre a un risultato politico che influirà anche sulle prossime elezioni, esce un modello di leadership destinato a far riflettere, a destra come a sinistra. È quello del trionfatore del Veneto Zaia e del - già, come definirlo, vincitore o vinto? - sindaco di Bergamo Gori, schierato con il «Sì» dei leghisti promotori delle consultazioni, ma contraddetto dalla posizione ufficiale del suo partito, il Pd, che con il vicesegretario nazionale e ministro dell’Agricoltura, il milanese Martina, aveva lanciato alla vigilia del voto un appello all’astensione.
 
Al di là della possibile - e dall’interessato sempre negata - candidatura alla guida dell’eventuale, e adesso sempre più possibile, prossimo governo di centrodestra, ipotesi lanciata tempo fa da Berlusconi, Zaia, che in una tempestosa domenica di pioggia ha portato la maggioranza dei veneti alle urne e a esprimersi a favore di una maggiore autonomia locale, ha alcune caratteristiche in comune con Gori. Il quale ha raccolto le firme dei sindaci lombardi per lo stesso obiettivo, e magari avrebbe preferito rinunciare al referendum, perché non gli era sfuggito che a incassarne i vantaggi sarebbe stata soprattutto la Lega, compreso il governatore lombardo Maroni, che lo stesso sindaco si prepara a sfidare alle prossime regionali, e che pur non avendo eguagliato il successo di Zaia, ne ha comunque ricavato una bella lucidatura della propria immagine. Ma una volta avviata la macchina, appunto, Gori non s’è tirato indietro, né ha atteso di aver indicazioni dal confuso vertice del Pd, che oscillava tra il dare la libertà di voto ai propri elettori, vale a dire non prendere posizione, e il tardivo schierarsi per l’astensione, cioè a scommettere sulla sconfitta dell’avversario, senza entrare in partita. Al contrario il sindaco, coerente con l’impegno preso insieme ai suoi colleghi primi cittadini dei comuni della Lombardia, s’è messo lo zaino in spalla, è andato in campagna elettorale, e dopo aver condiviso in parte la vittoria, ha proposto al Pd di votare all’unanimità in consiglio regionale con il centrodestra, per avviare la trattativa con il governo. 
 
Siccome anche Salvini, leader del partito di Zaia, non era proprio entusiasta del referendum nordista proposto dai presidenti leghisti delle due regioni, e lo ha digerito con qualche difficoltà, è abbastanza facile capire qual è la caratteristica che accomuna il governatore veneto e il sindaco lombardo: essere allo stesso modo rappresentanti del territorio, conoscerne i problemi e il comune sentire, e soprattutto comportarsi di conseguenza, senza piegare il capo - o piegandolo il meno possibile - alle scelte nazionali del proprio partito, e sapendo ascoltare la propria gente anche quando questo potrebbe risultare non esattamente conveniente.
 
La questione settentrionale - ma non solo: basti pensare alla Puglia di Emiliano, e per certi versi anche alla Napoli di De Magistris o alla Palermo di Orlando - sta tutta qui. Quando i cittadini di un determinato territorio percepiscono che i loro rappresentanti, o quelli che li governano, non hanno a cuore i loro problemi specifici, li trascurano e come soluzioni cercano di applicare astratti modelli nazionali, che faticano a produrre effetti in periferia, o scelgono di farsi rappresentare da altri, oppure, se non trovano nessuno o nulla di convincente, si buttano nell’astensione o nelle braccia dell’antipolitica.
 
Ecco perché una politica moderna, non inutilmente ideologica, dovrebbe partire di qui per ridefinire i propri obiettivi e governare con sapienza le inevitabili spinte centrifughe di questo sistema.
 
Stupisce che ci riesca il centrodestra, seppure, come abbiamo visto, un po’ a dispetto di se stesso. E non ci riesca invece il centrosinistra, e all’interno di esso il maggior partito di governo: con un leader come Renzi, che aveva costruito la sua fortuna facendo il sindaco di una grande città come Firenze, arrivando a incontrare Berlusconi premier per fare gli interessi della propria città, e diventando poi, chissà perché, centralista a Palazzo Chigi; e ancora, tra i suoi dirigenti, un uomo come Chiamparino, già primo cittadino di Torino e attuale governatore del Piemonte, che qualche anno fa era arrivato a proporre l’eresia di un Pd del Nord, e per questo era stato politicamente - e inutilmente - massacrato.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/24/cultura/opinioni/editoriali/il-territorio-laboratorio-di-leadership-UB7rkRl1KVSlNr061FMVnN/pagina.html
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« Risposta #634 inserito:: Ottobre 29, 2017, 09:12:20 pm »

Il paradosso dell’alternativa a Cinque Stelle

Pubblicato il 29/10/2017 - Ultima modifica il 29/10/2017 alle ore 07:12

MARCELLO SORGI

Può sembrare un paradosso che il declino della sindaca di Torino Chiara Appendino somigli straordinariamente a quello della sua collega romana Virginia Raggi. 

E come la seconda era stata costretta a far saltare il cerchio dei suoi collaboratori più stretti in Campidoglio, anche la prima ieri ha dovuto far fuori il suo capo di gabinetto Paolo Giordana, per un’assai poco esemplare richiesta all’azienda dei trasporti di far cancellare una multa presa su un autobus. 
 
Va detto che il personaggio Giordana, funzionario comunale collaboratore in passato sia di politici di centrodestra sia di centrosinistra, non somiglia per niente ai Morra, Frongia e Romeo che circondavano di attenzioni la Raggi, intestandole perfino delle polizze di assicurazione, prima di finire agli arresti domiciliari o sotto inchiesta per svariati reati. Ma allo stesso modo era stato lo chaperon nei meandri della politica torinese della giovane Appendino, approdata in Consiglio comunale quando era sindaco Piero Fassino, e subito distintasi per un’opposizione puntuale e pervicace, alla quale certo non erano estranei i consigli di quel suo collaboratore, divenuto poi amico e assurto al ruolo di capo di gabinetto e quasi alter ego della sindaca subito dopo la conquista del Palazzo di Città.
 
Eppure non potevano sembrare più diverse, agli inizi, le due sindache ora precipitate verso simili destini e simmetricamente imputate per falso in bilancio. Un’avvocatessa nata borgatara e professionalmente formatasi alla scuola dell’ex ministro e avvocato berlusconiano Cesare Previti, la Raggi. Una giovane signora borghese, figlia di imprenditore, poliglotta e educata nelle migliori scuole, l’Appendino. Una miracolata dal collasso per corruzione di entrambi gli schieramenti di centrodestra e centrosinistra a Roma e dall’azzeramento della giunta Marino voluto da Renzi, la prima cittadina della Capitale. Una nata con la camicia che ereditava a sorpresa una delle amministrazioni più efficienti e una città vetrina in gran spolvero negli ultimi dieci anni dopo le Olimpiadi, quella di Torino. Tanto che mentre Raggi si dibatteva, puntellata giorno dopo giorno da Grillo e Casaleggio e via via commissariata da personale di fiducia dei vertici 5 Stelle, di Appendino si arrivava a parlare come volto-simbolo e possibile candidata-premier del Movimento al posto di Luigi Di Maio, oltre che interlocutrice rispettata di un Pd frastornato dalla sconfitta nella capitale industriale del Paese e deciso a insidiarne il successo affiancandola, invece che contestandola.
 
Altri tempi: dal tragico 3 giugno del panico, del morto innocente e delle centinaia di feriti a Piazza San Carlo, all’avviso di garanzia per falso in bilancio, la caduta d’immagine della sindaca e il suo progressivo avvitamento nelle difficoltà sembrano ormai irreversibili. Senza tuttavia - e anche questo è un punto di contatto tra le due vicende di Torino e Roma - che il consenso attorno a lei risulti significativamente intaccato o si affacci il benché minimo rimpianto delle amministrazioni passate. Hanno un bel dire, Chiamparino e Fassino, che l’aspetto nuovo della città, l’integrazione del suo tradizionale tessuto imprenditoriale con le nuove vocazioni culturali e turistiche è stato costruito da loro, con il paziente e duro lavoro ventennale delle amministrazioni di centrosinistra. È sicuramente vero, anche se non sempre è tutto oro quel che riluce, ma nell’opinione della maggioranza dei cittadini, l’ora del cambiamento era arrivata e ancora non è passata.
 
A ben vedere questo è ancora il problema, non solo di Torino, ma dell’Italia e degli italiani nel rapporto con i 5 Stelle: sebbene abbiano rivelato grandi e piccole incapacità in tutte le realtà in cui sono stati chiamati a governare, Grillo e i suoi (le sue, verrebbe da dire, pensando alle sindache che insieme nel 2016 portarono il Movimento alla vittoria più importante) appaiono ancora a una larga fetta di elettori come l’unica vera alternativa possibile alla sclerotizzata politica tradizionale, si tratti del ritorno in campo di Berlusconi e del centrodestra, seppure con l’iniezione di populismo di Salvini e Meloni, o delle pulsioni suicide del solito centrosinistra, con Renzi che non potendo più rottamare Bersani se la prende con il governatore della Banca d’Italia, il governo Gentiloni e alla fine, in un inspiegabile crescendo autolesionista, perfino con se stesso. Così se è difficile, forse impossibile, spingere M5S a essere diverso da quel che è, sarà almeno lecito, alla vigilia delle elezioni regionali siciliane di domenica prossima e delle politiche ormai prossime, chiedere agli altri di fare uno sforzo, finché c’è tempo, per tornare a essere affidabili. Anche se è molto difficile credere che ci riusciranno.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/10/29/cultura/opinioni/editoriali/il-paradosso-dellalternativa-a-cinque-stelle-ROExirQAsVSVWNjvFiSl8J/pagina.html
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« Risposta #635 inserito:: Dicembre 06, 2017, 09:02:34 pm »

L’alternativa che nasce dalla fragilità

Pubblicato il 05/12/2017

MARCELLO SORGI
Del lungo e appassionato intervento con cui domenica Pietro Grasso s’è assunto la responsabilità di guidare verso il voto la sinistra di Mdp, Si e «Possibile», colpivano essenzialmente due cose. 
 
La prima era l’amarezza personale, un dolore esplicitato fino all’intimità, che ha portato il presidente del Senato a lasciare il Pd, che lo aveva candidato e in maggioranza eletto alla seconda carica dello Stato. 
 
Una decisione sofferta, eppure ineludibile, determinata, è parso di capire, non solo dalla mancata condivisione delle scelte fondamentali di questa legislatura, a cominciare dalla tentata cancellazione del Senato, ma dall’assoluta impossibilità di esprimere le sue riserve e trovare un minimo d’ascolto in un luogo di dibattito.
 
Grasso insomma, catapultato da Bersani al vertice di Palazzo Madama, dopo l’arrivo di Matteo Renzi alla segreteria del Pd s’è sentito solo. Con il nuovo leader immaginava di poter costruire lo stesso tipo di rapporto che aveva avuto con il predecessore, invece ha trovato il silenzio, la cortina di indifferenza, l’assenza di consigli (e sì che ne aveva bisogno, trovandosi alla sua prima esperienza parlamentare), di cui faticava a trovare le ragioni, sentendosi a mala pena sopportato. 
 
Così il distacco maturato apertamente dopo la fiducia imposta sulla nuova legge elettorale, che aveva praticamente impedito ai senatori di discutere il testo del Rosatellum, in realtà era cominciato molto prima, quando già un anno fa Grasso, sottovoce, aveva fatto sapere di sentirsi più vicino al «No» che non al «Sì» al referendum.
 
Chi ha memoria di rapporti difficili tra autorevoli «esterni» siciliani e sinistra, paragona impropriamente la rottura tra Renzi e Grasso a quella, assai più sanguinosa, tra Enrico Berlinguer e Leonardo Sciascia alle elezioni del 1979. Ma pur essendo difficile avvicinare la storia del supermagistrato antimafia amico di Falcone e Borsellino con quella dello scrittore eretico, entrato in Parlamento con Pannella e sull’onda del pamphlet «L’affaire Moro», in cui senza clemenza inchiodava la Dc alle proprie responsabilità per l’assassinio del leader sequestrato dalle Brigate rosse, qualcosa che le collega c’è di sicuro, non fosse solo il carattere dei siciliani, l’ombrosità, la permalosità, il modo antico di litigare togliendosi il saluto e la possibilità di parlarsi per sempre.
 
In questo senso la seconda cosa, strettamente connessa alla prima, del discorso di Grasso, è che se qualcuno dei suoi compagni d’avventura, all’indomani del voto, e magari in presenza di un risultato buono o discreto, dovesse lontanamente pensare di andarselo a spendere nel campo di una rinegoziazione con il Pd, Grasso non ci starà. Non a caso, dalla tribuna su cui è salito per assumere la leadership e dire «Io ci sono!», ha parlato di valori, di giustizia, di eguaglianza, della sua storia personale piena di sacrifici e lutti non rimarginabili, ma non ha inserito alcun accenno alle alleanze possibili, come invece normalmente usa fare un leader politico, e come perfino Renzi fa, fingendo di crederci, quando ancora si augura «la vittoria del centrosinistra», inteso come insieme separato che dovrà prima o poi ritrovare l’unità.
 
Si sa: D’Alema e Bersani sperano che il leader del Pd alle politiche prenda la botta definitiva che lo spinga a togliersi di mezzo, e solo allora ritengono che possa chiudersi la ferita che ha portato alla scissione. Ma Grasso, sul futuro di Renzi e sulla sua capacità di resistenza, è più pessimista: non considera così semplice una ricomposizione a breve termine. Pensa piuttosto a un’alternativa che - nascendo da quel pezzo di società civile impegnata da cui lui stesso proviene, forgiata nella lotta antimafia e in buona parte rifluita verso l’astensionismo o il voto ai 5 Stelle - non si inquadri obbligatoriamente nello schema politica-antipolitica, populismo-antipopulismo, sinistra di governo o di opposizione, ma delinei una prospettiva diversa, che i mutati (molto più, spera, nella prossima legislatura) rapporti di forza potrebbero rendere realistica. Una scomposizione trasversale dei gruppi parlamentari che il ritorno al proporzionale e la fragilità dichiarata in partenza delle attuali alleanze potrebbero alla fine incoraggiare. Trasformando Grasso e la pattuglia della sinistra che lo sostiene in interlocutori, forse alleati, di un prossimo governo a 5 Stelle.

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« Risposta #636 inserito:: Dicembre 08, 2017, 10:34:28 am »

Prove di alleanze all'ombra del Colle

Pubblicato il 07/12/2017

MARCELLO SORGI

Sarà per via dell’imprevedibile (almeno nelle dimensioni di questi giorni) successo di Berlusconi al suo ennesimo ritorno in campo, ma attorno ai 5 stelle si registrano strani movimenti. Il corteggiamento di Mdp e altri pezzi di sinistra, compresa la parte di Campo progressista di Pisapia non ancora rassegnata all’accordo con Renzi, punta a rendere più esplicita la disponibilità di Di Maio, al momento solo intuibile, a un’alleanza di governo post-elettorale, e a capire se e a quali condizioni potrebbe veramente realizzarsi. L’intervista che pubblichiamo oggi in cui il candidato-premier di M5s fa un’inattesa apertura all’Europa, oltre a essere una novità, sembra un altro passo in quella direzione.

 Per tutto il largo fronte - dai cattolici tradizionali alla Scalfaro o democratici alla Rosi Bindi, al centro tecnocratico stile Monti, alla sinistra post-comunista di Bersani, alla sinistra-sinistra - che nel ventennio berlusconiano viveva di antiberlusconismo e in quell’ambito trovava le ragioni di una fragile unità, tendere un filo verso i 5 stelle, sempre che questi siano disposti a raccoglierlo, potrebbe rappresentare un’alternativa all’inevitabile - come ora viene descritto, nel caso dalle urne di primavera non esca una maggioranza - ritorno alle larghe intese tra Pd e Forza Italia. 
 
Si tratterebbe, non di delineare subito un accordo, per il quale Grillo, Casaleggio e Di Maio non sarebbero pronti, ma di inaugurare un confronto, magari sorvegliato dal Quirinale, simile a quello che nella Prima Repubblica serviva ad ammorbidire la cortina di ferro stesa per ragioni interne e internazionali attorno al Pci; oppure, più di rado e sempre senza successo fino all’arrivo di Berlusconi, a tentare di scongelare a destra i voti parlamentari del Msi. Nel primo caso, grazie anche al comune lavoro e alle radici piantate all’epoca della Costituente, l’asse trasversale tra il partito di Togliatti e Berlinguer e parti consistenti di tutte le forze che stavano al governo divenne un’architrave dell’intero edificio repubblicano, fondato sul consociativismo, a dispetto di un anticomunismo più declamato che praticato. Tal che, dopo De Gasperi, e con pochissime e limitate eccezioni, per più di trent’anni quasi tutti i governi democristiani, fino a quelli di solidarietà nazionale 1976-’79 che lo ebbero come alleato, cercarono sempre di stabilire buoni rapporti con il Pci. Cosa che fece anche Spadolini, primo presidente laico del Consiglio, all’inizio degli Anni Ottanta, e subito dopo non volle fare Craxi, teorico, nel periodo della presidenza socialista, delle maggioranze delimitate di pentapartito e di una competizione dura con i comunisti, volta a farne emergere le ambiguità para-sindacali e le difficoltà ad accettare pienamente il rapporto con la modernità capitalistica e industriale dell’Italia. Ciò finì col destabilizzare l’assetto consolidato, ancorché instabile, della Prima Repubblica, malgrado la sorda opposizione di mezza Dc, e ne accelerò la crisi con conseguenze che poi portarono alla caduta del sistema nel fatale 1993. 
 
Può bastare, questo, a immaginare che adesso, al tramonto della Seconda Repubblica - e alla vigilia di un passo verso l’ignoto, dato che tutti prevedono che la nuova legge elettorale non darà vita ad alcuna solida maggioranza - si apra (o si riapra, dato che fu Andreotti a inventarlo) un secondo forno a 5 stelle, per far fuori insieme i dioscuri del patto del Nazareno Renzi e Berlusconi? Si sa, ragionare su quel che è già accaduto, spesso è utile. Ma paragonare quel passato, che tanti oggi cominciano a rimpiangere, con l’incerto presente attuale, è impossibile: troppe cose sono cambiate. E tuttavia colpisce che già in vista del ritorno del proporzionale, e senza ancora averne misurato gli effetti nel voto, certi meccanismi politici si ripropongano, come se nulla fosse.

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« Risposta #637 inserito:: Dicembre 22, 2017, 04:17:45 pm »

I grillini e l’arte del possibile

Pubblicato il 19/12/2017

MARCELLO SORGI

Non è il passato che non passa, ma che ritorna. Oltre a segnare una svolta del M5S dal percorso duro e puro seguito fin qui, e a dimostrare che anche Grillo e Casaleggio si muovono nella logica del proporzionale, stile Prima Repubblica, l’offerta di Di Maio di infrangere la severa regola del «no» a qualsiasi alleanza con i partiti tradizionali, per aprire a un eventuale governo di coalizione, con «Liberi e uguali» e se necessario con un Pd derenzizzato, ha uno storico precedente, che risale a trentacinque anni fa. 

Nel novembre 1982, dopo la caduta del governo Spadolini a causa della famosa «lite delle comari» tra i ministri Formica e Andreatta, alle consultazioni che si aprirono per risolvere la crisi, il leader del Pci Berlinguer fu autore di una strana uscita. «Accetteremmo un governo diverso, che segnasse una discontinuità», disse, rivolgendo a De Mita la proposta di varare un governo Dc-Pri, senza i socialisti, e con l’appoggio esterno dei comunisti. I democristiani non potevano accettare di rompere la già compromessa collaborazione con il Psi, così non se ne fece niente e si andò alle elezioni anticipate. Ma il passaggio segnò egualmente una fibrillazione dei cristallizzati rapporti politici del tempo, e nella nuova legislatura, complice un forte calo elettorale dello Scudocrociato, i socialisti alzarono il prezzo e ottennero la presidenza del consiglio per Craxi.

Tra allora e oggi, va detto, tutto, o quasi tutto, è cambiato. E non c’è alcuna analogia tra un grande, tradizionale e novecentesco partito di massa come il Pci e un movimento imbevuto di logica antisistema come i 5 Stelle. E tuttavia il meccanismo dell’offerta di Di Maio è lo stesso. Il candidato premier pentastellato si smarca dalla rigida divisione di campo che lo ha tenuto fin qui dentro i confini del populismo nostrano, per proporsi come attore a tutto campo della partita politica che si aprirà dopo il voto di marzo, quando l’assenza di una maggioranza chiara uscita dalle urne (la nuova legge elettorale non è in grado di assicurarla) costringerà il Presidente della Repubblica a esercitare tutta la sua fantasia, per cercare di dare al Paese un governo pienamente legittimato.

Fino a ieri, prima dell’ultima mossa di Di Maio, lo scenario più probabile era uno solo: a meno di una chiara, quanto incerta, vittoria del centrodestra, l’unico sbocco sarebbe stato il ritorno a un esecutivo di larghe intese, come quello guidato da Enrico Letta, che inaugurò la legislatura che sta per chiudersi. Di Maio invece, con congruo anticipo in modo che anche gli elettori possano capirla e rifletterci su, ha messo in campo una seconda possibilità: un governo 5 Stelle-Liberi e uguali-Pd (ma senza Renzi, nell’ipotesi terremotato da una sconfitta non improbabile e convinto a farsi da parte), costruito in Parlamento su un programma condiviso.

Naturalmente non basta esprimere una disponibilità, e specie in campagna elettorale, come ormai siamo, è lecita qualsiasi domanda e qualsivoglia retropensiero. Viene da chiedersi, ad esempio, se Di Maio sarebbe disposto a rinunciare a guidare un siffatto governo, qualora i potenziali alleati lo richiedessero per riequilibrare la coalizione. E in questo caso chi potrebbe assumere il ruolo di presidente del Consiglio: lo stesso Gentiloni, o il veto espresso dal M5S nei confronti di Renzi dovrebbe intendersi automaticamente esteso all’attuale premier? O il presidente del Senato Grasso, leader di «LeU», neonata formazione di sinistra non programmaticamente ostile a Grillo, Casaleggio, Di Maio e al loro Movimento? E nel Pd - un Pd bastonato dai risultati, perché questo è il presupposto -, piuttosto che ritrovarsi all’opposizione, davvero potrebbe maturare il capovolgimento dell’attuale sfida anti-populista e anti-5 Stelle? Sono domande destinate in gran parte a restare senza risposta, almeno fino al voto.

Eppure la novità esiste, e sarà interessante capire in che modo l’accoglierà Mattarella, quando Di Maio, oggi stesso, andrà a spiegargliela. Per il momento non resta che prendere atto del cambiamento in corso: la logica binaria politica/antipolitica, populismo/antipopulismo, sinistra di governo/di opposizione, che aveva accompagnato il tramonto della Seconda Repubblica, è finita tutt’insieme. Le larghe intese, che di questa logica erano figlie, non sono più ineluttabili. È aperto il cantiere di un «governo diverso», e chissà che stavolta non vada come trentacinque anni fa. Nella stagione del ritorno al passato, chi ha più filo tesse, la politica è di nuovo l’arte del possibile.

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« Risposta #638 inserito:: Dicembre 27, 2017, 10:16:06 pm »

La legislatura nel segno delle sorprese

Pubblicato il 27/12/2017
MARCELLO SORGI

Si chiude una legislatura tra le più complicate e imprevedibili della storia repubblicana. Complicata, come si sa, perché nata morta, con la cosiddetta «non vittoria» del Pd di Bersani e l’assenza di maggioranze precostituite al Senato; e imprevedibile, a parte la durata naturale di 5 anni su cui nessuno avrebbe scommesso nel 2013, perché ha messo a segno inaspettatamente una serie di riforme importanti (anche quelle bocciate nel referendum del 4 dicembre 2016), mai approvate tutte insieme nel corso di un solo mandato parlamentare. 

Se solo si riflette sulle leggi realizzate nei mille giorni del governo Renzi, dal Jobs Act, alla scuola, alla legge elettorale (pur emendata chirurgicamente dalla Corte costituzionale), alle unioni civili, e ancora - va detto e ripetuto - alle riforme costituzionali, che avrebbero potuto essere migliori, e probabilmente non cadere sotto la mannaia delle urne referendarie, se a un certo punto del percorso non si fosse arrivati al muro contro muro tra Palazzo Chigi, indisponibile a riscrivere parte dei testi, e le opposizioni, decise a impedirne a qualsiasi costo il varo; e se si aggiungono i risultati del governo Gentiloni, dal salvataggio delle banche al biotestamento, è quasi impossibile rintracciare nel passato il precedente di una legislatura così prodiga di risultati. E i differenti punti di vista, le legittime contrapposizioni sui contenuti delle riforme, sia di quelle cancellate prima di entrare in vigore, sia delle altre sopravvissute, compreso il Rosatellum, la nuova e discussa (ma pur sempre preferibile al nulla determinatosi dopo l’affossamento dell’Italicum da parte della Consulta) legge elettorale che ci consentirà di tornare al voto nel prossimo marzo, non dovrebbero impedire a nessuno di constatare l’eccezionalità del lavoro di questo Parlamento. Un Parlamento, non va dimenticato, in cui anche le opposizioni, certo non tutte, non sempre e al di là dei normali interessi di propaganda, hanno saputo dar prova di responsabilità, e in molte circostanze, soprattutto al Senato, consentire il passaggio di provvedimenti altrimenti destinati al fallimento e di politiche azzardate ma indispensabili, vedi la soluzione trovata per il problema degli sbarchi fuori controllo degli immigrati, costruita dal ministro Minniti con paziente tessitura.

Come tutto ciò abbia potuto realizzarsi, non è semplice da spiegare. Le larghe intese e il «patto del Nazareno», pensati all’inizio per una situazione d’emergenza, si sono dissolte dopo pochi mesi. Il governo Letta ne ha fatto le spese; è stato sostituito in corsa da quello guidato dal leader del Pd e sostenuto da una più precaria maggioranza, da ricercarsi volta per volta a Palazzo Madama, a causa delle divisioni (poi sfociate in scissione) insorte nel frattempo all’interno del partito di Renzi. Il quale, a sua volta, ha dovuto mollare, dopo la cocente sconfitta nel referendum costituzionale. A quel punto, ancorché fosse necessario, se non altro per non gelare i primi refoli di una ripresa economica arrivata dopo otto lunghi anni di crisi, nessuno s’aspettava che le cose potessero continuare. Invece, dal cilindro di Renzi e con la benedizione di Mattarella, è uscito Gentiloni, una sorta di uomo del destino: da anni e anni non s’era più visto uno così capace di navigare nella tempesta, con le vele stracciate e il timone che fatica a rispondere.

Malgrado ciò si sbaglierebbe a dire che è stata tutta opera della Provvidenza, sebbene sicuramente ci abbia messo del suo. Si sa che gli italiani danno il meglio di loro nei momenti difficili: ed è accaduto pure in queste Camere formate per metà e più di deputati e senatori di prima nomina, senza o quasi esperienza. Lo avranno fatto, non è un mistero, anche per salvarsi il posto, che perderanno (e in molti, difficilmente riavranno) di qui a poco. Anche per questo è giusto tributare un minimo di onore al merito ai «morituri» dell’ultimo Parlamento della Seconda Repubblica.

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DA - http://www.lastampa.it/2017/12/27/cultura/opinioni/editoriali/la-legislatura-nel-segno-delle-sorprese-Dpda9T7kyoKe1izaMxQL2M/pagina.html
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« Risposta #639 inserito:: Febbraio 27, 2018, 05:51:13 pm »

La sfida decisiva fra Movimento e centrodestra

Pubblicato il 26/02/2018

Marcello Sorgi

A una settimana dal voto di domenica, grande è la confusione che regna sotto il cielo. E grandissima l’impazienza dei corridori in gara di attribuirsi una vittoria che ancora non c’è. Il leader del M5S, Di Maio, s’è presentato al Quirinale preannunciando una lista di ministri prima ancora di aver ricevuto l’incarico e sapere se avrà la maggioranza per governare. L’aspirante premier di centrodestra Salvini è salito sul palco a Milano in giacca e cravatta presidenziali; giurando sul rosario, ha detto che il Vangelo sarà il suo programma. E «Berlusconi presidente», come recita il simbolo della sua lista, continua a far finta che una sentenza non gli impedisca di candidarsi ed essere spendibile per il governo.

Ma è soprattutto tra M5S e centrodestra che lo scontro negli ultimi giorni è diventato senza esclusione di colpi. Nei due schieramenti è diffusa la convinzione che la partita finale si giochi nel Sud, tra Campania e Sicilia, in un pugno di collegi uninominali, chi dice 50, chi ormai 30, dove la vittoria potrebbe andare agli uni o agli altri solo per un pugno di voti. 

Se i 5 Stelle, che al Sud sono dati in crescita giorno dopo giorno, riuscissero a prevalere, il centrodestra, pur avvicinandosi, non avrebbe la maggioranza parlamentare. E viceversa: se Berlusconi, Salvini, Meloni e Noi per l’Italia dovessero farcela, centrando in pieno o sfiorando la stessa maggioranza, la sera stessa del risultato sarebbero pronti a chiedere al Quirinale di formare il loro governo. 

Il paradosso di questo rush finale è che da entrambe le parti si ragiona come se tutto fosse già accaduto e quel che deve seguire si possa realizzare in pochi giorni. Così Di Maio sostiene apertamente che gli avversari potranno reclamare l’incarico solo se avranno numeri pieni che gli assicurino di potersi presentare alle Camere per chiedere la fiducia. E lascia intendere di avere un coniglio nel cilindro, da tirar fuori al momento opportuno: un governo M5S-Pd-LeU-+Europa, una specie di centrosinistra rivisitato, a cui Renzi e gli altri si adatterebbero per non andare all’opposizione. Quanto a Berlusconi, il più fiero avversario degli «incompetenti», definiti così in tutti i suoi comizi e interviste tv, non prende affatto in considerazione l’ipotesi di una «non vittoria», come quella di Bersani nel 2013, o peggio ancora di subire un sorpasso all’ultima curva da parte del suo alleato Salvini, ciò che cambierebbe completamente il quadro del preteso, finora, successo del centrodestra. Follie, fantasie? In verità sono discorsi a vanvera, destinati a soccombere di fronte ai numeri veri che usciranno dalle urne. Chi li fa, si tratti del giovane Di Maio o dell’attempato Berlusconi, dimostra solo di essere un neofita del proporzionalismo, di non conoscere trucchi, segreti, e soprattutto incognite, del gioco vecchio/nuovo che comincerà la notte del 4 marzo.

Per certi versi, si tratta di una partita inedita. Anche quando il proporzionale era in voga, nella Prima Repubblica, il confine tra le forze di governo e quelle di opposizione - sempre le stesse, da una parte e dall’altra - era segnato da rigide questioni internazionali e dal vento gelato della Guerra Fredda. Tal che, in un modo o nell’altro - salvo eccezioni rimaste nella Storia, come quelle dei governi di solidarietà nazionale degli anni 1976-79 sostenuti anche dal Pci -, l’esecutivo nasceva all’interno del solito recinto della Dc e dei suoi alleati. Stavolta invece la partita sarà a 360 gradi, approcci e rotture verranno praticati da tutti contro tutti, e infinite diventeranno le combinazioni che ciascuno potrà progettare o minacciare per condizionare i movimenti di alleati e avversari.

Ad esempio, l’idea di Di Maio che il Pd e gli alleati del centrosinistra possano acconciarsi a un «accordo di programma» con i 5 Stelle «senza scambi di poltrone», è semplicemente fuori dal mondo: da sempre programmi e composizione del governo sono andati di pari passo, ed è verosimile che fin dall’inizio della trattativa i potenziali alleati chiedano di discutere anche sul presidente del Consiglio. Allo stesso modo la regola del centrodestra - «chi ha un voto in più indicherà il premier» - è scritta sull’acqua: se i numeri dovessero consentire un esecutivo di larghe intese, Berlusconi sarebbe il primo a dimenticarsene, e forse non solo lui. Infine, le strane ipotesi che continuano ad affacciarsi dagli studi televisivi o dalle piazze delle manifestazioni hanno il difetto di fare i conti senza l’oste: il Presidente della Repubblica, che dal 5 marzo sarà il solo a dare le carte e a cercare di riportare i sognatori di oggi al duro impatto con la realtà. 

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« Risposta #640 inserito:: Marzo 06, 2018, 02:21:01 pm »

Il risultato che spaventa l’Europa

Pubblicato il 05/03/2018

MARCELLO SORGI

Dalle urne del 4 marzo è uscito qualcosa che l’Europa temeva e l’Italia forse non s’aspettava di queste dimensioni: la vittoria di un insieme populista e sovranista che va dal Movimento 5 Stelle alla Lega. Nella lunga notte in cui i dati affluivano lentamente dalla macchina del Viminale, sono cresciuti costantemente i numeri di queste liste, formalmente schierate su fronti opposti, ma al bisogno pronte a convergere. Soprattutto se si considera l’elemento che accomuna il successo pentastellato, il fiato caldo alitato sul collo di Berlusconi da Salvini prima di sorpassarlo e l’avanzata di Fratelli d’Italia e di Giorgia Meloni: la portata del voto antisistema, da considerare non più come sfogo o protesta, perché punta dichiaratamente al governo. E lo fa, in nome di parole d’ordine e obiettivi opposti a quelli dell’establishment nazionale e sovrannazionale che finora ha tenuto ferma la barra dei rapporti con l’Unione europea. Così, dopo quella che nel ’94 seppellì la Prima Repubblica, partorendo la Seconda, una nuova rivoluzione è partita in Italia. Il populismo, sconfitto dappertutto in Europa, qui ha vinto: o riuscirà a governare, o sarà in grado di inceppare il sistema.

Con il voto di un elettore su tre, se davvero il Movimento 5 Stelle potrà dire di aver superato il 30 per cento, sarà grazie al consenso plebiscitario raccolto da Roma in giù. Percentuali che sfiorano quelle storiche della Dc nella sua età dell’oro, quando i ras dello scudo crociato, i «signori della miseria», amministravano un sistema clientelare efficiente e costosissimo, che lo Stato a un certo punto non poté più permettersi.

Il grande «vaffa» dei populisti parla di questo pezzo di popolazione abbandonata, di giovani che non hanno frequentato le università d’eccellenza o neppure si sono laureati, per metà, uno su due, disoccupati, che rifiutano competitività e globalizzazione, in nome di una parola magica, «pubblico», cioè statale, che dia il senso di una protezione. Pensioni, assunzioni, sussidi, redditi di sopravvivenza, tempo pieno nelle scuole, raddoppio degli insegnanti, lavoro a domicilio, manuale - altro che robot! -, e basta emigrazione. È esattamente con questo modello, alternativo all’indispensabile adeguamento alla modernità propugnato da Renzi e dai governi a guida Pd, che Luigi Di Maio ha stravinto al Sud, raccontando, da rinato Masaniello, agli orfani della stagione democristiana, un sogno irrealizzabile che ricorda i film di Massimo Troisi e Checco Zalone, anche se non c’è niente da ridere.

Chi non ha votato per i 5 stelle, sempre al Sud, ha scelto Salvini. Questa è la seconda sorpresa uscita dalle urne: il leader di un partito nordista, tradizionalmente arroccato nel Settentrione, dove ha sfondato i suoi record storici, che conquista percentuali ragguardevoli anche nelle regioni meridionali, e sommandole conquista il primato nel centrodestra, con il diritto di proporre se stesso come candidato premier, se alla fine la coalizione di centrodestra avrà una maggioranza autonoma in Parlamento, o riuscirà a sfiorarla. La coalizione ex berlusconiana ha cambiato pelle, metà dell’alleanza cosiddetta moderata è dominata dal radicalismo populista e sovranista, stile Le Pen e Orban: ora tocca a Berlusconi decidere in fretta se adattarsi al nuovo corso, prima che i suoi decidano per lui.

Quanto al centrosinistra, il Pd e la sua mini-coalizione sono gli sconfitti di questa tornata. Prevedibili, in un campo percorso da un feroce desiderio di vendetta, lotte intestine, scambi di accuse, specialmente tra i due tronconi separati che facendosi la guerra nei collegi uninominali hanno contribuito a peggiorare le cose. Forte, fortissima, manifestata già alla vigilia del voto, è la tentazione di mettere sul banco degli imputati il solo Renzi, caricandogli sulle spalle tutte le colpe e gli errori fatti dal referendum costituzionale in poi. Ma attenzione a farne un capro espiatorio, com’è nella tradizione della casa, da Tangentopoli e Craxi ai giorni nostri. Perché sconfitto non è Renzi soltanto, ma anche i governi di questa legislatura, Gentiloni compreso, malgrado i meriti e i risultati in termini di risanamento economico del Paese; sconfitto, ancora, è il disegno degli scissionisti dalemian-bersaniani guidati da Pietro Grasso, aspiranti a un risultato a due cifre rimasto una chimera.

Un quadro così confuso, da stamane, è sulla scrivania del Presidente della Repubblica. Con le rituali dimissioni del governo, si aprirà l’iter per individuare una soluzione. Sul tappeto, è inutile nasconderlo, c’è anche la possibilità che Di Maio e Salvini provino a convergere, in nome di un programma minimo: abolizione della legge Fornero, riscrittura dei trattati con l’Europa, blocco dell’immigrazione clandestina. Anche se per il leader leghista sarebbe più logico assumere la guida del centrodestra, piuttosto che tentare l’alleanza con i 5 stelle. Ma in Italia, a questo punto, di logico e normale è rimasto ben poco: c’è da aspettarsi un giro sull’ottovolante, prima di ritrovare, speriamo, il filo della ragione.

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« Risposta #641 inserito:: Marzo 09, 2018, 05:13:29 pm »

Fantasia e potere a fisarmonica: così il Quirinale torna cruciale
Dal governo tecnico-militare alla non sfiducia: ecco gli escamotage dei Presidenti nelle scorse legislature

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella dovrà gestire la crisi di governabilità
Pubblicato il 07/03/2018 - Ultima modifica il 07/03/2018 alle ore 09:45

MARCELLO SORGI
ROMA

Da qualche giorno lettori e telespettatori stanno acquisendo familiarità con un termine - fisarmonica -, che non riguarda lo strumento musicale, ma i poteri del Presidente della Repubblica. Non riuscendo a descriverli diversamente, e dopo essersi scervellati a lungo sul Capo dello Stato, la figura meno definita dalla nostra Costituzione, i costituzionalisti, con questa parola, hanno spiegato che il ruolo del Presidente si allarga e si restringe, proprio come il mantice dello strumento, a seconda dei momenti. Il Presidente «non è l’evanescente personaggio, il maestro di cerimonie, il motivo di pura decorazione che si volle vedere in altre costituzioni», chiarì uno dei padri costituenti, Meuccio Ruini.

È stato sempre così, dalle origini della Repubblica, quando la frequenza continua delle crisi di governo impose subito una liturgia, che s’era molto semplificata negli anni della Seconda Repubblica, quando i governi, grazie ai sistemi elettorali maggioritari, li sceglievano i cittadini, e il Capo dello Stato svolgeva - ma poi non sempre, non tanto -, un compito più notarile.

La storia dei 64 governi dal 1946 a oggi è ovviamente piena di intoppi, infortuni, imprevisti, ripensamenti. E i Presidenti della Repubblica sempre sono stati chiamati a risponderne, non foss’altro perché sono loro (articolo 92 della Costituzione) a nominare il premier e i ministri. Lo fanno in base alla percezione del quadro politico maturata nelle consultazioni. Ma anche, questo è il bello, usando la “fantasia” e seguendo la propria “personalità”, concetti entrati a ragione nei manuali di diritto costituzionale. Ad esempio, quando Giovanni Gronchi, il 26 marzo 1960, incaricò Fernando Tambroni di formare un monocolore democristiano per sbrigare «adempimenti urgenti», non poteva immaginare che in Parlamento si sarebbe ritrovato con l’appoggio del Msi, il partito post-fascista allora ai margini della vita politica.

Tambroni dopo la seduta alla Camera in cui i missini, solitari, lo votarono, pensò bene di dimettersi. Ma Gronchi, che pure veniva dalla sinistra democristiana ed era stato eletto al Quirinale con i voti dei comunisti, s’impuntò, respinse le dimissioni e lo mandò al Senato, dove i missini lo rivotarono, in un clima di tensione. A fine giugno, dopo la decisione del Msi di convocare il proprio congresso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, in tutt’Italia avvennero scontri tra polizia e manifestanti, con una decina di morti e varie centinaia di feriti.

Quattro anni dopo, alla fine di giugno ’64, Antonio Segni era alle prese con la crisi del primo governo di centrosinistra guidato da Aldo Moro. La discussione ruotava attorno al ruolo dei socialisti, al prezzo troppo alto che volevano imporre per mantenere in piedi l’alleanza. Il 15 luglio Segni a sorpresa inserì nelle consultazioni il comandante dei Carabinieri Giovanni De Lorenzo e lasciò filtrare la voce che in mancanza di accordo politico tra i partiti, avrebbe varato un governo tecnico-militare, a cui si opposero subito Moro, il leader socialista Pietro Nenni e quello socialdemocratico Giuseppe Saragat. Nel corso di un chiarimento, chiamiamolo così, assai franco, con Moro e Saragat, il 7 agosto Segni fu colto da un ictus. Così finì la sua presidenza, avvelenata, anni dopo, da accuse mai provate fino in fondo di aver coperto il progetto di un colpo di Stato (il “piano Solo”) affidato allo stesso De Lorenzo.

Fu anche per questa ragione che a Saragat, successore di Segni, fu inibito l’esercizio della “fantasia” presidenziale. A ogni crisi di governo, si limitava ad affidare l’incarico raccomandando di formare un esecutivo «nell’ambito del centrosinistra» e dettagliando pure «la formula quadripartito» (Dc-Psi-Psdi-Pri). Ma non potendo sbizzarrirsi con i governi, Saragat, vecchio capo partigiano che aveva sempre avuto ammirazione per le belle donne, quando Sofia Loren partorì suo figlio, le inviò un telegramma di congratulazioni.

A metà del suo settennato, nel 1976, dopo elezioni finite con un risultato vagamente simile a quello di questi giorni (due vincitori, Dc e Pci, ma nessuna maggioranza possibile) Giovanni Leone dovette gestire la complicatissima crisi che portò per la prima volta i comunisti nell’area di governo, con l’espediente della «non sfiducia», cioè dell’astensione, data ad Andreotti. Le trattative durarono quattro mesi e si conclusero con la storica stretta di mano tra Moro e Berlinguer. Ma al Quirinale salirono solo ministri democristiani.

Subito dopo Sandro Pertini, primo presidente socialista, nel 1978 fece capire che la Dc, dopo trent’anni, avrebbe dovuto rinunciare alla presidenza del consiglio. Ci provò una prima volta nel ’79 con Craxi, che si presentò sul Colle in jeans e fu rispedito indietro per riapparire in veste più istituzionale. Ma la Dc fece le barricate. Pertini si intestardì, e alla fine nell’81, dopo lo scandalo P2, incaricò Spadolini, a cui, dopo le elezioni dell’83, seguì Craxi, che restò a Palazzo Chigi quattro anni.

Cossiga è passato alla storia come “picconatore” per le rivelazioni su Gladio, la rete segreta anticomunista, che fecero sussultare l’ultimo governo Andreotti, i “pesci in faccia” con gli amici del suo partito, le clamorose dimissioni con cui lasciò il Quirinale. Ma qualche avviso del terremoto che si prospettava lo aveva dato anche prima, con una strana lettera mandata a Craxi per sapere chi avrebbe dovuto comandare le Forze Armate in caso di conflitto armato. Si avvicinava la guerra del Golfo, il leader socialista non pensava che fosse così urgente decidere: d’intesa con il Capo dello Stato, fu nominata una commissione, che impiegò qualche anno per dirimere la controversia.

Oscar Luigi Scalfaro, nel ’94, ricevette Berlusconi. Il primo incontro fu piuttosto freddo: il Cavaliere reclamava l’incarico «conformemente al risultato elettorale», in nome della novità inaugurata dei governi scelti dagli elettori. Il Presidente ci rimase male, rivendicava il potere assegnatogli dalla Costituzione. Così, prima di nominare il governo, pretese che Berlusconi e Fini firmassero un documento di piena adesione ai valori della Resistenza.

Le crisi che Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano hanno dovuto affrontare, riguardavano quella più complessiva delle istituzioni, man mano che fallivano i tentativi di riformarle. Così gli ultimi due Presidenti, e particolarmente “re Giorgio”, l’unico eletto due volte, hanno dovuto intervenire continuamente sulla qualità delle leggi, dalla riforma del sistema tv Gasparri alla legge sulle ronde metropolitane. Napolitano, dopo la caduta di Berlusconi, fece sentire con forza il suo potere presidenziale con l’invenzione di Mario Monti e del suo governo tecnico, per affrontare la crisi economica e i rapporti con le autorità europee.

Adesso tocca a Mattarella. Chi lo conosce sa che è preparato al suo compito già dai tempi in cui insegnava diritto costituzionale all’università, e ha una grande esperienza, compiuta in molti passaggi difficili della storia repubblicana. Essendo noto per calma e pacatezza, tutti si chiedono come potrà combinare questa sua personalità con la fantasia necessaria per uscire da una delle crisi più complicate degli ultimi tempi. Lo saprà fare. E lo farà a modo suo, a voce bassa ma con fermezza, se necessario. A chi gli ha chiesto qualche giorno fa, se il suo lavoro sarebbe diventato più difficile dal 5 marzo in poi, ha risposto soltanto: «Perché, finora?».

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Da - http://www.lastampa.it/2018/03/07/italia/politica/fantasia-e-potere-a-fisarmonica-cos-il-quirinale-torna-cruciale-mLUtm9ose8vmqYnRDIqGhP/pagina.html
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« Risposta #642 inserito:: Marzo 25, 2018, 06:16:12 pm »



Pubblicato il 22/03/2018 - Ultima modifica il 22/03/2018 alle ore 10:40

MARCELLO SORGI

Uscita dal vertice del centrodestra alla vigilia delle prime sedute di deputati e senatori, non ha precedenti la proposta di riunire oggi intorno a un tavolo tutti i partiti entrati in Parlamento, per concordare le presidenze delle Camere e la composizione degli uffici di presidenza. Neppure nei momenti più drammatici della storia repubblicana - e ce ne sono stati più complicati di quello attuale - si riuscì a trovare una completa unità, sia pure per stabilire un confronto e assicurarsi una forma di rispetto reciproco. Se dunque assisteremo a una novità del genere, la legislatura nata all’insegna di una durissima contrapposizione avrà realizzato questo imprevedibile e positivo paradosso: dal tutti contro tutti al tutti insieme.

Come e perché si sia arrivati alla svolta è evidente. Dopo due settimane passate a disegnare le assi più estemporanee, Di Maio-Salvini, Cinque Stelle-Pd, Forza Italia-Pd, e così via, senza neppure usare gli algoritmi che vanno tanto di moda, i due vincitori, a cui si attribuivano gran parte di queste manovre, han dovuto prendere atto che il primo partito e la prima coalizione usciti dalle urne sono in realtà due grosse minoranze. E prima ancora di parlare di formule di governo, se non costruiscono le alleanze necessarie per trovare i voti in aula, non saranno in grado di eleggere i presidenti delle Camere.

Per essere più chiari: se Salvini, d’accordo con Di Maio, provasse a fare eleggere al Senato un presidente leghista con l’aiuto dei 5 Stelle, offrendo i voti leghisti in cambio per portare un grillino al vertice della Camera, il giorno stesso andrebbe in frantumi il centrodestra, di cui è appena diventato leader. 

E anche Di Maio, se s’acconciasse a un’intesa del genere, avrebbe la brutta sorpresa di scoprire franchi tiratori nelle folte file dei gruppi parlamentari pentastellati.

Di qui nasce la decisione del leader leghista di tenersi nei ranghi della sua coalizione e chiedere a Di Maio di trattare con tutto il centrodestra, compreso Berlusconi, che qualche tempo fa, non va dimenticato, sul blog di Beppe Grillo veniva apostrofato con insulti tipo «lo psiconano». Del resto, dopo aver avanzato la richiesta di avere il presidente della Camera, i 5 Stelle si erano detti disposti a confrontarsi con tutti: adesso sono messi alla prova con la proposta “dell’incontrone”, com’è stato ribattezzato, alla romana. Per impegnarli anche su un altro criterio, sul quale avevano nicchiato negli incontri preliminari: gli uffici di presidenza - vicepresidenti, questori, segretari - devono essere composti da esponenti di tutti i gruppi, non possono essere spartiti come un bottino di guerra tra i vincitori. Non solo per una questione di rappresentanza, ma di garanzia dei lavori parlamentari: in caso di forzature, che di tanto in tanto si affacciano nella vita parlamentare, talvolta anche soltanto sull’onda di risentimenti, il pluralismo nei vertici delle Camere serve proprio a riportare il rispetto delle regole.

Con queste premesse, stabilito il metodo, indicato il percorso, tra venerdì e sabato si potrebbe arrivare all’elezione dei presidenti, e nei giorni successivi al completamento degli uffici di presidenza. Qualsiasi defezione dall’ «incontrone», sempre possibile, complicherebbe le cose, ma non fino al punto da far saltare ogni approccio. In fondo il centrodestra, al Senato, ha i numeri per eleggersi da solo il proprio presidente. E i 5 Stelle, se davvero vogliono la Camera, dovranno accettare il «patto col diavolo», come Di Maio definiva l’ex-Cavaliere, e passar sopra al rifiuto di votare i condannati, che renderebbe più difficile la candidatura al Senato del capogruppo di Forza Italia Romani. Un loro eventuale rifiuto, infatti, ridarebbe una chance al Pd, fin qui in disparte e intento a elaborare la propria sconfitta. Riserve e indurimenti sono emersi in serata, com’era da aspettarsi: ma occorrerà vedere se ci sarà davvero chi si assumerà la responsabilità di sabotare “l’incontrone”.

Dietro al quale, c’è sì la volontà di far partire senza risse la XVIII Legislatura. Ma anche la più completa diffidenza, che accomuna i rapporti tra le forze politiche, senza differenze tra alleati e avversari. Se tutti siedono allo stesso tavolo, va da sé, è più difficile manovrare sottobanco. Ma resta da vedere se il metodo funzionerà. Per questo è proprio inutile, sebbene siano in tanti a chiederselo da ieri, stabilire se dopo le presidenze «di tutti» verrà il governo «di tutti». Una cosa per volta. Dice un vecchio proverbio: non dire gatto se non ce l’hai nel sacco.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/03/22/cultura/opinioni/editoriali/il-tavolo-della-partita-decisiva-jPpkzYt3j4HR8JSy4dvseL/pagina.html
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« Risposta #643 inserito:: Aprile 19, 2018, 01:52:59 pm »

È finita la pazienza del Colle

Pubblicato il 19/04/2018 - Ultima modifica il 19/04/2018 alle ore 08:49

MARCELLO SORGI

Tanto tuonò che piovve. Il mandato esplorativo (da non confondersi con incarico di governo), affidato da Mattarella alla presidente del Senato Alberti Casellati colpisce, non per la scelta in sé, già nell’aria da qualche giorno, dopo il fallimento del secondo giro di consultazioni, ma per il contenuto limitato e la scadenza temporale brevissima: già domani, quando l’Esploratrice - che ieri sera aveva già ricevuto le delegazioni dei partiti del centrodestra e del Movimento 5 stelle e oggi procederà a un nuovo giro di incontri -, dovrà tornare sul Colle a riferire. Con il vento che tira, e con le prime reazioni registrate, si può dire che invece di approfondire l’eventualità di un’alleanza tra centrodestra e M5S, la presidente si trova a certificarne l’impossibilità. E potrà dirsi fortunata, se riuscirà a non restare coinvolta nello scambio di accuse, veleni e tossine che inevitabilmente accompagneranno il naufragio dell’ipotetico governo dei vincitori.

Ma dalle parole del comunicato del Colle è lecito trarre anche qualche impressione sullo stato d’animo e sul cambio di strategia del Capo dello Stato. Mattarella, s’intuisce, s’è stancato di aspettare. Se l’attesa servisse a qualcosa, avrebbe la pazienza necessaria per sopportarla.

Ma con partiti che rispetto all’attacco missilistico sulla Siria e alla grave crisi che ne è seguita, o sono rimasti indifferenti, o peggio hanno colto l’occasione per mettere in discussione le alleanze storiche e la collocazione internazionale dell’Italia, e per sottolineare le divisioni createsi all’interno dell’Unione europea, è naturale che il Presidente della Repubblica sia stufo. Né avrà avuto ragioni di tornare fiducioso davanti al leader della Lega Salvini, che, fissandoli a metà maggio, dettava i tempi della formazione del nuovo governo, senza accorgersi di entrare in un campo di specifica competenza del Capo dello Stato. Di qui il tono, i contenuti e i tempi prefissati della sua iniziativa.

A meno di miracoli che non sembrano all’ordine del giorno, il tentativo della Alberti Casellati è destinato a un rapido fallimento. Dopo di che, avuta la conferma dell’impraticabilità della formula centrodestra-5 stelle, non è da escludere che Mattarella si rivolga al presidente della Camera Fico, per affidargli un’analoga esplorazione sul versante 5 stelle-Pd.

Tutto è possibile, e in queste ore si moltiplicano sforzi di ogni tipo in questo senso: ma che in pochi giorni il partito di Martina, affaticato da un implacabile scontro interno, ritrovi miracolosamente l’unità, per correre all’abbraccio con Di Maio, è difficile. Sicuramente non sarebbero di questo avviso Renzi e la pattuglia dei senatori renziani che sono in grado con i loro numeri a Palazzo Madama di impedire che si formi una maggioranza siffatta. E se il prezzo di un’intesa fosse la rinuncia di Di Maio alla presidenza del Consiglio, si può scommettere che sarebbero i 5 stelle a tirarsi indietro. Così, nel giro di una settimana o poco più, la melina che finora ha alimentato le chiacchiere sulla crisi di governo e la propaganda per le elezioni regionali in Molise e Friuli, verrebbero definitivamente svelate. E il Presidente sarebbe finalmente libero di imporre una propria soluzione, in nome dell’urgenza, per i cittadini e il Paese, di avere un esecutivo nel pieno dei suoi poteri.
Si tratterebbe, com’è ovvio, di un governo di transizione, di durata limitata - e con queste caratteristiche sostenuto in Parlamento sperabilmente da tutti o quasi tutti -, incaricato di provvedere di qui alla fine dell’anno agli impegni più urgenti: i documenti economici che l’Europa aspetta, la manovra finanziaria e le leggi di bilancio, i vertici internazionali già programmati, la sorveglianza del delicato quadrante mediterraneo, con gli imprevedibili aspetti di coinvolgimento che potrebbero riguardare l’Italia. Solo successivamente, e sempre che l’evoluzione politica dei rapporti tra le diverse forze in campo lo consenta, si potrebbe pensare a un nuovo tentativo di comporre una maggioranza.

Da ieri, com’è ovvio, tutti si chiedono cosa abbia spinto Mattarella all’accelerata. C’è chi risponde che, chiusa ormai la finestra per un ritorno alle urne prima dell’estate, il Presidente, consapevole che i parlamentari neoeletti non hanno alcuna voglia di tornare a casa, ha rotto gli indugi, cercando di indirizzare su binari di trasparenza e razionalità una crisi che rischiava l’impazzimento. C’è chi sostiene che è una mossa azzardata, perché i partiti dimostratisi irresponsabili finora potrebbero arrivare a dire di no anche a una soluzione dettata da uno stato di necessità, inscenando una sfida inaudita con il vertice delle istituzioni. Dio non voglia, sarebbe un suicidio. La verità è che Mattarella ha agito serenamente, convinto che non c’era altro da fare, perché la situazione stava ormai superando i limiti della decenza.

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Da - http://www.lastampa.it/2018/04/19/cultura/finita-la-pazienza-del-colle-YiJAj3nKB7pojPTW5u7OgI/pagina.html
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« Risposta #644 inserito:: Aprile 19, 2018, 01:54:28 pm »


Apprezzamenti e segnali di fumo programmatici oltre gli ostacoli
Pubblicato il 18/04/2018 - Ultima modifica il 18/04/2018 alle ore 07:04

Marcello Sorgi

Si fa strada un’ipotesi, che dovrebbe vedere la luce insieme con la nomina dell’esploratore, più probabilmente esploratrice, la presidente del Senato Alberti Casellati, alla quale sarebbe affidato il compito di testarla nel corso del terzo giro di consultazioni. Si tratterebbe di acclarare, una volta e per tutte, l’indisponibilità dei 5 stelle a stringere con tutto il centrodestra e quella di Salvini a separarsi dalla coalizione per allearsi da solo con Di Maio, ciò che renderebbe impossibile un governo dei due vincitori del 4 marzo. Dopo di che, si passerebbe al tentativo di costruire un’intesa nel perimetro 5 stelle-Pd. Segnali di fumo programmatici in questa direzione si sono avuti ieri tra il reggente Martina e i due capigruppo Toninelli e Grillo, con apprezzamenti reciproci, anche se restano molti ostacoli da superare. Primo, la possibilità che Di Maio rinunci alla premiership in cambio di un’intesa non provvisoria, che porti al varo di un esecutivo destinato a durare, guidato da una personalità scelta dal Capo dello Stato. E viceversa, l’eventualità che il Pd accetti a certe condizioni la presidenza Di Maio. Oppure, nel caso in cui il governo assuma una natura istituzionale, che Di Maio acconsenta che sia Fico, in qualità di presidente della Camera, ad andare a Palazzo Chigi, con una tutela diretta del Quirinale. Oppure ancora, che il Pd, non sentendosi pronto per un’alleanza esplicita con i 5 stelle, si disponga a far partire un loro governo con un’astensione che solo successivamente, al maturare di certe condizioni, si trasformerebbe in appoggio. 

L’asse Di Maio-Salvini, su cui si era lavorato in queste settimane, sembra ormai definitivamente rotto. E il leader leghista, piuttosto che sciogliersi dalla coalizione di centrodestra di cui ambisce a prendere un più forte controllo, metterebbe in conto di restare all’opposizione, puntando su una durata breve della legislatura. Mentre Berlusconi, pur restando formalmente fuori da qualsiasi combinazione di governo, assicurerebbe comunque una certa benevolenza, o almeno un’opposizione meno radicale di quella leghista, al nuovo esecutivo.

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