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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 288994 volte)
Arlecchino
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« Risposta #615 inserito:: Maggio 21, 2016, 04:33:35 pm »

La marcia per i nuovi diritti è inarrestabile

21/05/2016
Marcello Sorgi

Da commenti e analisi dedicate alla morte di Marco Pannella è venuta una domanda, legata, seppure non esclusivamente, all’emozione sollevata dalla sua scomparsa. E cioè: ci sarà ancora un futuro, e quale, per i diritti civili in Italia, adesso che il paladino di quei diritti se n’è andato?

Senza girarci attorno, la risposta non può che essere sì. Intanto perché in quel campo, va riconosciuto, una parte del lavoro è stato fatto. L’Italia non è più, com’era ancora all’alba degli Anni Settanta, un Paese arretrato, uno degli ultimi che continuava a imporre per legge il dogma del matrimonio indissolubile. Per merito di Pannella e dei radicali - ma anche dei laici, dei socialisti e perfino dei comunisti, che abbandonarono la loro iniziale e irrazionale resistenza, e a discapito dei democristiani che si opposero, dapprima con decisione e via via sempre meno -, il divorzio è legale da quarantasei anni, e l’aborto da trentotto.

I due referendum promossi per cancellarli nel 1974 e nel 1981 si conclusero con il 59 e il 68 per cento dei voti in difesa di quei diritti (compresi moltissimi cattolici che si espressero in dissenso dalle indicazioni della Chiesa e della Dc). E da due settimane, anche stavolta, in ritardo sul resto d’Europa e del mondo, il Parlamento ha approvato la legge sulle unioni civili, che assegna per la prima volta anche agli omosessuali conviventi diritti uguali a quelli delle altre coppie di fatto e assimilabili ai coniugi uniti in matrimonio. Ciò è avvenuto per merito (o responsabilità, secondo i punti di vista) di Matteo Renzi, presidente del Consiglio appartenente a una generazione di giovani scout che d’estate, quando partecipavano alle Giornate della Gioventù, la sera, dopo aver cantato in coro con Wojtyla, si coricavano all’aperto e facevano l’amore nei sacchi a pelo, confidando nella benevolenza del Papa. 

E tuttavia, dal testo varato alla fine della tormentata, ma niente affatto superflua, discussione parlamentare, sono state stralciate, com’è noto, le adozioni dei figli dei partners. Si riprenderà a discuterne, forse non si farà in tempo a inserirle in un’altra legge in questa legislatura, ma è inutile nascondersi che prima delle Camere arriveranno, anzi sono già arrivate, le sentenze che hanno riconosciuto il diritto ad essere genitori per uomini e donne gay uniti stabilmente, e in grado, secondo i giudici, di dare amore sincero e buona educazione ai loro figli. Per un numero limitato di casi di questo genere di adozioni già approvate, ci sono decine, forse centinaia, di bambini in attesa dei loro diritti di figli: anche questo è bene saperlo.

 La legalizzazione dell’uso di droghe leggere, formalmente per uso medico, appare e scompare dai calendari delle commissioni parlamentari; il testamento biologico e l’eutanasia si affacciano all’inizio di ogni legislatura e poi immancabilmente si perdono per strada. Ma questo non vuol dire che il cammino dei diritti si sia fermato o sia condannato a fermarsi, perché la velocità del cambiamento della società civile ė tale che anche i politici più ciechi non possono non vederlo. Non si tratta, in altre parole, dei casi di Piergiorgio Welby ed Eluana Englaro, protagonisti delle battaglie più recenti dell’ultimo Pannella per dare ai familiari di malati senza speranza il diritto di por fine alle loro sofferenze. In molti ospedali italiani, anche questo si sa, si cerca di supplire alla mancanza di norme in questo settore adoperando pietosamente, ai limiti della legge, le risorse più avanzate della scienza medica. Ed è la generosità, alle volte sorprendente, di parenti di moribondi, a incoraggiare il salvataggio di altre vite, grazie agli espianti e ai trapianti di organi.

Le carceri, non a caso motivo di un’altra predicazione laica e degli azzardati digiuni di Pannella, sono ancora il luogo di indicibili barbarie, che la civiltà giuridica non dovrebbe consentire, in quella che si vanta di essere la patria del diritto. Ma almeno, grazie all’impegno di due ministri come Paola Severino e Andrea Orlando, si ė riusciti a limitare il problema del sovraffollamento delle celle, avendo il coraggio di trovare forme alternative alla carcerazione e ponendo limiti alla condizione miserabile e disumana di moltissimi detenuti. Molto resta da fare, infine, in materia di cittadinanza, e tutto o quasi sul terreno irto di ostacoli dell’immigrazione extracomunitaria, gravata da insorgenti egoismi europei e uso esasperato di convenienze elettorali interne. Anche in questo campo gli italiani sono migliori, oggi, di quel che sembra l’Italia. La marcia verso il riconoscimento dei nuovi diritti è per questo inarrestabile. Resta solo da capire perché la politica seguiti ad essere più lenta della società che dovrebbe rappresentare.

Era così quaranta e più anni fa, quando il solitario Pannella si alzò a contestare il predominio consociativo di Dc e Pci: per salvare il patto sotterraneo con cui dal governo e dall’opposizione, ma in realtà in piena collaborazione, controllavano il Parlamento, i due grandi partiti di massa avevano messo da parte la questione dei diritti, destinata a dividerli. E avrebbero preferito continuare a ignorarla. Ma ora che la Dc non c’è più e i post-comunisti sono ridotti a minoranza del partito del premier, adesso che Papa Francesco («Chi sono io per giudicare i gay?») lascia ai vescovi il compito di protestare, giusto un atto dovuto, contro le unioni civili, ma poi consente la comunione per i divorziati e apre alle donne diacono, che ragione c’è di continuare a frenare l’evoluzione della società italiana, divenuta moderna malgrado tutto? Tra Prima e Seconda Repubblica, è duro ammetterlo, non c’è stato alcun passo avanti. Anzi s’è aggravato il meccanismo sterile delle interdizioni reciproche. Nella Terza, che dovrebbe uscire dal referendum di ottobre, chissà come andrà. La vigilia è lunga, il pessimismo dell’intelligenza sovrasta l’ottimismo della volontà. Seminare trappole per avversari mai considerati degni di diventare interlocutori, non sforzandosi di far altro, rischia di rendere la politica e i politici italiani sempre più lontani dalle attese dei cittadini. E purtroppo, non solo in materia di diritti.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/05/21/cultura/opinioni/editoriali/la-marcia-per-i-nuovi-diritti-inarrestabile-yDiL1issanp8wHttU298xL/pagina.html
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« Risposta #616 inserito:: Maggio 28, 2016, 11:59:39 am »

Il congresso anticipato tra Enrico e Matteo. Una sfida democristiana senza più la Dc
Distanti dai dualismi Fanfani-Moro o Forlani-De Mita, e destinati a scontrarsi
Il prossimo congresso del Pd, sarà il terreno di sfida tra Renzi e la minoranza del partito


25/05/2016
Marcello Sorgi
Roma

Annunciato ieri dal nuovo, duro scontro personale tra Enrico Letta e Matteo Renzi, il congresso del Pd è cominciato molto prima della scadenza ravvicinata che il segretario-premier aveva offerto ai suoi avversari nell’ultima direzione. La novità è che rispetto alle volte precedenti - e alla tormentata esistenza del partito fondato nel 2007 da Veltroni e sottoposto, in soli otto anni, a ben cinque cambi di leader con modalità da rodeo e disarcionamenti di quelli che non si vedevano neppure nella Prima Repubblica -, non sarà una riedizione della tradizionale partita tra post-comunisti e post-democristiani, alternatisi finora al vertice del partito tra fragili tregue correntizie e guerriglie permanenti. No, sarà un vero congresso Dc, con due candidati - appunto Renzi e Letta - che vengono dalla stessa matrice cattolica di sinistra, e con i comunisti, o quel che ne rimane, nella parte che a suo tempo giocavano i dorotei, il ventre molle dello Scudocrociato, che sapevano sempre fiutare l’aria e schierarsi in tempo nei momenti di svolta.

Per Letta l’inizio della corsa e la fine dell’esilio francese in cui si era ritirato dopo la brusca esclusione da Palazzo Chigi - il famoso tweet «Enricostaisereno» seguito dall’apertura della crisi da parte di Renzi - datano poco più di un mese fa, il 12 aprile. In quella data l’ex-premier, dal suo studio di professore a Sciences Po a Parigi, rilascia un’intervista alla «Stampa» in cui annuncia che voterà «Sì», in accordo dunque con Renzi e la sua riforma, al referendum costituzionale di ottobre; e invece, in dissenso dalla campagna astensionista del premier, tornerà invece in Italia il 17 aprile per votare «No» alla consultazione sulle trivelle.

Cinque settimane dopo, il 21 maggio, quattro giorni fa, il leader della minoranza Pd Bersani, in un’altra intervista alla «Stampa», attacca Renzi per l’eccessiva personalizzazione data sul referendum e la sovrapposizione tra le due campagne che può danneggiare la corsa per i sindaci. E a una domanda su Speranza e Letta, i due possibili candidati anti-Renzi alle prossime assise Democrat, lascia intendere che il primo, rispettabilissimo, non è in discussione, mentre il secondo potrebbe essere l’uomo adatto per separare il ruolo del premier da quello del segretario del partito. Se a ciò si aggiunge che Bersani, nell’intervista, insiste sull’errore di Renzi di legare le sorti del governo all’esito del voto referendario e sostiene che anche in caso di vittoria del «No» la legislatura dovrebbe proseguire, la strategia precongressuale degli avversari del leader è chiaramente delineata.
Al primo punto ci sarà la difesa delle riforme costituzionali che anche gli esponenti della minoranza Pd hanno votato in Parlamento, seppure considerandole «perfettibili». Così che se Renzi a ottobre dovesse andare incontro a una sconfitta, non si potrà dire che è stata colpa loro. Al secondo, la garanzia che chi nel Pd dovesse schierarsi con il «No» non dovrà essere trattato da reietto. Al terzo, la ridefinizione delle regole di convivenza interna che da tempo Bersani e i bersaniani rivendicano, ripetendo che non esiste più uno spazio per la discussione interna e il partito è ridotto a cinghia di trasmissione dei «tweet» del segretario, il quale poi va a braccetto con notabili locali che due anni fa avrebbe rottamato e si accorda con pezzi dell’ex-centrodestra come Verdini, assurti al ruolo di alleati privilegiati e in grado di snaturare l’originaria anima di centrosinistra del Pd.

Per una battaglia come questa, va da sé, Letta è un candidato perfetto. Nonché per un eventuale ritorno a Palazzo Chigi, se le cose a ottobre per Renzi dovessero andare proprio male, con il governo, oltre che il partito, terremotati da un’eventuale vittoria del «No», e il Capo dello Stato nelle condizioni di dover costruire un esecutivo di emergenza, per rattoppare lo sbrego istituzionale, rimettere le mani sulla legge elettorale (che nel frattempo potrebbe essere in parte cassata dalla Corte costituzionale) e portare il Paese a elezioni alla scadenza naturale del 2018.

Sono scenari di cui si parla, in questi giorni, nei corridoi semi deserti del Parlamento, mentre ogni giorno una polemica, uno scambio di accuse, un annuncio di vendetta dilania il maggior partito di governo. I democristiani che affollano il partito, formalmente, ma solo formalmente, renzianizzato, sentono l’odore del sangue e non vedono l’ora della sfida. I due toscani, Matteo e Enrico, il fiorentino e il pisano, sembrano fatti apposta per scendere nell’arena congressuale. Sebbene, a parte le inguaribili nostalgie dc, della Balena bianca, del partitone che sapeva dividersi ma anche ricomporsi, sia ormai rimasto ben poco. I due avversari non somigliano né ai «gemelli di San Ginesio» Forlani e De Mita, che si alternarono per oltre un ventennio sullo scranno più alto di piazza del Gesù, né ai «cavalli di razza» Fanfani e Moro, divisi dal potere e uniti contro la «linea della fermezza» nella tragica primavera brigatista del ’78. 

Non a caso, quando gli fu suggerito di prenderlo come ministro degli Esteri nel suo governo, Renzi rifiutò anche soltanto di ipotizzare la proposta, che forse Letta avrebbe rifiutato. Di lì è partita l’ultima guerra democristiana di questi due ex-ragazzi, cresciuti nel mito dei loro padri. 
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Da - http://www.lastampa.it/2016/05/25/italia/politica/il-congresso-anticipato-tra-enrico-e-matteo-una-sfida-democristiana-senza-pi-la-dc-AXWc8xPH45Aap3qUMY7jEJ/pagina.html
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« Risposta #617 inserito:: Giugno 09, 2016, 11:17:25 am »

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OPINIONI
La democrazia anomala dei frammenti

07/06/2016
Marcello Sorgi

Le elezioni amministrative rappresentano da sempre in Italia una sorta di mid-term, un test per gli equilibri politici presenti e quelli futuri. Fu così per le prime giunte di centrosinistra negli Anni Sessanta. E così per la svolta del 1975, che portò i primi sindaci comunisti alla guida delle grandi città fuori dal perimetro delle «regioni rosse», annunciando la svolta dei governi di unità nazionale ’76-’79. 

E ancora, con l’elezione diretta dei primi cittadini nel ’93, la definitiva esclusione dei democristiani dai ballottaggi e la prima legittimazione del bipolarismo, che doveva portare nel ’94 alla vittoria del centrodestra con Berlusconi. Sepolto, non a caso, dopo quasi un ventennio, dall’ondata dei sindaci arancione, da Pisapia a De Magistris, che nel 2011 avrebbe anticipato di pochi mesi l’uscita da Palazzo Chigi dell’ex-Cavaliere.

Con lo stesso criterio ci si potrebbe chiedere se il voto di domenica scorsa nelle città, la vittoria della Raggi e l’affermazione dell’Appendino e dei 5 Stelle a Roma e a Torino, il risultato in bilico di Sala a Milano, la rivincita dello stesso De Magistris nella Napoli in cui il premier era andato personalmente a lanciargli il guanto di sfida, anticipino la crisi di Renzi e del renzismo. Gli elementi per pensarlo ci sono, e lo stesso presidente del Consiglio, a caldo, ha ammesso la delusione del Pd, sebbene non la consideri decisiva per le sorti del governo. Né va dimenticato che si tratta del primo turno di un’elezione che prevede i ballottaggi, e solo allora, tra due settimane, si potrà fare una valutazione completa.

Al momento la svolta - se di svolta si può parlare - non ha nessuna delle caratteristiche che si erano palesate nel passato; non si sono insomma manifestati un nuovo quadro politico e neppure, per quanto provvisorio, un diverso equilibrio. Il successo, anche oltre ogni previsione, delle candidate M5S a Roma e a Torino non va confuso con il risultato di De Magistris (che è tutt’altra cosa, e già mescola, dopo cinque anni di potere, aspetti di trasformismo e clientele locali con il voto di protesta), e non basta a dire che si va verso un’Italia a 5 Stelle. La resurrezione del centrodestra, a Milano con il tecnico Parisi, a Bologna con la leghista Borgonzoni e a Napoli con l’usato sicuro Lettieri, dimostra che la coalizione ex-berlusconiana ha ancora delle prospettive, ma non risolve la sfida letale tra l’anima moderata del leader-fondatore e quella radicale salvinian-meloniana. Al dunque, l’unico vero obiettivo di Berlusconi era punire e far cadere la leader ribelle di Fratelli d’Italia, e a Roma questo è accaduto, anche al prezzo di una sorta di liquidazione dell’alleanza.

A conferma di questo insieme così frammentato, le percentuali dei partiti, ricavate finalmente ieri sera dopo un calcolo assai complicato, sono di una tale modestia che la nuova carta politico-geografica dell’Italia rivela sintomi di alopecia del potere locale assai difficili da curare e impossibili da riunificare in qualcosa che abbia l’ambizione di tornare ad essere di dimensione nazionale. Il Pd e Forza Italia, per dire del maggior partito della coalizione di centrosinistra e dell’ex-maggiore del centrodestra, si erano presentati con il loro simbolo in un’assoluta minoranza di casi, per il resto si erano camuffati e mescolati a un’indecifrabile ragnatela notabilare di piccolo cabotaggio. Temuto fin dalla vigilia, il guazzabuglio delle liste locali - diffuse ovunque, presenti in qualsiasi schieramento, con la sola eccezione del Movimento 5 Stelle, che dove si è presentato, non certo dappertutto, lo ha fatto da solo - lascia già presagire cosa diventeranno, al termine dei ballottaggi, le trattative per la formazione delle giunte, e subito dopo le vite precarie delle amministrazioni, tenute in pugno da ras locali che non hanno vincoli di appartenenza, né, figuriamoci, di obbedienza, ad alcun partito o organizzazione, si nascondono sotto le sigle più strane e rispondono, in realtà, solo a se stessi. I disgraziati elettori che domenica, malgrado tutto, sono andati a votare, grazie alle coalizioni locali che sostenevano i candidati sindaci, si sono trovati di fronte all’esatto contrario delle più collaudate offerte pubblicitarie dei supermercati. Lì, almeno, in certe stagioni, paghi una e ricevi tre confezioni del prodotto che avevi scelto. Qui, invece, votando un candidato sostenevi un intero schieramento e diventavi sostenitore di certi arnesi che mai avresti voluto avere al tuo fianco.

La crisi del Pd, che comunque, tolta Napoli, resta in gioco da Nord a Sud, lo scatto delle due donne 5 Stelle (non accompagnato da un successo complessivo, dato che alla fine il movimento andrà in ballottaggio in 20 comuni su 1300), e la rinascita isolata del centrodestra saranno pure gli aspetti più evidenti dei risultati. Ma il vero profilo del Paese che vien fuori dalle urne del 5 giugno è quello frastagliato appena descritto. Sarebbe ora che qualcuno in Italia - a cominciare da Renzi e almeno finché è possibile - s’impegnasse a pensare di riorganizzare dei normali partiti, come quelli che finora sono stati distrutti, per ricostruire una democrazia normale.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/06/07/cultura/opinioni/editoriali/la-democrazia-anomala-dei-frammenti-NAidGaAsa3xMR31SuhoDvJ/pagina.html
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« Risposta #618 inserito:: Giugno 17, 2016, 08:07:20 am »

La democrazia anomala dei frammenti

07/06/2016
Marcello Sorgi

Le elezioni amministrative rappresentano da sempre in Italia una sorta di mid-term, un test per gli equilibri politici presenti e quelli futuri. Fu così per le prime giunte di centrosinistra negli Anni Sessanta. E così per la svolta del 1975, che portò i primi sindaci comunisti alla guida delle grandi città fuori dal perimetro delle «regioni rosse», annunciando la svolta dei governi di unità nazionale ’76-’79. 

E ancora, con l’elezione diretta dei primi cittadini nel ’93, la definitiva esclusione dei democristiani dai ballottaggi e la prima legittimazione del bipolarismo, che doveva portare nel ’94 alla vittoria del centrodestra con Berlusconi. Sepolto, non a caso, dopo quasi un ventennio, dall’ondata dei sindaci arancione, da Pisapia a De Magistris, che nel 2011 avrebbe anticipato di pochi mesi l’uscita da Palazzo Chigi dell’ex-Cavaliere.

Con lo stesso criterio ci si potrebbe chiedere se il voto di domenica scorsa nelle città, la vittoria della Raggi e l’affermazione dell’Appendino e dei 5 Stelle a Roma e a Torino, il risultato in bilico di Sala a Milano, la rivincita dello stesso De Magistris nella Napoli in cui il premier era andato personalmente a lanciargli il guanto di sfida, anticipino la crisi di Renzi e del renzismo. Gli elementi per pensarlo ci sono, e lo stesso presidente del Consiglio, a caldo, ha ammesso la delusione del Pd, sebbene non la consideri decisiva per le sorti del governo. Né va dimenticato che si tratta del primo turno di un’elezione che prevede i ballottaggi, e solo allora, tra due settimane, si potrà fare una valutazione completa.

Al momento la svolta - se di svolta si può parlare - non ha nessuna delle caratteristiche che si erano palesate nel passato; non si sono insomma manifestati un nuovo quadro politico e neppure, per quanto provvisorio, un diverso equilibrio. Il successo, anche oltre ogni previsione, delle candidate M5S a Roma e a Torino non va confuso con il risultato di De Magistris (che è tutt’altra cosa, e già mescola, dopo cinque anni di potere, aspetti di trasformismo e clientele locali con il voto di protesta), e non basta a dire che si va verso un’Italia a 5 Stelle. La resurrezione del centrodestra, a Milano con il tecnico Parisi, a Bologna con la leghista Borgonzoni e a Napoli con l’usato sicuro Lettieri, dimostra che la coalizione ex-berlusconiana ha ancora delle prospettive, ma non risolve la sfida letale tra l’anima moderata del leader-fondatore e quella radicale salvinian-meloniana. Al dunque, l’unico vero obiettivo di Berlusconi era punire e far cadere la leader ribelle di Fratelli d’Italia, e a Roma questo è accaduto, anche al prezzo di una sorta di liquidazione dell’alleanza.

A conferma di questo insieme così frammentato, le percentuali dei partiti, ricavate finalmente ieri sera dopo un calcolo assai complicato, sono di una tale modestia che la nuova carta politico-geografica dell’Italia rivela sintomi di alopecia del potere locale assai difficili da curare e impossibili da riunificare in qualcosa che abbia l’ambizione di tornare ad essere di dimensione nazionale. Il Pd e Forza Italia, per dire del maggior partito della coalizione di centrosinistra e dell’ex-maggiore del centrodestra, si erano presentati con il loro simbolo in un’assoluta minoranza di casi, per il resto si erano camuffati e mescolati a un’indecifrabile ragnatela notabilare di piccolo cabotaggio. Temuto fin dalla vigilia, il guazzabuglio delle liste locali - diffuse ovunque, presenti in qualsiasi schieramento, con la sola eccezione del Movimento 5 Stelle, che dove si è presentato, non certo dappertutto, lo ha fatto da solo - lascia già presagire cosa diventeranno, al termine dei ballottaggi, le trattative per la formazione delle giunte, e subito dopo le vite precarie delle amministrazioni, tenute in pugno da ras locali che non hanno vincoli di appartenenza, né, figuriamoci, di obbedienza, ad alcun partito o organizzazione, si nascondono sotto le sigle più strane e rispondono, in realtà, solo a se stessi. I disgraziati elettori che domenica, malgrado tutto, sono andati a votare, grazie alle coalizioni locali che sostenevano i candidati sindaci, si sono trovati di fronte all’esatto contrario delle più collaudate offerte pubblicitarie dei supermercati. Lì, almeno, in certe stagioni, paghi una e ricevi tre confezioni del prodotto che avevi scelto. Qui, invece, votando un candidato sostenevi un intero schieramento e diventavi sostenitore di certi arnesi che mai avresti voluto avere al tuo fianco.

La crisi del Pd, che comunque, tolta Napoli, resta in gioco da Nord a Sud, lo scatto delle due donne 5 Stelle (non accompagnato da un successo complessivo, dato che alla fine il movimento andrà in ballottaggio in 20 comuni su 1300), e la rinascita isolata del centrodestra saranno pure gli aspetti più evidenti dei risultati. Ma il vero profilo del Paese che vien fuori dalle urne del 5 giugno è quello frastagliato appena descritto. Sarebbe ora che qualcuno in Italia - a cominciare da Renzi e almeno finché è possibile - s’impegnasse a pensare di riorganizzare dei normali partiti, come quelli che finora sono stati distrutti, per ricostruire una democrazia normale.

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« Risposta #619 inserito:: Settembre 23, 2016, 11:40:08 am »

Un rifiuto per compattare il Movimento

22/09/2016
MARCELLO SORGI

Atteso, ma fino all’ultimo non scontato, il «no» di Virginia Raggi alla candidatura di Roma alle Olimpiadi segna una svolta dura nell’amministrazione della Capitale, fin qui impantanata nella propria incapacità, e rischia di trasformarsi in una dichiarazione di sfiducia, della sindaca e dell’intero M5S, verso se stessi. 
 
Nelle settimane e nei mesi ormai che hanno preceduto l’annuncio di ieri, Raggi e il vertice stellato infatti avrebbero potuto motivare più seriamente la propria convinzione, basandosi su un’approfondita analisi delle opportunità e dei rischi e trovando un sostegno più forte alle loro posizioni. Invece, non c’è uno solo degli argomenti portati dalla sindaca in conferenza stampa che non possa essere contraddetto.
 
Dire che queste sarebbero state le «Olimpiadi del mattone, un pretesto per nuove colate di cemento», è come negare a priori che la nuova amministrazione - insediata con un voto plebiscitario degli elettori romani che invocavano il cambiamento, dopo le fallimentari esperienze di Alemanno e Marino e dopo l’ondata di corruzione sfociata nell’inchiesta «Mafia Capitale» - non sarebbe stata in grado di impedirlo, cogliendo l’occasione per impegnare i consistenti fondi pubblici che il governo aveva messo a disposizione per ricostruire l’immagine e la sostanza di una grande città derelitta, che non aspettava altro.
 
Ancora, dire che il settanta per cento dei romani si erano espressi contro le Olimpiadi con il voto del ballottaggio del 19 giugno che ha segnato il trionfo dei 5 stelle, equivale a dimenticarsi che in campagna elettorale era stato promesso di dare ai cittadini l’ultima parola, perfino con un referendum. Tra l’altro, i sondaggi svolti in questi ultimi giorni, rivelano che a certe condizioni l’opinione pubblica capitolina è in maggioranza favorevole ai Giochi. 
 
Citare il residuo di debito a bilancio del Comune per quelli del 1960 come esempio di un nuovo dissesto finanziario da evitare, per non caricare i romani di nuovi debiti, significa ignorare quale grande trasformazione le Olimpiadi portarono cinquantasei anni fa, in una Capitale che era rimasta una sorta di grande paesone e per una popolazione di oltre tre milioni di persone che da quell’esperienza uscirono proiettate verso la dimensione di una moderna metropoli. Inoltre, lasciare dietro la porta il presidente del Coni, dopo averlo convocato per discutere, non è stato solo un gesto di maleducazione da parte di una sindaca che in fatto di buone maniere s’è già fatta conoscere Oltretevere, ma una mancanza di riguardo verso un’istituzione che rappresenta l’Italia nel mondo. Infine, non c’è bisogno di essere sportivi per sapere che le Olimpiadi non sono solo quell’appaltificio a cui Raggi le vorrebbe ridurre: sono innanzitutto un insieme di passione, orgoglio ed entusiasmo giovanile, come ci hanno ricordato proprio in questi giorni i ragazzi italiani delle Paralimpiadi, pronti ad approfittarne per gettare il cuore oltre l’ostacolo del loro ingrato destino.
 
Ma di tutte queste obiezioni, come degli innumerevoli post dei loro elettori che ieri su Internet hanno protestato contro il «no» alle Olimpiadi, Raggi, Grillo, Di Maio, Di Battista e tutto il gruppo dirigente 5 stelle - c’è da giurarci - se ne fregheranno. Giunti in pessime condizioni alla vigilia dell’assemblea di Palermo, che dovrebbe delineare il futuro del Movimento e superare le rissose divisioni che la vicenda del Campidoglio ha fatto emergere, i grillini erano a caccia di un annuncio a effetto, che servisse a sollevare un terremoto di reazioni avversarie, e sull’onda di queste una ragione per ricompattarsi, per reagire all’assedio e ribadire la propria diversità. Tal che, pur essendo inaccettabile la scelta del Movimento 5 stelle e della sindaca Raggi, nonché il modo e il momento in cui è maturata ed è stata annunciata, a malincuore bisognerà rassegnarsi a questa ennesima prova di nullità. In fondo, non vale neppure la pena di approfondirne le motivazioni. Ragionarci servirebbe solo a fare il loro gioco, per sentirsi ripetere che le obiezioni «delle lobbies e dei giornaloni» sono la prova che la decisione era giusta.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/09/22/cultura/opinioni/un-rifiuto-per-compattare-il-movimento-mUnahH108aVia8uwdt03RP/pagina.html
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« Risposta #620 inserito:: Ottobre 15, 2016, 08:00:38 pm »

Il partito al canto del cigno

11/10/2016
Marcello Sorgi

La crepa che s’è aperta nel Pd e rende più incerto l’esito del referendum, dal momento che il partito avrebbe dovuto essere (e non sarà) il traino del «Sì», per una volta è soprattutto politica, e non, o non esclusivamente, connessa al groviglio di odii e risentimenti personali che da sempre dividono i Democrat. 

S’è capito benissimo ascoltando il dibattito che per tutto il pomeriggio s’è svolto al Nazareno, nel quale, dopo la relazione con cui Renzi ha formalizzato la sua apertura ad eventuali modifiche dell’Italicum, s’è affacciato chiaramente il fantasma del proporzionale. Cioè, per intendersi, l’esatto contrario dei sistemi maggioritari su cui s’è retta per oltre un ventennio, con tutti i suoi limiti, la Seconda Repubblica, consentendo ai cittadini di scegliersi direttamente i governi, poi rivelatisi non sempre in grado di governare.

Contro questo meccanismo, che ha nell’Italicum una delle sue applicazioni, frutto di un compromesso e di un tentativo di migliorare il Porcellum dichiarato incostituzionale, la minoranza bersaniana, che non aveva votato la nuova legge elettorale in Parlamento, s’è spinta ad annunciare che voterà «No» alla riforma costituzionale il 4 dicembre. 

Nel tentativo di dare «rappresentanza» - è la parola chiave adoperata da Roberto Speranza, l’ex capogruppo dei deputati che proprio per non approvare l’Italicum si dimise - a quella parte della sinistra che con i partigiani dell’Anpi, l’Arci, le associazioni antimafia e altri pezzi della società civile sono già schierati contro Renzi.

Qui la discussione interna al partito del premier è arrivata a un punto di svolta. Perché la minoranza non ha chiesto solo di correggere questo o quel punto dell’Italicum, che piuttosto vorrebbe interamente riscritto. Ma di dare legittimazione a chi vuole opporsi nelle urne, alla legge elettorale e alla riforma costituzionale insieme, approfittando della prima occasione disponibile, appunto il 4 dicembre. Un ragionamento come questo - Speranza non ha parlato di numeri, ma la minoranza da tempo ne dispone - poggia sulla valutazione, emersa da recenti sondaggi, secondo la quale il 36 per cento dell’elettorato Pd, più di un terzo, in valori assoluti il 12-13 per cento del totale dei voti degli elettori, è ormai risolutamente per il «No». E questo 12-13, sommato al 4-5 che sta fuori del partito, alla sua sinistra, guarda caso fa il 16-17 per cento che il Pds, erede, dopo il cambio del nome, del vecchio partito comunista, prese nel ’92, nell’ultima occasione in cui si votò con il proporzionale.

 In altre parole, se al referendum Renzi e il «Si» saranno sconfitti, e perfino se la Corte Costituzionale, quale che sia il risultato, riscriverà l’Italicum, per esempio rendendo obbligatorio il premio di maggioranza per le coalizioni, e non com’è adesso solo per il partito vincente, il Pci, o come si vorrà chiamare, è pronto a rinascere a sinistra del Pd. Va da sé che per Bersani, Speranza, Cuperlo e tutti coloro che si preparano a far campagna per il «No» insieme a D’Alema, che li aveva preceduti su questo fronte, sarebbe più adatto il proporzionale, che gli consentirebbe più comodamente di riorganizzarsi in proprio, sapendo che su questo terreno troveranno disponibili in Parlamento tutti o quasi gli altri partiti, incapaci di collaborare, ma pronti a unirsi in nome del sistema che nella Prima Repubblica garantiva governi brevi e facili da sostituire, alleanze mutevoli e occasionali e una sorta di diritto al trasformismo.

Dunque il percorso è chiaro. Chiarissimi anche l’obiettivo e le vittime designate: Renzi, il suo governo e la sua riforma. Il Pd, per come lo si conosceva, da ieri non c’è più. Quel che resta da vedere è se con la - assai meno probabile, dopo quel che è accaduto, ma non del tutto impossibile, non si sa mai con i referendum -, vittoria del «Sì», dopo il Pci vedremo rinascere la Dc.

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« Risposta #621 inserito:: Dicembre 08, 2016, 06:06:29 pm »

Così nasce il partito di Matteo

Pubblicato il 08/12/2016
Marcello Sorgi

Il 7 dicembre verrà ricordato, non solo come il giorno delle dimissioni formali del premier e della fine del suo governo, ma anche del battesimo del Partito di Renzi. Un partito nuovo, nato domenica nelle urne del referendum in cui la riforma costituzionale è stata sconfitta, ma oltre tredici milioni di elettori hanno votato «Sì». Un partito che forse non sarà del 40 per cento, il numero magico che ha accompagnato fin qui la carriera del leader del Pd - dalla sconfitta alle primarie del 2012 contro Bersani, alla vittoria alle Europee del 2014, alla crisi di governo, provocata dall’exploit del «No» al 60 per cento -, ma secondo gli studiosi dei flussi elettorali può puntare tranquillamente al consenso di un italiano su quattro, una percentuale ragguardevole, per giocare nella nuova (o vecchia?) stagione che sta per aprirsi del ritorno al proporzionale e alla Repubblica partitocratica. 

Renzi ha detto che i risultati referendari, a suo giudizio, hanno abbattuto la riforma, il Parlamento che l’aveva votata sei volte e il governo che conseguentemente va a casa. 

Ma non lui, che solo temporaneamente si fa da parte per prepararsi alle prossime elezioni, portando il bilancio dei suoi mille giorni, le riforme fatte e non fatte, il miglioramento delle condizioni del Paese, che magari avrebbe voluto più consistente ma considera non trascurabile. Va da sé che Renzi, anche se non lo ha detto esplicitamente, considera irrimediabile la frattura aperta dalla minoranza del suo partito schierandosi con il «No»; e per definire i contorni della sua iniziativa guarda al popolo del «Sì» e alla linea di fondo che ha accompagnato il suo lavoro a Palazzo Chigi, «più diritti e meno tasse»: sarà questo lo slogan con cui si ripresenterà presto davanti agli elettori. Guardando, a sinistra, non ai suoi avversari interni, che sdegnosamente non ha neppure citato, ma al progetto dell’ex sindaco di Milano Pisapia: mirato, tra molte difficoltà, a riunire in Italia le possibili frange di uno schieramento frastagliato, dentro e fuori il Pd, con la sola discriminante di volersi impegnare in una prospettiva riformista, e non nella serie infinita di vendette che animano il partito dalla sua fondazione. L’addio a D’Alema, Bersani, Speranza e agli ex comunisti del «No» non potrà certo essere stabilito nei termini di uno sfratto: ma è ormai consumato, e Renzi, sforzandosi di non mostrare rancore, ha fatto capire che non intende tornare indietro. Del resto, bastava guardare sotto la sede del Nazareno la folla degli iscritti divisa in due schiere che stavano per venire alle mani, per capire che la separazione tra le due anime del Pd, che dev’essere ancora formalizzata al vertice, nella base è già avvenuta.

 

Resta ancora da capire quali saranno le conseguenze della svolta di ieri sulla crisi. Renzi non parteciperà neppure alle consultazioni, al Presidente della Repubblica ha spiegato che è disposto ad appoggiare un nuovo governo, per il tempo breve necessario all’approvazione della nuova legge elettorale, solo se anche gli altri partiti di opposizione saranno disposti a condividerne la responsabilità. In altre parole, pur rispettoso delle prerogative del Capo dello Stato, si dichiara indisponibile a pagare il conto presentato dagli elettori a Bersani nel 2013, dopo che il centrodestra era passato all’opposizione e il peso delle scelte del governo Monti era ricaduto per intero sulle spalle del centrosinistra.

Il Quirinale avvia oggi le consultazioni: ma a parte Berlusconi, che non s’è pronunciato chiaramente, Salvini, Meloni e Grillo hanno già detto che vogliono il voto. Se non ci saranno novità, dunque, a Mattarella non resterà che decidere se mandare in Parlamento un governo del Presidente, tecnico o istituzionale, a cercarsi la maggioranza, oppure, a sorpresa, in assenza di alternative, chiedere a Renzi di fare il bis.

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« Risposta #622 inserito:: Gennaio 12, 2017, 12:28:11 pm »

Una sentenza che apre altri problemi
Il «no» della Corte Costituzionale al referendum sul Jobs Act allontana per il momento, sebbene non del tutto, il rischio di elezioni anticipate

Pubblicato il 12/01/2017
MARCELLO SORGI

Il «no» della Corte Costituzionale al referendum sul Jobs Act, e in particolare sull’articolo 18, allontana per il momento, sebbene non del tutto, il rischio di elezioni anticipate. Se si faranno, infatti, non sarà per rinviare la consultazione sulla riforma che ha cancellato, se non in casi eccezionali, il diritto al reintegro nel posto di lavoro del dipendente licenziato. E da questo punto di vista, determinante sarà la prossima decisione dei giudici della Consulta, attesa per il 24 gennaio, sull’Italicum, la legge elettorale maggioritaria a doppio turno con la quale sarebbe stata eletta soltanto la nuova Camera dei Deputati, nel caso, che non s’è verificato dati i risultati delle urne del 4 dicembre, in cui la riforma costituzionale proposta dal governo Renzi avesse ricevuto l’approvazione degli elettori. 
 
Sospesa tra un referendum e l’altro: questa è in sostanza la condizione precaria della politica italiana, a cui l’improvviso ricovero in ospedale di Paolo Gentiloni, sottoposto con successo a un intervento di angioplastica, ha aggiunto un ulteriore elemento di incertezza che l’annunciata, rapida convalescenza del premier dovrebbe prevedibilmente eliminare nei prossimi giorni. Ecco perché, pur avendo sgomberato il campo dal rischio della cancellazione di una delle riforme più significative, e più apprezzate in Europa, del governo precedente (l’articolo 18 rappresentava uno dei maggiori motivi di resistenza agli investimenti stranieri in Italia), ammettendo invece la consultazione sui voucher, e quella, meno importante, sugli appalti, la Corte Costituzionale ha risolto un problema, ma ne ha creato un altro, che adesso toccherà all’estenuato Parlamento che si avvia alla conclusione della legislatura tentare di risolvere.
 
Per il modo in cui è stato proposto, chiedendo la completa abrogazione della normativa sui voucher attualmente in vigore, il referendum, per essere aggirato, richiederebbe una sostanziale riscrittura della legge, che dovrebbe successivamente essere esaminata dalla Corte di Cassazione per valutare l’eventuale venir meno dei presupposti della consultazione. Ci sono attualmente sei diverse proposte giacenti nelle commissioni, che verosimilmente potrebbero essere ridotte a una, da approvare in tempo utile con un iter accelerato. In passato, ad esempio per il referendum sulle liquidazioni del 1981, era accaduto perfino che il governo fosse intervenuto per decreto alla vigilia del voto, previsto per legge tra il 15 aprile e il 15 giugno, e la Cassazione avesse ritenuto legittimo e valido l’intervento, a sostegno di una maggioranza parlamentare che aveva già raggiunto un accordo di massima.
 
È inutile nascondersi che rispetto a un esito come questo, possibile sulla carta, congiurano due difficoltà, non insormontabili, ma da affrontare. La prima è che il pallino della riforma dei voucher da riformare è nelle mani della sinistra Pd, che si muove di sponda con una Cgil che, oltre ad aver raccolto tre milioni di firme per i referendum, ha depositato da tempo alle Camere il testo di una legge d’iniziativa popolare che mira a riscrivere tutta la materia del diritto del lavoro, cancellando la deregulation imposta dalle riforme e restaurando in buona parte il regime del vecchio Statuto dei lavoratori degli Anni Settanta. La stessa Cgil - ed è la seconda difficoltà - ha accolto molto male la sentenza della Corte Costituzionale, e per bocca della segretaria Susanna Camusso ha annunciato un ricorso alla Corte europea dei diritti, accusando in sostanza i giudici della Consulta di aver voluto privare gli elettori italiani del loro diritto a pronunciarsi sul Jobs Act. Una posizione durissima, che non lascia ben sperare anche sul modo in cui il maggior sindacato intende accompagnare il percorso parlamentare della nuova legge sui voucher.
 
Infine vi è una terza difficoltà, meno esplicita ma non per questo meno pressante: a Renzi non dispiacerebbe che le elezioni anticipate, fin qui legate al presente e al futuro di una legge elettorale da riscrivere, arrivassero invece per la scorciatoia del rinvio del referendum. È un’altra incognita di cui tener conto.

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« Risposta #623 inserito:: Gennaio 23, 2017, 11:22:18 am »


Raro dialogo a distanza fra ex rivali

Pubblicato il 23/01/2017
Marcello Sorgi

Non sembri un’esagerazione: le interviste a Prodi e a Berlusconi che pubblichiamo oggi su La Stampa rappresentano un eccezionale documento politico contemporaneo. 

I due leader, presidenti del Consiglio e avversari dei primi quasi vent’anni della Prima Repubblica concordano a distanza, inaspettatamente, nell’analisi della situazione, su più punti rispetto a quelli su cui non sono d’accordo. Comune è l’attesa, venata di timori non nascosti, per l’esordio di Trump alla presidenza Usa e per le conseguenze sull’economia mondiale, gravata ancora dalle incertezze e dai sintomi non del tutto scomparsi della crisi di questi anni; comune la sollecitazione per un riavvicinamento alla Russia di Vladimir Putin, «amicizia» la definisce Berlusconi, che secondo Prodi addirittura l’Europa dovrebbe cominciare prima dell’America.

LEGGI ANCHE - Prodi: “I progressisti devono rispondere al malessere della classe media” 

Comune la preoccupazione per lo stato dell’Europa, divisa da muri anti-immigrati e da tensioni distruttive, soffocata da burocrazie opprimenti, minacciata dalla rincorsa del populismo, incalzante in varie forme e sotto diverse facce anche in Paesi fondatori come Francia e Germania; comune, ancora, l’apprezzamento per Gentiloni e per il modo pacato e razionale con cui sta cercando di affrontare la complicata eredità di problemi ricevuta da Renzi (del quale, in modo più o meno esplicito, entrambi mostrano di non avere uguale considerazione); comune, infine, la consapevolezza che dalle difficoltà del momento, che riguardano l’Italia non meno che l’Europa o il resto del mondo, si possa uscire sfidando il decadimento della politica, non con gli stessi argomenti con cui si manifesta, ma con un di più di riformismo e di serietà. 

 LEGGI ANCHE - Berlusconi: “Trump ha ragione su Putin. Ma l’isolazionismo è un errore” 

Tal che, non senza sorpresa, si potrebbe osservare che i due uomini-simbolo della stagione del bipolarismo, impegnati da sempre a presentarsi come alternativi, nelle rispettive convinzioni ideali, nei programmi, nella scelta dei metodi, delle persone e degli alleati per portarli avanti, confermano come nei frangenti più difficili, come l’attuale, governare sia sempre più far quel che si deve e non quel che si vuole, e due avversari rimasti tali, ma in grado di mostrare senso di responsabilità, già solo per questo mantengono un ruolo anche in una stagione che non è più la loro. 
Dove invece la distanza tra il Professore e il Cavaliere è rimasta intatta, e se possibile s’è accresciuta, è sul terreno della politica interna. Mentre Prodi - a dispetto di una realtà in cui agisce ormai stabilmente un terzo polo (primo nei consensi nel 2013 e oggi ancora in testa ai sondaggi), rappresentato dal Movimento 5 Stelle -, rimpiange la stagione del bipolarismo e suggerisce, per riproporla, di superare le divergenze tra alleati per ricostruire le coalizioni, Berlusconi non sembra più nutrire quella speranza.   

Sarà perché un pezzo del populismo nostrano ce l’ha in casa, con Salvini, Meloni e con quelli nel suo partito, come Toti, che pensano di schierarsi con loro, sarà anche per via della stabilità delle sue imprese minacciata dall’estero, ma l’ex-premier appare ormai tutto interno alla logica del proporzionale e della partitocrazia rinascenti, che proprio in forza dell’impossibilità di guadagnarsi una maggioranza da soli, costringerebbe i partiti singoli alle larghe coalizioni, ridando un peso indispensabile a Forza Italia.

Che questa, poi, possa essere la soluzione del futuro per l’Italia, dopo oltre un ventennio di inconcludente transizione, sarà tutta da vedere. Ma non ci sarà molto da aspettare: l’ultima parola in materia, infatti, la dirà domani la Corte Costituzionale chiamata a pronunciarsi sulla legge elettorale.

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« Risposta #624 inserito:: Aprile 03, 2017, 05:36:59 pm »

All'ombra della grande coalizione

Pubblicato il 01/04/2017
Ultima modifica il 01/04/2017 alle ore 07:15

MARCELLO SORGI

Anche se ha fatto infuriare i suoi ex, e insieme potenziali alleati Salvini e Meloni, non c’è dubbio che la posizione assunta da Berlusconi nell’incontro con la Merkel sia giusta. In tutta Europa, dall’Olanda di Rutte alla Francia di Macron alla Germania dell’inossidabile Cancelliera, la partita contro i populisti la stanno giocando i moderati di centrodestra. 

 
È il fatto che ci sia, in Italia, un doppio fronte, in cui Renzi da una parte, e Salvini e Meloni dall’altra, provano a combattere Grillo quasi con i suoi stessi argomenti e con il suo stesso stile di comunicazione, non fa affatto ben sperare, perché il rischio è che tra diversi messaggi di protesta gli elettori finiscano per preferire l’originale alle imitazioni, e come dicono i sondaggi, settimana dopo settimana, si spostino progressivamente verso il M5S, l’unico che al di là delle modeste prove date alla guida della Capitale e di altre città non sia stato ancora sperimentato alla guida del Paese, in funzione anti-establishment e per una nuova rottamazione. Non ci vuole particolare abilità a criticare l’Europa, attaccandone la linea di rigore in economia, o a parlare di doppia moneta e di ritorno alla lira, o a promettere nuovi muri anti-migranti stile-Trump, senza neppure curarsi del fatto che andrebbero eretti, chissà come, nel Canale di Sicilia o nel deserto libico. 
 
Ma prima di farlo, o prima di continuare a provarci, forse occorrerebbe chiedersi a chi fanno gioco queste predicazioni: e a giudicare dalle condizioni in cui versano il Pd, la Lega e Fratelli d’Italia, non sembra proprio che sia questa, per loro, la miglior cura ricostituente.
 
Sull’Europa e sui rischi di dissoluzione dell’Unione nell’anno in cui si sono celebrati i sessant’anni della sua nascita, sull’euro malgrado tutto e sull’immigrazione come fenomeno epocale, che richiede una capacità strategica adeguata, ci sarebbe invece spazio per un discorso di verità, sol che si abbia la voglia di pronunciarlo. Un centrodestra unito come oggi non è, e un centrosinistra miracolosamente guarito dalle sue croniche lotte intestine avrebbero entrambi la capacità per tentare un’operazione come quella che il candidato centrista Macron in Francia, con l’appoggio, perfino, dell’ex primo ministro socialista Valls, e sotto sotto anche del presidente Hollande, stanno realizzando, a discapito di Marine Le Pen; e che la Merkel, coerentemente con la sua lunga militanza europeista, sta conducendo in Germania, pagando i prezzi che è necessario pagare in questi casi.
 
Ma Berlusconi e Renzi avranno il coraggio di farlo? È lecito dubitarne. Del Cavaliere, si sa che le sue svolte, anche quelle più importanti, sono sempre accompagnate da ripensamenti: fu così anche quando annunciò in diretta tv il suo ritiro, salvo pentirsene due giorni dopo. E per il leader, in attesa di riconferma, del Pd, la tentazione di rovesciare il tavolo e gettarsi a capofitto in una nuova campagna elettorale, per cercare la rivincita dopo il referendum, diventerà più forte, specie se, come sembra ormai scontato, la sua vittoria alle primarie del 30 aprile sarà più forte delle previsioni.
 
Al dunque, a pesare sulle loro scelte strategiche, molto più dello scenario europeo sarà quello italiano, e in particolare la legge elettorale su cui continuano a rinviare il confronto in Parlamento. Se la legge sarà maggioritaria, o comunque riuscirà a salvare una parvenza di maggioritario, sotto forma di premio elettorale o di ritorno ai collegi uninominali tipo Mattarellum, Berlusconi cercherà a qualsiasi costo l’accordo con i suoi vecchi alleati, tornati, c’è da aspettarsi, disponibili, in vista dei vantaggi riservati a una coalizione o a una lista comune. E Renzi, da parte sua, farà in modo di ricomporre la scissione del suo partito, nata più che altro da incompatibilità personali e da un ispessimento dei rapporti interni, più che da pretese divisioni politiche, che di solito, normalmente, si risolvono. Se invece la legge sarà proporzionale, come al momento sembra, dato che tutti la considerano l’antidoto più sicuro al possibile approdo dei 5 stelle al governo, ognuno andrà per conto suo, a destra e a sinistra. Nessuno vincerà. Forse non ci sarà maggioranza neppure con le larghe intese. Non vorremmo crederci: ma per impedire a Grillo di andare a Palazzo Chigi, i nostri eroi sarebbero capaci di consegnare l’Italia all’ingovernabilità.
 
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« Risposta #625 inserito:: Aprile 11, 2017, 06:21:42 pm »

Una svolta che riapre la partita

Pubblicato il 11/04/2017 - Ultima modifica il 11/04/2017 alle ore 06:56

MARCELLO SORGI

Per carità, siamo tutti uguali davanti alla legge. E un errore, o una svista, possono capitare. Ma cosa dovrebbe dire un cittadino comune, se un’intercettazione che, a detta di chi l’ha valutata, «assume straordinario valore e consente di inchiodare alle sue responsabilità» l’indagato, si rivela inesistente, falsa o manipolata? 

Si dà il caso che il cittadino, in questo caso, sia Tiziano Renzi, e l’indagine in cui è coinvolto quella relativa ai famosi appalti Consip per i quali l’imprenditore napoletano Romeo avrebbe corrotto un funzionario, che poi ha confessato. Da questo, che forse è l’unico passaggio incontestabile delle indagini, il sostituto procuratore Woodcock, coadiuvato dai carabinieri del Noe, il nucleo ecologico dell’Arma, è risalito al padre dell’ex presidente del Consiglio, accusato di traffico di influenze, e al ministro dello Sport Lotti e allo stesso comandante generale dei carabinieri Del Sette, a cui si contesta di aver messo in guardia i Renzi, padre e figlio, rivelando illecitamente che un’inchiesta a loro carico era in corso. E che in un’intercettazione lo stesso Romeo riferiva di un incontro con Renzi padre, a cui sarebbe seguita un’annotazione su un bigliettino, trovato a pezzi tra i sacchi di rifiuti dell’azienda di Romeo, in cui si faceva accenno a pagamenti da trentamila euro a un certo «T.»: presumibilmente Tiziano?
 
Nelle stesse carte veniva sottolineato che la perquisizione degli uffici di Romeo in piazza Nicosia a Roma, e il recupero della mondezza in cui si celava il «pizzino», erano avvenuti sotto gli occhi intimidatori di un elemento dei servizi segreti, che a ogni buon conto gli ufficiali dei carabinieri avevano fotografato, per poterlo successivamente identificare e per dimostrare come lo Stato, o qualche pezzo deviato dello Stato, come usa dire, con una mano fa e con l’altra disfa. Per inciso, va ancora ricordato che Lotti, a causa di tutto ciò, ha dovuto difendersi in Parlamento da una mozione di sfiducia che, va da sé, avrebbe riguardato Matteo Renzi, se ancora fosse stato in carica e non si fosse dimesso prima per gli esiti del referendum costituzionale del 4 dicembre. Inoltre, per le stesse ragioni, la riconferma del generale Del Sette, alla fine prorogato per un anno, è stata accompagnata da diverse contestazioni politiche.
 
Adesso si viene a sapere che il carabiniere che mise per iscritto che Romeo aveva parlato di un incontro con Renzi si era sbagliato o - ipotesi peggiore, per la quale viene perseguito - aveva commesso un falso. Non Romeo, ma l’ex-parlamentare Italo Bocchino, che di Romeo era divenuto consulente, aveva parlato di quell’incontro. Bocchino, a scanso di equivoci, afferma che si riferiva a Renzi figlio, e ovviamente si era trattato di una casualità di quelle che possono capitare ogni giorno ai politici, uno scambio di battute sulla situazione, nello studio televisivo di un talk-show o in Parlamento. Quanto all’agente segreto fotografato vicino a Piazza Nicosia, era una persona qualsiasi, identificata come un abitante di quella zona. Magari stava tornando a casa, o era appena uscito, e il trambusto della perquisizione attirò, per qualche istante la sua attenzione.
 
Ricostruire la verità non è stato affatto difficile: è bastato guardare con attenzione le carte, nelle quali altri due carabinieri più attenti di quello successivamente inquisito avevano correttamente riferito che a parlare era stato Bocchino e non Romeo, e in cui l’identificazione del passante scambiato per agente segreto, con tanto di nome e cognome, veniva formalmente verbalizzata. A spulciare più attentamente i documenti ė stata la Procura di Roma, nella persona del procuratore capo Giuseppe Pignatone. Il sostituto procuratore napoletano Henry John Woodcock, che aveva dato vita all’inchiesta, non si era accorto di niente.
 
Cose che capitano. E Renzi, che comunque ha subito le conseguenze del polverone levatosi attorno al padre, alla fine potrà legittimamente - seppure limitatamente, come sempre accade dopo - giovarsi di questa specie di proscioglimento politico anticipato. Ma a parte il carabiniere distratto - o infedele, si vedrà - c’è qualcun altro che dovrebbe rispondere di un verbale di intercettazione sbagliato o manipolato e di una storia ridicola o incredibile che un altro po’, e facevano cadere il governo?

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« Risposta #626 inserito:: Aprile 21, 2017, 09:42:10 am »

http://www.lastampa.it/2017/04/21/multimedia/speciali/150-anni/sorgi-la-sfida-del-futuro-dare-prova-della-necessit-del-giornalismo-S9ZJqxZom6JRpiLtbZ1xHL/pagina.html
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« Risposta #627 inserito:: Aprile 21, 2017, 11:31:30 pm »

Quel dialogo tra M5S e vescovi

Pubblicato il 20/04/2017
Ultima modifica il 20/04/2017 alle ore 06:54

MARCELLO SORGI
C’è stata un’epoca - ormai superata - in cui i giornali di partito, o legati a determinate aree culturali o religiose, anticipavano svolte politiche rilevanti. Altri tempi. Ma come va interpretata l’intervista a Beppe Grillo, annunciata ieri con grande evidenza in prima pagina da «Avvenire», quotidiano della Conferenza episcopale italiana, e uscita insieme a un’altra intervista al «Corriere della Sera», in cui il direttore dello stesso giornale dei vescovi, Marco Tarquinio, dice che «su tre quarti dei grandi temi (dal lavoro alla lotta alla povertà), cattolici e 5 Stelle hanno la stessa sensibilità»? 
 
Con una dichiarazione all’agenzia ufficiale «Sir», in serata, Tarquinio stesso ha cercato di ridimensionare il caso che stava per nascere, spiegando che l’intervista a Grillo era solo un’iniziativa giornalistica e le sue affermazioni a titolo personale.
Qualche risentimento nella Curia, sommessamente, può esserci stato, data la coincidenza con la lunga attesa del cambio dei vertici dell’assemblea vescovile e le cautele che la accompagnano. 
 
Eppure, assodato che non siamo di fronte a una repentina svolta pro-5 Stelle delle Gerarchie, e neppure di Papa Francesco (che ha avuto, proprio in coincidenza della Via Crucis alla vigilia di Pasqua, un breve colloquio riservato con la sindaca di Roma Virginia Raggi, mentre Luigi Di Maio, domenica, era a Piazza San Pietro), la domanda rimane. Al di qua e al di là del Portone di bronzo di San Pietro, si sta muovendo qualcosa tra Grillo e i grillini, le eminenze cardinalizie, e più in giù, i parroci e i fedeli che di qui a poco saranno chiamati alle urne come tutti gli elettori?
 
Forse la risposta giusta è che se qualcosa è accaduto - una forma di attenzione, se non proprio un esplicito avvicinamento - non è avvenuto solo negli ultimi giorni. Sono almeno due anni, e forse più, se vogliamo risalire alle elezioni siciliane del 2012, quelle della traversata a nuoto dello Stretto di Messina da parte di Grillo, pochi mesi prima della vittoria alle politiche del 2013, che nel largo perimetro del mondo cattolico di base è in corso una sorta di annusamento, ciò che ha fatto dire a un vescovo siciliano «questi qui stanno venendo a mangiare nel nostro campo»: sulla legalità (alla quale Roberta Lombardi e una parte dei 5 stelle romani avrebbero voluto dedicare una parte del Giubileo), sulla lotta alla corruzione e alle mafie, sul reddito di cittadinanza e più in generale sulle azioni di contrasto della povertà, la convergenza s’è ormai realizzata. Il vecchio Movimento 5 Stelle, che trattava la Chiesa di Benedetto XVI come una parte dell’establishment teso a puntellare il sistema delle ingiustizie, ha cambiato pelle e ha scoperto (tra proteste iniziali della base sul web) Papa Francesco come alleato. I «tre quarti di sensibilità comune» di cui parlava Tarquinio si riferiscono a questi temi e che una parte del cattolicesimo di base e di quello che una volta, con la Dc, si chiamava «collateralismo», voti o abbia simpatia per i 5 Stelle non è un mistero. Già a luglio 2015, all’uscita dell’enciclica «Laudato si’», dedicata ai temi dell’ambiente, materia su cui affondano le radici un po’ catastrofiste del Movimento, i parlamentari stellati ostentavano il loro interesse e citavano a memoria le parole del Papa. Con qualche approssimazione non sempre rispettosa, tipo: «Beppe l’ha sempre detto che Francesco dev’essere iscritto al blog».
 
Di qui a dire che i vescovi italiani, lontani da rapporti preferenziali diretti con la politica italiana almeno dalla fine del partitone cattolico democristiano, adesso siano pronti a cavalcare la tigre di Grillo, ce ne corre. E non perché non siano in grado di schierarsi (in passato, ad esempio, quando mollarono Prodi e scelsero Berlusconi, salvo poi restare delusi, lo fecero capire chiaramente), ma perché quel tanto di ambiguità, che ancora contrassegna il grillismo, pesa eccome. Un anno fa, quando i senatori stellati decisero all’ultimo momento di scaricare il Pd e non votare la legge sulle unioni civili, lo fecero sulla base del rifiuto della scorciatoia regolamentare voluta da Renzi per approvare in fretta il testo, e non su una ragionata affermazione di valori: che una parte del loro elettorato avrebbe capito, ma un’altra avrebbe rifiutato. Grillo stesso, nell’intervista ad «Avvenire», si rifiuta di prendere posizione su temi sensibili come l’eutanasia e le manipolazioni genetiche.
 
Al dunque, si può dire che l’attenzione della Chiesa per i 5 Stelle, magari è motivata dalla delusione per Renzi (primo leader cattolico a tornare alla guida del governo dopo un lungo periodo), per le politiche da lui portate avanti o per le promesse mancate in materia di vita, famiglia, scuola, povertà. Ma è anche trattenuta da quel quarto di argomenti che mancano, da parte di Grillo e dei suoi, sugli stessi punti.

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Da - http://www.lastampa.it/2017/04/20/cultura/opinioni/editoriali/quel-dialogo-tra-ms-e-vescovi-t8tANimy8w3O5msczcsp6J/pagina.html
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« Risposta #628 inserito:: Giugno 03, 2017, 11:27:00 am »


La variante a 5 stelle sulle elezioni

Pubblicato il 31/05/2017 - Ultima modifica il 31/05/2017 alle ore 07:02

Marcello Sorgi

Per dirlo già in gestazione, forse è ancora presto. Ma di sicuro, dopo l’accordo a tre sulla nuova legge elettorale, il governo prossimo venturo 5 stelle-Lega è diventato possibile, se non addirittura probabile. A confermarlo, non sono solo i sondaggi come quello letto in tv da Mentana, che assegna alla coalizione «populista-sovranista», sulla carta, con il nuovo sistema, più seggi di quella considerata scontata, di larghe intese, tra Renzi e Berlusconi. Piuttosto è la piena legittimazione ottenuta dal movimento di Grillo, con la decisione di far votare i propri militanti sulla rete e uscirne con l’appoggio plebiscitario al proporzionale italo-tedesco. 

Diciamo la verità: se avessero ragionato come hanno fatto per gran parte della legislatura, i 5 stelle, rispetto al loro elettorato, avrebbero avuto tutte le convenienze a presentare il nuovo patto tra il segretario del Pd e il patron di Forza Italia come una truffa, l’ennesimo inciucio per togliere ai cittadini il diritto di scegliere da chi farsi governare, l’imbroglio fatto apposta per fregare M5s. Invece, a sorpresa, hanno fatto una mossa politica classica quanto imprevedibile, seguiti subito a ruota dal potenziale alleato Salvini, riconfermato a furor di popolo leader dal suo partito e risoluto a spendersi nella nuova avventura con Grillo, e non in un rabberciato accordo di centrodestra con l’ex-Cavaliere.

Come sempre, quando una novità si presenta e si impone con il suo carico di incognite, c’è chi tende a minimizzare, sostenendo che tra Grillo e Salvini da tempo erano in corso annusate, ma troppe diversità impediranno alla fine una vera alleanza. Eppure, se al leader leghista si può ancora rimproverare qualche oscillazione di troppo, il percorso dell’ex-comico e del suo giovane co-leader Davide Casaleggio verso una sorta di istituzionalizzazione e completa legittimazione del movimento è andato avanti negli ultimi mesi - con la sola eccezione dello scivolone sui vaccini - quasi senza ripensamenti, passando per convegni economici e culturali aperti a intellettuali e studiosi «esterni», avviando una serie di contatti riservati che grazie al vicepresidente della Camera, e futuro candidato premier Luigi Di Maio, hanno fatto arrivare fino alle orecchie del Quirinale la promessa di maggiore serietà, disponibilità e affidabilità, in considerazione dei problemi che l’Italia deve affrontare e della consapevolezza che ognuno deve fare la sua parte. 

Adesso che la svolta è arrivata, realizzandosi nel sì alla nuova legge elettorale chiesta dal presidente Mattarella come sforzo estremo a un Parlamento stremato, e nell’impegno a mettere a disposizione i propri voti per approvarla anche in Senato, dove i numeri non ci sarebbero senza la disponibilità del polo grillino, cosa possono concretamente aspettarsi i 5 stelle dal Capo dello Stato? In caso di vittoria, cioè di conferma, per M5s, di essere ridiventato il primo partito per voti come nel 2013, e soprattutto se la somma degli elettori stellati e leghisti - nonché di quelli di Fratelli d’Italia, dato che la Meloni troverà il modo di essere della partita, malgrado lo sbarramento del 5 per cento -, dovesse raggiungere la maggioranza (al momento i sondaggi attribuiscono all’alleanza 5 stelle-Lega 313 seggi alla Camera, solo tre in meno del necessario), Grillo e Casaleggio, nel corso delle consultazioni, chiederebbero l’incarico di formare il governo per un esponente del Movimento. E il Presidente della Repubblica difficilmente potrebbe negarglielo.

L’incognita delle elezioni d’autunno è esattamente questa. In mezzo ci sarà la «campagna sotto gli ombrelloni» di cui già molto si parla e si sorride in questi giorni. Nella quale Grillo, a parte il copyright sul salario di cittadinanza, condividerà con Salvini temi caldi caldi come immigrazione, anti-euro (magari con un po’ meno enfasi, viste le sorprese di Francia e Olanda) e la necessità di un ritorno all’intervento statale sull’economia e sul lavoro. Insieme faranno desistenza per favorirsi a vicenda nei collegi e nelle circoscrizioni più incerte. E si ritroveranno con D’Alema e Bersani (forse anche con Pisapia), nel denunciare l’inciucio «Renzusconi». Così, anche nelle urne delle elezioni politiche, sta rinascendo il fronte del 60 per cento, animato dall’odio per Renzi, che ha trionfato al referendum del 4 dicembre. A tutto vantaggio di un’Italia a 5 stelle.

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« Risposta #629 inserito:: Luglio 30, 2017, 05:38:10 pm »

Enzo Bettiza, esule in viaggio nella storia del Novecento
È morto a 90 anni. Tra i più grandi inviati italiani del dopoguerra, firma della Stampa, intuì per primo la crisi Cina-Urss.
Il sodalizio con Montanelli, la politica, i Balcani
Bettiza ha lavorato a Epoca, La Stampa, Corriere della Sera e ha fondato il Giornale con Montanelli Bettiza in un ritratto di Ettore Viola.
I due collaborarono a lungo per la serie “L’archivio del non detto” che usciva una volta a settimana sulle pagine di Cultura della Stampa

Pubblicato il 29/07/2017 - Ultima modifica il 29/07/2017 alle ore 07:17

MARCELLO SORGI

Parlava ancora con il suo caratteristico accento che lo faceva sembrare un aristocratico russo, Enzo Bettiza, uno dei più grandi giornalisti italiani, ma forse bisognerebbe dire, come lui stesso si definiva, «scrittore prestato al giornalismo», in un Paese, l’Italia, in cui la sola pubblicazione di libri non sarebbe mai bastata a finanziare il suo modo principesco di vivere. Fino all’ultimo, a parte gli ultimi mesi in cui la malattia non glielo ha più consentito, ha fatto l’editorialista per La Stampa , il giornale in cui aveva cominciato giovane una fortunata carriera all’estero e dove aveva fatto ritorno all’inizio degli Anni Novanta, dopo una lunga stagione al Corriere della Sera , la secessione e la fondazione del Giornale nuovo insieme a Montanelli nel 1974, l’esperienza parlamentare a Strasburgo e al Senato. 
 
LEGGI ANCHE - Il ritorno nella mia Dalmazia alla ricerca della tata serba (Enzo Bettiza) 
 
Era un giornalista metodico, attento, scientifico e letterario al tempo stesso, con una particolare, maniacale attenzione all’aspetto fisico dei suoi interlocutori, vivi o morti, e ogni eventuale connessione tra un tic, un bitorzolo sulla testa, un mento sporgente, una macchia sulla pelle, e il carattere e la personalità dei soggetti che incontrava. Come grande inviato, aveva viaggiato molto, in Europa, America, Brasile, India, Cina, Giappone, ma il suo cuore l’aveva lasciato a Mosca, dove tra i corrispondenti di tutto il mondo era stato il solo a intuire la rottura tra cinesi e sovietici e ad azzardare che questo avrebbe consentito agli Usa alla fine di vincere la Guerra Fredda.
 
LEGGI ANCHE - Addio all’editorialista de La Stampa Enzo Bettiza, raccontò il mondo e la fine del comunismo (Ugo Magri) 
 
Si era alla fine dei Sessanta: la vita e il lavoro nella capitale dell’impero sovietico erano gravati da mille difficoltà, la censura, il divieto di libero uso del telefono, i controlli del regime, l’impossibile accesso alle fonti. Eppure Bettiza, da una semplice occhiata, da una virgola fuori posto di un articolo della Pravda, dalla frequentazione, più facile per lui grazie alla conoscenza della lingua, dei paludati giornalisti e intellettuali russi, sapeva cogliere l’indizio di ogni minimo cambiamento. Tal che gli dispiacque molto quando Giulio Debenedetti, il temuto direttore della Stampa nei primi vent’anni del dopoguerra, che lo perseguitava con telegrammi minacciosi per i ritardi nella trasmissione dei pezzi («Lei non sa scrivere e non sa neppure telefonare!»), per indisciplina lo licenziò e gli tolse la casa, lasciandolo senza un tetto sotto la neve e costringendolo a cercare ospitalità da un collega. Bettiza cercò inutilmente un chiarimento, presentandosi in redazione senza aver chiesto appuntamento, dopo aver guidato ininterrottamente per tre giorni e tre notti da Mosca a Torino. Ma non lo ebbe e dovette rientrare in Italia. Di quel periodo, e poi degli anni successivi, resteranno memorabili le descrizioni di uno Stalin mummificato, paffuto, ben conservato ed esposto nei sotterranei della Piazza Rossa, a confronto del Lenin incartapecorito che gli stava accanto.
 
Andò a Praga per l’invasione dei carrarmati Urss, finì nella stessa stanza d’albergo con Lino Jannuzzi, l’inviato dell’Espresso che in Italia aveva fatto lo scoop del tentato colpo di stato del Sifar, e annotò spiritosamente un piccolo spasmo nervoso dell’amico con cui divideva un letto matrimoniale mezzo sfondato, che lo costringeva, prima d’addormentarsi, a roteare a lungo il piede sinistro fuori dalle coperte, nella penombra della stanza popolata da scarafaggi. Conosceva tutte le razze e sottorazze dei paesi dell’Est, dai morlacchi ai circassi, parlava contemporaneamente in molte lingue, in serbo croato con la tata Mare, in francese con Simone Veil a cui fu molto vicino quando presiedeva il Parlamento europeo, in tedesco con Helmut Schmidt, in dialetto veneziano, da ragazzo, con il padre, che continuava a sognare anche da vecchio. E si muoveva benissimo in ambiti religiosi a lui estranei, con una sotterranea ammirazione per i dittatori più sanguinari di cui non faceva mistero. Dopo aver scritto decine di articoli contro Milosevic, il genocidio dei kosovari lo lasciò stupefatto per la geometrica e minuziosa organizzazione con cui si svolgeva. Come uomo mediterraneo dell’altra sponda adriatica, dove aveva vissuto felice l’infanzia in una delle più ricche famiglie di costruttori di Spalato, e da dove era fuggito, dopo l’esproprio socialista di tutti i suoi beni, per approdare in un campo profughi pugliese gestito con inutile crudeltà dagli inglesi occupanti, arrivò a proporre un protettorato per l’Albania, riscoprì la Turchia, prima del baratro islamico, e si schierò in varie occasioni in difesa degli slavi: ad esempio, quando furono ingiustamente accusati dell’orribile delitto di Novi Ligure, in cui una ragazza e il suo fidanzato, italiani e nativi del luogo, avevano sterminato mezza famiglia. Bettiza portò a esempio di civiltà slava i polacchi papa Wojtyla e Jas Gawronski, uno dei suoi più cari amici. Da questo avventuroso pezzo di vita nacque Esilio, il suo libro più bello, con il racconto dei giorni in cui fu costretto a trasformarsi in contrabbandiere per sbarcare il lunario nell’Italia del dopoguerra.
 
Il lungo sodalizio con Montanelli fu tempestoso come il matrimonio tra due star. Come direttore e condirettore condividevano una stanza con due scrivanie. Indro non tollerava che Enzo s’intrattenesse con Frane Barbieri (anche lui poi approdato alla Stampa) a parlare in ostrogoto, né che si fosse fatto attrarre dalla politica ed eleggere in Parlamento. In realtà si era ingelosito perché Bettiza, come Alberto Ronchey - altro grande esempio di quella generazione, l’inventore del «fattore K» per definire il muro invisibile che impediva al Pci di andare al governo - aveva forgiato uno dei più durevoli neologismi di quel tempo, il «lib-lab», per contrassegnare la fase nuova di collaborazione tra socialisti e liberali. Maliziosamente sosteneva che Montanelli, sotto sotto, fosse rimasto democristiano, tanto da suggerire ai suoi lettori di «votare Dc turandosi il naso». Mentre a lui piaceva Craxi, con cui per qualche tempo aveva abitato al famoso hotel Raphaël di Roma: descrivendone, furtivo, la fisicità cinghialesca, e i maldestri, quotidiani corpo a corpo con la doccia del suo bagno, una sorta di lotta libera con le pareti di una cabina che faticava a contenere il gigantesco leader socialista.
 
A tavola era parco, ma esigente. Gran parlatore, amava di tanto in tanto riunire gli amici nella casa romana dove viveva con la moglie Laura Laurenzi e con i figli, per serate di gulasch e altre piccanti delizie slave. Quando veniva a Torino da Milano, sempre accompagnato, all’andata e al ritorno, da un autista della Stampa, anche quando questo genere di privilegi non erano più riservati a nessun collaboratore, il «Barone» - questo il suo soprannome - amava sempre tornare nel suo ristorante preferito, il Vintage di piazza Solferino. L’oste Umberto, conoscendolo, apparecchiava la tavola allineando cinque o sei fettine di salame ungherese e prosciutto spagnolo davanti al suo piatto, e lo corteggiava sciorinando una serie di proposte di delizie sapide e molto speziate, secondo i suoi gusti. Enzo accettava di buon grado le attenzioni, ma delle porzioni che gli venivano servite assaggiava solo un quarto, più o meno, separando chirurgicamente gli altri tre dalla razione che si era assegnata, e rifiutando i contorni. Tra le sue fissazioni c’era infatti anche quella che verdure e insalate fossero «una perdita di tempo».
 
La previsione di Enzo Bettiza: “I muri da abbattere non finiranno mai”
 
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