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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 288978 volte)
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« Risposta #600 inserito:: Gennaio 28, 2014, 05:53:30 pm »

Editoriali
28/01/2014

Il rischio di far saltare il tavolo
Marcello Sorgi

È inutile nasconderlo: la pioggia di emendamenti, a centinaia, caduta sul testo della riforma elettorale, ha dato la dimensione effettiva delle difficoltà che accompagnano la nuova legge dal momento della sua presentazione. Finora si poteva pensare che nell’atteggiamento dei partiti o delle correnti che avevano minacciato di rovesciare l’accordo siglato da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi, e allargato al Nuovo centrodestra di Angelino Alfano, ci fosse una percentuale di bluff e un normale tasso di propaganda: nel senso che, mettendo in conto la possibilità che alla fine l’Italicum potesse non vedere la luce, ciascuno logicamente pensava ad attrezzarsi a quest’eventualità e a evitare di dover condividere la responsabilità di un naufragio. 

Ma di fronte ad oltre trecento ulteriori proposte di modifica del testo presentate ieri in commissione alla Camera (anche se Renzi a tarda sera ne ha imposto il ritiro di una trentina firmate Pd), occorre guardare in faccia alla realtà: se non si troverà un’intesa, almeno tra i tre principali contraenti del patto per le riforme, per arrivare a cambiare il testo in modo condiviso, il processo riformatore potrebbe realmente arenarsi prima di cominciare, e la discussione partita a Montecitorio, con l’obiettivo di concludersi in tempi brevissimi, trasformarsi in un grimaldello in grado di far cadere il governo e portare ad elezioni anticipate.

Che questa, e non altra, sia la posta in gioco, lo ha detto chiaramente Renzi. E dopo giorni di polemiche e un evidente, ostentato, raffreddamento dei rapporti personali, a sorpresa è stato Enrico Letta a schierarsi con il segretario del Pd, spingendo contro ogni ipotesi di rottura e a favore dell’accordo, per salvare insieme la legge, il governo e la legislatura. Quanto a Forza Italia, insiste perché non sia snaturato ciò che era stato concordato tra Renzi e Berlusconi, e in particolare per far sì che il ritorno alle preferenze, escluso su richiesta del Cavaliere, non venga riammesso, magari grazie a una votazione parlamentare in cui i franchi tiratori potrebbero risultare determinanti. 

Renzi, Letta e Berlusconi, in altre parole, si rivolgono ad Alfano. Il vicepresidente del consiglio e leader di Ncd, fin qui, proprio sulle preferenze, ha tenuto duro. Lasciare le liste bloccate, anche se piccole liste in cui i candidati sarebbero più riconoscibili, significherebbe per lui perpetuare il meccanismo del Porcellum, odiato dai cittadini e condannato nei sondaggi, dei parlamentari «nominati» dai capipartito e non scelti effettivamente dagli elettori. Si tratta di un argomento forte e sicuramente popolare, che ha trasformato Alfano, perfino al di là della sua volontà, nel leader di uno schieramento parlamentare trasversale, che annovera la minoranza del Pd, Scelta civica nei suoi due tronconi, Sel e Lega: un «fronte del No» che in commissione e in aula potrebbe riservare sorprese, e non solo sul controverso punto delle preferenze; ma che tuttavia ha nel rallentamento dell’iter della riforma l’unico vero punto di contatto.

Non va dimenticato infatti che Alfano, Monti e Casini, diversamente da Cuperlo, Vendola e Salvini, non hanno alcun interesse ad affossare la legge elettorale perché sanno che il governo difficilmente sopravviverebbe a questo. Il ritardo imposto dal rilancio delle riforme al nuovo patto per il 2014 che il premier stava negoziando depone in questo senso. E non a caso Alfano, previdente, alterna in questi giorni la pressione sulle modifiche da apportare alla legge elettorale ai richiami a Renzi e al Pd a sostenere più convintamente il governo. Occorrerà vedere, da oggi, che effetto avrà sul vicepresidente del consiglio, il nuovo atteggiamento di Letta, schieratosi più vicino a Renzi grazie anche alle sollecitazioni del presidente Napolitano, che a nessun costo ammetterebbe una marcia indietro, ora che il risultato è a portata di mano. L’accordo, sia sulla legge elettorale che sulle modifiche da apportarvi, non è affatto facile, comporta sicuramente dei sacrifici, e al momento, dopo la valanga di emendamenti depositati alla Camera, ha quasi le stesse probabilità di riuscita e di fallimento, ancorché le conseguenze, in un caso o nell’altro, sarebbero assai diverse. Per questo, sarebbe bene che tutti riflettessero e si impegnassero, prima di correre per davvero il rischio di far saltare il tavolo delle riforme.

Da - http://lastampa.it/2014/01/28/cultura/opinioni/editoriali/il-rischio-di-far-saltare-il-tavolo-ki6a3IIyjjUJdGce2gRqSP/pagina.html
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« Risposta #601 inserito:: Gennaio 30, 2014, 04:21:59 pm »

Editoriali
30/01/2014

Ma la strada è ancora in salita

Marcello Sorgi

Non è soltanto una buona notizia l’accordo sulla riforma elettorale siglato ieri sera da Renzi, Berlusconi e Alfano, dopo lunghi giorni di trattativa. 

Se solo si riflette che da anni ogni tentativo di por fine alla stagione del Porcellum si era infranto contro la gelosa difesa degli interessi di parte, occorre riconoscere che ha qualcosa di incredibile. Messa alle strette dalla sentenza della Corte costituzionale, che, oltre a cancellare la vecchia legge, aveva esplicitamente sottolineato l’incapacità del Parlamento di produrne una nuova, la politica, in modo del tutto inatteso, ha dato un colpo di reni. 

Naturalmente tutto è perfettibile: il sistema scelto non sarà certo il massimo, ma contiene indubbi elementi innovativi e cancella le principali storture contenute nel Porcellum. Le novità, coerenti con le indicazioni della Consulta, sono la soglia da raggiungere (37 per cento) per ottenere il premio di maggioranza, e quelle di sbarramento (4,5, 8 o 12 per cento, secondo che un partito si presenti alleato con una delle due formazioni maggiori, o da solo, o cerchi di formare una coalizione con le forze minori); l’introduzione del secondo turno elettorale, in ballottaggio tra primo e secondo qualificato; la possibilità per i partiti a forte radicamento locale, ma non nazionale, come la Lega, di entrare in Parlamento se la loro consistenza elettorale è forte in almeno tre regioni, e per i leader di presentarsi in più circoscrizioni. Se ne ricava che l’impianto bipolare è stato mantenuto, la tagliola per i partiti minori pure, ma il confronto finale avverrà tra due coalizioni, e non tra due partiti come accade in gran parte d’Europa.

Renzi è il leader che può esprimere maggior soddisfazione: in un mese e mezzo dalle primarie ha puntato sulla riforma, s’è spinto, malgrado le contestazioni interne del Pd, a trattare con Berlusconi, invitandolo nella sede del suo partito, ha saputo gestire anche la fase difficile dell’avvio parlamentare, ritrovando in breve l’appoggio del premier Letta e l’intesa con il vicepremier Alfano.

Anche Berlusconi, a soli quaranta giorni dalla decadenza da senatore, dopo la sentenza della Cassazione che lo aveva messo in un angolo, incassa una completa rilegittimazione politica, e ritrova il ruolo di leader del centrodestra grazie al meccanismo salva-Lega che è riuscito a ottenere nella fase finale della trattativa.

Quanto ad Alfano, ha ottenuto quel che voleva: è riuscito a cancellare il «modello spagnolo», che avrebbe lasciato spazio a una gara tra due soli partiti, cancellando o quasi tutti gli altri, ha dovuto rinunciare alle preferenze, ma ha avuto in cambio un abbassamento della soglia di sbarramento dal 5 al 4,5 per cento, strategico per un partito come il suo, nato da pochi mesi e in fase di radicamento sul territorio.

 

L’iter parlamentare della nuova legge, malgrado l’accordo, resta difficile, a causa dell’ostruzionismo annunciato dal Movimento 5 stelle e della virulenta campagna contro Napolitano, attaccato proprio per il suo impegno a favore delle riforme. Teoricamente, se oggi il testo andrà in aula, la Camera potrebbe licenziarlo entro la fine di febbraio. Un altro ragionevole mese (ma forse anche meno) per ottenere anche il «sì» del Senato, e a marzo si potrebbe arrivare all’approvazione definitiva. A quel punto si apriranno due problemi, uno istituzionale e uno politico.

Quello istituzionale riguarda il destino delle altre riforme - la trasformazione del Senato in Camera delle Autonomie, composta da rappresentanti delle Regioni scelti all’interno dei consigli regionali, e la riscrittura del Titolo V, che regola i rapporti tra lo Stato e amministrazioni regionali - che rientrano a tutti gli effetti nello stesso accordo sulla legge elettorale. Ce la farà il Parlamento a portarle a casa, malgrado la prevedibile opposizione dei senatori alla propria, annunciata, cancellazione? Nel nuovo clima, va detto, tutto è possibile. Il pessimismo che fino a dicembre aveva accompagnato l’incedere del processo riformatore è stato superato con l’irruzione sulla scena politica di Renzi e del suo movimentismo. A Capodanno il Presidente della Repubblica, spronando all’approvazione della legge elettorale, aveva lasciato intendere che si sarebbe accontentato di un «avvio» delle riforme istituzionali, come se avesse preso atto della difficoltà di approvarle nell’attuale, traballante, legislatura. Ma oggi il leader del Pd si spinge a promettere a Napolitano che anche quelle potrebbero essere realizzate nel giro di un anno; e portarle avanti è interesse di tutti i contraenti dell’accordo.

Il problema politico nasce di qui. Letta, grazie all’accelerazione sulla legge elettorale, potrà ottenere presto il rafforzamento del suo governo e la conclusione di un nuovo patto che duri oltre il 2014 e la conclusione della presidenza italiana del semestre europeo. E tuttavia la «maggioranza istituzionale», inaugurata dopo l’incontro tra Renzi e Berlusconi, ha dimostrato di funzionare meglio di quella più ristretta che ha sostenuto l’esecutivo dopo il passaggio di Forza Italia all’opposizione. Non è ipotizzabile, certo, che dopo averlo rilegittimato gioco forza sulla legge elettorale, Renzi possa pensare di restaurare le larghe intese, aprendo la strada a un ritorno del partito del Cavaliere al governo. Ma proprio per questo, non è sicuro che Berlusconi si accontenti per un altr’anno di fare solo il padre costituente.

Da - http://lastampa.it/2014/01/30/cultura/opinioni/editoriali/ma-la-strada-ancora-in-salita-tYAVrQPOU9mUodMKQEs1JN/pagina.html
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« Risposta #602 inserito:: Febbraio 14, 2014, 06:40:40 pm »

Editoriali
12/02/2014
Verso la Terza Repubblica
Marcello Sorgi

L’accelerata che nel giro di un paio di giorni dovrebbe portare alla staffetta tra Letta e Renzi ha un che di sbalorditivo. Se appena si riflette che in appena due mesi il sindaco di Firenze ha conquistato tra la gente la segreteria del Pd ed è ora in grado di proporsi per la guida del Paese, il solo precedente che si ricordi è quello del Berlusconi di vent’anni fa: la forza propulsiva del nuovo leader, la tendenza inarrestabile a centrare un obiettivo dopo l’altro, la resa generale, e in qualche caso la disponibilità, di tutto il mondo circostante e di un sistema giunto ormai alla fine fanno tornare in mente proprio la primavera del ’94 e l’incredibile entrata in campo del Cavaliere. 

Lo stesso atteggiamento di Berlusconi, che non s’oppone e sotto sotto incoraggia l’ascesa del giovane leader, riservando per sé il ruolo di oppositore, ma anche di interlocutore, dà il segno della nuova fase che si apre.

Finisce tutt’insieme la Seconda Repubblica, l’epoca delle coalizioni rissose, che a mala pena resistevano il tempo di una campagna elettorale, e dei governi eternamente impossibilitati a realizzare il proprio programma per i veti e le resistenze dei piccoli alleati o delle minoranze interne dei partiti. E nel tempo di mezzo che si apre, in attesa che il varo delle riforme faccia nascere la Terza Repubblica e rinascere il bipolarismo, quello a cui si assiste è un imprevedibile ritorno della politica. 

Basta mettere in fila gli eventi degli ultimi mesi per capire che è così. La rottura degli schemi precedenti, la fine dell’antiberlusconismo pregiudiziale, l’incontro al Nazareno con Berlusconi e il patto sulle riforme, che richiedono un lungo percorso elettorale, sono stati per Renzi i presupposti per proporsi al partito come candidato premier, e non solo come segretario. L’occasione, forse l’ultima, di cambiare le cose, è diventata per il Pd una sfida che ha subito capovolto gli equilibri interni, spostando anche buona parte dei sostenitori di Enrico Letta in direzione della svolta. La convinzione con cui Renzi ha sposato il progetto delle riforme è diventata determinante per convincere all’ascolto anche il presidente Napolitano, finora il più strenuo difensore della stabilità del governo attuale. 

Il resto, Renzi lo ha costruito e lo sta costruendo mescolando i suoi metodi e il linguaggio da rottamatore con liturgie che inaspettatamente ricordano quelle della Prima Repubblica. Le «visite di calore», come quella che ieri gli ha fatto Bruno Tabacci, un democristiano che era giovane ai tempi della vecchia Dc ma ha avuto la capacità di correre alle primarie due anni fa. Messaggi affidati ad ambasciatori riservati, come quello che reca l’offerta per Letta del ministero degli Esteri con l’aggiunta della delega per l’Europa. Dialogo spregiudicato, molto più che franco, con gli alleati del governo in carica, a cominciare da coloro, come Alfano, con cui inizialmente il feeling era stato freddo, ai quali ha fatto intravedere la prospettiva di una legislatura che arrivi al suo termine naturale del 2018, sull’onda del processo riformatore. Confronto aperto con i «cugini separati» di Sel, o almeno di quella parte dei vendoliani che non vogliono consegnarsi alla prospettiva greca della «lista Tsypras», e perfino con quelli del Movimento 5 stelle: ma non solo i dissidenti, l’offerta è rivolta a chi non ha amato la guerriglia parlamentare dei giorni scorsi e non vuole restare a galleggiare in Parlamento.

Sullo sfondo, certo, c’è il rischio di bruciare una leadership nata sull’onda dell’opinione pubblica montante e del consenso delle primarie in una prova di governo che resta densa di incognite, data la fase ancora critica che il Paese attraversa. Si vede chiaramente che molti applausi della vigilia nascondono il desiderio di rosolare il sindaco vincente, proprio come faceva la vecchia Dc con i leader che mandava a Palazzo Chigi. Il pericolo esiste, ed è inutile ripetere o sentirsi dire che questa è l’ultima vera occasione per l’Italia di rinnovarsi e mettersi al passo con i tempi, ed è insieme l’assicurazione sulla vita del prossimo governo che sta per nascere. Anche questo, Renzi lo sa benissimo. Solo che adesso non ha tempo per pensarci.

Da - http://lastampa.it/2014/02/12/cultura/opinioni/editoriali/verso-la-terza-repubblica-OgdNjZDZDYEgnpMHSteKxN/pagina.html
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« Risposta #603 inserito:: Aprile 11, 2014, 11:26:16 pm »

Editoriali
11/04/2014

Il ritorno del leader dimezzato

Marcello Sorgi

Anche se nessuno dei giudici che dovevano decidere sulla sua sorte aveva mai pensato di mandarlo in galera o agli arresti domiciliari (non c’erano i presupposti giuridici, trattandosi di un uomo di quasi 78 anni, incensurato fino ad agosto scorso e con un anno solo da scontare), Silvio Berlusconi, dopo l’intervento del Pg di Milano che ha aperto la strada al suo affidamento ai servizi sociali, può di sicuro tirare un sospiro di sollievo.

Ci vorrà qualche giorno per sapere se il collegio giudicante terrà ferma l’ipotesi di impegnare per una mattina alla settimana il Cavaliere nell’assistenza agli anziani, o se accetterà la proposta dell’imputato di dedicarsi ai disabili a casa propria. In ogni caso, la sostanza non cambia: di qui alla prossima settimana, potrà considerarsi chiusa la vicenda cominciata il primo agosto del 2013, con la condanna definitiva per frode fiscale inflitta dalla Cassazione al leader del centrodestra. Sul cui capo, è vero, pesano ancora pendenze giudiziarie di un certo rilievo, dal processo ai testimoni del caso Ruby a quello per la corruzione dei senatori. Ma per il quale, l’incubo di una forzata esclusione dalla vita pubblica e dalla campagna elettorale per le Europee adesso è da considerarsi scongiurato.

Da oggi in poi il problema di Berlusconi torna ad essere essenzialmente politico: vuole o no continuare con il cupio dissolvi che lo ha portato alla demolizione, in pratica, del centrodestra, di cui era stato per vent’anni il Capo e l’indiscusso mattatore? La risposta che quasi tutti nel suo campo danno a questa domanda è che quel che è accaduto non è dipeso da lui: perseguitato da una magistratura politicizzata, espulso dal Senato da una sinistra che non lo ha mai battuto nelle urne e non vedeva l’ora di liberarsene in altro modo, il Cavaliere, a detta dei suoi, ha mostrato una straordinaria capacità di resistenza ed ora è pronto a tornare in campo.

Questa risposta ufficiale, ripetuta a piè sospinto da falchi e colombe del centrodestra, ha il difetto di non essere vera. Ma non come lo sono, o non lo sono, il novanta per cento delle affermazioni dei politici, che contengono sempre un certo tasso di demagogia. Basta solo ricordare ciò che si sono detti qualche giorno fa il consigliere politico del Cavaliere Giovanni Toti e l’ex ministra dell’Istruzione Maria Stella Gelmini per capire. Di Berlusconi, in un fuori onda, parlavano, sì, con affetto, ma anche come di un nonno che fatica ormai a reggersi in piedi e non ne azzecca più una. L’idea che stesse ricoverato, a curarsi un’artrite non grave, tutto sommato li rendeva tranquilli, come se in altri momenti dovessero sempre sorvegliare che non ne combini una delle sue. E soprattutto come se la degenza ospedaliera fosse il solo modo di rallentare la trottola impazzita delle mille visite e delle mille rivalità interne di Forza Italia, che si manifestano quotidianamente davanti al leader, per ottenere, o dire di aver ottenuto, piena ragione.

 
Da agosto ad ora Berlusconi ha perso lucidità. È un dato di fatto, che in privato qualsiasi esponente del centrodestra riconosce senza difficoltà. Che la condanna lo abbia colto di sorpresa, perché fino all’ultimo aveva sperato di evitarla, è possibile. Ma è altrettanto sicuro che, superato il disorientamento, avrebbe potuto scegliere con più raziocinio una strategia diversa.

Non si trattava di annunciare al mondo il suo ritiro dalla politica. Ma più semplicemente di accettare la sentenza, pur ritenendola ingiusta, con tutte le sue conseguenze; e sulla base di questo – e non del suo rifiuto della decisione della Cassazione – porre il problema della propria agibilità politica. La decadenza imposta dalla legge Severino che il centrodestra aveva votato (e successivamente ha deciso di contestare), lungi dal diventare caso politico, occasione di scontro parlamentare, e far saltare la maggioranza di larghe intese nata all’inizio della legislatura, sarebbe stata una conseguenza inevitabile, forse ingiusta come la condanna da cui era dipesa, ma non avrebbe messo in discussione il diritto del Cavaliere di continuare a dispiegare la sua leadership e svolgere i suoi compiti, seppure senza cariche pubbliche. In questo caso, inoltre, sarebbe diventata concreta la possibilità di un atto di clemenza da parte del Capo dello Stato, nei termini in cui la nota del Quirinale del 13 agosto lo aveva prefigurato. Ed anche se la storia non si fa con i se, la scissione del Pdl in due tronconi, uno di governo e l’altro di opposizione, non sarebbe avvenuta; e in caso di crisi, Renzi avrebbe trattato con Berlusconi, oltre che sulle riforme, sull’ingresso al governo di tutto il centrodestra, e non solo di una parte.

Ma ora che il disastro s’è compiuto, ed è sotto gli occhi di tutti, a cominciare dai suoi, il Cavaliere, pur nella condizione di leader dimezzato e affidato ai servizi sociali, ha ancora un compito importante da svolgere. Un centrodestra come quello attuale, che cambia posizione ogni giorno, anche più volte al giorno, e assiste a un’ininterrotta guerra civile del suo gruppo dirigente, non serve a niente. Proprio perché nel centrosinistra, dopo anni e anni di lotte intestine seguite da sconfitte, è maturata una nuova leadership che ha impresso un diverso andamento al Pd e all’intero campo democratico, è necessario che anche nell’altro campo maturi un processo del genere. Berlusconi, va detto, è perfettamente in grado di innescarlo; sebbene, realisticamente, non sia in grado di condurlo fino in fondo. Scelga un programma, lo esponga alla sua gente, accetti che sia messo in discussione. E poi agevoli un ricambio, prepari, non a parole, ma in modo democratico, una nuova leadership. Se sarà in grado di far così per davvero, non uscirà di scena, non sarà emarginato, non perderà ruolo: anzi, paradossalmente, ne acquisterà uno nuovo.

Da - http://lastampa.it/2014/04/11/cultura/opinioni/editoriali/il-ritorno-del-leader-dimezzato-JBm6he5TDKhPCWoJhMbQcP/pagina.html
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« Risposta #604 inserito:: Maggio 10, 2014, 06:59:22 pm »

Editoriali
10/05/2014

La fretta cattiva consigliera
Marcello Sorgi

I primi sondaggi, fatti a tambur battente dopo l’esplosione dello scandalo Expo e l’arresto dell’ex ministro Claudio Scajola, dicono che l’effetto di quanto è accaduto rischia di essere quello di un terremoto. L’idea che la ragnatela della corruzione si riproponga pari pari, nella stessa città e quasi con gli stessi protagonisti della Tangentopoli di vent’anni fa, sta già lavorando in modo imprevisto sull’opinione pubblica. Quasi metà dell’elettorato, non solo dei pochi e svogliati elettori che finora si erano interessati alla scadenza del 25 maggio, dichiarano che, o cambieranno il loro voto, o sceglieranno comunque di presentarsi ai seggi, abbandonando la tentazione astensionista.

In due parole, la campagna elettorale s’è riaperta. E chi potrebbe trarne i vantaggi maggiori - anche questo confermano i sondaggisti - è Grillo, che ieri, dopo un giorno di riflessione, s’è presentato come il padre dell’inchiesta di Milano e ha detto che solo dopo la sua visita ai cantieri dell’Expo i magistrati si sono sentiti garantiti e hanno preso le loro decisioni.

La campagna del leader di M5s va avanti senza soste e con continui colpi di scena, come ad esempio la visita all’acciaieria di Piombino la scorsa settimana, oppure, sempre ieri, il riferimento ad Aldo Moro, inserito nel Pantheon grillino come vittima di uno Stato che non volle o non poté salvarlo.

E che il timore di un’accelerata 5 stelle monti, a questo punto, è evidente. Lo stesso Renzi ne ha parlato, sebbene per esorcizzarlo, attaccando Grillo perché punta a spostare i sondaggi con lo sciacallaggio sull’inchiesta Expo. Poi ha annunciato per martedì una visita a Milano e ha accolto senza commenti le dichiarazioni del governatore della Lombardia Maroni e del sindaco di Milano Pisapia, favorevoli a chiudere al più presto, almeno sul piano amministrativo, la vicenda dell’Expo: confermando la fiducia all’amministratore delegato Sala e sollevando dal l’incarico il direttore generale Paris, che secondo le accuse era il perno del sistema di corruzione messo su dalle vecchie conoscenze di Mani pulite, il «compagno G» Greganti, collettore delle tangenti destinate al Pci venti anni fa, e l’ex segretario democristiano Frigerio, anche lui coinvolto nella prime indagini di quell’epoca.

Va detto che l’idea di una soluzione rapida che potrebbe essere percepita come un colpo di spugna, seppure delimitando i confini e le persone colpite dall’inchiesta, non sarebbe senza pericoli. Anche se le responsabilità penali sono in corso di accertamento, far riprendere l’attività dell’azienda Expo prima che tutto sia chiarito e mentre la magistratura parla di una «cupola» che si sarebbe insediata a Milano, all’interno della struttura incaricata dell’organizzazione dell’esposizione universale e degli appalti necessari per realizzarla, dal punto di vista politico comporta più di un rischio. Se nei prossimi giorni l’inchiesta dovesse avere nuovi sviluppi, magari con nuovi arresti, a partire dagli interrogatori degli imputati e nell’eventualità che saltino fuori altri personaggi inquisiti, i politici e le parti politiche che avessero cercato di circoscrivere le conseguenze dello scandalo si renderebbero sospettabili, proprio agli occhi di quell’opinione pubblica che vede come un incubo il ritorno di Tangentopoli, di non aver voluto far pulizia fino in fondo. È anche per questo che dall’arrivo di Renzi a Milano martedì prossimo è lecito aspettarsi sorprese.

DA - http://lastampa.it/2014/05/10/cultura/opinioni/editoriali/la-fretta-cattiva-consigliera-tWys5aqavEy7nonjo55tkL/pagina.html
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« Risposta #605 inserito:: Giugno 23, 2014, 10:43:13 pm »

Editoriali
23/06/2014

L’eterno balletto dell’immunità

Marcello Sorgi

Malgrado l’accordo fatto, o quasi fatto, tra Pd e Forza Italia per votare la riforma del Senato a partire dal prossimo 3 luglio, le polemiche non si fermano. E non solo perché il Movimento 5 stelle ha interesse ad alimentarle, in vista dell’incontro di mercoledì con la delegazione del partito del presidente del Consiglio. 

E neppure perché i dissidenti interni dello stesso Pd, che erano arrivati quasi alla scissione dopo l’esclusione dei più battaglieri del loro gruppo, Vannino Chiti e Corradino Mineo, dalle votazioni in commissione sul testo della riforma, confermano che daranno battaglia anche in aula. Lo scontro si sta concentrando su due punti: l’immunità, che dovrebbe esser ridata ai senatori depotenziati della futura Camera delle autonomie, e le preferenze.

Le preferenze al momento sono escluse dal progetto di legge elettorale, ma rischiano di aprire una crepa nella maggioranza di governo, perché Ncd ha deciso di farne la propria bandiera. 

Ora, intendiamoci: tutto è discutibile, specialmente in una materia così delicata come quella degli assetti fondamentali dello Stato, e proprio mentre si sta per decidere di abbandonare uno dei capisaldi della Costituzione, il principio-chiave del bicameralismo perfetto.

L’immunità per i nuovi senatori, che non saranno eletti direttamente, ma scelti tra consiglieri regionali e sindaci, potrebbe effettivamente rivelarsi sbilanciata, visto che il loro ruolo e i loro poteri diventeranno molto differenti da quelli dei deputati. Ma il diritto di eleggerli con le preferenze, se davvero dovesse passare la linea di sceglierli nelle assemblee locali, con un’elezione di secondo grado a cui i cittadini non parteciperebbero, sarebbe semplicemente un non senso.

Più che il quadro in cui il doppio restauro di immunità e preferenze verrebbe a inserirsi, colpisce il modo in cui la discussione si sta sviluppando. Invece di ricordare che l’una e le altre facevano parte legittimamente della Carta costituzionale, e vennero abolite, tutte o in parte, nel bel mezzo della rivoluzione italiana (l’immunità sull’onda di Tangentopoli, come si trattasse di un privilegio incomprensibile, le preferenze, ma solo quelle multiple, con il referendum del 1991), e invece di valutare se entrambe quelle cancellazioni appaiano ancora oggi motivate, o possano essere ripensate, si è delineato un fronte dei contrari che porta argomenti opposti alla realtà delle cose.

 Così, per questo fronte, che annovera in prima linea Movimento 5 stelle, Lega e dissidenti Pd, l’immunità, che i Padri costituenti vollero come garanzia della separazione tra il potere legislativo e quello giudiziario - e la cui abolizione ha fatto sì che qualsiasi magistrato possa indagare senza vincoli su qualsiasi parlamentare, con l’unica limitazione di dover chiedere un voto parlamentare in caso di arresto -, viene presentata, tout court, come un privilegio di casta, la reintroduzione del quale andrebbe contro il desiderio dell’opinione pubblica di vedere i politici pagare lo scotto dei loro imbrogli nelle patrie galere.

E poco importa che tutte, o quasi tutte, le ultime volte in cui le Camere hanno votato su casi che riguardavano membri del Parlamento, la scelta è sempre stata quella del carcere, per la pesantezza della accuse a cui gli accusati erano sottoposti e per lo scandalo provocato dalle inchieste. La sola idea che venga reintrodotto un filtro, specie in presenza di un inasprimento della macchina anti-corruzione e di leggi più severe per questo genere di reati, fa saltare per aria il folto partito trasversale dei magistrati in Parlamento e i suoi alleati che pensano così di ingraziarsi l’opinione pubblica. Tutto, ovviamente, con buona pace dei Costituenti e del dettato costituzionale.

Un analogo capovolgimento riguarda le preferenze, presentate da Ncd e dalle frange centriste che le vorrebbero reintrodurre, per rimettere gli elettori in condizione di scegliersi i propri parlamentari, ribellandosi alla dittatura dei capi partito e delle liste bloccate con cui imporrebbero solo parlamentari di loro stretta fiducia. A questo aggiungono che le preferenze sono in vigore sia nelle elezioni europee che in quelle regionali e comunali: perché dunque escludere il Parlamento da una scelta di libertà? Naturalmente i nostalgici del voto multiplo si guardano bene dal ricordare le ragioni del plebiscitario voto referendario (affluenza 95 per cento, più o meno il doppio di quella attuale) con cui le preferenze furono cancellate nel ’91. I vituperati partiti della Prima Repubblica, che pure avevano ancora un barlume di regole democratiche al loro interno, erano stati completamente sopraffatti da bande autonome, locali e trasversali, che si scambiavano, e talvolta rivendevano, pacchetti di voti; con l’aggravante, al Sud, che questo mercato era chiaramente infestato dalla criminalità organizzata. Senza nessuna esagerazione, funzionava così: il senatore di un dato partito diceva ai suoi galoppini di convincere gli elettori a votare per il deputato di un altro partito. Un assessore regionale, con l’ausilio di un paio di sindaci di paesoni meridionali (ma anche al Nord, purtroppo, avveniva lo stesso) era in grado di condizionare l’elezione di candidato e l’esclusione di un altro. La regola era questa. E la risposta degli elettori ai quali Craxi, con una battuta rimasta famosa, aveva consigliato di «andare al mare» (se non avesse votato almeno la metà più uno degli italiani il referendum sarebbe stato invalido), fu una rivolta, imprevedibile, a un sistema divenuto soffocante.

Sarà anche vero che il Porcellum, consentendo ai capipartito di scegliersi uno per uno i parlamentari, lo era diventato altrettanto. Ma attenzione a scegliere un rimedio peggiore del male: per ridare agli elettori il diritto di decidere, basta guardare a sistemi che funzionano in Paesi democratici a noi vicini: le liste brevi, i collegi uninominali (tra l’altro sperimentati con il Mattarellum) e tutto ciò che può consentire a chi vota, se il candidato proposto non gli piace, di votargli contro. Per limitare il potere dei capipartito, basta già questo: non c’è affatto bisogno di tornare alle preferenze.

Da - http://lastampa.it/2014/06/23/cultura/opinioni/editoriali/leterno-balletto-dellimmunit-1bVwV7yL7Qs25OxgeZIDHL/pagina.html
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« Risposta #606 inserito:: Luglio 11, 2014, 11:51:38 pm »

Editoriali
11/07/2014

L’inizio di una nuova transizione

Marcello Sorgi

Perduto e ritrovato nel giro di poche ore, l’accordo che consentirà lunedì di far approdare nell’aula di Palazzo Madama il testo della riforma del Senato non sarà storico (troppe volte l’aggettivo è stato usato a vanvera).

Ma questo testo è certamente rilevante, anche se occorrerà aspettare la fine del primo giro di votazioni per valutarne in pieno la portata. Dopo tanti fallimenti (sono trenta e più anni che si parla di cambiare la Costituzione) l’intesa tra centrosinistra, centrodestra e Lega, pur destinata a scontare una folta pattuglia trasversale di dissidenti, con tutti i limiti possibili rappresenta un’applicazione del metodo costituente, quello con cui, quasi settant’anni fa, partiti di diverse o opposte tradizioni e culture politiche cercarono e trovarono un compromesso sul testo della Carta che oggi si cerca di rinnovare. 

In tempi in cui la politica è ridotta com’è ridotta, non è poco. A risultato raggiunto, se davvero ci si arriverà – non va dimenticato che questa è la prima di quattro letture, da svolgersi a intervalli non inferiori a tre mesi –, Renzi incasserà la maggior parte del merito, ma tutti i contraenti del patto, Berlusconi, Alfano, Salvini, i centristi delle diverse sponde, ne ricaveranno un vantaggio in termini di credibilità e di ruolo politico.

La lunga transizione degli ultimi vent’anni si era infatti arenata sulla convinzione sbagliata che ognuno potesse farsi la Costituzione da solo. Dopo la fine della Prima Repubblica e la nascita della Seconda con i referendum elettorali del 1991 e ’93, tutti i tentativi di incontro, le commissioni bicamerali, i patti segreti provati e riprovati nel corso di due decenni erano miseramente falliti. Il risultato era stato che, prima il centrosinistra, con la raffazzonata riforma del Titolo V (poteri esclusivi delle regioni) nel 2001, e poi il centrodestra con la Devolution (versione assai approssimativa del federalismo chiesto dalla Lega) nel 2006, si erano fatti ciascuno la propria riforma. Un fallimento dopo l’altro e una quantità di conflitti istituzionali finiti sulle scrivanie dei giudici della Corte Costituzionale erano stati i soli effetti di quest’anomala stagione riformatrice.

Per ritentare, e costringere forze politiche ormai incapaci di costruire relazioni politiche, neppure normali, ma minimamente serie, ci voleva Renzi, con la sua voglia di cambiare e la sua volontà di ferro. Ma prima ancora, va ricordato, c’era voluto Napolitano. Quando un sistema politico giunto all’impotenza e non in grado di eleggere la carica più alta dello Stato s’era rivolto a lui, poco più d’un anno fa, per chiedergli la disponibilità ad accettare un secondo mandato, l’anziano Presidente aveva posto una sola condizione: si facciano le riforme, e se non si fanno, il primo a dimettermi sarò io. Ciò che è accaduto dopo è dipeso da questo.

Non siamo tuttavia alla fine della transizione. Siamo purtroppo nuovamente all’inizio. La riforma del bicameralismo era indispensabile per cercare di avvicinare l’Italia a tutte le democrazie moderne in cui i meccanismi istituzionali funzionano più rapidamente e con più efficacia del nostro. Ma il problema, è inutile nasconderselo, non era solo la ripetitività del lavoro di due Camere che facevano esattamente le stesse cose. Piuttosto che le facevano con due maggioranze differenti e, nei fatti, spesso opposte: tal che il governo che proponeva ai deputati un certo provvedimento sapeva che a un sì eventuale o condizionato della Camera sarebbe corrisposto poco dopo un no secco del Senato, o viceversa.

Da questo punto di vista, va detto, la riforma che sta per essere votata non dà affatto la garanzia di fornire una soluzione al problema. Perché, è vero che il compito di dare la fiducia ai governi e di affrontare la gran parte delle materie legislative sarà riservato ai deputati; ma è altrettanto vero che sui testi più delicati i senatori avranno il diritto di contestare, richiamandole e discutendole autonomamente, le decisioni appena prese dai loro colleghi di Montecitorio, che dovranno a loro volta riconfermarle con nuove votazioni se non vorranno accettare le richieste di modifiche avanzate dalla Camera alta. Inoltre, con l’elezione indiretta dei senatori da parte dei consigli regionali, e con la distribuzione proporzionale dei seggi tra tutte le Regioni, ciò che prima era possibile (ma è sempre accaduto), le maggioranze diverse tra Camera e Senato, diventa sicuro. Avremo, anzi, un Senato a maggioranze variabili, politiche e geografiche, in cui le appartenenze politiche si mescoleranno, chissà come, alle radici locali e ai caratteri personali. In altre parole, usciamo da un’anomalia – il bicameralismo perfetto – per infilarci in un’altra, che non a caso doveva chiamarsi Senato delle autonomie, al plurale. Che Dio ce la mandi buona.

DA - http://lastampa.it/2014/07/11/cultura/opinioni/editoriali/linizio-di-una-nuova-transizione-ru5TQdT1xj9tMLGZFyF0eO/pagina.html
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« Risposta #607 inserito:: Settembre 06, 2014, 05:54:26 pm »

Il timore del secondo tempo

02/09/2014
Marcello Sorgi

Convocata con la solennità delle grandi occasioni, la conferenza stampa in cui Matteo Renzi a Palazzo Chigi ha spiegato il piano dei mille giorni, per il quale il presidente del Consiglio e i suoi ministri si impegnano a realizzare entro il 2017 le riforme contenute nel programma, ha di fatto sancito il passaggio al secondo tempo del governo. 

Dalla fretta di cambiare («una riforma al mese») alla consapevolezza che tra il dire e il fare, magari non c’è sempre di mezzo il mare, ma una complessità e una serie di ostacoli che conviene non trascurare.

La sensazione che Renzi ha voluto dare è di essere rimasto colpito dalle critiche, non solo dell’opposizione, ma anche di settori della società civile, della classe dirigente e dell’opinione pubblica. I quali, in principio, avevano accolto favorevolmente l’avvento del suo governo, ma adesso lo accusano di «annuncite», la malattia dell’annuncio, non seguito da fatti, da cui sarebbe affetto il premier. Di qui appunto la sua decisione di darsi un orizzonte più lungo e comunicare via Internet il quotidiano stato d’avanzamento dei lavori dell’esecutivo: dato che Renzi, non è manco il caso di dirlo, ritiene che certe accuse siano ingiustificate e il bilancio delle realizzazioni dei primi sei mesi parli da solo.

Chi lo conosce, tra l’altro, non crede affatto che Renzi si sia davvero rassegnato a mostrarsi più accorto e ad accogliere le obiezioni che riceve, passando in sostanza dal galoppo al trotto e tenendo in maggiore considerazione le autorevoli raccomandazioni che gli vengono da più parti. Anche perché i consigli che ascolta non sempre sono concordanti: imprese e sindacati vanno in direzioni opposte, da Francoforte Draghi sprona il governo a concretizzare al più presto le riforme economiche e del lavoro, dal Quirinale Napolitano condivide, ma è attento agli equilibri politici interni e parlamentari. Un compromesso tra queste diverse tendenze è effettivamente difficile. E non solo perché Renzi è Renzi e sa benissimo che piace, a chi piace, perché è fatto così. 

Ma soprattutto perché, dopo mezzo anno a Palazzo Chigi, si è arciconvinto che la politica delle scosse, della rottamazione e di quella che esagerando definisce rivoluzione, sia l’unica cura possibile per un Paese ridotto com’è ridotta l’Italia.

In questo quadro la conferenza di ieri ha avuto solo il senso di un passaggio tattico, un sorprendente (per un leader giovane) ricorso alla classica arte dei politici che dicono il contrario di quel che pensano. Di un secondo tempo improntato alla cautela, a mediazioni e intese a qualsiasi costo come quelle che a lungo hanno scandito la vita dei governi italiani, Renzi, in realtà, non ha alcuna voglia; e forse neppure ne è capace.

È da vedere, inoltre, se con 51 decreti da convertire e dieci disegni di legge da esaminare, un programma che interviene in settori fondamentali come giustizia, scuola e lavoro, oltre agli impegni legati a scadenze di bilancio e alla manovra economica contenuta nella legge di stabilità, la strada più sicura per far seguire i fatti alle parole sia quella di una trattativa ininterrotta, o non servano piuttosto una serie di spinte, e qualche volta perfino di spallate, del genere di quelle che hanno portato l’8 agosto al primo voto sulla riforma del Senato.

Difficile dirlo, ma la lezione del secondo tempo dei governi recenti spinge nella seconda direzione. Basta solo ricordare ciò che è accaduto nei tre anni più gravi della crisi: Monti esordì brillantemente, approfittando dell’emergenza in cui era nato il suo esecutivo tecnico, e nei primi due mesi portò a casa la riforma delle pensioni e l’aggiustamento di bilancio che doveva evitare all’Italia il commissariamento da parte della Trojka di Bruxelles. Ma già all’alba del terzo mese, il Professore non era più se stesso, piegato dalla rissosità della maggioranza di larghe intese e dalle vendette di sindacati e parti sociali. Né andò meglio a Enrico Letta, nella breve e sfortunata esperienza a Palazzo Chigi e a dispetto delle sue apprezzate capacità: perso per strada l’appoggio di Berlusconi, a causa delle vicende giudiziarie del Cavaliere, il giovane premier non ebbe neanche la possibilità di vivere il suo primo tempo, e si ritrovò proiettato direttamente nel secondo. 

Nel bel mezzo del quale, costretto dalle pressioni degli alleati a una provvisoria cancellazione dell’Imu, di cui ancora si patiscono le conseguenze, dovette cedere, prematuramente e molto controvoglia, il posto al suo successore. Per Renzi questi precedenti, più che i consigli e le raccomandazioni che continua a incassare ogni giorno, sono alla base della strategia per affrontare i prossimi mesi. Ecco perché giocherà il tutto per tutto, per non soccombere alla sindrome del secondo tempo e non aggiungere anche il suo nome alla lista degli ultimi fallimenti.

Da - http://www.lastampa.it/2014/09/02/cultura/opinioni/editoriali/il-timore-del-secondo-tempo-f58I0YxyzoFkPoO1EtZz7L/pagina.html
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« Risposta #608 inserito:: Settembre 20, 2014, 03:43:30 pm »

Chiudere col passato che non passa

20/09/2014
Marcello Sorgi

No, non è solo l’articolo 18 a dividere Renzi dalla pattuglia dei suoi avversari nati nel Pci. È un groviglio di passioni, un vissuto che sta sotto le insegne del «lavoro» e dei «lavoratori», ma richiama alla memoria tutto l’insieme «comunista», in cui rientrano a pieno titolo le celebrazioni di Togliatti e Berlinguer.

Entrambi emarginati prima e oggi pienamente riabilitati: il partito, il sindacato, le sezioni, la fabbrica, le assemblee, i cortei, le lotte, le vittorie e le sconfitte di mezzo secolo di vita di un’organizzazione che a dispetto della sua cuginanza con l’Urss, s’è sempre sentita molto italiana. Un edificio - meglio sarebbe dire una cultura, un gran pezzo della recente storia italiana - che sembrava ormai sepolto. Almeno da quando, nel 2007, è nato il Pd, sulle ceneri novecentesche dei grandi partiti di massa, e con l’intenzione di scrivere una pagina nuova nell’esperienza della sinistra al governo.

Ma ora che il ciclone renziano, dopo aver rottamato gli ultimi eredi di quella tradizione, si appresta a cancellarne anche le tracce - il complesso di slanci e dubbi, di convinzione e ambiguità, quei due passi avanti e uno indietro che accompagnano da sempre l’evoluzione della sinistra -, Bersani, D’Alema e Cofferati dicono no. Il paradosso è che i leader che più si sono spesi per costruire una sinistra riformista, ora invece si oppongono e non riconoscono a Renzi, non tanto il diritto di fare ciò che ha in testa, ma di farlo alla sua maniera.

Così difendono un mondo che loro stessi hanno contribuito a superare: il comunismo italiano condannato, da limiti ideologici e internazionali, a stare all’opposizione per quasi cinquant’anni; ma non per questo escluso dalle grandi scelte. Il vecchio partito «di lotta e di governo», il gruppo dirigente «forgiato nella lotta antifascista», il Pci berlingueriano del «non si governa senza di noi». 

Ora che il Pd ha un segretario nato nel ’75, e una segreteria fatta di trenta-quarantenni, è difficile spiegare ai ragazzi che hanno preso il loro posto che una stagione, finita quanto si vuole (e finita da venticinque anni, verrebbe da aggiungere), non può essere messa da parte sbrigativamente. Senza quelle riflessioni, liturgie, pedagogie, di cui appunto si nutriva il Pci. Il partito delle grandi battaglie e manifestazioni popolari, eternamente riconvertite negli accordi e negli inevitabili compromessi di cui è fatta la politica. Il partito del centralismo democratico, in cui tutti discutevano, ma presto o tardi dovevano adeguarsi alla linea del segretario. Il partito dei grandi intellettuali, Moravia, Calvino, di cineasti come Visconti e Pasolini, di pittori come Guttuso. Il partito in cui un buon dirigente, per crescere, non doveva fare a botte con la polizia e doveva andare a distribuire i volantini davanti ai cancelli della Fiat.

 

La dimensione dell’antagonismo - operai contro capitalisti - era sempre fondata sul rispetto. Gianni Agnelli ricordava che «per un periodo i segretari comunisti parlavano solo piemontese». Quando Agnelli morì, nel gennaio 2003, gli operai torinesi, inaspettatamente, per un giorno e una notte sfilarono davanti al feretro, in segno di rimpianto. Questo perché la fabbrica era, sì, il teatro dello scontro: eppure, il sistema di relazioni tra parti avversarie prevedeva di fermarsi un attimo o un centimetro prima dell’irrimediabile: non a caso - e fu l’eccezione che confermava la regola - l’unica volta che quest’imperativo non venne rispettato, dalla fabbrica insorse la rivolta dei «colletti bianchi». 

La «marcia dei quarantamila» del 14 ottobre 1980 a Torino, con quasi dieci anni di anticipo sull’89 della caduta del Muro di Berlino, rappresentava la fine di quel mondo e di quel modo di essere, in cui perfino il calendario era segnato da scadenze corrispondenti: la riunione delle «Alte direzioni» Fiat in cui i vertici del gruppo si confrontavano sul modo di accrescere i profitti e aumentare la produttività, anche a costo di ridurre i posti di lavoro. E, parallelamente, la «Conferenza di produzione» in cui Pci e Cgil facevano il lavoro opposto. A quel tempo - è trascorso più di un trentennio, lo Statuto dei lavoratori aveva dieci anni, Craxi e il grande scontro sul taglio della scala mobile evocato in questi giorni erano alle porte - la fabbrica fordista era già finita. Dario Fo continuava a cantare nei teatri la ballata del lavoratore «parcellizzato» sottoposto alla rigorosa «misurazione dei tempi e dei metodi» («Prima prendere/poi lasciare/destra sinistra/ quindi posare/dare un giro/poi sorridere/questa è la vita del parcellizzato/l’operaio sincronizzato»), ma negli stabilimenti era già stata introdotta la lavorazione «a isola», che integrava il rispetto dell’autonomia artigiana del singolo dipendente con l’esigenza di contrarre gli organici.

È il periodo in cui il capitalismo nostrano comincia a interrogarsi sulle conseguenze della globalizzazione e la sinistra di opposizione, al contrario, si rifiuta di farlo. Errore imperdonabile, che condizionerà tutto il decennio successivo, quello in cui sulle macerie della Prima Repubblica arriva a sorpresa Berlusconi. E il Pci, poi Pds e Ds, invece di competerci sul piano dei programmi di governo, decide di combatterlo e basta, magari a ragion veduta, ma senza porsi il problema di cosa accadrà se e quando ad andare al governo sarà la sinistra. Così che quando succede, nei sette anni complessivi dei governi Prodi, D’Alema, Amato e ancora Prodi, il partito ha cambiato nome varie volte, ma sotto sotto è ancora quello «di lotta e di governo»: pro e contro i magistrati, secondo se se la prendono con Berlusconi o con i primi gravi casi di corruzione che affiorano all’interno del centrosinistra; pro e contro le riforme economiche, se è al governo o all’opposizione; e addirittura pro e contro la tv privata, con D’Alema che in campagna elettorale va a Cologno Monzese a elogiare Mediaset come parte importante del patrimonio culturale del Paese, ma poi cambia idea quando il Cavaliere torna a Palazzo Chigi.

Per questa strada si arriva alla grande manifestazione del 23 marzo 2002, contro la cancellazione dell’articolo 18 decisa da Berlusconi. Tre milioni di persone a Roma, nel catino del Circo Massimo, Cofferati sul palco e il governo di centrodestra, spaventato dalla prova di forza, che fa marcia indietro. È l’ultima foto di gruppo della generazione post-comunista, prima della confluenza nel Pd e della diaspora correntizia. Da quella radiosa «giornata di lotta», alla malinconica chiusura della campagna elettorale del 2013, quando Bersani si rivolge ai suoi dal palcoscenico dell’Ambra Jovinelli, un teatro romano di cabaret, sembra passato un secolo. A riempire la piazza del Primo maggio, una San Giovanni traboccante, è arrivato Grillo. È la vigilia della terribile sconfitta, pardon, della «non vittoria», come sarà definita, del 25 febbraio, che porterà Renzi alla guida del partito e poi a Palazzo Chigi, e riporterà Napolitano al Quirinale.

 Ma se tutto era finito da un pezzo, viene da chiedersi cosa c’entri ancora questo con l’articolo 18 e l’accelerata impressa dal premier al Jobs Act. In fondo in fondo, quasi niente. Bersani e D’Alema lo sanno, anche se vorrebbero che questo pezzo di storia, il passato che non passa mai e gli errori di questi anni, venissero archiviati con un po’ più di cura. Senza i calci nel sedere e le maniere spicce con cui Renzi li ha trattati finora.

Da - http://lastampa.it/2014/09/20/cultura/opinioni/editoriali/chiudere-col-passato-che-non-passa-yCYBfxgUji766eGhCvt5HI/pagina.html
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« Risposta #609 inserito:: Novembre 11, 2014, 06:03:31 pm »

Che tristezza la “lotteria” sul Quirinale

10/11/2014
Marcello Sorgi

La nota con cui ieri il Quirinale «non conferma e non smentisce» l’ipotesi di dimissioni di Napolitano fotografa la situazione incredibile che s’è generata, non appena s’è diffusa la voce che il Capo dello Stato potrebbe lasciare il suo incarico poco dopo la fine del semestre europeo di presidenza italiana. Il paradosso consiste in questo: invece di valutare il senso di un’intenzione che il Presidente aveva preannunciato fin dal momento in cui aveva accettato la sua rielezione, un anno e mezzo fa, è subito scattata una specie di toto-ministri, in cui politici di un po’ tutti i partiti, con l’eccezione di Renzi e pochi altri, sembrano impegnati soltanto a scommettere sul successore, con una ventina di nomi che già si affollano al borsino dei bookmakers. 

Ora, a parte l’amarezza che traspare dalle righe della nota, è evidente che Napolitano, quando ha fatto accenno, in ripetute occasioni, alla possibilità che il suo secondo mandato si concludesse in anticipo, si aspettava da tutti un atteggiamento più responsabile. Se non altro perché la sua rielezione era maturata in circostanze drammatiche e, almeno negli auspici, irripetibili. 

Drammatiche e irripetibili: il Parlamento riunito in seduta comune e manifestamente non in grado di provvedere all’elezione del nuovo Presidente; due candidati dotati, sulla carta, di solide maggioranze, bruciati dai franchi tiratori; la processione dei leader politici, e perfino dei delegati regionali, sul Colle, per convincere l’inquilino, che aveva già ultimato il trasloco, a rimanere al suo posto. 

L’eco di questo insopportabile fallimento, che aveva superato tutto d’un colpo le grandi manovre che accompagnano le elezioni presidenziali, con una continuità che attraversa più di sessant’anni di vita della Repubblica, si era subito avvertito nel discorso che lo stesso Napolitano aveva pronunciato, appena rieletto, davanti ai deputati e ai senatori ancora riuniti: ho accettato di restare, ma non per scaldare la sedia, aveva detto in sostanza il Presidente. E se non sarete in grado di provvedere alle riforme indispensabili che il Paese non può più aspettare, me ne andrò, mi dimetterò, denunciando la vostra incapacità ai cittadini.

Ma ora sembra che neppure questo abbia più voglia di fare Napolitano. L’anno e mezzo che è trascorso gli ha inflitto una lunga serie di delusioni: è durato pochi mesi il governo di larghe intese che aveva messo su faticosamente, dopo un risultato elettorale che non assegnava a nessuno la maggioranza; la querelle con Berlusconi, dopo la condanna definitiva subita dal leader di Forza Italia in Cassazione, è arrivata al limite dell’insulto; le riforme costituzionali, ripartite in un clima non certo di collaborazione, si sono impantanate prima del previsto; le riforme economiche chieste dall’Europa hanno acceso nel Paese uno scontro sociale stile autunno caldo, ma del tutto fuori stagione; la riforma elettorale approvata solo alla Camera è tutta da rifare.

E per finire, last but not least, si riparla di elezioni anticipate. Ce n’è abbastanza per convincere anche un uomo della tempra di Napolitano, per nulla avvezzo a rassegnarsi, che il suo sforzo non è bastato; e l’istinto suicida del sistema politico italiano ha avuto o sta per aver di nuovo il sopravvento.

Malgrado ciò, quando verrà il momento - e la nota del Quirinale ricorda a tutti che il momento non è arrivato, questo è ancora il tempo della riflessione - Napolitano forse non farà quel che aveva promesso. Bacerà la bandiera davanti ai militari schierati nel cortile del Quirinale, come vuole la liturgia dell’addio al Colle, ma se ne andrà in silenzio, senza parlare, né gridare, né denunciare, consapevole che il rispetto delle istituzioni, che ha informato tutto il suo doppio mandato, richiede questo ulteriore esercizio di pazienza, e le parole non dette peseranno più delle tante pronunciate invano in questi otto anni.

Proprio per questo, da adesso ad allora, nel breve lasso di tempo - qualche settimana o qualche mese - che ci separa dalle dimissioni ormai certe del Capo dello Stato, sarebbe auspicabile un ripensamento, un rigurgito di coscienza, un ritorno alla realtà degli stessi politici che in questi giorni hanno approcciato la questione della successione al Quirinale con tanta faciloneria. Basterebbe prendere in considerazione che l’uscita di scena di Napolitano, per l’Italia, rappresenta un problema, non solo sul piano interno, ma internazionale, dato che in questi ultimi tre anni in cui la crisi italiana ha toccato punte di acume allarmanti, l’uomo del Colle è diventato il garante della credibilità del nostro Paese anche agli occhi degli osservatori più scettici: quelli, per intenderci, che non facevano differenza tra noi e la Grecia. È un primo aspetto che dovrebbe influire nel tracciare l’identikit di un possibile successore; insieme all’esperienza, che Napolitano ha riversato nel suo lavoro quotidiano, dopo oltre mezzo secolo di vita politica, e vent’anni, dalla presidenza della Camera al Viminale, al servizio delle istituzioni. Aspettarsi un miracolo del genere forse è impossibile. E tuttavia sarebbe un giusto segno di gratitudine, una forma di risarcimento, un modo per non rendere vano il sacrificio chiesto al Presidente.

Da - http://www.lastampa.it/2014/11/10/cultura/opinioni/editoriali/che-tristezza-la-lotteria-sul-quirinale-jbd5wOkY0bcnySAzkbp5CN/pagina.html
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« Risposta #610 inserito:: Dicembre 17, 2014, 06:03:18 pm »

Tre nomi per il Colle anzi di più

16/12/2014
Marcello Sorgi

Si tratti o no dell’incontro della riconciliazione, come molti lo hanno interpretato, in vista di una nuova candidatura al Quirinale dopo la terribile esperienza dei 101 franchi tiratori della volta scorsa, l’arrivo di Prodi a Palazzo Chigi e le due ore trascorse con Renzi, dopo il lungo silenzio che li aveva allontanati, sono le prime conseguenze della conclusione dell’assemblea del Pd. 

Una riunione nata sotto l’incubo di una scissione, e finita con la ricostruzione di una difficile unità interna, presupposto indispensabile della trattativa, ormai aperta, sul nome del successore di Napolitano.

Prodi e la tormentata stagione dell’Ulivo sono stati evocati da Renzi come esempio del vizio antico del centrosinistra di farsi del male. Ma i prodiani che avevano ritenuta ostile quest’affermazione, hanno dovuto riconoscere la novità dell’atteggiamento del premier, il prender atto di non poter fare a meno del due volte ex-presidente del Consiglio per rimettere insieme il Pd.

Di qui a dire che Prodi sia effettivamente in corsa, ovviamente ce ne corre. 

Il suo curriculum, oltre ad essere prestigioso, contiene sicuramente tutti gli elementi che si richiedono in questo momento per la candidatura a Capo dello Stato: standing internazionale, preparazione economica, esperienza europea (è stato presidente della Commissione Ue). Ma è inutile nascondersi che, proprio perché è stato l’unico a battere due volte Berlusconi nel confronto diretto per Palazzo Chigi, il Prof. è destinato a sollevare reazioni assai dure da parte dell’ex-Cavaliere e di un centrodestra che sentono franare, proprio sul terreno del Quirinale, quell’intesa preferenziale che sembrava siglata una volta e per tutte con il patto del Nazareno.

Ora invece il gioco s’è riaperto: e la seconda conseguenza dell’unità ritrovata in casa Pd è che appunto il partito tratterà con tutti, e con nessuno in via privilegiata, con una rosa di nomi da cui alla fine dovrà essere estratto il nome del candidato più gradito ai Grandi Elettori. Prodi è dunque - meglio sarebbe dire è tornato ad essere - uno dei candidati, ma non sarà certo l’unico. Se Grillo e il Movimento 5 stelle avessero voglia di far politica, basterebbe che lo indicassero come il loro preferito (tra l’altro era uno di quelli usciti dalle «Quirinarie» tenute sulla rete), per farlo eleggere. Ma con la confusione che regna nel M5s non è facile che questo avvenga.

 

Ecco perché nel Pd, accanto al suo nome, ne circolano altri due. Parliamo, ovviamente, di candidati sorretti da una logica, dato che l’elenco degli aspiranti è lungo, e Renzi stesso ha spiegato di averne una lista di ben diciannove. Il primo dei due è Bersani, sì, proprio l’ex-segretario sconfitto dalla «non-vittoria» alle elezioni del 2013 e triturato dal fallimento del suo tentativo di formare un governo e dalle manovre dei franchi tiratori nella precedente tornata per il Quirinale. Tra il Bersani di allora - che per usare le sue stesse parole non era riuscito a «smacchiare il giaguaro», e aveva dovuto soccombere all’inarrestabile avanzata dell’ex-sindaco di Firenze - e quello di oggi, c’è una fondamentale differenza: non è più l’avversario diretto di Renzi, e negli ultimi tempi anzi s’è adoperato con tutte le sue forze per aiutarlo a guidare il Paese e il partito, a dispetto di tutto l’ostruzionismo interno che il governo ha dovuto scontare sulle riforme. Inoltre, la malattia che a inizio d’anno gli fece temere un’uscita di scena e il successivo, dignitoso rientro, nel ruolo un po’ da padre della patria, hanno molto addolcito le asperità di rapporti legate al periodo in cui era in prima linea. Seppure, certo, non fino al punto da poter aggirare la pregiudiziale della lunga militanza anti berlusconiana, che anche in questo caso farebbe sollevare gli scudi al centrodestra.

Per questa strada si arriva al terzo nome, il più coperto, e insieme quello su cui si sta ragionando in queste ore: Pier Carlo Padoan. Il ministro dell’Economia ha parecchie frecce al suo arco da scoccare: è un tecnico, in un momento in cui, a causa degli scandali, non è facile trovare un politico in grado di mettere d’accordo il largo fronte di elettori necessari per eleggere il nuovo Capo dello Stato; ha cominciato la sua vita pubblica a Palazzo Chigi con D’Alema sedici anni fa, mantenendo con lui una collaborazione nella fondazione «Italiani europei», ma ha saputo costruire un’intesa anche con Renzi. Senza Padoan, che non ha esitato a mettersi contro la nomenklatura del suo ministero, parte della quale è giunta a minacciare le dimissioni, gli ottanta euro in busta paga non sarebbero mai arrivati. E senza la sua paziente tessitura a Bruxelles e a Berlino, il premier non si sarebbe potuto consentire gli strattoni con cui ha riequilibrato il rapporto con Merkel e Juncker. Infine, negli anni in cui non affiancava D’Alema o Renzi, Padoan se n’era andato a Washington a lavorare al Fondo Monetario Internazionale. E si sa che il quarto di nobiltà atlantica è una dote utile, a volte indispensabile, per spiccare il balzo verso la sommità del Colle.

Da - http://www.lastampa.it/2014/12/16/cultura/opinioni/editoriali/tre-nomi-per-il-colle-anzi-di-pi-W5Tov0cpMZaCt4wfyTfaMJ/pagina.html
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« Risposta #611 inserito:: Dicembre 26, 2015, 11:11:53 pm »

Contro le invasioni di campo

22/12/2015
Marcello Sorgi

Sergio Mattarella aveva detto fin dal giorno del suo insediamento, il 3 febbraio, che sarebbe stato un arbitro imparziale, a patto che i giocatori rispettassero le regole, e in caso contrario non avrebbe esitato a intervenire. Se ieri l’arbitro ha fischiato - e lo ha fatto piuttosto sonoramente, nella solenne occasione degli auguri alle alte cariche dello Stato - è perché nella settimana appena trascorsa, a cavallo del caso politico delle banche commissariate dal governo, il Capo dello Stato ha dovuto assistere a troppe invasioni di campo.  

«Competizione, sovrapposizione di ruoli, se non addirittura conflitto»: così, misurando le parole com’è nel suo stile, il Presidente ha definito la confusione generata dalla scelta di Renzi di affidare all’Autorità anticorruzione presieduta dall’ex-pm Cantone gli arbitrati che dovrebbero portare al risarcimento dei risparmiatori truffati dalle banche colpite dal decreto di Palazzo Chigi. Una decisione che ha provocato la malcelata irritazione (anche se non la minaccia di dimissioni) del governatore della Banca d’Italia Visco, che guida l’istituzione normalmente deputata al controllo e alla regolamentazione degli istituti di credito grandi e piccoli.  

E il successivo chiarimento intervenuto tra Cantone e lo stesso Visco, pronti adesso a collaborare.

Per il modo che ha di intendere il suo ruolo, Mattarella non si sarebbe neppure sognato di occuparsi di una vicenda in cui il governo ha diritto di prendere i provvedimenti che ritiene opportuni, senza che il Quirinale, in questa come in altre questioni di stretta competenza dell’esecutivo, abbia titolo per intromettersi. Se lo ha fatto, non è per dare un giudizio sull’operato del premier e dei suoi ministri, che per altro, in una seconda parte del suo discorso, ha espresso positivamente; ma per marcare il suo dissenso sul modo in cui l’iniziativa è stata presentata da Renzi, con quell’accenno alla necessaria «terzietà» dell’autorità chiamata a occuparsi dei rimborsi, che poteva lasciar intendere che le stesse indispensabili autonomia e indipendenza non potessero essere assicurate da Bankitalia, ciò che appunto ha causato il risentimento del Governatore.  

Ora che il conflitto è stato superato, l’armonia tra le istituzioni ricostituita e assicurata la collaborazione tra Cantone e Visco, Mattarella si augura pubblicamente che non debbano ripetersi casi del genere e che il bisogno di trovare una soluzione urgente, ancorché non miracolosa, per casi delicati come quello delle banche, non porti a valutare solo o prevalentemente l’aspetto mediatico dei rimedi da proporre, senza prenderne in considerazione tutte le implicazioni, a cominciare appunto da quelle istituzionali. Nello specifico, non a caso, il Presidente si augura norme chiare per consentire al meccanismo di selezione dei risarcimenti di funzionare, e indagini rigorose a tutti i livelli, senza alcuna fretta di chiudere il caso.

Un analogo esempio - anche questo non direttamente desumibile dalle parole del Presidente, che s’è guardato bene dal farne in modo esplicito - potrebbe riguardare la commissione d’inchiesta sulle banche commissariate. Dall’annuncio di Renzi non s’è capito di che tipo di organismo si tratti, mono o bicamerale, dotato o meno degli stessi poteri della magistratura, o incaricato solo di un’indagine conoscitiva. L’intenzione lodevole della massima trasparenza, per fugare ogni sospetto di conflitto di interesse del governo, anche dopo la discussione parlamentare e il voto sulla mozione di sfiducia contro la ministra Boschi, dovrà fare i conti obbligatoriamente con un testo legislativo che dia vita alla commissione - se davvero si è dell’intenzione di istituirla - e ne elenchi i poteri, correlandoli a quelli della magistratura che sta indagando sulle ipotesi di truffa e della Banca d’Italia che continua a vigilare sulla stessa materia; ed evitando - va da sé - le sovrapposizioni e gli eventuali conflitti stigmatizzati dal Capo dello Stato.

Così, per concludere, se si vuole evitare la «sfiducia» che i cittadini continuano a manifestare, ogni volta che sono chiamati alle urne, Mattarella ricorda a tutti che non basta evitare le invasioni di campo tra le diverse istituzioni. Occorre pure che si ristabilisca lo spirito di collaborazione e la normale comunicazione tra i palazzi e i loro inquilini, che fin qui sono evidentemente mancate.

Da - http://www.lastampa.it/2015/12/22/cultura/opinioni/editoriali/contro-le-invasioni-di-campo-oCIR6mKjKzL4EjhX7YhpXK/pagina.html
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« Risposta #612 inserito:: Febbraio 18, 2016, 11:47:03 am »

L’establishment contro il ribelle

18/02/2016
Marcello Sorgi

Lo scontro in aula al Senato tra Monti e Renzi, sul presente e sul futuro dei rapporti con L’Europa, ha stupito per la sua durezza, ma non è certo avvenuto a sorpresa. Da settimane, l’ex capo del governo tecnico che nel 2011 salvò l’Italia dal crac e dal commissariamento stile Grecia minacciato da Bruxelles, non fa mistero della sua contrarietà alla sfida lanciata da Renzi a inizio d’anno alla Commissione presieduta da Juncker e a tratti anche alla Merkel.

Da ex commissario e profondo conoscitore dei meccanismi che regolano il funzionamento dell’Unione, oltre che da economista, l’ex presidente del Consiglio teme che il disastro evitato a costo di grandi sacrifici, imposti agli italiani cinque anni fa, possa riproporsi pari pari per un’errata valutazione, sia dell’evoluzione della congiuntura economica, di nuovo a rischio di crisi dopo un pallido accenno di ripresa, sia dei rapporti di forza tra Italia e Ue. Monti non lo dice a voce alta - sebbene il suo intervento di ieri a Palazzo Madama sia stato chiaro - ma il rischio che vede profilarsi è lo stesso a cui l’Italia andò incontro nella drammatica, ultima estate del governo Berlusconi, quando il Paese apparve all’improvviso in default rispetto al severo metro di misura praticato dalle autorità europee e l’ex Cavaliere dovette arrendersi allo sfratto da Palazzo Chigi, considerato alla stregua di un «colpo di Stato». 

Le analogie tra allora e oggi, tuttavia, non sono così evidenti. La tendenza alla risalita dello spread tra i nostri titoli di Stato e quelli tedeschi si è, sì, manifestata, ma senza la virulenza del passato. La congiuntura negativa si fa sentire, ma è diffusa a livello globale, e ciò che fa più preoccupare gli economisti sono le contrazioni della ripresa americana e lo stallo in cui è caduta quella cinese. Anche la crisi bancaria, apparsa come un incubo all’alba del nuovo anno, non riguarda solo i nostri istituti di credito, ma come s’è visto anche uno dei più importanti tra quelli tedeschi. In sintesi, la situazione non è affatto rassicurante; ma non è detto che stia per precipitare, come ha lasciato intendere Monti.

Perché dunque l’ex presidente del Consiglio, tra l’altro fondatore di un partito che sostiene il governo, s’è risolto a un attacco così duro? La spiegazione è che Monti, e non solo lui, rappresenta un establishment europeista che è abituato a frequentare Bruxelles e Strasburgo come un vecchio socio, avvezzo alle regole del club al quale è iscritto, e consapevole che la violazione delle stesse può avere conseguenze molto gravi. In questo, tra l’altro, Monti non è solo: nella recente intervista a «Repubblica» dell’ex presidente della Repubblica Napolitano, in più di un accenno del recente intervento del presidente della Banca centrale europea Draghi, e nei silenzi eloquenti dell’attuale capo dello Stato Mattarella si possono ritrovare le stesse argomentazioni, sebbene articolate con sensibilità e linguaggi diversi. Tralasciando i dettagli, è come se un coro di così alto livello si levasse per dire a Renzi: fermati finché sei in tempo, oltre un certo limite non potrai più tornare indietro.

Ma a giudicare dalla replica del premier, che in Senato ha risposto per le rime a Monti, la sensazione è che questo genere di raccomandazioni difficilmente saranno accolte. Renzi infatti ha scelto una linea, diversa da quella dei suoi critici interni e esterni, che punta a rimettere la politica, sottomessa finora al rigore delle regole di Bruxelles, in capo a ogni discussione sul futuro dell’Europa: a suo giudizio le scelte economiche, e più in generale la cooperazione e l’idea di solidarietà che stanno alla base del sogno europeo, non sopravvivranno, se l’Unione non sarà in grado di rinunciare alle sue rigidità e far fronte alle nuove sfide, come quella dell’immigrazione, che i Paesi partners tentano inutilmente di aggirare. L’Europa intera, non solo l’Italia rischia di essere travolta dai propri egoismi: ecco cosa pensa Renzi. Il guaio è che non è detto che abbia torto.

Da - http://www.lastampa.it/2016/02/18/cultura/opinioni/editoriali/lestablishment-contro-il-ribelle-70X8WQGQdLiO9yvyWIDJhI/pagina.html
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« Risposta #613 inserito:: Aprile 18, 2016, 12:18:02 pm »

Ora per Renzi arriva la prova più difficile
Il premier dovrà rimettere mano alla strategia per il 2016, risulta divisiva sul complesso dell’elettorato, e perfino aggregante, sul versante opposto al suo

ANSA
18/04/2016
Marcello Sorgi

Dalle urne del referendum sulle trivelle arriva un segnale chiaro per Renzi: la consultazione è fallita, per mancato raggiungimento del quorum, e il premier può a ragion veduta cantar vittoria, avendola definita «una bufala» ed essendosi schierato apertamente per l’astensione. Il numero dei votanti, in maggioranza schierati per il «Sì», che in pratica era un «No» a Renzi, in nessuna provincia - tranne Matera - ha raggiunto il cinquanta per cento degli elettori necessario per rendere valido il voto, è rimasto lontano complessivamente anche dal quaranta per cento che gli organizzatori si erano assegnati come traguardo significativo della loro iniziativa, sebbene quattordici milioni e mezzo di persone che vanno a votare siano un dato politicamente non irrilevante.

LEGGI ANCHE Tutti i risultati del referendum sulle trivellazioni 

Forse è presto per dire che tra Movimento 5 stelle, minoranza Pd, sinistra ambientalista e radicale, Lega e Fratelli d’Italia, tutti schierati contro l’astensione e per la riuscita del referendum, sebbene con posizioni di merito differenti, sia nato una sorta di fronte popolare, che partendo dalla sconfitta di ieri sera, punta a prendersi la rivincita nelle prossime amministrative, in vista delle quali la condizione dei candidati sindaci renziani nelle grandi città si fa giorno dopo giorno più difficile, o nel referendum costituzionale sulla riforma Boschi a ottobre. 

Ma che gli avversari del presidente del Consiglio, dentro e fuori il Pd, ci proveranno ancora, è sicuro, anche se non è detto che riusciranno nel loro intento.

 Il voto di ieri riflette infatti alcune caratteristiche contingenti: l’affluenza è stata più forte, ad esempio, nella Basilicata toccata (e sensibilizzata) dallo scandalo trivelle, e nella Puglia del governatore Emiliano, a tutti gli effetti capo dello schieramento trasversale antirenziano; non così in altre regioni, come la Campania, la Calabria e la Sicilia; e non parliamo di quelle non direttamente interessate al problema, ma chiamate lo stesso a pronunciarsi. Insomma un risultato deludente, seppure non del tutto negativo, per uno schieramento trasversale destinato a dividersi nel prossimo voto per i Comuni tra sinistra, destra e 5 stelle. Non sarà così facile rimetterlo insieme in autunno, dopo averlo smontato a giugno.
Al di là della soddisfazione espressa a caldo a tarda sera, anche in nome dei lavoratori che avrebbero perso il posto se il referendum fosse riuscito con la conseguente vittoria dei «Sì», Renzi dovrà dunque rimettere mano alla strategia per il 2016, prendendo atto che la sua narrazione è ancora mobilitante nel suo mondo di riferimento, ma risulta divisiva sul complesso dell’elettorato, e perfino aggregante, sul versante opposto al suo, e in vista di un’altra e più importante consultazione referendaria, senza quorum, in cui la somma dei voti dell’eterogeneo insieme dei suoi avversari potrebbe ritrovare consistenza e rivelarsi più rischiosa.

Inoltre la pur breve campagna per il referendum ha rivelato come, a causa di imprevisti, un appuntamento elettorale nato morto (nel senso che fino a pochi giorni prima dell’apertura dei seggi una larga parte degli elettori coinvolti apparivano freddi sul contenuto della consultazione) si sia rivitalizzato via via a causa dello scandalo esploso pochi giorni prima e delle reazioni, favorevoli alla partecipazione al voto, delle alte cariche istituzionali e di leader ed ex leader del Pd. Sollecitati, va detto, dalla stessa campagna astensionista del premier.

Resta il fatto che Renzi, alla fine, se l’è cavata anche stavolta, tirandosi fuori da una strettoia che non prometteva nulla di buono per lui. Di qui a giugno, e soprattutto di qui a ottobre, la strada sarà ancora in salita, con due incognite - migranti e situazione economica - che potrebbero di nuovo pesare sulle convinzioni degli elettori, più delle promesse di tagli di tasse o aiuti materiali che il premier continua a sfornare senza sosta. Da un lato l’annunciata (e contestata dal governo italiano) chiusura del Brennero, dall’altro la pressione crescente degli sbarchi di immigrati provenienti dalla Libia, potrebbero creare una nuova emergenza, assai difficile da gestire. Il resto potrebbe farlo il ristagno di un quadro economico che non reagisce (o reagisce appena appena) alle stimolazioni della Bce e alla spinta delle riforme economiche varate dall’esecutivo.

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Da - http://www.lastampa.it/2016/04/18/cultura/opinioni/editoriali/ora-per-renzi-arriva-la-la-prova-pi-difficile-er4sgWMD0CL1LZJ6ntwMeJ/pagina.html
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« Risposta #614 inserito:: Aprile 28, 2016, 06:02:58 pm »

L’urgenza di fare pulizia

27/04/2016
Marcello Sorgi

I quattro sostituti procuratori D’Alessio, Giordano, Landolfi e Sanseverino, coordinati dal procuratore aggiunto antimafia Giuseppe Borrelli, che ieri hanno ordinato 9 arresti tra Campania e Lazio, e hanno mandato carabinieri e guardia di finanza a perquisire casa e ufficio dell’ormai ex presidente regionale del Pd Stefano Graziano, non pensavano certo, con i loro provvedimenti, di dare una risposta a Matteo Renzi, dopo la dura polemica che lo ha opposto a Pier Camillo Davigo. Le loro indagini erano partite da tempo, erano già al lavoro quando, la settimana scorsa, il presidente del Consiglio e quello dell’Anm hanno incrociato metaforicamente le armi. E Davigo, in un’intervista ad Aldo Cazzullo del «Corriere della Sera», ha detto che secondo lui i politici rubano più di prima e neppure si vergognano. 

Ma anche se non c’è chiaramente alcun nesso tra le pesanti parole che hanno inaugurato la nuova fase dell’ultraventennale guerra tra politici e magistrati e l’inchiesta di Napoli, così come non ce n’erano tra l’inchiesta di Potenza e le mozioni di sfiducia seguite alle dimissioni della ministra Guidi, per le incaute telefonate con il suo compagno, nell’immaginario comune, e ancor più nel corto circuito politico-mediatico che si determina ogni volta che succedono fatti del genere, questo collegamento esiste, si rinnova e si rafforza. Il silenzio di Renzi e la formale dichiarazione di fiducia del vicesegretario Guerini nel lavoro della magistratura non bastano certo a ridimensionare gli effetti di un altro disegno grottesco che prende forma. 

E così come dall’inchiesta di Potenza saltavano fuori le risse tra le correnti del Pd per aggiudicarsi vantaggi e assunzioni da fare sul territorio grazie al petrolio, da quella della Campania esce un quadretto incredibile, del quale, siamo pronti a scommettere, Renzi non sapeva nulla, anche se gli toccherà pagarne le conseguenze. Allora: il principale imputato, il sindaco di Santa Maria Capua Vetere in provincia di Caserta si chiama Biagio Di Muro e ha un padre che solo qualche anno fa è stato condannato per tangenti e s’è visto confiscare un palazzo storico, nel quale, sembra, a suo tempo, abbia trovato dimora Garibaldi. Questo stesso palazzo, di padre in figlio, era adesso al centro di un complicato restauro affidato a un imprenditore trentenne in odore di rapporti con il clan dei casalesi che di nome fa Alessandro Zagaria, ed è omonimo, e si dichiara solo tale, del più importante boss di camorra arrestato negli ultimi anni. Detto Zagaria, non parente ma invischiato con i casalesi, è stato uno dei principali galoppini elettorali del presidente (fino all’altro ieri) del Pd campano, nonché consulente (fino al governo Letta) di Palazzo Chigi, Stefano Graziano. Per quali meriti Graziano, un modesto politico di provincia che dopo un’esperienza al Parlamento nazionale aveva preferito ritirarsi nella sua regione, sia potuto arrivare fino a Palazzo Chigi, non si sa. Si sa al contrario che Renzi, senza neppure conoscerlo, preferì rinunciare alla sua collaborazione, sia pure consentendo che in cambio Graziano si candidasse al Consiglio regionale e potesse essere nominato presidente del Pd campano. Come invece lo stesso Graziano sia riuscito ad uscire secondo degli eletti tra i consiglieri del Pd lo hanno capito i magistrati: facendosi aiutare da Di Muro e Zagaria, che al telefono non si stancavano di prodigarsi in suo favore.

Più in filigrana, l’inchiesta lascia emergere una novità che, se confermata, dovrebbe preoccupare, prima ancora dei magistrati, e forse più delle pesanti conseguenze politiche e d’immagine sollevate da arresti e perquisizioni, il governo e il Pd. In Campania, nella Campania in cui l’amministrazione regionale, d’intesa con Palazzo Chigi, si prepara a investire in opere pubbliche dieci miliardi di fondi europei, il sistema Cosentino, cioè il presunto accordo tra il clan dei casalesi e l’allora luogotenente del centrodestra (detenuto da due anni) che aveva in questa porzione di Sud la sua roccaforte, sta per essere sostituito da un altro sistema, parallelo e convergente, in cui la criminalità organizzata ha smesso di trafficare con la destra, che ha perso potere, e s’è voltata verso sinistra: trovando, tra l’altro, compiacenti sguardi d’intesa. È un’altra urgente ragione per cercare di far pulizia, prima che sia troppo tardi.

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