LA-U dell'OLIVO
Novembre 23, 2024, 11:36:00 am *
Benvenuto! Accedi o registrati.

Accesso con nome utente, password e durata della sessione
Notizie:
 
   Home   Guida Ricerca Agenda Accedi Registrati  
Pagine: 1 ... 37 38 [39] 40 41 ... 44
  Stampa  
Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 287640 volte)
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #570 inserito:: Maggio 04, 2013, 03:41:59 pm »

Editoriali
04/05/2013

Per Letta la trappola balneare

Marcello Sorgi


A dar retta agli ultimi rumors di Palazzo e ai quotidiani avvertimenti che Silvio Berlusconi manda a Enrico Letta, l’esecutivo nato una settimana fa con il marchio di garanzia del Presidente Napolitano, e destinato, almeno nei programmi, a durare minimo due anni, varando a tempo di record un piano di riforme per ridare solidità all’Italia e credibilità alla politica, sarebbe, non si sa come, già diventato un «governo balneare». Uno di quei governicchi che si facevano negli Anni Sessanta e Settanta per far passare l’estate in attesa di una vera soluzione. 

 

Come questo sia potuto accadere, nessuno lo dice chiaramente. Ma l’insofferenza simmetrica dei due maggiori partiti della maggioranza, oltre a sentirsi, si vede. C’è un Pdl timoroso che il proprio segretario, Angelino Alfano, vicepresidente e ministro dell’Interno, si affezioni troppo all’idea della pacificazione, sacrificando su quest’altare l’autonomia del partito e i suoi legittimi interessi elettorali, accresciuti dal rialzo dei sondaggi. E c’é un Pd, incapace di digerire il disastroso effetto della mancata formazione del governo Bersani e della truculenta esecuzione dei suoi due candidati al Quirinale, che non si rassegna all’idea delle larghe intese con il centrodestra. 

 

E in gran parte spera, anche a voce alta, al più presto in una via d’uscita. Se l’anima crisaiola del Pdl ha in Berlusconi il suo portavoce - un Berlusconi che, si sa, con una mano prende il microfono per minacciare la rottura sull’Imu, e con l’altra telefona ad Alfano per rassicurarlo -, quella del Pd, a tutt’oggi privo di un leader dopo le dimissioni di Bersani, non sa neppure a chi rivolgersi. Quando il successore di Bersani arriverà - si tratti dell’ex-segretario della Cgil Guglielmo Epifani o del dalemiano Gianni Cuperlo - è prevedibile che sarà quasi completamente assorbito dal compito di replicare, a tutte le ore del giorno, agli attacchi diretti o per interposta persona del Cavaliere al centrosinistra. Con quali conseguenze, per un governo già affaticato a pochi giorni dalla nascita, è facile immaginare.

 

Non è chiaro, invece, è se ciò a cui stiamo assistendo sia veramente l’insorgere di un virus destinato a consumare in pochi mesi Letta e la sua compagine di ministri tutti nuovi, o non piuttosto una sorta di inevitabile metabolismo della scelta di collaborazione tra i due schieramenti, impegnati per quasi vent’anni a farsi la guerra. In altre parole, prima di stabilire se si tratti o no di una vera pacificazione politica, e anche ammesso che lo sia, bisognerebbe chiedersi se un processo del genere possa avvenire in tranquillità; e soprattutto se possa realizzarsi da un giorno all’altro, dopo quel che abbiamo visto in Italia. La domanda, naturalmente, è retorica. E la risposta è che sarebbe del tutto impossibile.

 

Perché allora Pdl e Pd hanno messo le mani avanti, a cominciare dall’Imu, come se la cosa che più gli preme sia tenere innescato il detonatore di una crisi fin dal giorno del l’avvio del governo? Ci sono ragioni politiche, ovviamente: i due partiti rappresentano strutturalmente interessi contrastanti. Tra la ricetta di Berlusconi della cancellazione della tassa già
quest’anno, accompagnata alla restituzione di quella pagata l’anno scorso, e quella di Letta e del Pd della rimodulazione, cioè del diverso carico tra gruppi sociali diversi, c’è appunto la differenza tra destra e sinistra. La prima si oppone alla redistribuzione della ricchezza che la seconda persegue come sua ultima ragione di vita. Ma siccome sia Pdl che Pd sapevano prima di mettersi insieme che avrebbero dovuto trovare il modo di superare quest’ostacolo, l’Imu è, sì, un motivo di divisione, ma non può essere la causa della rottura.

 

La verità è che allo stesso modo, simmetricamente appunto, i due partiti hanno cominciato a temere, prima ancora che prenda corpo, la novità, chiamiamola impropriamente così, di un governo guidato da un democristiano - se non da tre: Letta, Alfano e Franceschini - che manifestamente intende riproporre il metodo della vecchia Dc. Vituperato quanto si vuole, travolto, non del tutto giustamente, da Tangentopoli e dall’introduzione del maggioritario via referendum del 1991 e ’93, ma ancor oggi, duole ammetterlo dopo vent’anni di Seconda Repubblica e rivoluzione ininterrotta, insuperato unico modo di governare un Paese anarchico come l’Italia. E non solo di mandarlo avanti tra rinvii e mezze soluzioni, come vogliono certe ricostruzioni parodistiche dell’epoca che fu. Ma anche di guidarlo, con un sapiente stop and go - e d’intesa con alcuni partners europei che adesso più o meno fanno lo stesso -, facendo le riforme necessarie, come appunto è accaduto in certi passaggi non remoti della vicenda italiana.

 

L’arte di «governare con la crisi», per citare il titolo di un vecchio libro di Andreotti. Anche se non è affatto scontato che il gruppetto di ex giovani Dc ci riescano, ed è da vedere che quel modo di governare sia da rimpiangere, e sia ancora adatto ai nostri tempi, è esattamente questo che temono Berlusconi e il gruppo dirigente terremotato del Pd. Anche perché, loro, con o senza la crisi, non è che siano riusciti in questi anni a dare grandi prove di governo.

da - http://www.lastampa.it/2013/05/04/cultura/opinioni/editoriali/per-letta-la-trappola-balneare-YlYsUL1aM0LPRGltvzQuzN/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #571 inserito:: Maggio 09, 2013, 04:33:36 pm »

Editoriali
09/05/2013

Ma il Cavaliere non farà saltare il governo

Marcello Sorgi


Attesa e in qualche modo scontata (l’avvocato-deputato Ghedini ci aveva pure scommesso su), la condanna in appello di Silvio Berlusconi nel processo per frode fiscale sui diritti cinematografici Mediaset appesantisce, certo, l’insieme delle pendenze giudiziarie del super-imputato leader del Popolo della Libertà. Ma non altrettanto, e non necessariamente, il quadro politico e il percorso del neonato governo delle larghe intese. 

Da una settimana, infatti, il Cavaliere ha inaugurato un nuovo corso della sua condotta processuale. 

La chiamata, al fianco dei suoi abituali legali impegnati anche in politica, del professor Franco Coppi, un professionista puro, legale di Andreotti nel «processo del secolo» per le accuse di mafia, dovrebbe preludere (ma con Berlusconi non si sa mai) a un maggior rispetto per i magistrati chiamati a giudicarlo e alla fine della commistione tra ruolo politico e condizione giudiziaria, che aveva portato, solo due mesi fa, il Pdl all’occupazione del Palazzo di Giustizia di Milano. 

Berlusconi insomma non farà saltare il governo, come pure erano in molti a temere, in attesa della sentenza, nei corridoi di Montecitorio, e come lui stesso aveva minacciato martedì, dopo il doppio siluramento del suo candidato Francesco Nitto Palma alla presidenza della commissione giustizia del Senato. Ottenuta la quale, seppure con un giorno di ritardo, si metterà invece ad aspettare l’esito della Cassazione. Al proposito circolano una voce maliziosa e un dato di fatto. La prima è che la nomina, decisa con una spaccatura del Csm, al vertice della Suprema Corte, del dottor Giorgio Santacroce, magistrato che in passato era stato sentito, in relazione ai suoi rapporti con l’ex ministro berlusconiano Cesare Previti, dalla principale inquisitrice di Berlusconi Ilda Boccassini, non sarebbe affatto una cattiva notizia per il leader del centrodestra. E il secondo è che la Cassazione, prima di esaminare la sentenza d’appello, dovrà prendere atto di un altro giudizio della Corte costituzionale, che potrebbe concludersi a breve con l’annullamento parziale o totale del lavoro fatto fin qui dai giudici di Milano. Il complicato intreccio di competenze e interventi delle diverse magistrature porterebbe, o a rifare da capo interamente il processo, o almeno in secondo grado. E Berlusconi, in caso di nuova condanna, potrebbe ancora rivolgersi alla Cassazione, aspettando la scadenza dei termini di prescrizione il prossimo anno.

Questo spiega perché, malgrado la sentenza porti con sé anche la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, che se confermata chiuderebbe d’imperio la carriera parlamentare, se non proprio quella politica, del Cavaliere, la reazione dello stato maggiore del centrodestra, salvo qualche acuto della Santanchè, è stata controllata. Niente manifestazioni, nessun tavolo è stato rovesciato. E i legali del Pdl, Ghedini in testa, hanno accolto il verdetto con rassegnazione.

Berlusconi, in altre parole, si sta innamorando del suo nuovo ruolo: è diventato l’azionista di riferimento del governo, non passa giorno che chieda e ottenga quel che vuole, ieri s’è concesso il lusso di cancellare, dichiarandola inutile, perfino la Convenzione per le riforme istituzionali. I ritardi e gli intoppi che inevitabilmente si presentano, di tanto in tanto, sulla strada del governo, li mette in conto al Pd. Un partito impallato nei propri guai, in difficoltà a scegliersi un segretario, dopo le dimissioni di Bersani, e diviso al contempo sull’atteggiamento da tenere nei confronti dell’esecutivo guidato dal proprio vicesegretario. Il Cavaliere assiste gongolando alle contorsioni dei suoi ex avversari, divenuti nuovi alleati. Ai quali, tra l’altro, se non vogliono essere loro a mettere nei guai Letta, adesso toccherà digerire anche la sua ultima condanna. A denti stretti, senza applausi né esultanza, al contrario di tutte le volte precedenti.

da - http://www.lastampa.it/2013/05/09/cultura/opinioni/editoriali/ma-il-cavaliere-non-fara-saltare-il-governo-QGAA2JKlgWQc8c4ewVHnPP/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #572 inserito:: Maggio 09, 2013, 04:46:58 pm »

Cultura
09/05/2013 - Giorno della Memoria

Tarantelli “Papà, mi spieghi che cos’è l’inflazione?


Nel giorno dedicato alle vittime del terrorismo, il figlio Luca ricorda in un libro Ezio l’economista assassinato dalle Br perché osò sfidare il tabù della scala mobile: “Era un uomo libero”

Marcello Sorgi

Il 27 marzo 1985, quando le Brigate Rosse ammazzarono l’economista Ezio Tarantelli, l’inventore del taglio della scala mobile su cui poi si divisero
l’Italia e la sinistra italiana, era solo tre giorni dopo il compleanno di Luca, suo figlio. Che adesso ha scritto un libro (Il sogno che uccise mio padre, Rizzoli, pp. 280, € 18), non solo per ritrovarlo, ma anche per descrivere le resistenze e il conservatorismo di un Paese che in qualche modo - un modo inconsapevole e distratto - lasciò che attorno all’uomo, al professore, all’originale riformista, costruttore di nuove teorie economiche, si chiudesse a poco a poco un cerchio di indifferenza, di isolamento, di incomprensione, che doveva farne il bersaglio dei suoi assassini. 

Per fare un solo esempio, Tarantelli – che rivendicava di non essere l’autore del famoso decreto di San Valentino con cui Craxi tagliò tre punti di contingenza in aperta rottura con il Pci e la componente comunista della Cgil, ma solo del modello di inflazione programmata che ne era alla base – non aveva mai incontrato il leader socialista presidente del Consiglio. Si batteva per le sue idee, facendo lezione all’università, scrivendo sui giornali, collaborando con la Banca d’Italia e animando un Centro studi, con il solo appoggio della Cisl di Carniti, che fu protagonista del successivo referendum voluto da Berlinguer e vinto da Craxi.

Luca Tarantelli ha spiegato molto bene la doppia sofferenza a cui è sottoposto il figlio di un uomo ucciso dalle Br. Perché non c’è solo il dolore della perdita, aggravato dalla violenza dell’improvvisa privazione (si accetta con più rassegnazione la morte naturale o per malattia).
Ma anche quello dell’«esproprio» della memoria privata: la vittima sopravvive quasi esclusivamente nel ricordo pubblico, e uno sta lì a sforzarsi di ritrovare il ricordo personale di quando tuo padre ti insegnava a nuotare, o quando, a soli otto anni, sentendone parlare a casa da mattina alla sera, avevi trovato il coraggio di chiedergli: «Papà mi spieghi cos’è l’inflazione?».

Ezio Tarantelli era un personaggio eccezionale. Abruzzese, testardo, nato ricco e impoverito a causa del fallimento della banca di famiglia, allievo di un mostro sacro della dottrina economica come Federico Caffè, si era laureato benissimo, era entrato presto in Banca d’Italia, ma subito aveva rivelato una sorta di inquietudine e di incapacità a liturgie formali e carriere tradizionali. Con una borsa di studio se n’era andato a Cambridge, prima, e poi in Massachusetts, al Mit, vale a dire nelle due più prestigiose scuole economiche del mondo. 

Durante la sua carriera accademica aveva collaborato con quattro premi Nobel: Franco Modigliani, Paul Samuelson, Robert Solow e Joseph Stiglitz.
Quando la futura moglie Carol Beebe lo incontrò – nel ’65, alle soglie di un ’68 che li avrebbe cambiati – in una serata studentesca di balli esotici, jugoslavi, greci e italiani, gli erano rimasti in tasca 45 dollari e una voglia matta di restare in America. Si sposarono. Festeggiarono in un pic-nic, «con una torta tremenda comperata in un supermarket». Poi Ezio ripartì per l’Italia, per chiedere un supplemento di aspettativa alla Banca d’Italia, che gli fu concesso, ma senza stipendio e scatti di anzianità. 

«Al ritorno devi scegliere: o l’università o la Banca»: fu Carlo Azeglio Ciampi, che lo aveva individuato come uno dei giovani più brillanti di via Nazionale, a capire il tratto caratteriale che contrassegnava la personalità di Ezio. Tarantelli amava troppo la sua libertà, il limpido confronto tra intellettuali e studiosi, ed era così curioso del mondo, in un’epoca in cui l’Italia era ancora terribilmente chiusa, da non volersi legare a nessuno. Era insomma un sognatore che adorava far sognare anche gli altri, predestinato a sacrificarsi per le proprie idee. 

L’ipotesi di un freno all’inflazione, tramite un tetto programmato agli incrementi del costo del lavoro, era nata da questo metodo di confronto aperto tra scuole e paesi diversi, e dal tormento di escogitare un antidoto alla disoccupazione crescente e a una condizione giovanile inaccettabile in Italia. Piuttosto che vedere un quarto del salario mangiato da un incremento fuori controllo dei prezzi, riteneva, i sindacati e i lavoratori accetteranno di bloccare la spirale degli adeguamenti dei salari. S’illudeva. E quando cominciò a spiegare la sua teoria, mancava poco che lo prendessero per matto.
Gli disse di no il Pci, il partito per cui votava. Lama, il segretario della Cgil, gli spiegò che non si poteva fare. Perfino alcuni amici lo trattenevano, e sua moglie gli diceva che in certi momenti sembrava fuori di testa. Se non ci fossero stato l’eretico Carniti e, sulla sua scia, Craxi e De Michelis, quell’ipotesi sarebbe finita in un cassetto.

Così Tarantelli andò incontro alla sua morte annunciata. Prima che a lui, le Br spararono a Gino Giugni, l’autore dello Statuto dei diritti dei lavoratori. Chi era più vicino a Ezio, come Rita Di Leo e Aris Accornero, gli consigliava di stare attento, di smetterla per un po’ di scrivere sui giornali, di prendersela con più calma e meno passione. Ma lui non li capiva, non riusciva a credere che un’idea, per quanto innovativa, per non dire eversiva, rispetto al corso immobile delle cose italiane, potesse davvero metterlo in pericolo.

A Luca Tarantelli questo faticoso viaggio alla ricerca del padre è servito a far chiarezza anche su certe cose sue. Ha capito perché, a lui studente negli anni delle occupazioni dei licei e della «Pantera» all’università, certi stereotipi del movimento, di punto in bianco, non sono piaciuti più.
Ha sentito nascere e crescere la stessa passione di famiglia per l’anticonformismo e la libertà. E a un certo punto – si capisce leggendo questo libro – è come se avesse sentito suo padre ricominciare quasi a vivere dentro di sé.

 
da - http://lastampa.it/2013/05/09/cultura/papa-mi-spieghi-che-cos-e-l-inflazione-8GfLBBQEM3dH6cmW6TqiCO/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #573 inserito:: Maggio 12, 2013, 06:33:11 pm »

Editoriali
12/05/2013

La confusione tra partito e istituzioni

Marcello Sorgi

Nata in una giornata in cui la tensione attorno al governo ha toccato il suo apice - con l’assemblea del Pd riunita per eleggere il nuovo segretario e assediata dai militanti contrari alle larghe intese, e con il Pdl di nuovo in piazza contro i magistrati -, la polemica sulla presenza dei ministri berlusconiani alla manifestazione di Brescia dimostra che i due maggiori partiti, avversari fino a ieri e oggi alleati, sono ancora attraversati da timori simmetrici di non trovarsi in sintonia con i propri elettori. Per quanto la collaborazione venga spiegata come «obbligata», «temporanea», «eccezionale», a dettare la linea sono ancora le frange estreme dei due schieramenti, contrarie a qualsiasi tregua o pacificazione e orientate a riprendere appena possibile la guerra civile degli ultimi venti anni. 

 

La prudenza con cui Berlusconi aveva accolto in un primo momento la condanna in appello inflittagli dai giudici di Milano non a caso è durata neppure un giorno. E dopo le parole ascoltate ieri dal palco di Brescia, è evidente che il Cavaliere non può e non vuole rinunciare allo scontro frontale con la magistratura. E s’illude di poter continuare a farlo, senza mettere a repentaglio la stabilità del governo a cui promette quotidianamente il suo appoggio.

 

Alla vigilia del ritiro in abbazia del governo, ideato per favorire la conoscenza e lo spirito di squadra tra ministri di opposte sponde, Letta e Alfano, vale a dire il presidente e il vicepresidente del Consiglio, sono finiti così nel tritacarne delle rispettive tifoserie, che alle accuse contro il ministro dell’Interno per la sua partecipazione alla manifestazione di Brescia hanno risposto denunciando l’intervento del premier all’assemblea romana del suo partito. Ora, a parte la natura diversa delle due iniziative e dei toni e degli slogan adoperati (ma anche dall’interno dell’assise Pd s’è alzata qualche voce contro il governo), forse sarebbe meglio, almeno in questa fase d’avvio di un quadro politico così difficile da tenere insieme, che i membri dell’esecutivo si tenessero a distanza dalla vita di partito. Specie quando è prevedibile, già da prima, che il risultato sarà di indebolire l’equilibrio del governo.

 

Non è un mistero che i ministri del Pdl, e in particolare Alfano, avessero riflettuto a lungo fino alla vigilia sull’opportunità di recarsi a Brescia. Venerdì era perfino circolata voce, poi smentita, che Letta e il suo vice si fossero consultati in proposito. Perché Alfano, come ministro dell’Interno, non è solo il responsabile dell’ordine pubblico e della sicurezza, ma anche del funzionamento della macchina elettorale e della libera e ordinata manifestazione della volontà popolare. Un compito della cui rilevanza istituzionale, così come della necessaria cautela che richiede di stare sempre un passo indietro, il ministro s’è subito mostrato avvertito, con il suo stile abituale, fin dal giorno in cui il battesimo del governo era avvenuto con la tragica sparatoria davanti a Palazzo Chigi e con il ferimento dei due carabinieri. Una consapevolezza che avrebbe mantenuto anche ieri, se le pressanti richieste del leader del suo partito non lo avessero condotto a Brescia, nel clima infuocato di una piazza in cui a tratti s’è rischiato l’incidente.

 

Si sa che è inutile chiedere a Berlusconi di non essere Berlusconi. Anche se di tanto in tanto riesce a farlo contro se stesso. Anche stavolta, avrebbe certamente fatto meglio a lasciare al suo posto il ministro dell’Interno. Senza coinvolgerlo nell’ennesima battaglia sulla giustizia: tornata, dopo un breve ripensamento, ai suoi esagerati toni di sempre.

da - http://lastampa.it/2013/05/12/cultura/opinioni/editoriali/la-confusione-tra-partito-e-istituzioni-rRMaYAAqqYDe6yrNksA6dO/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #574 inserito:: Giugno 23, 2013, 11:10:39 am »

Editoriali
20/06/2013

Il paradosso del leader resuscitato

Marcello Sorgi

La sentenza con cui la Corte Costituzionale ha dato torto a Berlusconi e ragione ai giudici di Milano - rifiutatisi di rinviare un’udienza tre anni fa, di fronte a un’ennesima richiesta di aggiornamento dell’allora premier - non cambierà di molto, a meno di sorprese, il percorso politico del centrodestra, né gli equilibri del governo di larghe intese. 

 

È stato il Cavaliere in persona a garantirlo, pochi minuti dopo il comunicato della Consulta. E seppure in passato s’è sempre distinto per i bruschi ripensamenti dell’indomani, è la logica a dire che stavolta difficilmente cambierà idea. Terrà aperto l’ombrello del governo sui suoi guai, almeno fino alla conclusione dell’iter giudiziario dei processi - non solo quello per i fondi neri Fininvest per cui è stato condannato in appello, ma anche del caso Ruby e della controversia civile con De Benedetti, che gli è già costata oltre cinquecento milioni di euro. Non a caso le dimissioni in massa dei parlamentari Pdl, minacciate a sorpresa in mattinata dal vicepresidente del Senato Gasparri, anche prima che Berlusconi dettasse la sua reazione alla sentenza, hanno trovato scarsissima accoglienza tra i deputati e i senatori del centrodestra. 

 

Ciò che cambia davvero, però – e sensibilmente –, dopo il pronunciamento dei giudici costituzionali è il rapporto tra la condizione dell’imputato e quella del leader. Dopo il «no» al ricorso dei legali del Cavaliere è diventato tecnicamente possibile - anche se non si può ancora dire quanto probabile - che la Cassazione, in autunno, confermando il verdetto dei giudici di Milano, chiuda d’imperio la carriera di Berlusconi, dichiarando in via definitiva la sua interdizione dai pubblici uffici. Questo è il dato politico e la conseguenza più forte della sentenza. Ed è un passaggio simbolico, pesante e praticamente finale, che forse non poteva non avere Berlusconi al centro della lunghissima guerra tra politica e giustizia in corso ormai da decenni.

 

La Seconda Repubblica era nata, sulle macerie della Prima, anche per affrontare questo problema. Un’infinità di tentativi, da destra e da sinistra, non hanno tuttavia portato a nulla. E sarà adesso la Cassazione a decidere se la storia dell’uomo simbolo di questo ventennio debba concludersi sul piano giudiziario, e non su quello politico, come accadde per l’altro protagonista del mezzo secolo precedente, Giulio Andreotti.

 

Naturalmente non è detto che finisca così. Berlusconi, lo dicono gli osservatori che hanno letto le carte, potrebbe, sì, essere condannato, ma anche no: prescritto o sottoposto a un nuovo processo, se la sentenza d’appello dovesse essere annullata con rinvio a un’altra corte. Ma quel che resta da capire è se l’imputato, in caso di condanna, smetterebbe di far politica, o ne coglierebbe l’occasione per un’estrema battaglia: trasformandosi in un Berlusconi alla Grillo, che fa campagna elettorale senza candidarsi, e una volta presi i voti di milioni di italiani, detta le sue condizioni stando fuori dal Parlamento. Conoscendolo, la seconda è l’ipotesi più probabile. E il paradosso di un Berlusconi resuscitato, invece che abbattuto da una sentenza, quando ormai era avviato verso il declino, è purtroppo destinato a pesare ancora sul governo, sul Paese, sullo scorcio di una legislatura nata morta, e sul tramonto – cupo, sterile, infinito – di un’altra inutile stagione repubblicana.


da - http://lastampa.it/2013/06/20/cultura/opinioni/editoriali/il-paradosso-del-leader-resuscitato-bNw9a566X7r6sc2lM7kgHO/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #575 inserito:: Giugno 26, 2013, 12:07:30 am »

editoriali
25/06/2013

Il sipario sull’era del Cavaliere

Marcello Sorgi

La sentenza con cui il tribunale di Milano ha condannato Berlusconi a sette anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici segna insieme la fine dell’avventura politica del Cavaliere, e più in generale quella della Seconda Repubblica, di cui per altro l’ex-Presidente del consiglio è stato l’uomo simbolo, come Andreotti lo era della Prima. In passato, anche in tempi recenti (si pensi alle elezioni politiche del 24 febbraio), Berlusconi ci ha abituato ad improvvise cadute e a subitanee resurrezioni. Ma stavolta è peggio di tutte le altre, come lui stesso sa o incomincia a capire, anche se ieri ha preferito negarlo nella prima reazione ufficiale. 

Vent’anni fa, quando Craxi fu colpito dal primo avviso di garanzia, non tutti scommettevano sul suo declino. 

 

Lo capirono dopo qualche mese, quando il leader socialista era ormai sommerso da una sequela di comunicazioni giudiziarie, e prima degli ordini di cattura scelse la strada dell’esilio. Lo stesso accadde quando Andreotti fu accusato di rapporti con la mafia e c’era chi sorrideva sulla scena inverosimile del bacio con Totò Riina. Al di là dei caratteri, e delle scelte opposte dei due illustri predecessori, sul modo di gestire i propri guai giudiziari, è fin troppo evidente che la magistratura ha riservato a Berlusconi lo stesso destino. La lezione di vent’anni fa ci dice che è inutile far finta di no, o evitare di prendere atto: tanto è così. 

 

Si potrà discutere - anzi si dovrà - sul comportamento dei giudici di Milano che hanno fatto calare la ghigliottina sul collo del Cavaliere. La condanna a una pena superiore a quella chiesta dalla pubblica accusa, la scelta di riconoscere la fattispecie più grave del reato di concussione appena riformato dall’ex ministro Severino (con l’introduzione, va ricordato, anche di una contestata versione più lieve che aveva consentito di recente all’ex-Presidente della Provincia di Milano, il Pd Penati, di salvarsi), la pena aggiuntiva dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, cioè dalla vita pubblica e parlamentare, oltre alla decisione sorprendente di chiedere alla Procura di incriminare per falsa testimonianza i testi della difesa, sono tutti segnali inequivocabili. 

 

Presto, molto presto, come hanno dimostrato i giudici di appello che in soli tre mesi hanno confermato l’altra condanna a quattro anni per i fondi neri Fininvest, anche questo verdetto subirà la stessa sorte. A Berlusconi a quel punto resterà solo la carta della fuga, come qualcuno già ieri sera si spingeva a prevedere, o quella, estrema ancorché più regolare, della Cassazione: ma sarebbe ingenuo illudersi che sentenze così pesanti, ribadite in secondo grado, non influenzino i membri della Suprema Corte, caricando l’imputato di pesanti precedenti che non potranno non condizionare il giudizio definitivo che lo aspetta.

 

La fine, meglio sarebbe dire l’abbattimento per via giudiziaria, della Seconda Repubblica (già in corso da tempo, va detto, non solo a causa di Berlusconi, ma anche all’ondata generalizzata di corruzione che ha investito le amministrazioni locali) apre un vuoto anche peggiore di quello lasciato dal crollo della Prima. Allora, infatti, l’onda d’urto di Tangentopoli era stata affiancata, per non dire sovrastata, dalla reazione di indignazione, accompagnata anche dal desiderio di rinnovamento, espressi dai referendum elettorali del 1991 e ’93. E dall’introduzione del maggioritario e dei collegi uninominali, che offrivano ai cittadini, non va dimenticato, l’occasione - svanita purtroppo assai presto - di poter scegliere direttamente i governi e rinnovare radicalmente i rappresentanti da mandare in Parlamento.

 

La transizione cominciata in quegli anni doveva purtroppo arenarsi in breve tempo, approdando alla confusione e allo scontro continuo in cui l’Italia si trascina da quasi un ventennio. Così, giorno dopo giorno, siamo arrivati a oggi. Un sistema politico ormai indebolito e incapace di autoriformarsi non ha potuto che soccombere a una magistratura forte; anzi resa più forte, in pratica l’unico potere sopravvissuto alla crisi delle istituzioni, dalla mancanza di riforme.

 

La caduta di Berlusconi, per quel pezzo del Paese - una metà ridottasi via via a un terzo - che lo aveva seguito come un idolo, affidandogli tutti i propri sogni e i propri timori, cancella di colpo ogni illusione. Il centrosinistra non è più in grado, al momento, di rappresentare l’alternativa, con o senza l’ausilio della dissidenza grillina e di qualche maggioranza raccogliticcia. Il governo delle larghe intese, che doveva favorire la pacificazione, dopo l’inutile e infinita epoca della guerra civile, sopravviverà, in una sorta di sospensione, magari ancora per un po’. Ma senza alcuna agibilità politica e senza la forza necessaria per affrontare la gravità del momento. Saranno in tanti, malgrado tutto, ad aggrapparcisi. Come a una zattera in mezzo alla tempesta.

DA - http://www.lastampa.it/2013/06/25/cultura/opinioni/editoriali/il-sipario-sullera-del-cavaliere-kaxePlZBLVkZv5rBBTgoLM/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #576 inserito:: Agosto 02, 2013, 11:20:36 am »

EDITORIALI
02/08/2013

Berlusconi, la sua stagione ora è chiusa

MARCELLO SORGI

Dopo la condanna definitiva al carcere subita dalla Corte di Cassazione, Silvio Berlusconi ha una sola strada davanti a sé. 
 
Prendere atto della parola «fine» scritta dai giudici della Suprema Corte e gestire al meglio la sua uscita di scena, il famoso «passo indietro» che promette da anni e una volta arrivò anche ad annunciare in tv, salvo poi rimangiarselo dopo due giorni. Se lo farà, ci vorrà un po’ di tempo a capirlo, anche se da tempo il leader del centrodestra è consapevole che la sua stagione s’è chiusa. A giudicare dal video messaggio diffuso ieri sera, non sembra che il leader del centrodestra ne abbia alcuna intenzione, al momento. 
 
Ma non bisogna dare troppo peso alle parole, dette a caldo, da un uomo tramortito, che fino all’ultimo aveva sperato di cavarsela, ed ora deve scegliere tra carcere, arresti domiciliari o affidamento ai servizi sociali. La questione vera non è se Berlusconi deciderà di farsi da parte, e neppure quando; ma soprattutto, trattandosi di un uomo come Berlusconi, come lo farà. In altre parole, se davvero ha deciso di adoperarsi per salvare il governo, scaricando furbamente sul Pd il compito di trovare il modo di continuare la collaborazione con un centrodestra guidato da un pregiudicato per frode fiscale, la battaglia contro la giustizia politica, che ha annunciato di voler riprendere subito, non potrà essere condotta com’è avvenuto in tempi recenti, con manifestazioni sui gradini dei palazzo di giustizia e slogan incendiari. E neppure con accuse alla magistratura di essere «irresponsabile», come Berlusconi ha detto ieri, o «cancro della democrazia», come l’aveva definita qualche settimana fa. Così facendo, infatti, il governo non dura neppure una settimana, e la stessa legislatura va a rischio.
 
Non c’è alcun dubbio, infatti, che la sentenza contro Berlusconi abbia un contenuto e un peso politico. E che la condanna al carcere dell’uomo-simbolo di questo ventennio faccia calare il sipario sulla Seconda Repubblica né più né meno come già accadde per la Prima. La consapevolezza di uno squilibrio che ha visto poco a poco soccombere il potere politico rispetto a quello della magistratura è diventata via via sempre più evidente ed è salita in questi anni ai più alti livelli delle istituzioni, fino al Quirinale. Non è un caso che il Capo dello Stato, prima ancora che il verdetto della Cassazione fosse reso noto, abbia voluto ricordare che il problema esiste, ed è venuto il momento di risolverlo.
 
Ma per trovare la soluzione occorrono due cose. Berlusconi per primo, e con lui tutti i leader politici che hanno a cuore la questione, devono prendere atto che non si può affrontare una questione così delicata restando appesi al destino dei singoli. Anche perché, a parte Berlusconi, dai politici negli ultimi anni sono venuti una serie di cattivi esempi, sparsi su tutto il territorio nazionale e un po’ in tutti i partiti, che hanno convinto l’opinione pubblica, non tutta ma non sempre a torto, che la politica sia diventata quasi solo un sistema per arricchirsi e accaparrarsi privilegi.
 
La seconda cosa necessaria è che il centrosinistra, e principalmente il Pd, rinuncino alla tentazione di una gogna. Le difficoltà a cui va incontro il partito di Epifani sono evidenti: alla sua sinistra, Sel e Movimento 5 Stelle si preparano a condurre una battaglia parlamentare per la decadenza di Berlusconi da senatore, anche prima che la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, come ha deciso la Cassazione, sia rideterminata dalla Corte d’appello di Milano. E al suo interno è destinato a ingrossarsi il fronte che preferisce la scorciatoia, basta governo di larghe intese e ghigliottina per il Cavaliere. Non sarà facile, in questo clima, far sì che prevalga la razionalità e sia sciolto finalmente il nodo del rapporto tra politica e giustizia. Eppure bisogna provarci lo stesso.

da - http://www.lastampa.it/2013/08/02/cultura/opinioni/editoriali/berlusconi-la-sua-stagione-ora-chiusa-LssrpCK56dGPoxYWwT64YO/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #577 inserito:: Agosto 23, 2013, 11:35:31 pm »

Editoriali
22/08/2013

I dioscuri alla prova

Marcello Sorgi

Al di là dell’esito inutile dell’incontro tra Letta e Alfano – il presidente e il vicepresidente del Consiglio che avevano collaborato benissimo, fino alla condanna di Silvio Berlusconi davanti alla Corte di Cassazione, e magari avrebbero continuato volentieri a farlo, se il muro che s’è alzato tra i rispettivi partiti non lo avesse impedito –, forse c’è qualcosa di meno contingente che rende impossibile la ricerca di una soluzione, per uscire dall’impasse in cui è caduto il governo, e rischia di conseguenza di precipitare l’Italia. 

 

Questo qualcosa è la mancanza di un normale rapporto di convivenza, di rispetto reciproco, che in tutte le democrazie del mondo, tranne da noi, consente a partiti e coalizioni opposte di scontrarsi, sì, duramente, in campagna elettorale, per contendersi la guida del Paese, ma poi di confrontarsi all’interno delle istituzioni, dissentendo o trovando accordi, senza mai superare il livello di guardia.

 

Ciò che aveva permesso, nell’anomalo «sistema bloccato» della Prima Repubblica, alla Dc, ai socialisti e ai tradizionali alleati di governo, di interloquire, pur cimentandosi aspramente, con i comunisti eternamente condannati all’opposizione, paradossalmente è venuto meno quando ogni limitazione è finita, e agli eredi di entrambi gli schieramenti si sono dischiuse le porte del governo.

 

Di qui sono nati la Seconda Repubblica e il bipolarismo muscolare, «all’italiana», basati sulla venerazione e sulla dannazione del berlusconismo, oltre che sulla guerra civile quotidiana che dura da venti anni e adesso volge a un terribile epilogo. Da una parte e dall’altra il finale del «Caimano», il tragico film di Nanni Moretti in cui l’epopea del Cavaliere si chiude per mano giudiziaria lasciandosi dietro solo macerie, viene citato come una profezia, o come un’intenzione nascosta che prova a realizzarsi. Ed è in una cornice, in un clima come questi, che Letta e Alfano ieri avrebbero dovuto trovare la via d’uscita dal cul di sacco in cui si sono cacciati i due maggiori alleati del loro governo.

 

Che l’abbiano cercata seriamente, non c’è dubbio. I due dioscuri dell’esecutivo di larghe intese, in questi primi mesi di collaborazione, sono stati accusati varie volte, velatamente e apertamente, di andare fin troppo d’accordo, al punto che nel centrosinistra e nel centrodestra erano in molti a chiedersi se l’asse tra il numero uno e il numero due di Palazzo Chigi non celasse l’ambizione di costruire un diverso assetto politico, una larga coalizione un po’ più ristretta, stabilizzata al centro dalla vocazione moderata e da un taglio generazionale. A luglio la fermezza con cui il premier aveva difeso il suo vice, minacciato dalla richiesta di dimissioni del Pd per il caso Shalabayeva, aveva rafforzato i sospetti. Ma se davvero questi erano i loro obiettivi, bisogna riconoscere che o li hanno perseguiti con una timidezza del tutto inadeguata o sono stati travolti dal rumoroso andazzo di partiti capaci solo di andare ciecamente allo scontro finale. 

 

Non c’era infatti migliore occasione per imprimere una svolta a una situazione bloccata da troppo tempo e in grado di gelare l’attesa delle pallide opportunità di ripresa che si manifestano dopo anni di crisi. La fine di Berlusconi è nei fatti: non sarà il carcere (in cui peraltro non entrerà) a sancirla. L’epopea del Cavaliere s’era chiusa già nell’estate tremenda di due anni fa in cui l’Italia s’era ritrovata, in completo isolamento internazionale, a un passo dal naufragio, e nel novembre successivo, quando il leader del centrodestra aveva dovuto abbandonare Palazzo Chigi, lasciando a Monti il compito di gestire l’emergenza. Da allora in poi il fatto che Berlusconi abbia oscillato tra la tentazione dell’abbandono e quella del ritorno in campo, non ha impedito che il numero dei voti riconquistati, e orgogliosamente da lui rivendicati, si sia pericolosamente avvicinato al tetto di quelli perduti. L’idea che possa tornare a vincere facendo la campagna elettorale dagli arresti domiciliari, diciamo la verità, fa ridere: la metà e più di elettori che alle ultime elezioni ha preferito astenersi ricorda a tutti, se non altro, che il tempo delle illusioni e dei sogni è finito. La gente è abbastanza smagata per cogliere le incapacità che i due schieramenti, messi alla prova del governo in questi vent’anni, sono stati capaci di dimostrare.

 

La strada per cercare di superare una situazione bloccata e densa di pericoli l’aveva tracciata, all’indomani del contestatissimo, dal centrodestra, verdetto della Cassazione, il presidente Napolitano. Trovandosi in presenza di una sentenza definitiva che non può che essere eseguita, si trattava di farlo nel modo meno dirompente possibile, cercando le disponibilità reciproche a salvare il salvabile. In altre parole, occorreva fare quel che la politica fa in questi frangenti, e per cui non a caso è definita l’arte del possibile: prendere tempo, fare in modo che Berlusconi maturasse la consapevolezza di trovarsi senza via d’uscita, garantire che scontasse una pena – non una gogna – com’è già accaduto in passato, evitando che il condannato trascinasse con sé nel declino un intero Paese. E nel contempo, liberati del macigno attorno al quale s’è consumata l’agonia del sistema, affrontare una volta e per tutte il problema della giustizia e del rapporto tra politica e magistratura, che dopo aver affossato la Prima Repubblica, è giunto a far fuori anche la Seconda.

 

Esattamente a questo erano attesi Letta e Alfano. Una prova di autorevolezza e di senso delle istituzioni. Un tentativo difficile, ma indispensabile, di mostrare autonomia dai rispettivi partiti, in corsa per un ennesimo – quanto inutile, al momento – lavacro elettorale. Senza i quali, anche la breve stagione delle larghe intese è destinata a un malinconico tramonto.

da - http://lastampa.it/2013/08/22/cultura/opinioni/editoriali/i-dioscuri-alla-prova-SAUO90PECML7J6OvUPBu9K/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #578 inserito:: Agosto 31, 2013, 05:19:28 pm »

Editoriali
31/08/2013 - I senatori a vita dal 1949 a oggi

Torna il modello Einaudi

Meno politica e più cultura

Ogni presidente ha “interpretato” l’istituto, celebri i no di Iotti e Montanelli

Marcello Sorgi


Lo si è capito subito, un minuto dopo la nomina: non avranno vita facile i quattro senatori a vita scelti da Napolitano, con un criterio che lo stesso Presidente ha voluto definire «einaudiano».

Scienza e cultura - piuttosto che la politica - come ambiti di provenienza, grande prestigio personale e internazionale, proprio come recita l’articolo 59 della Costituzione, che elenca come requisiti l’aver «illustrato la patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario».

E da questo punto di vista, checché ne dicano i parlamentari del centrodestra che ieri hanno criticato l’iniziativa del Presidente -
dall’immancabile Daniela Santanchè, che avrebbe, pensa un po’, voluto Berlusconi, a Pietro Liuzzi, che sponsorizzava Riccardo Muti e Giorgio Albertazzi, al leghista Roberto Calderoli, sospettoso che il centrosinistra, con i nuovi arrivati, conquisti quattro voti decisivi al Senato - Napolitano non poteva scegliere meglio. Basta scorrere i curriculum dei nuovi senatori, conosciuti e apprezzati in tutto il mondo: Claudio Abbado per aver diretto a lungo le più importanti orchestre di Parigi, Londra, Vienna, Berlino; Carlo Rubbia per la sua lunga missione a Ginevra, le 28 lauree honoris causa che sottolineano l’impegno per la ricerca nella fisica delle particelle elementari e un asteroide perso nello spazio e intitolato a suo nome; Renzo Piano per le innumerevoli «tracce» architettoniche e artistiche seminate nelle grandi metropoli, da Tokyo a Sidney, a Parigi, Berlino, Dallas, e la grande passione per il mare che lo ha spinto a disegnare per sé una delle barche più belle di tutti i tempi; Elena Cattaneo, la più giovane, per la lunga e testarda esperienza di ricercatrice in America e il suo parlar chiaro contro ogni limitazione ideologica o integralista della ricerca e dell’uso delle cellule staminali.

Ma il punto è che da tempo - e particolarmente negli ultimi tempi - la questione dei senatori a vita ha assunto una dimensione controversa, e come tante altre questioni più futili su cui si esercita quotidianamente la politica italiana, è diventata oggetto di scontro e di polemiche. Lontana, lontanissima è l’epoca in cui un altro grande maestro di musica come Arturo Toscanini, o un poeta come Trilussa, o un archeologo come Umberto Zanotti Bianco - i primi senatori a vita della Repubblica, scelti da Einaudi, che nel suo settennato, per via della morte imprevista di tre dei suoi cinque, ne nominò otto - potevano frequentare il Senato tranquillamente, come e quando volevano, rispettati da tutti, senza neppure dover immaginare di incorrere nei fischi del centrodestra che avrebbero accompagnato Rita Levi Montalcini tra il 2006 e il 2008, quando a fatica, già sofferente per gli acciacchi della vecchiaia, si recava a votare per il governo Prodi.

La prima questione che si pose fu quella del numero: la Costituzione doveva intendersi nel senso che il Presidente della Repubblica, come organo istituzionale, oppure ogni Presidente, poteva nominare cinque senatori? E qui, anche agli albori della Prima Repubblica, si creò subito qualche attrito, più o meno esplicito, tra gli inquilini del Quirinale. Agli otto senatori di Einaudi, per dire, ne seguì uno solo di Gronchi. E quando anche Cossiga volle scegliere i suoi cinque, incurante delle perplessità degli uffici del Senato, in quel momento non proprio sguarnito di senatori di nomina, Scalfaro, che fu il suo successore, non ne nominò nessuno.

Bisogna considerare che le pressioni a cui i Presidenti erano sottoposti, man mano che la clessidra dei loro settennati scorreva, si facevano più forti. Ad Einaudi fu consentito di scegliere in piena libertà tra intellettuali, scienziati, letterati, artisti e scultori. Ma quando, ai tempi di Segni, il laticlavio cominciò a cadere sulle spalle di politici, certo anziani e togati, ma pur sempre politici, si affacciò la seconda questione: il Presidente è libero di scegliere chi vuole, senza preoccuparsi degli equilibri interni del Senato, o deve articolare la sua scelta senza turbarli? Saragat se la cavò affiancando al presidente della Fiat Vittorio Valletta e al poeta Eugenio Montale un democristiano di lungo corso come Giovanni Leone (che quando venne il suo turno scelse Fanfani) e lo storico leader socialista Pietro Nenni. Pertini chiamò Leo Valiani e Camilla Ravera, in nome della comune militanza nella Resistenza, un grande regista e autore di teatro, Eduardo De Filippo, e due accademici come Carlo Bo e Norberto Bobbio. Il quale, dopo un decennio di serena frequentazione di Palazzo Madama, divenne decisivo nella votazione all’ultimo sangue tra Giovanni Spadolini e Carlo Scognamiglio per la presidenza del Senato nel 1994, anno primo dell’era berlusconiana. In quel periodo Bobbio, dopo
l’esperienza della candidatura forzata (e mancata) al Quirinale di due anni prima, frequentava meno. Raggiunto da una telefonata di Gianni Agnelli (nel frattempo, anche lui, divenuto senatore a vita per nomina di Cossiga), che tifava per Spadolini, in nome di una vecchia amicizia, il professore fu portato a Roma in fretta da un aereo della Fiat. Ma anche il suo voto non bastò a impedire l’elezione di Scognamiglio, che vinse per un voto.

Di tutte le tornate, certo la più difficile fu quella di Cossiga. Non solo per il problema del numero, ma anche perché l’allora più giovane presidente dovette scontare, per la prima volta, dei rifiuti. A dire di no fu Nilde Iotti, che preferì restare alla Presidenza della Camera, e più clamorosamente Indro Montanelli, che rinunciò con una spiritosissima lettera in cui accusava Cossiga, in pratica, di volergli legare le mani. Fino a quel momento non era mai successo che qualcuno si opponesse pubblicamente a un incarico così prestigioso. Il solo Toscanini, in passato, aveva preferito lasciare, a un certo punto, per ragioni di salute.

Ma fu l’unico precedente, come lo stesso Cossiga potè sperimentare qualche anni dopo. Nel 2002, e poi nel 2006, il Picconatore tentò inutilmente di lasciare il Senato. La prima volta perché, divenuto oggetto di un’inchiesta giudiziaria di Henry John Woodcock, allora sostituto procuratore a Potenza, sosteneva che Ciampi, che non poteva farlo, non lo aveva difeso. La seconda ce l’aveva con Andreotti, suo vicino di stanza a Palazzo Giustiniani, che con una delle sue battute lo aveva accusato di lavorare poco e «non fare neppure l’orario dei barbieri». Stavolta toccò a Franco Marini, appena eletto presidente del Senato, convincerlo a restare in carica. Lo fece in tutti i modi, pressandolo, supplicandolo, richiamandolo all’antica e comune militanza. Cossiga alla fine accettò, ma a malincuore, dopo aver chiesto un dotto approfondimento giuridico all’ufficio studi di Palazzo Madama: «Mi è stato risposto che l’unico modo di smettere di fare il senatore a vita è togliersi la vita», fu il suo velenoso epitaffio finale.


da - http://lastampa.it/2013/08/31/cultura/opinioni/editoriali/torna-il-modello-einaudi-meno-politica-e-pi-cultura-4azVA0BGiNBSGRZl5weWgI/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #579 inserito:: Settembre 26, 2013, 05:06:46 pm »

Editoriali
25/09/2013

Mancanza di alternative

Marcello Sorgi


Annunciata da giorni, la verifica di governo, ieri, in assenza del premier, impegnato a New York, ha avuto come protagonista Napolitano.

 

Un uomo solo al comando, diversamente e più di altre volte: così è apparso il Capo dello Stato, nella cornice drammatica di una giornata in cui, alla conferma del passaggio di Telecom agli spagnoli di Telefonica, s’è aggiunta la previsione, praticamente la certezza, della prossima cessione di Alitalia ai francesi di Air France. 

Due notizie importanti, e in qualche modo sintomatiche dello stato di salute assai malfermo dell’Italia, alle quali la politica reagiva nel suo solito modo isterico. Ma mentre appunto centrodestra e centrosinistra continuavano a scambiarsi accuse e insulti come e peggio degli altri giorni, il Presidente della Repubblica, che aveva incontrato Letta prima della sua partenza per gli Usa, ha convocato al Quirinale in rapida successione il segretario del Pdl (nonché vicepresidente del Consiglio) Alfano, quello del Pd Epifani e il ministro dei Rapporti con il Parlamento Franceschini. Per consultarli, malgrado tutto, sulla prossima verifica programmatica, resa necessaria dal peggioramento dei rapporti interni della maggioranza, e sull’urgenza di far presentare in Parlamento al più presto il governo, sorretto da un nuovo accordo, per illustrare i suoi prossimi impegni, ottenere la fiducia e riprendere il cammino con la prospettiva di lavorare almeno per tutto il 2014.

Si dirà che con il clima che aleggia da un po’ di tempo – dalla conferenza dei capigruppo all’iter della legge sull’abolizione del finanziamento pubblico dei partiti, ieri tutto è saltato per aria – l’iniziativa di Napolitano testimonia della sua testardaggine di non volersi arrendere all’incapacità della classe politica nel suo complesso di far fronte al proprio ruolo; oppure, come diceva in serata sottovoce qualche parlamentare a Montecitorio, di un’inesatta percezione del deterioramento dei rapporti politici tra centrodestra e centrosinistra, giunti con tutta evidenza a un livello irrecuperabile e a una sorta di guerriglia quotidiana. 

Ma non è così. Il Presidente della Repubblica ha perfettamente chiaro lo stato delle cose, sia perché ne viene informato quasi tutti i giorni dal premier Letta, la cui tenuta nervosa e il cui approccio razionale a una situazione del genere sono comunque motivo di conforto per Napolitano; sia perché ha molte più antenne di quante si possa pensare, che gli consentono di valutare l’andamento della febbre, e l’altalena di sintomi in continuo peggioramento, dall’alto della sua lunga esperienza di politico e di parlamentare, che ha visto momenti anche peggiori di questo.

Dunque, non è che Napolitano non veda che la stagione delle larghe intese è giunta al capolinea, dopo la condanna definitiva di Berlusconi in Cassazione che ha paralizzato il Pdl, e in concomitanza con la vigilia congressuale che ha fatto implodere il Pd. Piuttosto, il Presidente cerca di fare valutazioni meno contingenti di quelle che echeggiano nei due maggiori partiti, con l’occhio al ruolo internazionale del Paese e all’eventualità, al momento remota eppure esistente, che l’Italia possa intercettare la tendenza alla ripresa dell’economia europea, a prezzo di scelte politiche rigorose e non rinviabili. Soprattutto, Napolitano non crede che un ennesimo passaggio elettorale, impossibile tra l’altro perché la legge elettorale sta per essere dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale, possa essere risolutivo, segnando la vittoria di uno schieramento sull’altro e creando le premesse per un governo più stabile.

Il dramma è questo: non c’è purtroppo alcuna novità rispetto a quanto la legislatura aveva già rivelato dal suo inizio, dopo un risultato elettorale senza né vincitori né vinti. Le larghe intese nostrane saranno anche le nozze con i fichi secchi di un sistema politico esausto, neppure l’ombra di quel che fra qualche settimana ci farà vedere il ritorno della grande coalizione in Germania. Ma un’alternativa non c’è. L’idea di una maggioranza di riserva tra Pd e M5s non esiste, visto lo stato delle relazioni tra i due partiti, se possibile peggiorate rispetto ai giorni terribili delle votazioni per il Quirinale. Di un Letta-bis affidato a transfughi e traditori di ogni parte, disponibili a tutto per non perdere il posto, neanche a parlarne: il primo a non starci sarebbe lo stesso presidente del Consiglio. Non resta quindi che rimettere in carreggiata la malconcia coalizione all’italiana degli avversari-alleati, e convincere i soci riottosi che ne fanno parte che potranno separarsi, se davvero lo vorranno, solo dopo aver rispettato gli impegni che li aspettano e conoscono benissimo.

Al ritorno dal Quirinale, questo è ciò che Alfano, Epifani e Franceschini hanno riferito a propri interlocutori. Le loro parole, è inutile nasconderlo, valgono meno, purtroppo assai meno, di quanto valevano qualche mese fa. Sull’agenda del segretario del Pdl, il 15 ottobre, previsto giorno d’inizio della detenzione di Berlusconi, è cerchiato con un grosso punto interrogativo, legato al mutevole stato d’animo del condannato e alla sua dichiarata indisponibilità a credere ancora in un’alleanza con quelli che considera i suoi carnefici. Sul calendario del leader democratico, la data-chiave è l’8 dicembre, con le primarie che dovrebbero incoronare Renzi e sancire la rivoluzione nel Pd. Così, non è che Alfano e Epifani non vogliano impegnarsi: diciamo che sono coscienti dei loro limiti. Lo è, ovviamente, anche Napolitano. Ma per fortuna non s’arrende.

da - http://lastampa.it/2013/09/25/cultura/opinioni/editoriali/mancanza-di-alternative-F9fDM6q04zlKcqygzCMDOJ/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #580 inserito:: Settembre 29, 2013, 11:05:06 am »

politica
29/09/2013

Il Cavaliere versione Santanchè tradisce il partito-Mediaset

Il Cavaliere e i veri motivi della crisi di governo

L’estate in villa ha sovvertito le gerarchie e convinto il leader

Sconfitta la linea della fiducia in una “soluzione politica” dei processi

Marcello Sorgi
Roma


Adesso tutti dicono che si doveva fermarla in tempo, non sottovalutarla, capire subito che aveva trovato la chiave per entrare nel cuore del Cav. Sì, perché i ministri «dimissionati», rappresentano l’ultima, fatale vittoria della «Pitonessa» Daniela Santanchè sul Pdl. 

Un partito sconvolto da due mesi per la condanna definitiva del proprio leader, oltre al rischio che di qui a poco possa finire arrestato, dopo l’espulsione dal Parlamento che il Senato si accinge a votare. E terremotato dal repentino cambio di strategia del Cavaliere, che fino a venerdì sera diceva a tutti «non voglio la crisi», e subito dopo ha affondato il governo. 

Ieri mattina, a un amico che l’aveva chiamata per chiederle se davvero, dopo le dimissioni dei parlamentari, il centrodestra avesse di nuovo fatto marcia indietro, la Santanchè rispondeva: «Non è vero. Non hanno capito niente. Lui ha deciso una settimana fa e me l’ha detto. Vado a pranzo ad Arcore e nel pomeriggio, vedrai, ci saranno novità». A tavola con il Cavaliere c’era anche Denis Verdini, l’unico che dal primo momento è sempre stato con lei. La dichiarazione con cui Berlusconi ha colto di sorpresa mezzo Pdl è nata così, come il punto d’arrivo di un discorso che dal primo agosto ad oggi la Santanchè avrà ripetuto mille volte al suo leader. «Non fidarti di loro, tanto hanno già deciso di farti fuori. E non fidarti nemmeno dei nostri che ti dicono che li convinceranno. Tanto non ce la fanno».
 
Una profezia così semplice, fatta di pochi argomenti, come piace a lui, Berlusconi l’ha vista avverarsi giorno dopo giorno, in questa che considera la peggiore estate della sua vita. Invece della prescrizione, con cui si era salvato molte volte in passato, dalla Cassazione è arrivata la condanna. Al posto del «salvacondotto» in cui tanto aveva sperato, la nota del Quirinale che a Ferragosto confermava l’obbligo di scontare la pena. Di lì in poi Berlusconi ha cominciato ad angosciarsi, a sentire un sordo risentimento e a non fidarsi più di nessuno. La conseguenza di questo stato d’animo, una forma di depressione in un uomo che ha sempre reagito alle difficoltà con il piglio del guerriero, è stata, da una parte, la scelta della solitudine, e dall’altra la completa scomposizione del vecchio gruppo dirigente di sempre.

Attorno a lui, capo assoluto di un partito personale, c’era infatti una sorta di gerarchia non scritta, con Gianni Letta numero due, Fedele Confalonieri al terzo posto, Ennio Doris e Bruno Ermolli ai gradini immediatamente successivi e poi tutti i dirigenti e gli ex ministri del Pdl, più o meno a pari merito. È esattamente questo stato maggiore che la condanna di Berlusconi ha cancellato, lasciando il leader solo con i suoi familiari proprio come il condannato che aspetta l’esecuzione, e aprendo il varco in cui la Pitonessa s’è infilata. Chi l’ha vista arrivare da Forte dei Marmi tutti i giorni - non ne ha mancato uno, ad agosto, a volte con due turni di autisti - non riusciva immaginare che la sua frequentazione e predicazione quotidiana sarebbero riusciti a scuotere il leader dall’abulia con cui rispondeva al telefono a tutti quelli che dal partito lo chiamavano, per cercare di tirarlo su. Ma la Pitonessa spiegava a tutti che non c’era alcun bisogno di convincerlo perché lui era già convinto di suo, e stufo semmai di chi insisteva a raccomandargli prudenza. Il 24 agosto, quando Berlusconi, dopo aver convocato un vertice ad Arcore aveva lanciato un nuovo ultimatum, s’era già capito che aveva ragione lei.

Ora che è accaduto l’irreparabile, per la prima volta nel Pdl si discute. Il lungo braccio di ferro tra «falchi» e «colombe» s’è combattuto fino alla vigilia della crisi, e venerdì sera, malgrado la tensione in consiglio dei ministri, sembrava che ci fossero ancora dei margini per evitare la rottura. L’accelerazione degli ultimi giorni, con le inaudite dimissioni di massa dei parlamentari, aveva visto in aperto dissenso il ministro Gaetano Quagliariello, e accanto a lui, in qualità di frenatori, il vicepresidente del consiglio Angelino Alfano e il responsabile dei Trasporti Maurizio Lupi. Sono stati loro, ieri, prima di adeguarsi formalmente alla decisione del capo, a dire chiaro e tondo a Berlusconi che la crisi rischiava di trasformarsi in un salto nel buio, mentre Fabrizio Cicchitto protestava apertamente per la mancata consultazione dei capigruppo e del gruppo dirigente. Qualcuno, con la dovuta cautela, s’è spinto a dire che anche i timori espressi da Marina Berlusconi per la situazione del Paese vanno inquadrati nel campo delle perplessità. Non è così, ma è un fatto che la figlia del leader in queste settimane ha giocato nel campo delle colombe. E che per quattro o cinque esponenti di prima linea del Pdl che parlano, ce ne sono altri che mugugnano in silenzio sulla scelta di far saltare il banco e puntare sulle elezioni anticipate.

Così, tra le pieghe della crisi, ha preso corpo una partita interna che rappresenta un’assoluta novità per il partito padronale del Cavaliere. Una sorta di secondo tempo, che punta a capovolgere la conclusione disastrosa del primo. Non per rompere con Berlusconi e dare via libera a un Letta-bis, come sotto sotto si augurano gli amici del premier. Ma per convincerlo a tornare sui suoi passi, e a non precipitare nel baratro, in cui rischia di trascinare dietro di sé il governo e il Paese.

da - http://lastampa.it/2013/09/29/italia/politica/il-cavaliere-versione-santanch-tradisce-il-partitomediaset-nRAwueVaWY7UZW9jBq946M/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #581 inserito:: Ottobre 06, 2013, 12:21:14 am »

Editoriali
03/10/2013

La fine del leader carismatico

Marcello Sorgi

Per la prima volta negli ultimi vent’anni, la crisi di governo è stata evitata, non grazie, o malgrado, Berlusconi: ma nell’assoluta indifferenza a quel che il Cavaliere ha fatto o non ha fatto, nella spirale nevrotica che per giorni e giorni gli aveva fatto cambiare posizione almeno una decina di volte. In una giornata parlamentare convulsa, e a suo modo storica, il fatto che alla fine, nella sorpresa generale, il leader del centrodestra, impietrito, abbia annunciato personalmente al Senato che avrebbe votato la fiducia (anche se sabato aveva fatto dimettere i suoi ministri e poco prima aveva chiesto ai suoi senatori di sfiduciare il governo) non ha influito sull’esito finale della complicata partita giocata in questi giorni. 
 Esito che era già deciso da quando, nella notte tra martedì e ieri, i dissidenti del Pdl avevano annunciato che non avrebbero abbandonato il governo, potendo contare sull’appoggio di un gruppo di parlamentari sufficiente a garantire una nuova maggioranza a Palazzo Madama.
 Così l’uomo simbolo della Seconda Repubblica, il perno di ogni passaggio politico del ventennio, il leader che era sempre riuscito a condizionare in modo determinante, non solo la sua parte, ma anche quella avversaria, è diventato tutt’insieme superfluo. Berlusconi non credeva a se stesso e ha impiegato alcune ore a rendersi conto di quel che era successo. Poi, quando ha capito, s’è rassegnato a essere aggiuntivo, e votare per il governo, pur di non assistere alla spaccatura formale del suo partito. La leadership carismatica che fino a lunedì sera gli aveva consentito di evitare bruscamente ogni forma di dibattito interno s’è disciolta all’improvviso. Finita in un attimo. Giustiziata in un falò di insulti e prese in giro sui forum telematici degli elettori del centrodestra: disorientati, a dir poco, dall’incomprensibile confusione con cui Berlusconi ha condotto il suo tentativo fallito di far cadere il governo.
 Adesso tutti pensano che insieme alla nuova maggioranza - nei numeri quasi uguale alla precedente, ma ancorata all’accordo tra il premier e la parte più responsabile del centrodestra - sia nato un nuovo leader, nella persona del vicepresidente del Consiglio. E non c’è dubbio che Angelino Alfano abbia giocato un ruolo centrale in tutto l’andamento della crisi, rifiutandosi fin dal primo momento di provocare una scissione nel Pdl, cercando fino all’ultimo di persuadere il Cavaliere a tornare sui suoi passi, e riuscendoci, non solo grazie alla sua capacità di convinzione, ma al consenso che nel frattempo si era guadagnato nei gruppi parlamentari, tra i senatori e i deputati pronti, mai visto prima, a disobbedire a Berlusconi. Alfano, a cui in passato i suoi avevano sempre rimproverato una certa carenza di coraggio, e il Cavaliere, con una battuta famosa, la «mancanza di un quid», stavolta ha mostrato i muscoli. Ha detto di sentirsi «diversamente berlusconiano», anche se non è ancora chiaro come sarà veramente.
 



Al di là delle contorsioni e della crisi di una leadership logorata da tempo - malgrado il forte seguito elettorale, le grida di «Silvio, Silvio!» e la partecipazione emotiva della gente alle sue vicende personali - quel che è accaduto in questi giorni, e culminato nella spettacolare giornata di ieri, era già scritto nelle premesse della nascita delle larghe intese. Non la pacificazione, che Berlusconi immaginava a torto come la fine dei suoi guai, e tutte le sue ultime mosse hanno contribuito a impedire. Piuttosto, la nascita, benedetta da Napolitano, di un asse d’emergenza, rivelatosi inossidabile, tra Letta e Alfano, i dioscuri del governo. E di una tregua, si vedrà quanto solida, tra Letta e Renzi, l’unico che poteva contendergli la guida del governo e ora ha deciso di puntare sul Pd e di aspettare il prossimo turno.
Dove porterà un passaggio di questa portata, solo apparentemente improvviso e sorprendente, è presto per dirlo. Tra l’altro, siamo di fronte al compimento di un ricambio generazionale, con tutti i contraccolpi che è logico attendersi. Può darsi che all’uscita della crisi economica, e alla fine di una legislatura che a questo punto ha guadagnato almeno un anno di vita, assisteremo di nuovo a una competizione tra un centrodestra e un centrosinistra profondamente mutati e divenuti più simili a quelli che si confrontano nei maggiori Paesi europei. Ma è inutile nascondersi che la tradizione italiana, oltre che le radici da cui provengono Letta, Alfano e Renzi, i protagonisti della nuova fase, avranno il loro peso. In altre parole è possibile, forse più che probabile, e temibile secondo i punti di vista, che nella Terza Repubblica moriremo democristiani.
Da repubblica,it
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #582 inserito:: Ottobre 09, 2013, 04:17:01 pm »

EDITORIALI
09/10/2013

La spinta del Quirinale alla politica

MARCELLO SORGI

Sulla carta, l’amnistia su cui Napolitano ha sollecitato il Parlamento a riflettere, non ha purtroppo molte probabilità, forse nessuna, di essere approvata in tempi brevi. 
 
E basterebbe la misera, nonché miserabile, reazione di Grillo, che ne ha parlato come di un salvacondotto per Berlusconi, incurante delle condizioni inaccettabili in cui versano i detenuti, per temere che il Parlamento non sia in grado di affrontare il problema con la dovuta serietà. 
Una questione di mancanza di civiltà, di quelle che trascinano l’Italia in fondo alle classifiche mondiali, che ormai da troppo tempo la politica nel suo complesso ha lasciato sulle spalle dell’indomito Pannella, l’unico a battere su questo tasto, con i suoi periodici digiuni che lo riducono in fin di vita.
 
Se davvero, pur di non offrire al Cavaliere una via d’uscita, il punto fosse di rinunciare a qualsiasi aiuto umanitario per gli oltre settantamila carcerati italiani, che languono in celle che ne potrebbero contenere appena la metà, sarebbe proprio una ragione per parlarne. Tra l’altro Berlusconi, per la quantità di pene che sta accumulando passo dopo passo, potrebbe avvalersi solo parzialmente di un provvedimento di clemenza: non sarebbe insomma la soluzione dei suoi guai.
 
La verità è un’altra, come sanno bene i mille parlamentari a cui è rivolto il messaggio del Capo dello Stato. Da venti anni a questa parte l’amnistia è diventata impossibile a causa di una legge approvata alla vigilia di Tangentopoli che prevede che la decisione debba essere presa con una maggioranza di due terzi del Parlamento. Un obiettivo irraggiungibile, dal momento che basta che un partito si sfili, candidandosi a usare in modo strumentale il suo rifiuto presso un’opinione pubblica allarmata dal rischio di veder rimessi per strada delinquenti comuni, per bloccare qualsiasi iniziativa in questo senso. Ed è così che in questo lungo periodo le Camere non sono mai riuscite a varare nuove amnistie, neppure quando a chiederglielo era arrivato a Montecitorio il Papa, e quando le condizioni carcerarie avevano superato ogni limite di sopportabilità.
 
Ma se Napolitano, consapevole di tutte le difficoltà, s’è deciso a porre nuovamente la questione - dopo esser rimasto sgomento, nella sua recente visita a Napoli, dell’inferno del carcere di Poggioreale -, non è certo perché possa razionalmente sentirsi sicuro che il suo appello venga accolto. Piuttosto, perché non si stanca di richiamare la classe politica nel suo complesso, e la maggioranza di larghe intese che sostiene il governo, a farsi carico dei reali e urgenti problemi del Paese, invece di perdere il proprio tempo a far polemiche in tv. In questo senso - va detto con la dovuta cautela - lo sprone del Presidente, diversamente da altre volte, ha più possibilità di essere accolto, anche se l’ostacolo dei due terzi di maggioranza resta difficile da superare.
 
Basta solo vedere, con l’eccezione dei 5 stelle e con quella prevedibile della Lega, il rispetto con cui il messaggio del Quirinale è stato subito comunicato al Parlamento e ascoltato con attenzione nelle aule dai deputati e senatori presenti. In altri tempi, ed ecco risaltare la differenza, i messaggi, o erano stati accantonati in un clima di imbarazzo generale, come accadde a quello di Leone, o discussi superficialmente, come capitò quando Cossiga pose con fermezza la questione delle riforme istituzionali. Invece l’intervento di Napolitano è stato accompagnato da un appoggio niente affatto formale del presidente del consiglio Letta, da un’accoglienza molto positiva del Pdl (fino a ieri polemico con il Presidente per il suo comportamento dopo la condanna di Berlusconi), e da un impegno esplicito del Pd ad affrontare di nuovo la riforma della giustizia, finora tabù per il centrosinistra, di cui l’amnistia e la soluzione del problema delle carceri rappresenterebbero un punto di arrivo.
 
Perché questa è in sostanza la spinta che Napolitano ha voluto dare al governo e al Parlamento: per farli uscire dal particolare del caso Berlusconi, in un modo o nell’altro ormai avviato a conclusione con il prossimo voto in Senato sulla decadenza da parlamentare, e spingerli ad applicarsi al ben più complesso nodo dei rapporti tra politica e giustizia. Un muro che da vent’anni blocca ogni evoluzione del sistema politico e tiene il Paese arenato sulle sabbie di una transizione infinita. 

Da : http://www.lastampa.it/2013/10/09/cultura/opinioni/editoriali/la-spinta-del-quirinale-alla-politica-nUlJhgAECtyoYpx25tv7fN/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #583 inserito:: Ottobre 28, 2013, 09:56:01 am »

Editoriali
19/10/2013

Liturgie democristiane al centro

Marcello Sorgi

Chi s’aspetta che il gran movimento al centro che ha portato a improvvise e irrevocabili dimissioni il professor Monti dalla guida del suo partito produca chissà quali conseguenze, di qui a giorni, non conosce, o non si ricorda, le liturgie democristiane, adagiate su tempi medio-lunghi. Ma certo, la brusca defenestrazione dell’uomo che nel 2011 s’era assunto la responsabilità di guidare un’Italia ridotta sull’orlo della bancarotta, e per un anno e mezzo era stato salutato come il salvatore della patria, vorrà pur dire qualcosa. 

Dal giorno della caduta del suo governo, Monti, va detto, non ne aveva più azzeccata una: era stato un azzardo la stessa fondazione del suo partito, un ircocervo in cui avrebbero dovuto convivere il «vecchio» dell’intramontabile tradizione Dc di Casini, il «nuovo» di Montezemolo e Italia futura, con la destra-sinistra di Fini e i tecnici superstiti dell’esecutivo. E un inevitabile fallimento, di conseguenza, l’idea di candidarsi a ereditare i voti di Berlusconi: il quale, pur avendone perduti tanti, ne aveva riportati a casa quasi nove milioni, arrivando a sfiorare il partito di Bersani, vincitore annunciato e mancato. 

Attorno al professore, poi, gli scricchiolii si erano moltiplicati dopo lo sfortunato tentativo fallito di farsi eleggere presidente del Senato. I sondaggi avari di promesse, e la turbolenza interna che non accennava a scemare, hanno fatto il resto. 

Ma è inutile nascondersi che la divergenza finale, che ha portato alla rottura tra Casini e il ministro della Difesa Mauro, da una parte, e l’ex presidente del consiglio dall’altra, è stata su Berlusconi. Monti, che s’era sempre vantato di aver impedito la vittoria di Berlusconi a febbraio con i tre milioni di voti raccolti da Scelta civica, non ha affatto gradito il plateale riavvicinamento che ha portato due giorni fa il ministro Mauro a pranzo con Berlusconi e Alfano a Palazzo Grazioli. Una scelta frettolosa, a suo giudizio: sarebbe stato meglio aspettare l’uscita di scena del Cavaliere.

Casini e Mauro invece, che da tempo lavoravano a quest’obiettivo, pensavano che fosse giunto il momento. Non occorreva più attendere: c’era un’urgenza politica e una personale che potevano combinarsi. Quella politica è rappresentata dalle elezioni europee della prossima primavera, in cui per la prima volta si voterà, sì, con il proporzionale, ma anche con una soglia di sbarramento del 4 per cento, che Scelta civica non era più in grado di superare agevolmente. Quella personale, è ovvio, appartiene al Cavaliere, niente affatto rassegnato al destino della decadenza da senatore che lo attende dal giorno in cui gli è arrivata sul capo la sentenza della Cassazione. Così adesso la prima occasione in cui la nuova alleanza verrà messa alla prova sarà proprio la votazione del Senato che riguarda Berlusconi. Se si deciderà a voto segreto, come vuole il regolamento del Senato e come Pd e M5s vorrebbero impedire, e se gli ex Udc voteranno compatti per il salvataggio del Cavaliere, insieme al partito dei franchi tiratori che in queste occasioni s’ingrossa sempre, la legislatura che sembra minacciata tutti i giorni dal rischio di un nuovo scioglimento delle Camere prenderà un passo più lungo.

Si vedrà allora di che pasta sono fatti gli ex Dc, e soprattutto chi l’avrà vinta, tra loro che non hanno troppa fretta di giustiziare politicamente il pluricondannato leader del centrodestra (tanto, pensano, il suo destino è segnato), e lo stesso Berlusconi. Che sogna appunto di salvarsi in extremis, a dispetto di tutti, uscire vincitore dalla ghigliottina allestita per lui in Senato, e puntare a un’impossibile resurrezione.

Da - http://www.lastampa.it/2013/10/19/cultura/opinioni/editoriali/liturgie-democristiane-al-centro-YZYWZlk8rZZnApKdMx6bEO/pagina.html
Registrato
Admin
Utente non iscritto
« Risposta #584 inserito:: Novembre 03, 2013, 07:02:47 pm »

Editoriali
30/10/2013

I neo-iscritti al partito del rinvio

Marcello Sorgi

Nel Paese dell’eterno ricorso, rischia di slittare all’infinito anche la decadenza da senatore di Berlusconi, annunciata come la fine del ventennio, dopo la sentenza della Cassazione che ha definitivamente condannato il leader del centrodestra per frode fiscale.

Ieri la giunta del regolamento del Senato, mentre discuteva se la fine della carriera parlamentare dell’ex premier dovesse essere stabilita con voto palese o segreto, s’è imbattuta in una nuova questione, considerata decisiva dal centrodestra e irrilevante, va da sé, dal centrosinistra. Secondo i giudici di appello di Milano, che, sempre su richiesta della Cassazione, hanno ridotto la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici per il Cavaliere da cinque a due anni, la sanzione prevista dalla legge Severino, cioè la decadenza e l’incandidabilità, «è riservata all’autorità amministrativa», ovvero alla Camera d’appartenenza. Tanto è bastato ai parlamentari del centrodestra per dire che la Severino, proprio perché prevede una conseguenza amministrativa, non può essere applicata a Berlusconi retroattivamente, per reati commessi prima dell’entrata in vigore della stessa legge. 

C’era un vecchio detto ai tempi della Prima Repubblica che diceva che quando una crisi politica finisce in mano agli avvocati è un guaio. Niente come quel che sta accadendo al Senato attorno al caso del Cavaliere lo conferma. Nella giunta del regolamento di Palazzo Madama, che nel suo piccolo ha già votato la decadenza, delegando all’aula dei senatori la decisione finale, si confrontano due pattuglie di irriducibili. Secondo quella del centrodestra guidata dall’ex ministro (ed ex giudice) Nitto Palma la decadenza di Berlusconi equivale a un’esecuzione sommaria, se votata senza aver la certezza che la legge Severino sia costituzionale (cioè senza chiedere prima alla Consulta di pronunciarsi in materia). E le motivazioni della sentenza dei giudici di Milano, in questo senso aggiungerebbero altri dubbi, spingendo in favore di un approfondimento. Secondo quella di sinistra pilotata dall’ex magistrato Felice Casson, invece, questi dubbi sono infondati, il centrodestra sta facendo melina e si rifiuta di applicare la legge anticorruzione, che pure aveva votato, solo perchè riguarda Berlusconi.

Queste argomentazioni potrebbero validamente essere sostenute in un’aula di giustizia, o anche in quella suprema della Corte Costituzionale. Ma stavolta, non va dimenticato, a pronunciarsi è il Senato, che prenderà, appunto, una decisione politica e non giurisdizionale. In altre parole l’argomento in base al quale i senatori si pronunceranno, ridotto all’essenziale, sarà: conviene o non conviene? E non c’è dubbio che in base a quest’argomento negli ultimi giorni sia intervenuta una novità non trascurabile. Mentre infatti il 2 ottobre, rispondendo a questa domanda, ventitré senatori del centrodestra avevano firmato un documento per dire che la decadenza del loro leader era un prezzo da pagare pur di tener in piedi il governo, venerdì scorso, lo stesso Berlusconi, che in Senato aveva dovuto sottomettersi a quest’impostazione, ha fatto votare all’unanimità dal vertice del suo partito un documento in cui si dice chiaramente il contrario: se la decadenza sarà votata, in sostanza, il governo cadrà. 

A questo punto le cose sono cambiate. Anche se gli irriducibili del centrosinistra continuano a dire che l’uscita dal Parlamento del condannato non può essere rinviata, ieri la proposta del Movimento 5 stelle di anticipare il voto dell’aula del Senato è stata bocciata. Non si voterà almeno fino al 22 novembre. E anche dopo, sarebbe quanto meno azzardato pensare di intrecciare le votazioni sulla legge di stabilità con quella sulla decadenza dell’uomo che un minuto dopo, o cercherebbe di far cadere il governo, come ha già annunciato, o metterebbe in campo una sorta di ostruzionismo contro l’approvazione del testo più indispensabile che il Parlamento deve approvare entro la fine dell’anno. La sensazione è insomma che molti degli argomenti portati dagli irriducibili di centrodestra potranno anche risultare pretestuosi. Ma anche che nel centrosinistra cominci a farsi strada una consistente pattuglia di meno irriducibili: che in silenzio, senza far proclami, preferiscono aspettare a far decadere Berlusconi, pur di salvare il governo e la legislatura.

Da - http://lastampa.it/2013/10/30/cultura/opinioni/editoriali/i-neoiscritti-al-partito-del-rinvio-pdrrfKFAbjuU029186VWGI/pagina.html
Registrato
Pagine: 1 ... 37 38 [39] 40 41 ... 44
  Stampa  
 
Vai a:  

Powered by MySQL Powered by PHP Powered by SMF 1.1.21 | SMF © 2015, Simple Machines XHTML 1.0 valido! CSS valido!