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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 288000 volte)
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« Risposta #495 inserito:: Luglio 06, 2012, 11:10:05 am »

6/7/2012 - TACCUINO

Il Monti bis di Berlusconi e i mal di pancia di mezzo Pdl

MARCELLO SORGI

Annunciata ormai a tutto il vertice del partito e ripetuta in più occasioni, l’imprevedibile scelta grancoalizionista di Silvio Berlusconi trova almeno tre diversi motivi di resistenza all’interno del Popolo della libertà. C’è innanzitutto una perplessità generale sul fatto che a proporla sia lo stesso leader che a inizio d’anno sembrava realmente orientato a farsi da parte, poi ha avuto una cotta passeggera per Beppe Grillo e s’è messo a imitarlo, e infine ha deciso di tornare in campo, ma per appoggiare dopo le elezioni una sorta di Monti-bis in cui dovrebbero entrare ministri politici.

Ma a parte la sua abituale instabilità politica (Berlusconi è uno che lavora molto d’istinto), dietro la svolta del Cavaliere c’è una realistica osservazione della realtà e una presa d’atto che difficilmente il centrodestra potrà puntare a vincere le prossime elezioni nella primavera del 2013. Di qui, piuttosto che andare all’opposizione, la prospettiva di attestarsi nella posizione di una minoranza di blocco, un po’ come è avvenuto nella vicenda del cambio del consiglio d’amministrazione della Rai, in cui il Pdl ha perduto il controllo dell’azienda, ma parteciperà a tutte le decisioni e difficilmente potrà essere emarginato. Una minoranza, insomma, parte indispensabile di una più larga maggioranza, che dovrebbe continuare a sostenere Monti, e alla quale anche il Pd dovrebbe rassegnarsi seppure il centrosinistra dovesse vincere le elezioni.

Ma a frenare gli entusiasmi dell’ex-presidente del Consiglio all’interno del Pdl si sta saldando un inedito asse: accanto all’ala ribelle SantanchèBrunetta, che puntava a far cadere Monti e anticipare le elezioni a ottobre, si muove la destra ex-An, che difficilmente potrebbe spiegare ai propri elettori un prolungamento della convivenza governativa con la sinistra.

E a sorpresa anche il vecchio centro del partito, che va da Verdini a Cicchitto e teme che una stabilizzazione della larga maggioranza e dello «strano» governo a tre con Partito democratico e Casini porti a un mutamento degli equilibri interni del partito, per sostituire la classe dirigente del ventennio dello scontro bipolarista con una più abituata ai rapporti pragmatici con gli (ex) avversari. Chi ha qualche capello bianco in più sulla testa sa, o ricorda, che dentro le larghe coalizioni, specie quelle che durano, si formano sempre delle maggioranze informali e dei nuovi equilibri di potere.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10305
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« Risposta #496 inserito:: Luglio 11, 2012, 09:59:07 am »

10/7/2012

Una risposta per i due Presidenti

MARCELLO SORGI

Seppure distanziate di un giorno dedicate a due diversi argomenti, le due allarmate uscite di Napolitano ieri e di Monti domenica sono invece strettamente connesse visto che nessuno come loro due ha chiari i pericoli che l’Italia continua a correre, e i timori che l’estate 2012, come e forse più di quella del 2011, si riveli purtroppo il terreno di caccia ideale delle speculazioni sui mercati internazionali, che prendono di mira in Europa soprattutto i Paesi in bilico.

Comuni ai due Presidenti non sono solo le preoccupazioni, ma anche il rifiuto della strafottenza che i partiti - non tutti, o almeno non tutti alla stessa maniera - continuano a manifestare rispetto alla crisi più difficile mai affrontata finora: come se appunto si trattasse solo di far passare la nottata, preparandosi intanto alla campagna elettorale, già cominciata ben prima che si arrivi alla conclusione naturale della legislatura e alla convocazione dei comizi.

Era chiaramente a questo che Napolitano ha inteso riferirsi ieri, quando con il gesto, volutamente drammatico, dell’invio di una lettera ai Presidenti delle Camere, per sollecitare la rapida fissazione di un dibattito parlamentare sulla legge elettorale, ha implicitamente inteso denunciare l’inutile tira e molla in cui la discussione politica su una materia così delicata si trascina da mesi e mesi. E dire che i tre segretari della maggioranza che sorregge il governo, Alfano, Bersani e Casini, si erano impegnati a risolvere tutto nel giro di venti giorni. Bene: dal giorno in cui quell’impegno fu assunto pubblicamente, sono passate ben cinque settimane!

Ora, mentre le varie ipotesi di riforma della legge elettorale - il famigerato Porcellum, a parole ripudiato da tutti - , dentro e fuori il Parlamento, vengono misurate dai leader dei partiti di maggioranza e di opposizione con il solo metro della singola convenienza - ragione per cui ognuno ha il suo modello preferito, il suo mix di proporzionale e maggioritario, il suo cocktail di spagnolo e tedesco, di preferenza unica o multipla -, in Europa questa straordinaria incertezza, vissuta con un’ostentata incoscienza, si traduce in una semplice domanda di tutti gli osservatori qualificati: ma se non sanno neppure con che legge andranno a votare, questi italiani, come possono sperare di uscire dalle elezioni con un equilibrio stabile, che gli consenta di continuare ad affrontare seriamente il prosieguo della crisi?

Ed era proprio a quest’interrogativo - che dev’essere risuonato varie volte nelle sue orecchie durante gli incontri internazionali a cui sta partecipando con sempre maggiore frequenza nelle ultime settimane, man mano che la crisi, invece di allentare, si fa più pressante -, che Monti domenica voleva accennare, quando in risposta alle domande dei giornalisti, dopo aver stigmatizzato l’ennesima uscita superficiale del presidente dei Confindustria, ha spiegato che, tra gli altri problemi che deve affrontare, per riportare l’Italia a una soglia di credibilità sufficiente in Europa, c’è anche quello dell’incertezza sugli assetti che potrebbero uscire dalle urne e sull’effettiva volontà, dell’eventuale schieramento vincitore e del governo che ne seguirà, di insistere nella dura strategia di risanamento dei conti pubblici.

La mediocre interpretazione che ne è seguita (”Monti si prepara a succedere a se stesso”) dà purtroppo conto del livello a cui è giunto il confronto politico negli ultimi tempi. Anche perchè, stranamente, in un Paese che è ormai abituato a discutere di tutto superficialmente, l’idea che Monti si preparasse a scendere in campo - e poi come? a margine di un vertice dell’Eurogruppo? - è stata accompagnata da un pesante silenzio ufficiale e da un chiacchiericcio incessante nei corridoi. Come una specie di incubo destinato a guastare la vigilia della fine della stagione dei tecnici e del ritorno alla politica fatta dai politici.

Eppure le intenzioni dei due Presidenti sono chiare. Napolitano ha appena detto che intende concludere il suo mandato nella primavera del 2013, e che nessuna iniziativa eccezionale - compresa l’ipotesi di un’Assemblea Costituente, alla quale non è contrario - potrebbe convincerlo a fare diversamente. E lo stesso ha fatto Monti, in varie occasioni pubbliche e anche in Parlamento, consapevole che la fine della legislatura coinciderà con quella del suo governo.

La coincidenza di queste due scadenze dovrebbe preoccupare i leader dei partiti, spronandoli a uscire dalla loro inconcludenza. E risolvere onorevolmente la questione della legge elettorale darebbe indubbiamente un bel segnale in questo senso.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10315
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« Risposta #497 inserito:: Luglio 11, 2012, 11:20:24 pm »

11/7/2012 - TACCUINO

Il futuro del premier rimane un'incognita

MARCELLO SORGI

In un inciso della conferenza stampa al termine dell’Ecofin che ha confermato la scelta del fondo salva-spread, Monti ha confermato che non intende candidarsi a succedere a se stesso in vista delle elezioni del 2013. Lo aveva già detto e ripetuto in varie occasioni, ma ha ritenuto di ribadirlo per fermare il chiacchiericcio nato a proposito delle sue precedenti dichiarazioni sulla nocività, per l’Italia, dello stato di incertezza in cui versano partiti e politica.

L’idea di una candidatura di Monti entrerebbe in collisione con il ruolo tecnico che il presidente del consiglio s’è dato, al momento in cui ha formato il suo “strano” governo. Monti s’è messo a disposizione di un largo cartello di partiti che volevano fosse esplicito il carattere di emergenza del loro accordo, ferma restando la certezza di ritrovarsi avversari nella successiva campagna elettorale.

Nello stesso tempo Monti è consapevole che molto difficilmente la crisi dell’area euro potrà essere risolta in meno di un anno, e che l’affidabilità di cui l’Italia ha goduto fin qui in Europa, malgrado le condizioni gravissime in cui versa e gli spread altissimi che non riesce a domare, è dovuta alla sua credibilità personale nell’Unione e alle misure drastiche che è riuscito ad imporre, malgrado forti resistenze interne.

Di qui la possibilità che, al di là delle sue intenzioni, Monti possa essere richiamato in servizio, o addirittura continuare a guidare il governo nel 2013 senza soluzione di continuità. Sono in molti a pensarlo o a temerlo, anche se non si pronunciano esplicitamente. Qualcuno, come il capogruppo del Pd Franceschini, ha evocato il precedente di Ciampi, che guidò un governo tecnico-politico alla fine della Prima Repubblica, poi fu ministro dell’Economia con Prodi e condusse il Paese all’ingresso nell’Eurozona. Difficilmente però Monti potrebbe seguire lo stesso percorso, entrando in un governo sostenuto da una coalizione politica di centrosinistra, e con il centrodestra all’opposizione, o viceversa.

Solo Berlusconi finora si è spinto a prefigurare una riproposizione del governo a larga maggioranza dopo il voto. Ma per arrivarci occorrerebbe, al minimo, una nuova legge elettorale proporzionale, che renda superflue le coalizioni, riproponga la competizione diretta tra partiti e non tra alleanze, e faccia sì che chi vince, alla fine, vinca solo un po’, ed abbia bisogno degli altri per governare. È esattamente il punto su cui i partiti si sono nuovamente bloccati. Anche per questo è assolutamente prematuro parlare oggi del futuro di Monti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10320
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« Risposta #498 inserito:: Luglio 12, 2012, 05:11:26 pm »

12/7/2012 - TACCUINO

SuperMonti, c'è già chi parla di staffetta al Quirinale

MARCELLO SORGI

Per essere un premier che solo l’altro ieri aveva annunciato che si considera in scadenza nel 2013, Monti ha dato ieri un’accelerata che lascia intendere che i mesi che gli restano non saranno certo di ordinaria amministrazione. In un intervento all’assemblea dell’Assobancaria ha detto infatti che l’Italia ha davanti a sè «un percorso di guerra», che non può certo considerarsi compiuto, e che molti dei mali contro cui l’Italia sta combattendo sono legati a un uso sbagliato della concertazione, il metodo di confronto con le parti sociali inaugurato nell’era Ciampi, grazie al quale furono firmati gli accordi che portarono l’Italia nell’Eurozona. Durissima, quanto prevedibile, la reazione dei sindacati, in particolare della segretaria della Cgil Camusso, a questa seconda affermazione.

Inoltre, più o meno nelle stesse ore in cui il premier pronunciava il suo discorso, Vittorio Grilli si preparava a salire al Quirinale per giurare da ministro dell’Economia. La promozione del viceministro, che è stato al fianco di Monti in questi difficilissimi otto mesi e nell’opera di riaccreditamento dell’Italia agli occhi dell’Unione, conferma la piena fiducia che Grilli si è guadagnato sul campo e la maturazione che gli consentirà nel prossimo futuro di gestire anche in prima persona parte del confronto con le autorità di Bruxelles. E ancora introduce un elemento di riequilibrio all’interno del governo: nel senso che prima c’era un solo superministro, Corrado Passera, e adesso, con Grilli all’Economia, ce ne sono due. Forse è anche per questo che Monti - ad evitare tensioni interne alla compagine ministeriale, e a confermare che soprattutto su questa materia il coordinamento dei lavori tocca a lui - ha voluto annunciare contemporaneamente la nascita, all’interno dell’esecutivo, di un comitato per la politica economica, da lui presieduto, alle cui riunioni prenderanno parte tutti i ministri coinvolti nelle scelte rigorose a cui il governo è chiamato e qualche volta anche il Governatore della Banca d’Italia in qualità di invitato. Una mossa politica, di un presidente del consiglio che tiene a definirsi tecnico, di una saggezza vecchio stampo.

Sarà anche per ciò che, negli stessi corridoi parlamentari che avevano accolto freddamente la denuncia di Monti dei timori europei sull’Italia dopo le elezioni del 2013, dopo la giornata di ieri s’è fatta più forte la consapevolezza che sarà difficile fare a meno di “SuperMario” l’anno prossimo. In quale ruolo, è difficile dire: ma già c’è chi non esclude la staffetta con Napolitano al Quirinale.


da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10324
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« Risposta #499 inserito:: Luglio 13, 2012, 10:23:32 am »

13/7/2012 - TACCUINO

L'ex premier scommette sul disastro e punta al dopo-euro

MARCELLO SORGI

L’ ipotesi di un ritorno in campo di Berlusconi ha prodotto scarse reazioni ufficiali e molto movimento interno, sia nel partito che fuori. Non c’è sorpresa perché nessuno aveva creduto fino in fondo alle varie versioni (l’allenatore, il padre nobile, il fondatore) con cui il Cavaliere aveva cercato di far credere che si sarebbe fatto da parte. Ma c’è, soprattutto all’interno della generazione dei quarantenni vicini ad Alfano e degli ex ministri, la sensazione di una scelta precipitosa, tutta basata sull’istinto, in un momento in cui lo stato in cui versa il Paese avrebbe richiesto decisioni più meditate. Inoltre, non è un mistero, il ritorno di Silvio deciso alla sua maniera spazza via un anno di lavoro, di Alfano e del nuovo gruppo dirigente che il segretario aveva costruito, per trasformare il Pdl in un partito «normale» e credibile anche per gli elettori moderati stanchi della vecchia satrapia di Palazzo Grazioli.

Vi è poi un altro livello di analisi sulle conseguenze della scelta del Cavaliere. È il punto di vista di tutti gli osservatori qualificati, da Palazzo Chigi al Tesoro a Bankitalia e alle parti sociali, alle prese con la dura politica di rigore che la difesa dell’Eurozona comporta. In quegli ambienti si sta facendo strada un timore che, se fosse confermato, e se si diffondesse tra i partners dell’Unione, sarebbe destinato a provocare effetti imprevedibili. Si tratta della convinzione che Berlusconi si sarebbe risolto a tornare in campo, non per contestare le strategie anticrisi e la linea del rigore imposte dal suo successore, atteggiamento che di per sé risulterebbe devastante per la credibilità di un’Italia in bilico, com’è attualmente considerata in Europa. Ma, diversamente, perché convinto che gli sforzi a questo punto sarebbero inutili e che il crollo dell’euro sia ormai alle porte, dopo un agosto in cui si teme che l’assalto della speculazione supererà ogni limite. Un Berlusconi che, ragionando da imprenditore, valuta i numeri, legge le tabelle, constata che anche i Paesi come il Portogallo, che hanno fatto ricorso agli aiuti e si sono sottoposti alla severa disciplina della troika europea, non rivedono la luce, e decide di puntare tutto sul dopo, su «l’avevo detto io», e su un disastro di cui per una volta la responsabilità non potrebbe essergli attribuita.

A sostenere questa ipotesi sarebbero i dati di cui dispongono i suddetti osservatori e che probabilmente lo stesso Berlusconi non ha avuto difficoltà a procurarsi. Un quadro che non promette niente di buono per l’estate 2012. Ma che non autorizza a scommettere sul peggio.

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« Risposta #500 inserito:: Luglio 18, 2012, 11:15:12 pm »

18/7/2012 - TACCUINO

Lo statuto speciale e il piano del governo

MARCELLO SORGI

Ha già sollevato molte reazioni, non solo locali, in nome della speciale autonomia di cui gode la Regione, la lettera con cui Monti ha chiesto al governatore siciliano Lombardo di confermare le dimissioni annunciate mesi fa per il 28 luglio. La sollecitazione del presidente del Consiglio è legata al rischio di default del bilancio regionale denunciato dal vicepresidente siciliano di Confindustria Ivan Lo Bello e al comportamento dello stesso governatore, che dal momento in cui ha anticipato la sua uscita di scena, ha continuato a comportarsi come se niente fosse, nominando tre nuovi assessori, un vicepresidente e perfino un dirigente di una società pubblica poi risultato in carcere per stalking.

Al di là dell’autonomia, chiamata in causa anche a sproposito, Monti vorrebbe predisporre un piano di salvataggio. Preceduto, ovviamente, da una definitiva uscita di scena di Lombardo, che anche se non ha l’intera responsabilità del dissesto, certo non ha fatto nulla di importante per arginarlo. L’idea che la Sicilia, grazie al suo statuto speciale, possa essere considerata una specie di porto franco, è inaccettabile per Monti. Che teme che il dissesto amministrativo dell’isola possa ripercuotersi sull’immagine dell’Italia, sotto osservazione a Bruxelles.

Pochi mesi fa l’allarme per i dati siciliani era stato lanciato dalla Corte dei Conti. La sola presidenza della Regione Siciliana ha un numero di dipendenti, 1385, superiore a quelli a disposizione del primo ministro inglese Cameron a Downing Street, con un dirigente per ogni sei impiegati e funzionari. I dipendenti regionali, in totale, sono 17.995, 4857 dei quali avevano il contratto a termine fino all’anno scorso, ma sono stati stabilizzati dalla giunta Lombardo. Altri 2293 sono a tempo determinato e ben 7291 lavorano nelle 34 società a partecipazione regionale. Inoltre 24.880 sono i forestali e gli lsu (lavoratori socialmente utili) impegnati nei comuni ma di cui la regione paga in parte lo stipendio. Fatte tutte le somme, il costo di questa elefantiaca amministrazione tocca i 5,3 miliardi di euro e nel solo 2011 è cresciuto di 818 milioni, raddoppiandosi negli ultimi dieci. E fino all’anno scorso i dipendenti della Regione potevano andare in pensione con soli 25 anni di servizio, per assistere un genitore anziano o invalido. Sono dati come questi che hanno spinto Monti a intervenire e i politici siciliani a reagire, nel timore di un commissariamento. Ma cosa possano e vogliano fare, per evitare il fallimento della Regione a statuto speciale, nessuno ancora è in grado di dirlo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10345
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« Risposta #501 inserito:: Luglio 19, 2012, 10:05:37 pm »

19/7/2012 - TACCUINO

Il faccia a faccia e i rischi di una tragica corsa elettorale

MARCELLO SORGI

Un incontro «urgente e imprevisto». Con queste parole, che dette davanti alle telecamere hanno subito acceso grande curiosità, il presidente Napolitano si è congedato in tutta fretta ieri mattina da un convegno in corso al Quirinale, per andare a incontrarsi con Monti. Avevano parecchie cose da dirsi, a cominciare dal crescente allarme generale per il deterioramento della situazione nell’Eurozona. Si vede benissimo dal mutato atteggiamento della Merkel, che giorno dopo giorno appare in difficoltà a gestire nel suo paese le conseguenze dell’accordo sul fondo antispread deciso nell’ultimo vertice di Bruxelles. E si è capito anche dalla cautela con cui il ministro dell’Economia Grilli ha confermato che la febbre del differenziale tra i titoli di Stato italiani e tedeschi, salita da giorni oltre i limite di guardia, stavolta non ha solo cause interne. Domani i leader europei tornano ad incontrarsi, in un clima - nessuno prova a nasconderlo reso più pesante dai timori per l’agosto della speculazione sui mercati.

Monti e Napolitano hanno parlato pure del caso Sicilia, alla luce della conferenza stampa tenuta dal governatore Lombardo dopo la lettera in cui il Presidente del consiglio gli aveva sollecitato una conferma delle dimissioni. Conferma che è arrivata, accompagnata però da reazioni molto dure del governatore sia contro Monti e il governo, al quale l’amministrazione siciliana chiede di pagare arretrati per un miliardo di euro (400 milioni sono stati versati ieri sera), sia contro Formigoni, che lo aveva preso in giro su Twitter. Chiaro poi il proposito di arrivare comunque allo scioglimento dell’Assemblea regionale e alle elezioni anticipate per rinnovarla a ottobre. Lombardo, in altre parole, punta ad evitare il commissariamento adombrato nella lettera di Monti e a lasciare in piedi per l’ordinaria amministrazione una sorta di governo elettorale guidato dal suo vicepresidente Russo.

L’idea di un assaggio, che sarebbe molto più di un assaggio, di campagna elettorale in autunno, preoccupa molto sia Napolitano che Monti, per le conseguenze destabilizzanti che potrebbe avere sull’Italia. Si tratterebbe in realtà di una corsa alle urne che, partendo dall’isola, proseguirebbe ininterrottamente fino alle elezioni politiche nazionali di primavera, con la conseguente paralisi del Parlamento, già oberato di una dozzina di decreti da approvare, del trattato fiscale europeo da ratificare e della legge elettorale da rifare. Così, nell’agenda complicata dei due Presidenti, adesso c’è anche l’incognita della sfida solitaria di Lombardo e dell’anomalo voto siciliano.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10348
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« Risposta #502 inserito:: Luglio 20, 2012, 10:22:06 am »

20/7/2012 - TACCUINO

Lo spettro di Madrid e l'urgenza di Monti

MARCELLO SORGI

Lo spettro del default della Spagna - dove il governo ha ammesso in Parlamento di non essere più in grado di pagare i servizi e i dipendenti pubblici, e subito nelle strade è esplosa la protesta - s’è allungato ieri su tutti i paesi in bilico dell’Eurozona, compresa ovviamente l’Italia. S’è così capito meglio quale fosse la ragione urgente che aveva spinto mercoledì Monti a chiedere udienza, quasi senza preavviso a Napolitano, e quali siano i timori per i prossimi giorni dei due Presidenti, mentre l’agosto più temuto degli ultimi anni si avvicina pericolosamente.

Ieri il ministro Grilli ha detto di non aver nulla da aggiungere a quanto aveva spiegato già in Parlamento. E in effetti, proprio come aveva spiegato il responsabile dell’Economia, e come il suo collega Passera ha ribadito, ci sono molte differenze tra Spagna e Italia. A cominciare da quei cento punti di spread che tengono da mesi il paese iberico stabilmente sopra quota 500, e drammaticamente vicino a quota 600, come se appunto la malattia che Madrid non riesce a fronteggiare fosse diventata simile a quella della Grecia. L’Italia con le sue oscillazioni degli ultimi giorni tra 470 e 490, non ha certo da brindare. E proprio per questo è interesse di tutti i governi europei in difficoltà ottenere che lo scudo antispread, definito per grandi linee all’ultimo vertice di Bruxelles, sia messo in condizione di funzionare al più presto.

Non è un mistero però che, dopo aver sottoscritto l’impegno su pressione soprattutto di Monti, che aveva minacciato di far valere la riserva italiana in sede Ue, la Merkel in queste settimane ha cominciato una marcia indietro lenta ma inarrestabile. Non tanto sulla necessità degli aiuti per i partners in difficoltà e in grado di mettere a repentaglio la tenuta della moneta unica, ma sull’obbligo, per questi, di sottoporsi a un regime di controlli che si risolverebbe in una sostanziale desovranizzazione. Al momento il fondo salva spread, almeno nei termini in cui è stato concordato a Bruxelles, non prevede oneri di questo tipo. Ma la sensazione di tutti è che proprio su questo punto la Germania voglia riaprire la trattativa.

La Camera ha approvato ieri la ratifica del trattato fiscale, in quale clima è facile immaginare. Basti pensare che al Senato, dove la discussione sulla spending review è solo all’inizio, sono già stati presentati oltre mille e ottocento emendamenti. Il decreto dev’essere trasformato in legge entro settembre: mese per il quale la Cgil ha annunciato lo sciopero generale.

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« Risposta #503 inserito:: Luglio 25, 2012, 05:02:52 pm »

24/7/2012 - TACCUINO

La crisi pilotata sogno impossibile della politica italiana

MARCELLO SORGI

In Italia non c’è mai stata una regola chiara per le elezioni anticipate, argomento di cui s’è ripreso fortemente a parlare in questi giorni.
La Costituzione laconicamente si limita a dire che la decisione spetta al Capo dello Stato, sentiti i Presidenti delle Camere.
Nella Prima Repubblica in realtà a decidere erano i due partiti maggiori, Dc e Pci, era una delle tante applicazioni di un potere consociativo per cui ai democristiani toccava governare, e ai comunisti porre (o no) il veto a qualsiasi decisione. Andò così nel 1972, nel ’76, nell’83 e nell’87, quando Craxi provò a opporsi e De Mita, pur di andare al voto, fece votare in Parlamento i suoi contro il governo guidato da Fanfani. Altri tempi. E, soprattutto alla fine, tempi di crisi generale del sistema, diversi, ma poi non tanto, da quelli attuali.

Poi arrivò la Seconda Repubblica e l’epoca infinita della transizione. L’indebolimento della politica era tale che un solo leader era in grado di imporre a tutti gli altri lo scioglimento anticipato delle Camere. Fu così nel ’94, quando Occhetto riuscì a ottenere da Scalfaro il voto anticipato in presenza di un governo, come quello di Ciampi, che stava lavorando bene, otteneva risultati (grazie anche alla concertazione, oggi vilipesa, con i sindacati) nell’azione di risanamento economico, ed era riuscito tra l’altro a far approvare una nuova legge elettorale.

Un governo in cui l’ex Pci-Pds era entrato per poi uscirne in sole ventiquattr’ore. E una tornata elettorale in cui Occhetto si aspettava di essere incoronato trionfatore, e che invece si concluse con l’inattesa vittoria di Berlusconi. Alle insistenze del quale si dovettero le successive elezioni anticipate del ’96, che il Cavaliere considerava l’occasione per tornare al governo dopo il brusco disarcionamento del «ribaltone», e che invece sancirono la nascita del primo governo Prodi e dell’Ulivo.

Sull’ultimo scioglimento, nel 2008, la dottrina è incerta. C’è chi ricorda che Berlusconi arrivò a comperare pagandoli in contanti i voti di alcuni senatori, chi dice che la colpa fu di Mastella, che provocò la caduta del secondo governo Prodi, e chi sostiene che alla fine lo stesso Prodi ci mise del suo. Come andò a finire si sa: vinse Berlusconi con una maggioranza mai vista e nel giro di un paio d’anni finì a gambe per aria.

Questo breve excursus, sommario quanto si vuole (la materia dello scioglimento delle Camere, come quella dei poteri del Presidente della Repubblica, è oggetto da decenni di un più approfondito dibattito costituzionale), dimostra una cosa: che una crisi concordata, pilotata, condivisa, per aprire le urne in anticipo, evitando risultati a sorpresa o rischiose conseguenze internazionali, in Italia non c’è mai stata.
E s’è rivelata impossibile anche quando è stata progettata con le migliori intenzioni.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10367
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« Risposta #504 inserito:: Luglio 25, 2012, 05:16:59 pm »

25/7/2012 - TACCUINO

La mossa al Senato è il primo segnale del ritrovato asse del Nord

MARCELLO SORGI

Anche se il Pd lo considera un mero espediente elettorale, il voto con cui Pdl e Lega ieri al Senato, approfittando dei numeri che ancora gli assegnano la maggioranza a Palazzo Madama, hanno approvato il testo del semipresidenzialismo e della differenziazione dei compiti tra le due Camere, non è affatto un episodio trascurabile. E non perchè l’elezione diretta del Capo dello Stato abbia qualche probabilità di diventare legge costituzionale (manca il tempo, e alla Camera anche i voti), ma proprio perchè ha segnato il ritorno dell’asse del Nord che, seppure con difficoltà, aveva consentito a Berlusconi di resistere fino all’ultimo, dopo la disastrosa rottura con Fini.

Caduto Bossi, subentrato Maroni, nessuno avrebbe scommesso su una ripresa della collaborazione del Carroccio con il Cavaliere.
Invece l’ex-ministro dell’Interno, una volta salito alla guida del partito, si sta rivelando molto più prudente di quanto non voglia far credere. Non ha insistito per le dimissioni di Formigoni, malgrado lo scandalo montante alla Regione Lombardia e l’umor nero dell’elettorato leghista per la macchina della corruzione costruita attorno al Fondatore e ai suoi collaboratori. E neppure di fronte a questa abborracciata vicenda del semipresidenzialismo, recuperato in extremis da Berlusconi e Alfano a dispetto di qualsiasi possibilità di realizzarlo, Maroni ha alzato il prezzo. Di qui a trovare il modo, un qualche modo, per ricostruire l’alleanza nelle prossime elezioni, poco ci manca. E le conseguenze più immediate di questa ritrovata unità potrebbero arrivare anche prima nella trattativa sulla legge elettorale. Non è un mistero infatti che Berlusconi sia pronto a concedere qualsiasi cosa a Maroni e Casini, che spingono per una riforma il più possibile proporzionale, grazie alla quale sia possibile scegliere candidato premier e alleanze dopo, e non prima, del voto. Una tendenza che darebbe anche al Pdl la possibilità di far valere i propri voti in Parlamento anche in caso di sconfitta. E che potrebbe spingere il Pd, che insiste per salvare almeno un barlume di maggioritario e ha tentato fin qui di tenere agganciata l’Udc, in una posizione di isolamento. Casini non pensa affatto di riavvicinarsi al Cavaliere. Ma nulla esclude una convergenza occasionale, proprio sulla legge elettorale.

Di qui l’allarme che ieri, da Bersani a Finocchiaro, s’è levato dal centrosinistra. D’Alema come sempre lo aveva anticipato di un giorno, con un’intervista all’Unità in cui avvertiva che il gioco delle due maggioranze, dentro e fuori il governo, visto in questi giorni al Senato, e non solo, rischia di aumentare le difficoltà per Monti, in un momento in cui proprio non può consentirselo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10372
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« Risposta #505 inserito:: Luglio 27, 2012, 04:23:10 pm »

27/7/2012 - TACCUINO

Quelle ombre ingiustificate allungate sulle istituzioni

MARCELLO SORGI

Comunicata in diretta da un Napolitano evidentemente provato, la morte di Loris D’Ambrosio, il consigliere giuridico degli ultimi due presidenti, sopraffatto dalle polemiche sui suoi colloqui con l’ex ministro Mancino, in relazione all’inchiesta della Procura di Palermo sulla trattativa tra Stato e mafia, è destinata a riaprire il caso nato dall’iniziativa dei magistrati siciliani e dallo scontro che ne è seguito con il Quirinale, approdato alla Corte Costituzionale perché anche il Capo dello Stato s’è trovato, seppure incidentalmente, intercettato.

A riaprirlo, s’intende, politicamente, dato che il giudizio della Consulta è di là da venire, e arriverà probabilmente solo quando le acque si saranno calmate. Sollecitato da Mancino e con il consenso di Napolitano, D’Ambrosio era infatti intervenuto con un tentativo di “moral suasion” presso i vertici della magistratura, prima che partisse la richiesta di rinvio a giudizio per l’ex ministro dell’Interno con l’accusa di falsa testimonianza. Mancino obiettava che mentre la procura di Palermo lo accusava di aver taciuto della trattativa tra Stato e mafia, volta ad ottenere un allentamento della strategia sanguinaria di Cosa nostra in cambio di un ammorbidimento (che in effetti avvenne) del carcere duro per i mafiosi detenuti, altre procure che indagavano sugli stessi fatti non erano giunte alla stessa conclusione. Di qui le pressioni di D’Ambrosio sui vertici della magistratura su insistenza di Mancino (come rivelavano le intercettazioni finite sui giornali), che per stessa ammissione del procuratore capo di Palermo non sortirono effetti, tanto che Mancino è stato formalmente accusato ed è in attesa con gli altri imputati, mafiosi e non, che il Gip si pronunci sulle richieste della procura.

Ma al di là del conflitto istituzionale, il problema posto dal Colle - prima da D’Ambrosio, poi dal segretario generale del Quirinale e ancora dallo stesso Napolitano - riguarda le conseguenze delle intercettazioni. Dopo la pubblicazione dei verbali e in coincidenza delle celebrazioni per il ventennale delle stragi del ’92 è passato il concetto che lo Stato trattò con la mafia e che fu questo a provocare l’agguato a Borsellino, invano oppostosi alla trattativa. Una trattativa che però resta ancora tutta da dimostrare e che il processo, se e quando si farà, potrebbe anche ridimensionare, o addirittura cancellare, lasciando ingiustificate le ombre allungate in questi ultimi tempi sulle istituzioni. Alle quali invano, tra gli altri, s’era opposto il povero dottor D’Ambrosio.

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« Risposta #506 inserito:: Luglio 27, 2012, 04:29:22 pm »

26/7/2012 - TACCUINO

In silenzio, il leader Pd ha lanciato la sua corsa

MARCELLO SORGI

Sulla nuova legge elettorale lo stallo è completo. La forte pressione venuta dal Colle in questi giorni e i due incontri avuti ieri da Monti con Bersani e Alfano non hanno purtroppo sortito alcun esito. Se ne ricava che anche l’ipotesi di una conclusione anticipata della legislatura, legata all’approvazione della riforma, si allontana. Con tutti quelli con cui ha parlato ieri (in serata ha avuto anche un lungo incontro con Casini e Fini), Bersani ha preso tempo, spiegando che non si fida del Pdl e che un accordo all’indomani dello sgambetto subito al Senato sul semipresidenzialismo è inaccettabile per il Pd. Siamo insomma nuovamente tornati alla fase delle pregiudiziali. Ed è evidente che il segretario del Pd, sulla carta favorito alle prossime elezioni, pur sapendo che alla fine la riforma andrà fatta, teme che l’obiettivo degli altri due partiti della maggioranza sia di fare una legge il più proporzionale possibile, per far sì che chi vince non sia automaticamente in grado di formare un governo subito dopo il voto, e debba necessariamente riaprire le trattative con gli altri per formare una maggioranza in Parlamento.

Sta tutta qui la differenza tra il premio al partito, chiesto da Alfano e gradito a Casini, e il premio alla coalizione, che, pur con tutti i se e i ma legati alle ultime esperienze delle variegate alleanze di centrosinistra, trasformerebbe Bersani quasi automaticamente nel candidato alla guida del governo di una coalizione che potrebbe puntare alla vittoria, soprattutto con Casini alleato.

Il leader dell’Udc, al suo solito, media. Sul ripristino delle preferenze (a cui il Pd contrappone i collegi, un po’ come accadeva col Mattarellum), potrebbe anche trovare l’intesa. Ma il problema, non sfugge a nessuno di quelli che stanno trattando, non è questo o quel tecnicismo, che può influire fino a un certo punto su un risultato elettorale che nessuno è in grado di prevedere. Il punto è un altro: mentre infatti Casini è convinto che dopo il voto, quale che sia il risultato, non c’è altro da fare che rinnovare il mandato a Monti, magari per un governo tecnico-politico sostenuto sempre dalla stessa maggioranza, e mentre Alfano e Berlusconi vedono in questa prospettiva la possibilità di mantenere una quota di potere, senza andare all’opposizione, anche in previsione di un risultato che s’annuncia problematico, Bersani la pensa in un altro modo. In silenzio, e mantenendo un atteggiamento responsabile in Parlamento sui provvedimenti del governo, il segretario Pd ha cominciato un’operazione di sganciamento da Monti e dall’idea di proseguire con la grande coalizione anche dopo il 2013. Non si nasconde le incognite: ma stavolta Bersani ha deciso di giocare fino in fondo la sua partita.

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« Risposta #507 inserito:: Luglio 31, 2012, 04:37:06 pm »

31/7/2012

MARCELLO SORGI

Togliere di mezzo l’ultima scusa accampata dai partiti per rinviare la nuova legge elettorale: era chiaramente questo l’obiettivo di Napolitano, quando per la seconda volta inunmese(laprecedenteerastata il 9 luglio) ieri è intervenuto sull’argomento. La scusa che ha bloccato la trattativa sulla riforma sono le elezioni anticipate: se la legge si fa adesso, dicono tutti, è sicuro che si andrà a votare a novembre. Per questoilCapodelloStatohavoluto ricordare che non è affatto ovvio. E spetta a lui, e a lui solo, la decisione sullo scioglimento delle Camere.

La dichiarazione del Presidente è stata diffusa non a caso prima dell’appuntamento di ieri pomeriggio con Monti, in partenza per un’altra delicata missione europea.Levocisulleelezioni,esull’improbabile crisi pilotata che avrebbe dovuto precederle, erano cominciate a girare la settimana scorsa, dopo il precedente incontro al Quirinale. La sensazione era che, piuttosto di continuare a stentare in un Parlamento proiettato su una campagna elettorale permanente, il premier avrebbe accettato un accorciamento del suo mandato, specie se nato da un impegno dei partiti della sua maggioranza, in vista delle urne, a non discostarsi dagli impegni di risanamento economico presi con l’Europa, e a impegnarsi all’indomani del voto a riprendere con maggior lena il lavoro condotto fin qui.

In quest’ambito, anche se Monti, come ha fatto varie volte negli ultimi tempi, si fosse detto disponibile a farsi da parte, era sottinteso che i partiti che lo hanno sostenuto in questi nove mesi avrebbero potuto, per non dire dovuto, invitarlo a continuare.

Ma è esattamente questa prospettiva che ha creato il subbuglio a cui stiamo assistendo. Il primo ad aver fatto capire di non condividerla è stato Bersani, il quale, non è un mistero, forte del consenso che i sondaggi gli assegnano, punta a costruire un’alleanza di centrosinistra in grado di vincere le elezioni, e ad allearsi con Casini se la vittoria non dovesse essere sufficiente a governare, per avere una solida maggioranza in Parlamento. Coerentemente con questa impostazione, il leader del Pd punta a una legge che assegni un premio elettorale alla coalizione vincente, favorendo così l’avvicinamento dei partiti che puntano a governare insieme, e vedrebbe bene un anticipo delle elezioni che gli consentisse di chiudere rapidamente la partita.

E a sorpresa, disposto ad accelerare, adesso è anche il Cavaliere, che fino a poco fa pensava di aver bisogno di tempo per recuperare. L’ex premier non si nasconde le difficoltà del suo ritorno in campo. Ma si sa: Berlusconi è Berlusconi, e non dispera affatto di poter rimontare. Soprattutto, ora si è convinto che il suo partito, popolato di transfughi pronti ad andarsene con chi gli promette la rielezione, non sopravviverebbe a un altro inverno. Di conseguenza, il primo passo è stato rimettere in piedi l’asse del Nord con la Lega, che ha votato la riforma semipresidenzialista, e sarebbe pronta a rivotare al Senato, dove ancora, seppure sulla carta, ha la maggioranza, il testo di una legge elettorale concordata all’interno del vecchio centrodestra. Un gesto di rottura che ha spinto il Pd a minacciare la crisi di governo. Ma se invece della crisi, in realtà improbabile, la forzatura annunciata dal Pdl bastasse a spostare la trattativa che il Colle è tornato a sollecitare, orientandola verso un’intesa con il Pd e verso una legge che consenta al centrodestra di vincere o di pareggiare senza andare all’opposizione, Berlusconi sarebbe contento.

Chi invece non vede di buon occhio le elezioni è Casini, infaticabile mediatore tra i due maggiori alleati-avversari della maggioranza. E non perché accrescerebbero le possibilità di un ritorno di Monti, stavolta per un governo di legislatura, al quale l’Udc ridarebbe volentieri il suo appoggio. Ma per una ragione più delicata di cui il leader centrista non vuol sentire parlare. Casini è infatti al momento un candidato accreditato alla successione al Quirinale, che si aprirà la prossima primavera. Se Monti si reinsedia a Palazzo Chigi, volenti o nolenti Pd e Pdl, i margini di Pierferdi per negoziare con Bersani e Berlusconi l’ascesa al Colle si riducono di molto. L’ideale, per l’ex presidente della Camera, che è giovane ma ha tutte le carte in regola per proporsi di sostituire Napolitano, sarebbe appunto che si votasse nel 2013, con una legge elettorale che non lo obblighi a dichiarare con chi si allea prima del voto, e trattare successivamente, con chi vince o si piazza meglio, l’appoggio al governo in cambio di quello per la Presidenza della Repubblica.

Legittimi fin che si vuole, ancorché astratti, tutti questi piani non tengono conto di quel che Napolitano ha ribadito ieri nella sua dichiarazione: la rissosità, l’inconcludenza dei partiti, in una fase come questa, in cui l’Italia si gioca ogni giorno il suo destino sui mercati, rischiano di apparire irresponsabili. Anzi, già lo sono. Il Capo dello Stato non può dirlo in questi termini: ma alla vigilia di un agosto come quello che ci aspetta, continuare con l’andazzo politico degli ultimi tempi rasenterebbe la follia. Non resta che augurarsi un precipitoso rinsavimento.

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« Risposta #508 inserito:: Agosto 03, 2012, 07:17:18 am »

2/8/2012 - TACCUINO

Sicilia, via al gioco degli specchi

E il peggio deve ancora venire

MARCELLO SORGI

Anche se si ostina a ripeterlo con chiunque glielo chieda, sembra davvero difficile che il governatore dimissionario della Sicilia Raffaele Lombardo si ritiri a fare il Cincinnato. Lo farà, inevitabilmente, se le accuse sui suoi rapporti con la mafia dovessero essere confermate nel processo che lo attende di qui all’autunno. Ma nel caso, non impossibile, di un proscioglimento, sarà di nuovo in campo.

Le elezioni regionali anticipate ad ottobre rafforzano il ruolo, che la Sicilia ha avuto altre volte nella politica italiana, di laboratorio anticipatore, nel bene e nel male, di quel che sta per accadere a livello nazionale. Sono lontani i tempi in cui si sperimentavano a Palermo il primo centrosinistra o i governi di unità nazionale Dc-Pci. Più di recente, e assai più mediocremente, l’Assemblea Siciliana s’è trasformata in un’enorme provetta di ogni tipo di trasformismo e di frammentazione, con ben cinque maggioranze diverse che si sono trovate a sostenere Lombardo nelle sue giravolte, e un’infinità di scissioni e micro-fratture dei partiti, refrattari ormai a qualsiasi indicazione stabilita a livello nazionale. Al punto che, se i suoi guai giudiziari e il dissesto del bilancio siciliano non lo avessero travolto, il governatore avrebbe potuto continuare all’infinito il suo gioco, che prevedeva di mettersi in mezzo alla girandola impazzita dei novanta membri dell’Ars, per combinare ogni mese un nuovo governo appoggiato da una nuova maggioranza.

Eppure, malgrado la sua immagine arcilogorata, e i risultati catastrofici della sua gestione, politicamente Lombardo resta la prima, forse la principale incognita delle elezioni siciliane, ai cui nastri di partenza già s’affollano una decina di candidati alla successione. Il governatore può tentare di accordarsi con il centrodestra o con il centrosinistra, entrambi usciti scottati dalle precedenti alleanze con lui, ma interessati alla rete di clientele costruita ininterrottamente in questi anni e in grado mobilitare ancora un gran numero di voti. Oppure Lombardo potrebbe decidere di ricollocarsi al centro, per impedire a ciascuna delle due (o più) coalizioni di raggiungere la maggioranza. La legge elettorale siciliana agevola allo stesso modo l’aggregazione e la distinzione tra un partito e l’altro. E come s’è visto, il potere assoluto di sciogliere l’Assemblea e mandare a casa i deputati, fa del governatore (quello che c’è ancora per poco, e quello che verrà) l’unico vero dominus dei giochi politici nella regione. Alla luce di questo, il gioco degli specchi siciliano è appena cominciato. E purtroppo, c’è da temere, il peggio deve ancora venire.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10399
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« Risposta #509 inserito:: Agosto 09, 2012, 05:56:59 pm »

8/8/2012

Il professore parla ai mercati non ai politici

MARCELLO SORGI

All’inizio dell’agosto più temuto degli ultimi anni, per i frequenti rovesci dell’Italia sui mercati, un caso politico come quello che s’è aperto ieri tra Monti e il centrodestra non era proprio da augurarsi. L’intervista in cui il premier ha detto tra l’altro che, senza il passaggio di discontinuità tra il suo governo e quello precedente, lo spread sarebbe arrivato a quota 1200, ha provocato reazioni di protesta del Pdl, che al Senato ha fatto mancare il suo appoggio. E ha reso necessaria una telefonata di chiarimento tra lo stesso premier e Berlusconi, preceduta da una nota in cui Palazzo Chigi spiegava che non c’era alcuna intenzione di attaccare il Cavaliere.

Ma al di là del nervosismo, sempre presente, nella base parlamentare e in parte del gruppo dirigente del Pdl nei confronti del Professore, un interrogativo ieri è rimasto a lungo sospeso.

Nel clima rarefatto della conclusione dei lavori parlamentari e nell’attesa di una pausa feriale che praticamente non ci sarà, la domanda è cosa ha spinto Monti, nel giro di pochi giorni, a rendere più accidentato del solito il cammino del suo governo con due interviste consecutive come quelle a «Der Spiegel» e al «Wall Street Journal». Interviste importanti e piene di cose, perché Monti ha un suo personale codice di comunicazione, e se sceglie di parlare raramente si occupa di questioni contingenti. Ma che tuttavia, seppure in parte contro la sua volontà, hanno determinato reazioni pesanti, costringendo il presidente del Consiglio a correre ai ripari.

Ieri appunto nei corridoi parlamentari, dove fioriscono spesso fantasiosi retroscena, c’era chi attribuiva quelli che a molti occhi politici consumati sono apparsi come infortuni alla stanchezza del premier e alle fatiche che ha dovuto affrontare negli ultimi tempi, tra inevitabili scadenze parlamentari indispensabili per tradurre in realtà la strategia anti-crisi del governo, road-show europei e internazionali per spiegare ad osservatori qualificati il senso del suo lavoro e delusioni per i risultati avari ottenuti finora sul fronte dei mercati, su cui l’Italia da quasi un anno sta combattendo la sua battaglia. È una spiegazione diffusa ma poco convincente, che tende ad assimilare Monti a tutti i governi che lo hanno preceduto e dei quali, con lo stesso cinismo, con la stessa approssimazione, a un certo punto s’è cominciato a dire che erano «cotti».

La verità è che il premier ha detto quel che ha detto nelle sue interviste per ragioni esattamente opposte. Per capirlo bisogna considerare che Monti, sia quando parla alla Camera e al Senato, sia quando si trova all’estero, ha davanti a sé lo stesso orizzonte. Un orizzonte non solo nazionale, ma europeo e in qualche modo globale, dato che non gli sfuggono, ed anzi gli sono costantemente presenti, le dimensioni e i risvolti della crisi economica mondiale. E all’interno del quale, a dispetto di quel che appare, l’Italia da qualche mese grazie ai suoi sforzi è guardata con rispetto e considerazione che non si vedevano da tempo. È a questo nuovo atteggiamento - meno esplicito, meno emergente spesso dell’immagine negativa che il Paese si porta dietro che Monti guarda, cercando di corrispondervi. È questo il motivo per cui insiste sul necessario «cambio di mentalità» degli italiani.

Se ne ricava che quando parla a un giornale o a una tv, stranieri o italiani, Monti segue un suo filo di ragionamento e non si preoccupa delle conseguenze che le sue affermazioni possono provocare ai margini del sistema politico. Vale per la Germania, nel senso che non lo hanno preoccupato i toni elettorali anti-italiani di alcuni politici tedeschi, mentre ha accolto con soddisfazione il gradimento della Merkel alle sue parole su «Der Spiegel». E vale anche per l’Italia. Non solo perché era evidente che i destinatari dell’intervista al «WSJ» non erano i senatori del centrodestra, ma i lettori più attenti dell’autorevole giornale finanziario americano (che non a caso ha presentato l’articolo con l’aggiunta di una serie di analisi e di pareri sul nuovo corso italiano). Piuttosto perché nessuno, a cominciare dagli esponenti del Pdl che lo hanno attaccato, può seriamente dubitare che Monti, per risultare più credibile, debba ricorrere all’antiberlusconismo. Argomenti del genere, semplicemente, non gli appartengono e neppure lo interessano. Li lascia volentieri ai politici che li usano tutti i giorni nella loro campagna elettorale. Ma se ritiene di dover dire che senza il cambio di governo lo spread sarebbe peggiorato, lo dice e basta. Perché pensa, e vuol far capire in tutte le occasioni possibili, che accanto all’Italia che non vuol fare il proprio dovere e ha nostalgia di un passato irripetibile, ce n’è un’altra che a furia di sacrifici sta venendo fuori. La sua Italia, l’Italia di Monti.

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