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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 288400 volte)
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« Risposta #405 inserito:: Dicembre 30, 2011, 10:49:52 pm »

30/12/2011

La riscoperta della mediazione

MARCELLO SORGI

Un punto si può considerare finalmente chiarito dopo la conferenza stampa di fine anno del presidente del Consiglio: il governo Monti sarà pure «tecnico» per definizione, ma «politico», anzi eminentemente politico, è il lavoro che sta facendo. Questo non vuol dire che Monti o qualcuno dei suoi ministri nutra ambizioni particolari nel prossimo futuro, né che intenda candidarsi, al Quirinale (il premier) o ad altro. Ma l’ipocrisia che ha accompagnato fin qui le prime settimane di attività dei tecnici s’è finalmente dissolta ieri nel lungo ping-pong tra il senatore-professore e i giornalisti che lo interrogavano.

Monti è stato bene attento a evitare qualsiasi presunzione legata ai risultati di queste prime settimane di impegno e all’approvazione in tempi record del decreto «salva-Italia». Ma allo stesso modo, evitando giri di parole, ha spiegato chiaramente perché la distinzione tra «tecnica» e «politica», a proposito della natura dell’esecutivo, sia ormai da considerarsi fuori luogo, così come la contrapposizione tra partiti e governo che qualche volta ha scavato in Parlamento una specie di fossato tra il «noi» dei politici e il «voi» dei tecnici.

La ragione di questa operazione-verità, che il presidente del Consiglio non a caso ha voluto compiere davanti a giornali, tv e stampa straniera, è presto detta: Monti realisticamente si ritiene al centro di uno stato di necessità in cui una politica (attenzione: tutta la politica, non solo Berlusconi) giunta al capolinea, e non più in grado in alcun modo di prendere le decisioni necessarie per il bene del Paese, ha dovuto rassegnarsi all’emergenza dei tecnici. Ma d’altra parte è consapevole che il governo, per svolgere la sua opera di risanamento, deve trovare con i partiti e con la politica il massimo di intesa possibile.

Detta in altre parole, come l’avrebbe definita Andreotti, o un altro dei presidenti del Consiglio classici della Prima Repubblica, è una riscoperta della mediazione, strumento principe di una politica rivalutata e riproposta come arte del possibile, cancellata da anni di contrapposizioni frontali e bipolarismo muscolare. O, se si preferisce, è un rilancio della normalità della stessa politica, in cui il governo, soprattutto per quel che è nella sua responsabilità, propone, i partiti riflettono e fanno le loro controproposte, in Parlamento si discute e in tempi ragionevoli si arriva a una decisione.

Cosa tocchi fare all’Italia è ormai chiaro, e dove fosse arrivato il Paese prima di affrontare la «cura Monti» altrettanto. Come possa e debba essere praticata la terapia è ovviamente oggetto di dibattito: si tratta di salvare e non di ammazzare l’ammalato, che versa in condizioni gravi, i margini di intervento, tutti lo sanno, sono ridotti, e il tempo a disposizione è poco, anche se Monti ha dato appuntamento a fine 2012 per un’altra conferenza stampa, riconfermando implicitamente l’orizzonte del 2013, già delineato in Parlamento in occasione della fiducia.

Per questo, già pago della quantità di cose che deve realizzare, il governo si guarderà bene dall’intervenire in materie come la legge elettorale o le riforme istituzionali, solo per fare due esempi, che non rientrano nel suo programma e nell’elenco delle sue urgenze. Ma sbaglierebbero i partiti a non approfittare dell’occasione di questa tregua per affrontare questioni importanti come queste.

Alla fine, l’unica domanda che è rimasta in sospeso è se davvero, come molti politici continuano a pensare, questa del governo tecnico debba essere considerata una parentesi, e fino a che punto, in attesa del ritorno al passato, oppure no. Monti sicuramente aveva una risposta anche in questo caso, ma non ne ha parlato. Perché nessuno gliel’ha chiesto. E soprattutto perché certe verità sono difficili da dire.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9597
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« Risposta #406 inserito:: Gennaio 03, 2012, 11:41:31 am »

3/1/2012 - TACCUINO

Quel dialogo che spaventa i grandi partiti

MARCELLO SORGI

Pur limitata nel tempo dalla necessità di verificare in breve la possibilità di un accordo, e legata alle scadenze della fitta agenda internazionale del governo a gennaio, l'apertura di Monti ai sindacati ha avuto l'effetto di muovere una certa fibrillazione nella maggioranza. Il centrodestra teme uno sbilanciamento dell'esecutivo a vantaggio del centrosinistra e rivendica, con Cicchitto e Quagliariello, una consultazione politica preventiva con il Pdl. Il centrosinistra sa che in materia di lavoro Monti è vincolato alle richieste europee di maggiore flessibilità (tuttora argomento di confronto interno nell'exopposizione), e insiste sulle liberalizzazioni.

In realtà tutti prendono tempo aspettando di vedere che piega prenderà la trattativa tra la ministra del lavoro Elsa Fornero e le delegazioni sindacali. Anche se il governo ha formalmente ritirato l'accenno alla possibilità di rimettere in discussione l'articolo 18, cioè la materia dei licenziamenti, le posizioni di partenza sono molto lontane. Da parte di Palazzo Chigi c'è disponibilità a intervenire per uno snellimento delle procedure e per uno sblocco dei lavori pubblici già finanziati, ma non ci sono soldi per piani di intervento vecchia maniera a sostegno dell'occupazione, come quelli che continuano a invocare i sindacati.

Se Monti ha preso l'iniziativa, tuttavia, dopo la mancata concertazione del decreto "salva-Italia", che aveva ricompattato Cgil, Cisl e Uil portandole allo sciopero generale, non dev'essere stato solo per fare un tentativo formale di riaprire un filo di comunicazione destinato a chiudersi rapidamente. Al contrario, il premier deve aver percepito la necessità per le organizzazioni sindacali di ritrovare un minimo di dialogo con il governo.

Dopo la prima reazione negativa del centrodestra, dunque, le difficoltà, una volta aperta la trattativa, potrebbero spostarsi nel centrosinistra, sottoposto a una notevole pressione che verrà, non solo dai sindacati, ma anche dal pezzo di società civile più vicino al Pd e più insoddisfatto dell'ondata di sacrifici che il partito sta condividendo. Al momento, data la dimensione dei problemi, è impossibile escludere una rottura. Ma se si ragiona sul metodo, più che sui contenuti della trattativa (per i quali, in certi casi, ma non subito, è lecito prevedere un secondo tempo), è difficile che, sia i sindacati, sia il centrosinistra, si lascino sfuggire l'occasione che il Presidente Napolitano nel suo discorso di Capodanno, e Monti con l'apertura del tavolo per la trattativa, hanno seriamente messo sul tavolo.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9609
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« Risposta #407 inserito:: Gennaio 05, 2012, 07:53:08 pm »

5/1/2012 - TACCUINO

Cambia passo la strategia di Monti per la fase due

MARCELLO SORGI

L’annuncio dell'incontro con la Merkel previsto per mercoledì prossimo e l'incontro informale della ministra del lavoro Fornero con la segretaria della Cgil Camusso hanno aggiunto ieri due elementi rilevanti alla strategia di Monti sta per la fase due del lavoro del governo.

Mettendo a segno a gennaio, prima del vertice europeo di fine mese, tre confronti decisivi come quelli con la cancelliera tedesca, con il presidente francese Sarkozy e con quello americano Obama, Monti intende, da un lato sottolineare come nel giro di due mesi l'Italia sia riuscita a risalire la china della propria credibilità internazionale, e ribadire, dall'altro, al suo ritorno a Roma, che il Paese proprio per questo dovrà continuare a tener conto dei vincoli che la crisi mondiale impone a tutti, e in special modo a chi in questo momento in Europa riveste il ruolo di sorvegliato speciale.

E' la classica tattica politica dello stato di necessità: in cui si inquadra perfettamente l'incontro a sorpresa Fornero-Camusso all'indomani delle dure polemiche della Cgil contro la decisione del governo di prevedere riunioni bilaterali con singole organizzazioni sindacali piuttosto che i classici tavoli collettivi. Scopo dell'incontro era appunto rimuovere qualsiasi pregiudiziale o equivoco che potessero rappresentare ostacoli alla procedura che il governo intende adottare per mettere a parte i sindacati della strategia del governo mirata a rimettere in moto la crescita, obiettivo irrinunciabile per cui viene da Bruxelles una pressione quotidiana, ribadita anche ieri in un intervento del capo dell'Eurogruppo Juncker.

Fornero ne ha approfittato per cercare di convincere Camusso che, pur essendo diverse e abbastanza divergenti dalle richieste sindacali, le decisioni che il governo si accinge a prendere puntano egualmente a dare una scossa al mercato del lavoro, afflitto dalla stagnazione e da una serie di complicati focolari di crisi aziendali, che non a caso hanno spinto i sindacati a lanciare l'allarme sul possibile inasprimento della tensione sociale.

Al di là di un reciproco impegno a fare ogni sforzo per trovare un'intesa, tuttavia l'incontro non ha portato effetti pratici, anche se da tutte e due le parti s'è lavorato per evitare la sensazione di un nulla di fatto. Ma se una vera trattativa alla fine non potrà aprirsi, sarebbe già un risultato riuscire ad evitare una vera rottura, che indebolirebbe il governo nella fase delicata in cui si prepara a negoziare con la Ue un percorso meno impervio di quello adottato finora per affrontare la crisi.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9617
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« Risposta #408 inserito:: Gennaio 10, 2012, 10:21:53 am »

10/1/2012 - TACCUINO

Il "riscatto" dei partiti passa per la legge elettorale

MARCELLO SORGI

La ripresa politica dopo la parentesi delle festività trova i partiti, e non solo quelli della larga maggioranza che sostiene il governo, in difficoltà. Nessuno lo ammetterà mai esplicitamente, ma è evidente che si sta allargando la distanza tra il presidente del consiglio proiettato a negoziare in Europa con Francia, Germania e Inghilterra le strategie anticrisi, e le forze politiche italiane, da destra a sinistra, impegnate a misurarsi sui contenuti della fase due del governo, dalle liberalizzazioni al mercato del lavoro, per cercare di contenerne gli effetti sul proprio elettorato.

Nei corridoi di Montecitorio si parla apertamente di una sorta di «resa» della politica al «ciclone» Monti, e dopo le prime, deboli reazioni di domenica sera, l'intervista del premier a Fabio Fazio su Rai 3 è stata letta come l'annuncio di una nuova serie di iniziative del governo sulle quali ai partiti resterà ben poco da dire. E che il Parlamento non potrà che approvare sollecitamente, sotto la spinta, sia dei mercati, sia di tutti gli indicatori di crisi che continuano ad essere allarmanti rispetto all'Italia.

Nell'immediato i due banchi di prova su cui la politica potrebbe cercare riscatto sono la legge elettorale e la riforma del mercato del lavoro. Sulla prima si comincia a vedere qualcosa di più di segnali di fumo tra centrodestra e centrosinistra, e la decisione della Corte costituzionale sui referendum, attesa per domani, non potrà che funzionare da acceleratore di un confronto fin qui pigro, specie se la sentenza che uscirà dal Palazzo della Consulta sarà a favore dell'ammissibilità delle consultazioni. Accanto alle due ipotesi prevalenti di sistemi più proporzionali, copiati da quello tedesco o da quello spagnolo, comincia a circolare un'ipotesi, ufficiosa ,a maturata tra i promotori dei referendum, di una specie di Mattarellum diluito, metà maggioritario con collegi uninominali e metà (non più un quarto, com'era fino al 2001) proporzionale: un tentativo di aggirare le resistenze del Terzo polo, che vedono nel ritorno alla vecchia legge, che potrebbe uscire dalle urne referendarie, un modo di riobbligarlo a dichiarare le proprie alleanze prima del voto.

Quanto al lavoro, il Pd sembra vicino all'uscita dal lungo travaglio che lo ha tormentato in queste settimane e al parto di una proposta unitaria sulla flessibilità che dovrebbe essere sottoposta al governo. Una svolta destinata ad influire anche sul confronto tra la ministra del lavoro Fornero e i sindacati, che fin qui ha segnato il passo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9634
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« Risposta #409 inserito:: Gennaio 11, 2012, 11:38:03 am »

11/1/2012

Ora ci vuole l'operazione trasparenza

MARCELLO SORGI

Le dimissioni del sottosegretario Malinconico - lungamente rifiutate dall’interessato per giorni e giorni, e velocemente ottenute da Monti ieri mattina - rappresentano il primo serio inciampo del governo o piuttosto una nuova prova del potere semiassoluto del presidente del consiglio? Visto l’andamento dei fatti, si sarebbe portati alla seconda risposta, dal momento che Malinconico, anche senza conoscerlo, sembra uno dei tecnici entrati nel governo più per effetto del compromesso finale sulla lista, tra Monti e i partiti, che non per diretta scelta del premier.

Da questo punto di vista il caso è a suo modo emblematico e rivelatore di un compromesso non riuscito - e forse neanche cercato - tra la squadra di professori, manager e funzionari di lungo corso europeo portati da Monti e il gruppo di grand commis, consiglieri di Stato e capi di gabinetto romani imbarcati per bilanciarli, quando non per controllarli o ostacolarli. Due mondi, due culture, due modi di muoversi, totalmente inconciliabili, come si sapeva da prima di metterli insieme. E costretti ciò malgrado a convivere solo in nome della provvisorietà con cui i partiti, i politici, la politica nel suo complesso, si sono adattati alla magra stagione dei tecnici.

Il curriculum di Malinconico, da questo punto di vista, era perfetto: da Andreotti a Dini, D’Alema, Prodi (con Berlusconi stava all’Antitrust e all’Autorità per l’energia), era stato a diverso titolo in quasi tutti i governi, al vertice o poco più sotto, sempre in buoni rapporti con chiunque e grato per la benevolenza d’Oltretevere, che accettava discretamente, senza ostentarla. Quel che invece non andava - e avrebbe dovuto tenerlo fuori dal governo Monti - era la già nota, dal 2009, e imperdonabile leggerezza con cui aveva accettato nel 2008 di farsi pagare una vacanza di lusso da un imprenditore appaltatore dello Stato; e la fiorente e privata attività di consulenza, solo di recente trasferita alla moglie, che si intrecciava alle sue rilevanti responsabilità pubbliche.

In linea di massima, va detto, non c’è nulla di male che un funzionario, un (ex) consigliere di Stato, uno specialista dei meccanismi, per non dire del malfunzionamento, della pubblica amministrazione, si trovi a servire più governi, anche di orientamento politico differente: perché ogni presidente del Consiglio e ogni ministro ha bisogno del suo tecnico per concretizzare le proprie decisioni e sfuggire alle lungaggini, talvolta alle paralisi, che la macchina amministrativa impone a tutti, senza distinzione di colore o di tessera.

Ma proprio per la delicatezza di questo lavoro e per l’immediata percezione che ne hanno i cittadini, è necessario che avvenga nella massima trasparenza, e se possibile con frequenti rotazioni: per impedire, sia la nascita di una casta, questa sì, un élite privilegiata, in cui gli incarichi vengono eternamente spartiti con gli stessi criteri; sia che le incrostazioni vengano coperte o rimosse seguendo logiche e interessi non sempre chiari, e lasciando la sensazione, alla fine, che una mano lava l’altra e non se ne parla più.

Esigenze come queste, già forti e irrinunciabili di per sé, lo diventano ancor di più quando i tecnici salgono di un gradino e vanno a sedere al posto dei politici. Bene ha fatto, dunque, Monti a pretendere le dimissioni che Malinconico non voleva dare. Ma non basta. A questo punto serve un’accelerata per la promessa operazione trasparenza che già un mese fa doveva portare a conoscere le radiografie dettagliate dei patrimoni e degli interessi di tutti i membri del governo. Una bella lenzuolata di dati sensibili: ecco quel che ci vuole, per ridare fiducia ai cittadini che proprio in questi giorni stanno facendo i conti con i sacrifici imposti dalla crisi. E per evitare, non si sa mai, che dalle pieghe di un passato che non passa venga fuori qualche altro caso, dopo quello risolto in fretta e furia solo ieri.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9636
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« Risposta #410 inserito:: Gennaio 12, 2012, 12:23:55 pm »

12/1/2012 - TACCUINO

Due ostacoli sulla strada di Monti

MARCELLO SORGI

Il buon risultato dell’incontro con la Merkel, e più in generale della missione europea condotta fin qui dal premier Monti, rischiano oggi di essere rimessi in discussione da due eventi molto attesi: la sentenza della Corte Costituzionale sui referendum e il voto sull’autorizzazione all’arresto del coordinatore campano del Pdl Nicola Cosentino.

Per la prima, il rinvio da ieri ad oggi da parte dei giudici della Consulta, riuniti dalle prime ore del mattino, ha avvalorato le indiscrezioni su una possibile sentenza «articolata» o «paralegislativa», come viene definita tecnicamente, che potrebbe mettere insieme il «no» alle consultazioni referendarie ma anche all’attuale legge elettorale Porcellum, che il Parlamento, come altre volte la Corte ha fatto in passato su materie spinose e politicamente sensibili, verrebbe invitato a cambiare in tempi brevi. Si tratterebbe di una decisione interlocutoria, sicuramente contestata dai promotori dei referendum, ma meno dai partiti che tornerebbero arbitri delle nuove regole da darsi di qui alle prossime elezioni politiche del 2013. Se invece la Consulta spianasse la strada al voto referendario, i tempi per mettere a punto una nuova legge elettorale aggirando la consultazione si accorcerebbero di molto, perché le urne, secondo la legge, dovrebbero aprirsi tra il 15 aprile e il 15 giugno. Di qui il timore che, piuttosto che ritrovarsi con il ritorno del Mattarellum, il risultato considerato più probabile, i partiti possano puntare ad elezioni anticipate con la vecchia legge, rinviando all’anno prossimo il confronto sulla nuova legge elettorale.

Più complesse le conseguenze del voto sull’arresto di Cosentino. La svolta di Bossi, che ieri sera ha trasformato il sì al carcere della Lega in un invito ai deputati ad agire secondo libertà di coscienza potrebbe sovvertire le previsioni favorevoli all’arresto. Per tutto il giorno s’è diffusa la sensazione di un lavorìo del Pdl e di Berlusconi in prima persona mirato a favorire un congruo numero di ripensamenti tra i deputati. Ma si tratterebbe di provocare almeno una cinquantina di cambi di campo, obiettivo non facile da ottenere. In un caso o nell’altro, si concluda cioè la vicenda con un «sì» o con un «no» all’arresto, la spaccatura che per la prima volta si aprirà nella maggioranza, tra il centrosinistra e il centrodestra, è destinata a lasciare strascichi, approfondendo, nel campo che risulterà sconfitto, le riserve sulla difficoltà di collaborare nella stessa maggioranza con quelli che fino a due mesi fa erano i propri avversari.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9641
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« Risposta #411 inserito:: Gennaio 13, 2012, 05:13:30 pm »

13/1/2012 - TACCUINO

Il doppio "no" rafforza il governo

MARCELLO SORGI

Pur diversi ed eterogenei tra loro, i due no, della Camera all'arresto del coordinatore campano del Pdl Cosentino, e della Corte costituzionale ai referendum elettorali, avranno lo stesso effetto di consolidare il governo e la sua maggioranza. Il voto su Cosentino s'era politicizzato anche più del dovuto a causa dell'intervento in extremis di Bossi, mercoledì sera, per lasciare libertà di coscienza ai deputati del suo partito, che solo due giorni prima avevano votato in commissione a favore dell'autorizzazione al carcere. La spaccatura che ne è seguita nel gruppo parlamentare del Carroccio ha visto alla fine vincente Bossi contro Maroni e ha premiato la tenace insistenza di Berlusconi sulla linea del salvataggio a tutti i costi del suo ex sottosegretario. I numeri della votazione somigliano molto a quelli raggiunti le ultime volte dal governo del Cavaliere, ma nel segreto delle urne deve esserci stato parecchio movimento, al punto da far sospettare, nelle chiacchiere da Transatlantico, che sia il Terzo polo che il Pd, formalmente schierati per le manette a Cosentino, abbiano scontato un bel gruppetto di franchi tiratori, più o meno autorizzati, anche per evitare l'effetto destabilizzante che l'eventuale autorizzazione avrebbe potuto avere.

Un analogo ragionamento si può fare per i referendum. Per quanto preparata con due giorni di camera di consiglio volti a motivarla con raffinate argomentazioni giuridiche, la decisione della Consulta va politicamente nel senso del rafforzamento del governo, che in mancanza del voto referendario non dovrà più temere dai partiti che lo sostengono tentazioni di scioglimento delle Camere. Da adesso alle elezioni del 2013 c'è almeno un anno per trattare e arrivare a un accordo su una nuova legge elettorale, dato che la Consulta, nelle motivazioni della sentenza, quasi certamente sancirà una mezza incostituzionalità del Porcellum. Non sarà facile trovare un'intesa, ma cercarla senza la pressione della scadenza referendaria e la tendenza al restauro del Mattarellum sarà di sicuro meno arduo. Il grande sconfitto della giornata, su Cosentino e sui referendum, è Di Pietro. L'ha presa male: il pesante attacco da lui rivolto al Quirinale rivela uno sbalzo di pressione, oltre che una caduta di stile istituzionale, che un leader di lungo corso non dovrebbe mai avere.


da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9645
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« Risposta #412 inserito:: Gennaio 16, 2012, 11:57:52 am »

Cultura

15/01/2012 -

Guttuso, lunga marcia nelle molte Italie

Renato Guttuso (Bagheria, 26 dicembre 1911 - Roma, 18 gennaio 1987)

A 25 anni dalla morte (e cento dalla nascita) dell’artista siciliano

Dal fascismo al comunismo, dalla guerra al boom, ai dubbi religiosi

MARCELLO SORGI

Una parola, l’Italia di Guttuso. Meglio parlare delle sue molte Italie, quella di Garibaldi e poi di Giolitti, di Mussolini e degli intellettuali di regime, quella democristiana e comunista e poi craxiana, fino al sigillo finale di Andreotti. Una, due vite, a cavallo di uno, due secoli, percorsi insieme con leggerezza, cupezza e inguaribile ambiguità siciliana, molta curiosità, un certo uso di mondo e gusto della contraddizione.

Nato il 26 dicembre 1911 (ma denunciato all’anagrafe solo il 2 gennaio del ’12) a Bagheria, in una famiglia piccolo-borghese di provincia - padre agrimensore, nonno garibaldino combattente nella battaglia di Ponte Ammiraglio alle porte di Palermo, alta aristocrazia nelle amicizie giovanili e nell’innamoramento per la figlia del Duca di Salaparuta, Topazia Alliata -, Renato Guttuso, di cui in questi giorni ricorre il centenario della nascita e il venticinquennale dalla morte (18 gennaio 1987), si ricorda soprattutto per la sua irrequietezza da artista, per l’insofferenza a vivere entro un orizzonte limitato, per il desiderio continuo di allontanamento, evasione, conoscenze ed esperienze sempre nuove.

La madre Giuseppina lo voleva avvocato, il padre Gioacchino, che per diletto cantava, suonava il flauto e dipingeva acquarelli, riconobbe subito il suo talento. Guttuso non aveva ancora vent’anni quando, in pieno fascismo, superate le selezioni locali e con la sola scuola dei decoratori di carretti siciliani, esponeva i suoi primi quadri alla Quadriennale e poi alla Biennale, proiettandosi sul piano internazionale. Era arrivato nel ’31 nella Milano fascista, intellettuale e un po’ frondista di Bottai e della rivista Corrente, del premio Bergamo contrapposto al premio Cremona, a Farinacci e all’ortodossia del regime. Trova De Grada, Vittorini e Quasimodo, scrittori, che svernano nell’ambiziosa galleria «Il Milione»; lo scultore Manzù così povero che una sua figlia morirà di denutrizione; i pittori Birolli e Sassu che finiranno arrestati nel ’35 nella prima grande retata contro gli antifascisti.

Il momento della conversione, dal fascismo all’antifascismo, viene nel ’37 a Roma, alla vigilia delle leggi razziali, quando Guttuso incontra Francesco Trombadori e per suo tramite la scuola pittorica romana, il cinema di Luchino Visconti e successivamente, nel ’40, il Pci clandestino di Togliatti, non ancora rientrato in Italia, e Alicata. A Metelliano, in Toscana, nella villa del collezionista mecenate Umberto Morra di Lavriano, conosce Bobbio, Capitini e lo stato maggiore di «Giustizia e libertà», ritratti in un disegno storico che qualche anno fa ha rivisto la luce a Torino. Bernard Berendson lo accompagnerà a Firenze. Mentre Bottai tollererà finché potrà l’eresia del giovane e molto amato pittore siciliano: il momento della rottura è nel ’43, quando Guttuso dipinge la sua Crocifissione, con la Maddalena nuda che abbraccia il corpo di Gesù, e spunta la sconfessione di Farinacci, seguita dalla scomunica del Papa.

Nel ’48 Guttuso è a Wroclaw, con Picasso e Neruda alla prima grande marcia della Pace. Da Bagheria alla Polonia sovietizzata della guerra fredda e della cortina di ferro che divide l’Europa, ha già fatto molta strada. Intellettuale organico, ancorché intimamente ironico, del movimento comunista (e stalinista) internazionale, è passato definitivamente nell’altro campo.

Ma a questo punto, per seguire la sua evoluzione, si possono allineare come pietre miliari i suoi quadri più importanti. Per rileggere, nella Crocifissione, il dolore e la desolazione della guerra, e nell’Occupazione delle terre la disperazione e la fame dei contadini siciliani, su uno sfondo oppressivo da girone infernale dantesco. Gli Anni Cinquanta porteranno un brusco cambio di scena descritto in due quadri fortemente simbolici, La spiaggia e il Boogie-woogie, con i nuovi riti di massa dell’inurbamento e delle vacanze sfrenate, la scoperta dei balli, dei divertimenti, dello stile di vita consumista che vengono dall’America, il progresso e il boom economico che Guttuso, con logica quanto arretrata visione anticapitalistica, percepisce come autentica «tragedia metropolitana». Salvo poi ripensarci, avvertendo il bisogno di modernità, culture e idee innovative, e trovando nell’Edicola, luogo dell’informazione, una sorta di santuario laico a cui si accosta un cittadino avido di conoscenza.

Dopo un altro decennio, e siamo nel ’72, saranno I funerali di Togliatti - con l’immagine pop della bara circondata di fiori colorati, che ricorda la copertina del Sgt. Pepper’s dei Beatles -, a chiudere il periodo dell’impegno, quando già il leader comunista è scomparso da un pezzo. Ma prima c’è un curioso episodio che porta Guttuso, in libera uscita dai rigori comunisti antisessantotteschi del suo partito, ad affrescare un muro della facoltà romana di Architettura accanto a Paolo Liguori e agli extraparlamentari del gruppo degli «Uccelli». E c’è un documentario, La rabbia, girato con Pasolini, suo stretto amico.

La nuova epoca guttusiana che verrà è inizialmente malinconica, di ricerca. C’è, nel ’76, la Vucciria: il vecchio e variopinto mercato siciliano sintetizza tutto il mondo antico che scompare, è Palermo ma potrebbe essere Marrakech o Tashkent, operai, contadini e lotta di classe non ci sono più. La desolazione di un cimitero di auto abbandonate è solo una tappa, mentre premono, sulla tela, donne nude o seminude che parlano, ballano o spettegolano tra loro nel grande quadro della Piscina.

Non si può capire Guttuso senza considerare il suo grande amore per le donne. Due in particolare, tra le tante che affollarono la sua esistenza: la moglie Mimise Dotti, artefice del suo successo iniziale e dell’accreditamento nel difficile ambiente politico, culturale e mondano della Roma fascista dei gerarchi. E Marta Marzotto, musa dell’ultima stagione, simboleggiata nella tigre che si aggira nervosa nel giardino del suo studio, nel quadro La visita della sera.

L’ultimo è il periodo dell’Italia craxiana, che come a molti vecchi comunisti anche a lui non piaceva. E del ripiegamento, del rifiuto degli obblighi della vita pubblica da senatore, dell’anzianità combattuta con ritmi frenetici di lavoro nei tre studi di Roma, Velate e Palermo, di una vita più ritirata, con gli amici con cui amava giocare a scopone tutti i giorni. Sono anche gli anni della lite con Leonardo Sciascia, e di un dubbio religioso più esplicito, che, pur presente da tempo nella sua vita (si pensi, ancora una volta, alla Crocifissione, o al terribile Gott mitt uns, in cui Dio è schierato con i tedeschi), resterà segreto fino all’ultimo.

E sarà in qualche modo consacrato, alla fine, nella surreale messa celebrata in casa, poco prima della morte di Guttuso, dal cardinale andreottiano Angelini, davanti allo stesso Andreotti e a Tatò, segretario di Berlinguer. E dal funerale cattocomunista a Santa Maria della Minerva, in cui non a caso Bo e Moravia si alzano a parlare uno dopo l’altro, mentre Iotti e Fanfani, emblematicamente, aprono allineati il corteo che accompagna la bara.

da - http://www3.lastampa.it/cultura/sezioni/articolo/lstp/438290/
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« Risposta #413 inserito:: Gennaio 17, 2012, 10:55:22 am »

17/1/2012

La strada obbligata per i partiti

MARCELLO SORGI

Se doveva segnare la nascita della Grande coalizione e la fine della collaborazione stentata tra i tre partiti che sostengono il governo, il primo pranzo ufficiale tra Monti, Alfano, Bersani e Casini non ha raggiunto del tutto il suo obiettivo. La maggioranza politica e la svolta verso una piena alleanza che in tanti si aspettavano non ci sono ancora. Come hanno sottolineato, tra l'altro, i leader di Pdl e Pd, avversari diretti fino a due mesi fa, e non ancora pronti a stringere un patto senza riserve. Se invece si misura quanto è accaduto ieri a Palazzo Chigi con il metro dello scontro all'ultimo sangue e delle lotte intestine degli ultimi mesi del governo Berlusconi, il risultato, va detto, ha del miracoloso.

Basti solo considerare la disponibilità espressa dai nemici di ieri di firmare insieme di qui a poco una mozione unitaria, che dia a Monti tutto l'appoggio parlamentare di cui ha bisogno, per tornare a trattare con i partners europei una strategia comune mirata a uscire dalla crisi dell'euro.

Qualcosa del genere sarebbe stato impensabile nel Parlamento del 2011, in cui anche le questioni più piccole facevano da detonatore a incendi quotidiani, pericolosi quanto inutili.

Da questo punto di vista va dato atto ad Alfano e Bersani, al di là della loro ufficiale limitata disponibilità, di essersi mossi con serietà e consapevolezza. Forse non avevano altra scelta, in una giornata in cui il presidente della Bce Draghi e quello del Consiglio europeo Van Rompuy ribadivano il loro allarme, in termini drammatici mai usati prima, e in cui la Grecia di nuovo è apparsa vicina al default. Ma questo non sminuisce in alcun modo il valore del loro senso di responsabilità.

Resta il fatto che esiste una differenza tra Casini, per cui il sostegno a Monti è strategico, e i segretari di Pdl e Pd, che continuano a negoziare volta per volta l'appoggio al governo. E bisognerà capire quanto sia ancora un gioco delle parti e quanto al contrario riveli un'effettiva divergenza tra i tre. In altre parole, il leader del Terzo polo pensa, pur senza dirlo apertamente, che Monti e la larga maggioranza di cui il governo dispone siano indispensabili oggi e continueranno a restare necessari domani, anche dopo le elezioni del 2013, per completare l'azione di risanamento economico del Paese i cui tempi si annunciano ogni giorno più lunghi.

Mentre Alfano e Bersani - che fanno i conti, all'interno dei rispettivi partiti, con una vasta gamma di resistenze, e pagano per questo un prezzo più alto per la solidarietà al governo - non sanno ancora se sia più facile per loro stringere una vera alleanza o prepararsi a una nuova competizione. La decisione non è affatto semplice, dipende da molti fattori e in fondo non è neppure tutta nelle loro mani. Infatti, come s'è visto nelle ultime settimane, Monti in Europa è una garanzia per tutti ed è impossibile prescinderne. Se, Dio non voglia, la crisi dell'euro continuerà ad avvitarsi, l'ora di prendere atto di trovarsi su una strada obbligata arriverà anche per Pdl e Pd.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9658
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« Risposta #414 inserito:: Gennaio 18, 2012, 10:12:28 pm »

Politica

16/01/2012 - intervista

Casini: sulla legge elettorale l’accordo in aula è possibile

"Questo governo non è una parentesi, chi lo pensa sbaglia. Deve lavorare in pace"

Marcello Sorgi
Roma

Presidente Casini, tutti i veli sono caduti: oggi Monti incontra voi segretari della maggioranza alla luce del sole, senza più doversi nascondere.

Com’è nata la svolta?
«Vede, in politica c’è sempre un po’ di ipocrisia: da quando è nato il governo, ci siamo visti con Monti, come tra noi della maggioranza, altre volte. Domani è la prima volta che accade ufficialmente, ma non direi che è un fatto sconvolgente».

Sarà soddisfatto, lei che ha tanto premuto per far uscire questa maggioranza dalla clandestinità.
«A me sembra normale che con tutto quel che sta accadendo e nel vivo di un cambiamento positivo di rapporti tra Italia e Europa, chi appoggia il governo discuta delle prospettive. Se vuole la mia valutazione, ritengo che noi abbiamo fatto il primo passo per uscire dall’isolamento in cui eravamo con il governo Berlusconi, abbiamo dimostrato di poter essere credibili con la manovra di dicembre, con gli impegni presi per il pareggio di bilancio nel 2013 e con il programma di liberalizzazioni che sta per essere varato. Adesso però dobbiamo trovare il modo di ottenere dall’Europa risposte concrete sul rafforzamento del fondo salva-Stati, sul ruolo della Bce e sull’effettiva difesa dell’euro dagli attacchi speculativi che continuano».

Non crede che l’Italia paghi ancora il prezzo dell’appoggio incerto dei partiti al governo? Non passa giorno che non si alzi qualcuno a dire che Monti deve avere più rispetto per i politici, altrimenti…
«Da parte mia come del Terzo polo non c’è nessuna intermittenza nell’appoggio al governo, che sosteniamo a testa alta. E per quanto riguarda la maggioranza, per noi è politica come sono tutte quelle che votano i governi in Parlamento, ci mancherebbe altro».

E allora perché tutte queste precisazioni? Non è il nostro governo, non è la nostra manovra: certi momenti sembra ci sia una gara a prendere le distanze da Monti.
«Se guarda la sostanza converrà che il governo finora ha potuto realizzare il suo programma. Che poi i partiti intervengano per chiedere qualche aggiustamento, anche questo rientra nella normalità dei rapporti politici. E che dopo vent’anni di bipolarismo imperniato sulla reciproca demonizzazione di Berlusconi e dei comunisti, Alfano e Bersani si muovano con cautela è comprensibile. Noi per questo avevamo proposto un armistizio politico con l’ingresso nel governo anche dei rappresentanti dei partiti. Sarebbe stata una soluzione più forte».

Per questo gira voce di un rimpasto per rafforzare il governo inserendo ministri politici?
«Lo escludo. Non ha più senso riaprire quel discorso. Ormai il governo così com'è deve poter lavorare in pace e arrivare alla sua scadenza».

La scadenza naturale del 2013, o le elezioni anticipate, di cui malgrado tutto si continua a parlare?
«Io quando sento ancora discutere di elezioni anticipate mi domando se chi ci pensa ha capito veramente in che situazione ci troviamo. L’idea che questo governo debba essere considerato una parentesi, da chiudere al più presto, per tornare alla normalità, circola purtroppo, ma è fuori dalla realtà. Occorre rendersi conto che se abbiamo dovuto chiamare Monti a fare quel che sta facendo è dipeso dall’incapacità della politica di affrontare i problemi che essa stessa aveva creato. Era tutto chiaro da tempo: ma né Prodi, né Berlusconi, con i loro due ultimi governi, sono stati in grado di trovare e mettere in pratica le soluzioni. Con questo non voglio dire che la colpa sia solo loro, anzi Alfano ha ragione quando dice che è ingiusto scaricare le responsabilità solo sul governo appena caduto».

Però c’è anche chi obietta che, dopo tutti gli sforzi imposti da Monti, la crisi è allo stesso punto.
«Chi pensa questo sbaglia. Abbiamo molti anni da recuperare. Per decenni la politica ha consentito al Paese di vivere al di sopra delle proprie possibilità, scaricando il debito sulle future generazioni. Magari fosse questione di settimane, o di mesi. La strada è molto lunga e sulla nostra capacità di resistenza ci giochiamo tutto, a cominciare dalla nostra credibilità in Europa. L’idea che non siamo capaci di darci regole severe per sempre in fondo è quel che giustifica le resistenze tedesche della Merkel e dell’opinione pubblica del suo Paese - a venirci incontro».

Tra i peones del Parlamento si teme che la permanenza del governo tecnico, specie se produrrà risultati, possa far apparire la politica come origine dei guai.
«Se la politica sa approfittare di questa fase per riformare se stessa, un timore del genere è ingiustificato. Abbiamo molto da fare: non si tratta solo di agire sui costi della politica, ma di riformare il bicameralismo, i regolamenti, la legge elettorale».

E lei crede davvero che si possa far questo nei pochi mesi di qui alla scadenza del 2013?
«Io penso che un'intesa su questi punti sia possibile e a portata di mano. Sulla distinzione di ruoli tra Senato e Camera c’è larga condivisione. La riduzione del numero dei parlamentari di almeno cento dalla prossima legislatura e di un terzo a partire dalla successiva è assolutamente necessaria. E sui regolamenti Luciano Violante ha messo a punto un progetto assai puntuale. Certo, si tratta di lavorare seriamente. Se invece continuiamo a vivacchiare, allora sì, il rischio che la sfiducia nella politica prevalga è reale».

Non le chiedo dell’antipolitica: se la sono presa con lei e con due suoi colleghi perché a Natale siete andati alle Maldive. Ma sia sincero: si è pentito di avere scelto quella vacanza in un clima come questo?
«Le dico la verità: se dopo tanti anni di vita politica messi continuamente al vaglio degli elettori, il rilievo è di essere andato in vacanza dieci giorni con la mia famiglia, me lo prendo e accetto le critiche. Ma attenti a spingere il qualunquismo, perché per questa strada si arriva a contestare il cotechino di Monti e a scoprire che se lo è pagato di tasca sua».

Secondo lei il voto della Camera che ha negato l’autorizzazione all’arresto di Cosentino incoraggia o no l’antipolitica?
«Duole dirlo: incoraggia. Quando un ex ministro dell’Interno appena uscito dal Viminale come Maroni sostiene che le accuse contro il deputato erano fondate e non c’era fumus persecutionis, il Parlamento avrebbe avuto il dovere di accontentare le richieste dei magistrati».

E come mai l’Udc ha dato libertà di voto ai suoi parlamentari?
«Sulle questioni personali noi garantiamo la libertà di coscienza. Ma la posizione del partito, per come è stata esposta in aula, era chiarissima».

Lei era contrario ai referendum elettorali. Adesso che la Corte costituzionale li ha bocciati, non crede sarà più difficile trovare un’intesa per cambiare il Porcellum?

«Non sono pessimista sulla legge elettorale. Credo che un accordo sia possibile se tutti mettiamo sul tavolo le nostre proposte e ci prepariamo a discuterne in modo costruttivo. Noi per esempio siamo favorevoli a un sistema proporzionale con sbarramento alla tedesca e siamo pronti a mantenere l’indicazione del candidato premier prima del voto, in modo che i cittadini possano scegliersi il governo, e non solo il partito. L’importante è uscire dai sistemi rigidi, dalle coalizioni forzose, che in tutti questi anni ci hanno dato governi che non riuscivano a governare. In Germania, quando si va a votare, gli elettori sanno che l’alternativa è tra democristiani e socialisti. Ma sanno anche che in caso di necessità può accadere che si faccia la grande coalizione».

Com’è accaduto in Italia?
«Zitto! Non lo sa che in Italia certe cose non si possono ancora dire?».

da - http://www3.lastampa.it/politica/sezioni/articolo/lstp/438398/
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« Risposta #415 inserito:: Gennaio 19, 2012, 04:50:37 pm »

19/1/2012 - TACCUINO

Ritorna ad affacciarsi il rischio di voto anticipato

MARCELLO SORGI

Convocate per un giro d’orizzonte e perché Napolitano rimane il garante numero uno del governo, le mini-consultazioni dei partiti della maggioranza al Quirinale ieri e martedì avevano l’obiettivo, per il Capo dello Stato, di spronarli a una ripresa del confronto parlamentare sulle riforme, a cominciare dalla legge elettorale, dopo la bocciatura dei referendum, e di verificare lo stato d’animo dei leader, soprattutto di quelli di Pdl e Pd in cui si muovono due fronti di resistenza all’esperienza del governo tecnico.

Un mini programma di riforme istituzionali (differenziazione dei ruoli delle Camere, riduzione del numero dei parlamentari, nuovi regolamenti) sarebbe un toccasana per impegnare i partiti che appoggiano il governo, costretti finora a trangugiare l’amara pillola delle misure anticrisi. Se ne ricaverebbe un tentativo di rilegittimazione della politica, in tempi di antipolitica crescente, e nuove regole elettorali da usare nelle elezioni del 2013, accantonando l’usurato Porcellum e creando le condizioni per un avvio del tutto diverso della prossima legislatura.

Ma al di là di una disponibilità formale, che non può essere negata, lo stato d’animo e gli obiettivi di Alfano, Bersani e Casini sono di altro genere. I primi due scontano per varie ragioni un certo tasso di mugugno dei gruppi parlamentari rispetto al governo. Liberalizzazioni per il centrodestra e flessibilità sul lavoro per il centrosinistra sono simmetricamente difficili da mandar giù. E quanto alla legge elettorale, mentre Casini si dichiara pronto a trattare, pensando che quale che sia il modello scelto ci sarà comunque
un’iniezione di proporzionale favorevole al Terzo polo, dagli altri due partiti arriva un'ondata di scetticismo sulla possibilità di arrivare a un accordo: motivata, per il Pd, dal fatto che i sondaggi favorevoli consentirebbero a Bersani di puntare ad ottenere il premio di maggioranza alla Camera, e per il Pdl dalla volontà di non rinunciare a un impianto bipolare, con il quale comunque i due maggiori partiti farebbero la parte del leone.

Inutile nascondersi che in un clima del genere, come si ricomincia a sentir dire nei corridoi parlamentari, torna ad affacciarsi il rischio di elezioni anticipate. L’alta percentuale di indecisi e di tendenti al non voto, e il dubbio che la permanenza del governo tecnico possa motivare un aumento della sfiducia nella politica tradizionale, aumentano le incertezze di questo periodo. Ma per votare entro giugno, o al contrario per arrivare alla scadenza naturale del 2013, una decisione va presa entro marzo.

da - http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9665
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« Risposta #416 inserito:: Gennaio 21, 2012, 11:01:14 pm »

21/1/2012

Il Cavaliere ruggisce ma non morde

MARCELLO SORGI

Adesso in tanti diranno che Berlusconi ha dato lo sfratto a Monti e vuol rientrare a Palazzo Chigi. Ma non è vero. Anche se ha scelto una giornata simbolica, come quella del varo delle liberalizzazioni, il Cavaliere è il primo a riconoscere che solo «paradossalmente» può aspettarsi di tornare al suo posto.

Infatti, al momento, «non c’è una soluzione alternativa» ai tecnici e non rimane dunque che andare avanti così.

Ma se ha scelto di parlare appena fuori dall’aula del tribunale di Milano, c’è una ragione precisa. In fatto di comunicazione politica, Berlusconi non fa mai niente a caso. Il motivo immediato di un’uscita così forte è lo scontento, ormai evidente, di gran parte del gruppo dirigente del suo partito, che mal sopporta il sostegno forzato garantito a Monti.

Da settimane infatti i vertici del Pdl consultano nervosamente le cifre dei sondaggi che mostrano un consenso costantemente in calo e una distanza che si allunga rispetto al Pd. Di qui il timore che di questo passo, nel giro di un paio di mesi il partito si ritrovi al di sotto del 20% e si avviti in una spirale che potrebbe diventare esiziale. Mentre in campo moderato Casini modella e propone il Terzo Polo come alternativa attraente agli incerti del Pdl.

Gli uomini vicini al Cavaliere riconoscono tuttavia che in una situazione del genere far saltare il banco del governo potrebbe rivelarsi anche più pericoloso che sostenerlo, seppure svenandosi. Ma chiedono al loro leader di non rinunciare a valutare, se ce ne saranno le condizioni, la possibilità di uno scioglimento delle Camere e di un ricorso alle elezioni anticipate, in estate o in autunno.

Una prospettiva del genere, va detto, non convince Berlusconi. Intanto perché l’ex premier legge in maniera diversa i dati dei sondaggi e teme che un’accelerata verso il voto motivata dal panico possa rivelarsi controproducente, o addirittura portare a una secca sconfitta. Come ha detto lui stesso ieri, correggendo in parte il senso del suo attacco al governo, finché il quadro generale della crisi in Europa rimane allarmante, non ci sono alternative, e quindi nemmeno margini per rivolgersi agli elettori. Nello stesso tempo il Cavaliere ha il problema di tenere unito il partito e frenare i più scalpitanti del suo gruppo dirigente. Ecco perché, anche in pubblico, non perde occasione per far capire che ha perfettamente presenti le loro preoccupazioni e non s’è affatto trasformato in un sostenitore a oltranza di Monti. Del cui governo, anzi, continua a mettere in risalto quelli che a suo modo di vedere sono gli scarsi risultati.

Nelle due settimane trascorse dal ritorno dalle vacanze e dall’inizio della ripresa politica, non è la prima volta che Berlusconi prende la parola contro Monti e i suoi tecnici. Lo ha già fatto in privato, così che le voci hanno preso a circolare e sono arrivate anche al Quirinale, accolte con preoccupazione da Napolitano. Non perché esista un rischio concreto che il Pdl ritiri l’appoggio a Monti ed apra una nuova crisi. Ma perché i mercati valutano l’efficacia di azione dell’esecutivo, non solo dal tipo di misure che prende, ma anche dalla qualità dell’appoggio politico di cui gode. E sarebbe davvero un peccato, dopo aver visto scendere finalmente negli ultimi giorni lo spread al di sotto dei livelli di guardia, in coincidenza con l’annuncio della fase 2, vederlo risalire per un ritorno di polemiche politiche che si pensavano superate.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9676
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« Risposta #417 inserito:: Gennaio 25, 2012, 10:08:51 am »

24/1/2012 - TACCUINO

Per Pd e Pdl opposti dubbi sulle urne

MARCELLO SORGI

Accolto positivamente a Bruxelles insieme con il decreto sulle liberalizzazioni appena varato, Mario Monti deve ancora scontare in casa
l’inquietudine del Pdl. A cui ha dato voce, tra gli altri, ieri sera negli studi di Porta a porta l’ex ministro Paolo Romani. A una domanda sulle prospettive del percorso riformatore di qui alla conclusione della legislatura, Romani ha risposto: «Vediamo se ci arriviamo, al 2013». All’interno del Pdl, e soprattutto tra gli ex del governo Berlusconi, questo atteggiamento è molto diffuso, e l’attacco del Cavaliere a Monti venerdì nasceva anche dalle pressioni del suo partito. Da questo a togliere l’appoggio a Monti, certo, ce ne corre (e Berlusconi è il primo a frenare, quando parla con i suoi, e al di là delle sue uscite pubbliche): ma la novità è che sono sempre di più, in quello che si chiamava il partito del presidente, a non escluderlo. Il fatto che nei sondaggi il Popolo della libertà continui ad essere accreditato in ribasso non li preoccupa: di questo passo, obiettano, cosa succederà in un anno? Meglio frenare l'emorragia e giocarsi davvero la partita in una campagna elettorale, finché la rimonta è possibile.

Atteggiamenti come questi sono guardati con preoccupazione dai dirimpettai del Pd, per il quale, al contrario, l’allungamento dei tempi è strategico per affrontare le numerose divisioni interne o almeno per accantonarle. Sottovoce, gli uomini del partito di Bersani, che nei sondaggi al contrario del Pdl risulta favorito, non si nascondono i problemi che dovrebbero risolvere nel caso in cui si trovassero chiamati a stretto giro alle urne: la principale delle quali sarebbe la controversa (e osteggiata dalla minoranza interna) possibile candidatura del segretario alla premiership e il recupero della scomoda alleanza con Di Pietro e Vendola. Inoltre nessuno è in grado di valutare quanto peserebbe, in termini di disaffezione al voto, o peggio di voto di protesta, uno sgambetto fatto a un governo che, malgrado le proteste delle categorie colpite dalle liberalizzazioni, mantiene un alto tasso di consensi, come se l’opinione pubblica consideri la terapia adottata l’unica praticabile e Monti il solo in grado di portare il Paese fuori dalle secche. Un «montiano» doc come il vicesegretario Enrico Letta ammette che paradossalmente il rischio di elezioni crescerebbe se, come sembra indicare il calo ormai costante dello spread, le terapie del governo dovessero cominciare a produrre risultati.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9687
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« Risposta #418 inserito:: Gennaio 25, 2012, 10:50:07 pm »

25/1/2012 - TACCUINO

Dai giudici una base per trattare

MARCELLO SORGI

Pubblicata ieri dalla Consulta, la sentenza con cui sono stati bocciati i referendum elettorali per cui erano state raccolte un milione e duecentomila firme, andrebbe letta dalla fine verso l'inizio. E non perché le motivazioni che hanno portato alla bocciatura non siano interessanti, ancorchè prevedibili. La Corte ha infatti sostenuto che per il modo in cui erano stati formulati i quesiti referendari, in caso di abrogazione le Camere sarebbero rimaste paralizzate a causa della soppressione delle norme elettorali. E poiché «gli organi costituzionali non possono essere esposti neppure temporaneamente all'eventualità di paralisi di funzionamento, anche soltanto teorica», è indispensabile «la costante operatività delle leggi elettorali relative a tali organi».

Fin qui, nessuna novità e un no deciso alla tesi che, morto il Porcellum, sarebbe tornato in vita il Mattarellum. Dove invece il pronunciamento dei giudici fornisce materia di riflessione per politici e partiti, è appunto nelle conclusioni. La sentenza ribadisce, infatti, che «non spetta alla Corte, fuori di un giudizio di costituzionalità, esprimere valutazioni», ma subito dopo questa affermazione di principio elenca con fredda severità tutte le carenze del Porcellum, dall'attribuzione dei premi di maggioranza senza la previsione di una soglia minima di voti o seggi, all'esclusione dei voti degli elettori della Valle d'Aosta e della circoscrizione estero dal computo della maggioranza ai fini del conseguimento del premio, al meccanismo delle liste bloccate, alla difformità nel metodo di assegnazione del premio tra Camera e Senato, alla possibilità di presentarsi candidati in più di una circoscrizione.

Punto per punto, senza dimenticarne neppure uno, si potrebbe considerare l'elenco fatto dalla Corte come un ideale ordine del giorno e un'ordinata materia per il prossimo confronto parlamentare, se davvero si volesse arrivare a ripristinare una legge elettorale degna di questo nome. Sarà certo una coincidenza, ma la sentenza viene resa pubblica a pochi giorni dal giro di consultazioni svolto al Quirinale dal Presidente della Repubblica proprio per sollecitare i partiti ad assumersi le proprie responsabilità in materia. In passato, altre volte il monito della Consulta ha rappresentato la base per l'impostazione di una nuova legge. Al momento, però, al di là di una formale disponibilità ad affrontare il problema, non sembra che sulla strada delle riforme si siano fatti molti passi avanti.

da - http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=9691
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« Risposta #419 inserito:: Gennaio 26, 2012, 09:19:04 am »

26/1/2012 - TACCUINO

Si rinsalda il patto tra i partiti

MARCELLO SORGI

Oltre a rafforzare Monti alla vigilia del vertice dell’Unione di lunedì prossimo, l’approvazione della mozione di sostegno al governo nella trattativa sulle strategie anticrisi in Europa segna una decisa inversione di tendenza rispetto ai mugugni e alle tensioni interne alla maggioranza dei giorni scorsi. Non che il mal di pancia dei partiti sia scomparso come per incanto: ma di fronte all’impegno preso solennemente da Alfano, Bersani e Casini nel recente pranzo a Palazzo Chigi, la scrittura della mozione comune della maggioranza tripartita e poi la sua approvazione sono avvenute senza intoppi.

E Monti ieri sera ha potuto rallegrarsene, spiegando come i sacrifici affrontati fin qui dall’Italia e le riforme introdotte possono produrre risultati e portare il Paese fuori dalla crisi, solo se inquadrate nell’ambito di una forte iniziativa europea e in un sistema di relazioni con gli altri membri dell’Unione che veda rafforzato e riconosciuto il ruolo dell’Italia.
Il voto del Senato e della Camera erano molto attesi da Monti anche come base per un più stringente negoziato con la Germania e la Merkel per ottenere una riduzione dei tassi, che favorirebbe la ripresa, e cercare di sottrarre l’Italia alla recessione ormai annunciata da molti qualificati osservatori. Le premesse stanno nei due successivi interventi che il governo ha compiuto dalla sua nascita: la manovra sui conti pubblici varata a dicembre, che ha tolto il Paese dalla situazione di estrema emergenza in cui si trovava ed è servita a smorzare l’allarme europeo sul rischio di default; e il piano di liberalizzazioni della scorsa settimana che era già stato chiesto nella famosa lettera della Bce della scorsa estate e che dovrebbe sperabilmente incoraggiare il ritorno agli investimenti anche da parte di capitali stranieri.
Va detto che gran parte di questi argomenti non erano proprio al centro dei pensieri, per non dire che risultavano estranei a deputati e senatori che affollavano le aule parlamentari, per i quali invece le prossime scadenze elettorali delle amministrative e i problemi delle alleanze locali in vista della scelta di sindaci e presidenti di provincia sono molto più pressanti delle scadenze europee. Anche la bocciatura della mozione della Lega, contrapposta a quella della maggioranza alla Camera, a sentire i più, non dovrebbe influire più di tanto sulla trattativa che Berlusconi e Bossi hanno riaperto, riprendendo l’abitudine dei loro incontri a due, per salvare il salvabile del loro vecchio asse.

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