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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 288145 volte)
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« Risposta #225 inserito:: Novembre 17, 2010, 06:28:57 pm »

17/11/2010 - TACCUINO

Una partita a scacchi di 27 giorni
   
MARCELLO SORGI

La conferma che, d’intesa tra Napolitano, Fini e Schifani, il dibattito nei due rami del Parlamento, al Senato sulla mozione di sostegno al governo, e alla Camera su quella di sfiducia, si svolgerà e si concluderà con i rispettivi voti contemporaneamente, il 13 e il 14 dicembre, non esclude che alla fine il governo si ritrovi con la maggioranza espressa da Pdl e Lega a Palazzo Madama e vada invece sotto, senza i finiani, a Montecitorio.

Berlusconi avrebbe preferito una sfalsatura temporale dei due dibattiti, sia per ottenere prima il voto favorevole del Senato e farlo pesare nella ricerca di una maggioranza anche solo numerica tra i deputati. E sia per presentarsi al Quirinale, al momento delle dimissioni, con solo una mezza sfiducia, o se si preferisce con una fiducia e una sfiducia insieme. Secondo il premier questo dovrebbe bastare al Capo dello Stato ad escludere il tentativo di dar vita a un altro governo, con qualsiasi formula, che si troverebbe sicuramente in minoranza al Senato per l’opposizione dello stesso asse Pdl-Lega che si prepara a sostenere ad ogni costo Berlusconi. Un ragionamento del genere, va da sé, reggerebbe anche se i due voti contrastanti di Camera e Senato fossero espressi nello stesso giorno, e non uno dopo l’altro.

Ma che questo basti a condizionare le scelte di Napolitano e ad imporgli subito lo scioglimento, è da vedere. Non perché il Presidente della Repubblica sia orientato a promuovere la nascita di un nuovo governo anche a dispetto dei santi. Tutt’altro. Napolitano, come ha già fatto in circostanze del genere, si atterrà ai risultati delle consultazioni, e se da un certo numero di partiti verrà la richiesta di fare il tentativo, c’è da attendersi che il Presidente lo farà solo se emergerà la possibilità che un’eventuale nuova maggioranza si possa ritrovare, oltre che in un governo, attorno a un programma chiaro e condiviso.

Tuttavia la semplice espressione del voto a favore di Berlusconi da parte del Senato non è detto che basti al Capo dello Stato per escludere con una ragionevole certezza la possibilità di un nuovo governo. Napolitano in altre parole potrebbe avere la necessità di verificare che tra i senatori che dovrebbero schierarsi a maggioranza con il Cavaliere non esista la disponibilità ad appoggiare successivamente, anche se temporaneamente, un esecutivo diverso, prima di andare ad elezioni. Un tentativo analogo a quello che su praticato dopo la caduta di Prodi, e ovviamente carico di insidie per Berlusconi. Ma che potrebbe rivelarsi indispensabile se dalle consultazioni dovesse venire un’indicazione in questo senso.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8099&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #226 inserito:: Novembre 18, 2010, 12:31:15 pm »

18/11/2010 - TACCUINO

Ma subito riparte il Vietnam parlamentare
   
MARCELLO SORGI

L’armistizio sulla doppia votazione, al Senato e alla Camera, sul governo, è durato poco. E mentre a Palazzo Madama i senatori saranno impegnati nell’esame della legge di stabilità, dalla prossima settimana a Montecitorio andrà in scena, per dirla con i deputati in partenza ieri, una sorta di «Vietnam parlamentare». Nel giro di dieci giorni ci saranno ben quattro importanti occasioni per fare andare sotto il governo, in attesa del grande appuntamento del 14 dicembre.

A nulla sono valse ieri mattina le proteste della maggioranza in conferenza dei capigruppo con il presidente Fini. Così si andrà già lunedì a discutere e votare la mozione sulla Rai e sul pluralismo che è in realtà una ghigliottina per il direttore generale Mauro Masi, al centro di forti polemiche, sia per l’andamento dell’informazione dei Tg, sia per gli esiti del programma di Fazio e Saviano, con Maroni che chiede di poter esercitare il contraddittorio rispetto alle accuse di collegamento tra criminalità organizzata e Lega al Nord. Il giorno dopo toccherà al ministro leghista Calderoli, di cui le opposizioni puntano a ridimensionare le deleghe di governo. A seguire il voto sulla riforma universitaria, di cui Fini in persona ha chiesto il ritiro. Infine, martedì 29, è stata calendarizzata la mozione di sfiducia individuale contro il ministro Bondi, per il crollo di Pompei.

Oltre a rappresentare quattro pesanti insidie per il governo, in un momento assai incerto, le votazioni dei prossimi giorni saranno un banco di prova della possibile alleanza tra opposizioni e finiani, che puntano a costruire un governo d’emergenza in caso di caduta di Berlusconi. Sulla Rai c’è piena intesa e le mozioni anti-Masi dovrebbero passare senza difficoltà, facendo soccombere l’asse Pdl-Lega. Le mozioni contro Calderoli sono state presentate dalle opposizioni, ma non dal Fli: l’eventuale convergenza dei finiani porterebbe a un’ulteriore rafforzamento di quest’alleanza inedita, anche se Fini, mercoledì, per rassicurare le colombe del suo partito, ha detto che il Fli non si schiererà automaticamente con la sinistra. Sull’università, a parte le riserve esplicite del Presidente della Camera, l’Api di Rutelli, che in un primo momento aveva votato la riforma, potrebbe far marcia indietro, mentre l’Udc potrebbe votare con il governo. Infine, sull’appuntamento più atteso, la mozione contro Bondi presentata dal centrosinistra, i finiani hanno già fatto sapere che non si schiereranno, preferendo arrivare direttamente al 14 dicembre, senza passare per scorciatoie che non è detto che portino alla caduta del governo.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8103&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #227 inserito:: Novembre 19, 2010, 10:49:57 pm »

19/11/2010 - TACCUINO

Così il quadro torna in movimento
   
MARCELLO SORGI

Se non si trattasse di Fini, si potrebbe dire davvero «contrordine compagni». E non è detto che al fondo del videomessaggio diffuso ieri su Internet e indirizzato ai militanti di Futuro e Libertà non ci sia, prima di tutto, l'esigenza di rassicurarli sul fatto che il nuovo partito nasce a destra e lì resterà. La precisazione potrebbe essersi resa necessaria dopo le critiche, a cui Fini ha fatto riferimento, arrivate dalla base via mail nei giorni in cui, a crisi aperta, si sente dire di tutto e di più, compreso che Fli potrebbe appoggiare un governo con Udc e Pd, ma con Pdl e Lega all'opposizione, o che in caso di elezioni potrebbe collocarsi al centro con Casini e Rutelli.

Ma al di là di questa precisazione, il messaggio, giunto in una giornata di fortissima presenza alla Camera per le votazioni sulla Finanziaria, ha colpito per la novità dei toni di apertura rivolti verso Berlusconi: lo stesso Berlusconi di cui solo due settimane fa il leader di Futuro e Libertà aveva chiesto le dimissioni e contro il quale aveva ritirato lunedì la delegazione del suo partito dal governo. Ora invece il premier è invitato a presentare una nuova agenda di qui al 13 dicembre, giorno previsto per il dibattito su fiducia e sfiducia in entrambe le Camere, e va da sé che se l'agenda dovesse contenere alcune delle richieste avanzate da Fini alla convention di Perugia l'atteggiamento di Futuro e Libertà potrebbe cambiare. Fino a firmare una nuova cambiale a Berlusconi per consentirgli di affrontare la seconda parte della legislatura? Fini non lo ha detto, né aveva in mano elementi per dirlo: ma tutti si sono chiesti lo stesso le ragioni del suo nuovo intervento.

E' probabile che il presidente della Camera abbia sentito la necessità di un aggiustamento di tiro di fronte all'aggravarsi della crisi economica in Europa e all'allarme determinato dal peggioramento della situazione di Paesi a rischio come Irlanda e Portogallo, come se volesse chiarire che il suo non è il partito della crisi a qualsiasi costo. Ed è possibile che in questo modo abbia anche voluto calmare la fibrillazione a cui una parte dei parlamentari del Fli è sottoposta sia di fronte all'ipotesi di votare contro il governo e accanto alla sinistra, sia per le pressioni che sono riprese per convincerli a rientrare nel Pdl. A loro è come se Fini avesse detto che la rottura con Berlusconi non è più scontata come sembrava e avverrà solo se il premier non farà nulla per evitarla. Per questo si può dire che da ieri il quadro della crisi è di nuovo in movimento.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8108&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #228 inserito:: Novembre 20, 2010, 09:12:07 am »

20/11/2010

Come si dissolve una crisi

MARCELLO SORGI

Nessuno ancora è disposto a dirlo a voce alta, ma è chiaro lo stesso: la crisi di governo è finita prima di cominciare, anche se le turbolenze del caso Carfagna vengono a ricordarci quanto provvisoria sia la sopravvivenza del governo. A meno di un mese dall’appuntamento alle Camere il 14 dicembre, Berlusconi, non si sa come, ha di nuovo la maggioranza e Fini è libero di decidere se tornare all’ovile o andare all’opposizione con la sua pattuglia di temerari. La cosa più incredibile è che, a cominciare da Berlusconi, non c’è chi sia in grado di dare una spiegazione razionale, politica, di come la rottura più sanguinosa mai vissuta nel centrodestra dalla sua nascita all’improvviso sia rientrata.

E non perché, diversamente da settembre, il «calciomercato» dei deputati incerti abbia sortito risultati migliori. Semplicemente, per averla vinta, a Berlusconi è bastato resistere, forzare la liturgia istituzionale che avrebbe richiesto le sue dimissioni due settimane fa, al solo annuncio dell’uscita dal governo della delegazione di Futuro e libertà, e far capire che, pur ridotto come è ridotto, lui è un osso più duro di come se lo immaginavano i finiani e l’opposizione.

La crisi di governo è finita per questo: perché anche prima che gli ambasciatori berlusconiani, rischiando di fare la solita confusione, dessero il via alla compravendita dei «sì» per il voto a rischio del 14 dicembre, la fila degli onorevoli disposti a concedersi gratuitamente, anche solo per evitare di perdere il seggio, s’è allungata dietro la porta del presidente del Consiglio. Uno dopo l’altro, si sono fatti vivi i componenti del gruppo misto quasi al completo. Più sommessamente, in tono quasi supplichevole, e sperando alla fine di non essere costrette alla conta, le cosiddette colombe finiane hanno dato un colpo al cerchio del loro leader e un altro alla botte del presidente del Consiglio. A un certo punto è comparso anche Pannella, con i suoi sei deputati alla Camera, cercando di intavolare un «dialogo costruttivo». Poi, di ora in ora, ha cominciato a ingrossarsi la fila dei singoli obiettori di coscienza.

Se Berlusconi davvero puntava alle elezioni, e se non vorrà, su suggerimento di Bossi, fare come il Fanfani d’antan che si dimise egualmente malgrado la fiducia ritrovata, non potrà che prendere atto che la situazione è mutata e gli tocca continuare a governare. Ma se veramente, a meno di colpi di scena (e tra le scosse d’assestamento, significativo ieri è stato l’endorsement del ministro Maroni a Tremonti come futuro premier) di qui al 14 dicembre, questa sarà la conclusione di una delle crisi più pazze della storia repubblicana, fin d’ora se ne possono ricavare alcune non trascurabili conclusioni. La prima non è una novità: è il fattore «c», la fortuna innata, chiamiamola così, di Berlusconi, anche in questo avanti di un bel po’ a Prodi, che pure ne menava vanto. Ciò che ha tolto il sonno all’intera Europa, la recrudescenza della crisi economica, con l’area euro messa a rischio dal precipitare di Paesi come Irlanda, Portogallo e presto, sembra purtroppo, anche Spagna, per il Cavaliere s’è trasformato in atout. Il solo rischio che un’Italia sgovernata, e proiettata verso elezioni incerte più di altre volte, potesse essere contagiata in modo grave dal virus irlandese, ha di colpo modificato tutte le riflessioni sulla partita elettorale, a cominciare da quelle del Capo dello Stato, già contrario, ma che s’è esposto pubblicamente ed esplicitamente per spingere tutti verso un atteggiamento più responsabile.

Il videomessaggio e il ripensamento di Fini di giovedì sono nati così. La seconda è più che altro una constatazione: non è stato né affrontato né risolto nessuno dei problemi alla base della crisi, dai rapporti personali tra Berlusconi e Fini a quelli politici tra i loro due partiti, al riequilibrio necessario, dopo la nascita e il riconoscimento di Futuro e libertà come terza gamba della coalizione di centrodestra, dell’asse Pdl-Lega, a una comune visione di tutti i punti del programma su cui esiste dissenso, vedi legalità, immigrazione, sicurezza, Sud, pubblica istruzione, giustizia, oltre ovviamente al punto dolente per eccellenza del controverso salvataggio di Berlusconi dai suoi problemi giudiziari. Al momento, non è manco chiaro se alla fine del percorso i finiani, tutti o in parte, resteranno membri della coalizione, o se la maggioranza assumerà una diversa connotazione, con l’asse B-B al suo centro e una miriade di piccoli partiti satelliti, o anche singoli parlamentari, reclutati per la bisogna.

La terza conclusione è conseguenza delle altre due: se non sceglierà di incassare la fiducia come provvisoria salvezza, in attesa di andare egualmente alle elezioni un altr’anno, Berlusconi si troverà a governare, nel momento in cui le scelte di governo diventeranno più difficili, con una maggioranza numerica e politicamente ectoplasmica, costruita su conversioni personali e convergenze trasformistiche, che lui magari cercherà di strutturare alla meglio, e alla sua maniera, in un nuovo partito, di cui si sente dire che sta già cercando nome e simbolo per rottamare il Pdl.

Non è un gran risultato. E se a crisi finita si potrà dire che Fini ha voluto scherzare con il fuoco ed è rimasto bruciato, è evidente che, se le cose non cambiano, Berlusconi avrà vinto anche stavolta, ma rimane seduto su un vulcano.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8110&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #229 inserito:: Novembre 23, 2010, 09:54:18 am »

23/11/2010 - TACCUINO

La crisi è del metodo leaderistico
   
MARCELLO SORGI

Si può leggere il problema insolubile dei rifiuti di Napoli, che oppone di nuovo il Quirinale a Palazzo Chigi, la ministra Carfagna a Berlusconi e Alessandra Mussolini alla stessa Carfagna, come un caso emblematico di come sarà il governo nel prossimo futuro, se davvero il premier deciderà di risolvere la crisi aggirando le questioni politiche che l’hanno originata e costruendo la maggioranza alla Camera sulla base di voti singoli o di gruppetti nati per la bisogna.

Quello che è manifestamente in difficoltà, infatti, è il metodo di governo basato sul confronto diretto tra il capo e i suoi sottoposti. In caso di scontro interno, come accade in Campania tra tutti coloro che vorrebbero gestire l’appetitosa torta della realizzazione dei termovalorizzatori, ciascuno degli interessati cerca di interloquire direttamente con Berlusconi, e alle prime difficoltà minaccia le dimissioni o addirittura di passare in campo avverso. Un governo e un partito in cui è solo il capo a decidere, mentre sul territorio e a tutti i livelli infuriano le risse, è naturalmente destinato a un ingorgo decisionale. Di qui, appunto, il decreto sui rifiuti annunciato e mai presentato, dal momento che affidare la gestione dei fondi in Campania alla Regione, alle Province o ai Comuni, significa, nell’ordine, accontentare Caldoro e Carfagna, che vogliono mantenere buoni rapporti con finiani e Udc alleati nel governo regionale, o Cosentino e il pezzo di Pdl che si oppone al governatore neo-eletto, o perfino l’opposizione, se si ricorda che il sindaco di Salerno De Luca è stato il candidato sconfitto del centrosinistra alle ultime regionali. Berlusconi non a caso non sa che pesci pigliare.

Allo stesso modo la lite Carfagna-Mussolini, con la nipote del Duce che annuncia che non voterà la fiducia in mancanza di scuse della ministra che l’ha definita “vajassa”, si risolve, se si risolve, solo con un intervento diretto del premier, nei confronti del quale le due sono manifestamente in concorrenza per stabilire chi sia la preferita. In un quadro del genere, infine, sono destinati all’insuccesso, sia il “senso di responsabilità” manifestato da Fini nel famoso videomessaggio in cui è parso rinunciare alla sfiducia contro il governo, sia l’”armistizio” proposto da Casini. E questo perché, a dispetto dei problemi a cui sta andando incontro, Berlusconi continua ad essere convinto che rimettersi in casa due alleati-avversari, come il Presidente della Camera e il leader dell’Udc, sia molto più oneroso che non sfilargli i parlamentari che gli daranno la fiducia il 14.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8123&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #230 inserito:: Novembre 25, 2010, 09:13:43 am »

25/11/2010 - TACCUINO

L'obiettivo è dividere gli Udc dai futuristi
   
MARCELLO SORGI

Qualche giorno fa Umberto Bossi aveva consigliato pubblicamente a Berlusconi di non accontentarsi di ottenere la maggioranza nelle prossime votazioni sulla fiducia, ma nel caso in cui il vantaggio in termini di voti sull’opposizione fosse risicato, di recarsi ugualmente Quirinale per dimettersi e chiedere le elezioni, come fece Fanfani un bel po’ di anni fa.

Nella conferenza stampa tenuta ieri a Palazzo Chigi con la ministra dei giovani Giorgia Meloni il Cavaliere a sorpresa ha sposato in pieno la strategia del Senatur, confermando di non aver dubbi sul fatto di ritrovare la maggioranza e di ottenere la fiducia in entrambe le Camere il 14 dicembre. Ma se l’appoggio al governo dovesse risultare insufficiente a realizzare le riforme, Berlusconi ha aggiunto che non esiterebbe a chiedere lo scioglimento delle Camere, addossandone la responsabilità a quei partiti che, o hanno ritirato il loro sostegno al governo, o non sono stati disponibili a farlo in un momento difficile come l’attuale. Anche in questo caso, tuttavia, non sarebbe affatto automatico che il Capo dello Stato dichiarasse finita la legislatura: l’esistenza di una maggioranza, sia pure stentata, potrebbe anzi indurlo a tentare la strada di un altro governo di centrodestra non guidato da Berlusconi, al quale sia Fli sia Udc si affretterebbero a dare i loro voti.

Il premier ha tuttavia fatto una distinzione tra Fini e l’Udc, ripetendo che Fini non deve far altro che una marcia indietro e chiedendo invece a Casini di concedere l’appoggio esterno al governo, in attesa, è sottinteso, di negoziare successivamente l’ingresso a pieno titolo dei propri ministri. Chiaro l’obiettivo del premier di dividere Casini da Fini e di verificare se è disposto a rinunciare alla richiesta di dimissioni per aprire una trattativa. Per ora l’Udc ha confermato di non essere disponibile. In mancanza di questa disponibilità, e con i finiani che hanno confermato ieri il loro orientamento per la sfiducia, Berlusconi, anche nel caso in cui dovesse riottenere la fiducia, non avrebbe una maggioranza solida e si troverebbe esposto continuamente al rischio di andare sotto.

Basta solo rivedere quel che è accaduto ieri, dopo la tormentata seduta di martedì: mentre gli studenti manifestavano davanti al Senato contro la riforma Gelmini, i finiani, appena è rimbalzata a Montecitorio la battuta del presidente del consiglio su Fini, hanno bloccato per un’ora i lavori alla Camera, costringendo la ministra dell’istruzione a riscrivere due emendamenti. E il governo è stato battuto una volta.

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« Risposta #231 inserito:: Novembre 27, 2010, 12:00:50 am »

26/11/2010 - TACCUINO

Nella maggioranza è scomparso il respiro riformatore

MARCELLO SORGI


L’inabissamento, ormai più che temuto, della riforma dell'università, dopo un'altra giornata di passione alla Camera e il rinvio a martedì del voto finale, dimostra, non solo che il governo non riesce ad andare avanti senza i voti dei finiani, ma anche che l'empasse politica è in grado di affossare una delle leggi più urgenti, sulla quale, in tempi piu sereni, il ministro Gelmini aveva potuto registrare anche significative aperture di parte dell'opposizione.

Pur criticabile sotto diversi aspetti, infatti, la riforma mira a realizzare due obiettivi indispensabili: la riduzione dei costi in uno dei settori più costosi del bilancio pubblico e l'introduzione, sia pure con forti limiti, di criteri di merito per insegnanti e ricercatori. Il rinvio dell'approvazione della riforma da luglio ad ora, a causa del'insorgere della rottura tra Berlusconi e Fini, ha fatto coincidere la fase finale dell'iter parlamentare con l'apertura, in molti casi problematica, dell'anno accademico, e con le proteste studentesche, che ieri hanno dilagato in tutta Italia. Al Fli che vota contro il governo per dimostrare che i propri voti sono indispensabili, all'Udc impegnato in un braccio di ferro con Berlusconi dopo la richiesta, giudicata inaccettabile, di appoggio esterno al governo fatta dal premier, si sono aggiunti i voti contrari del Pd, schierato con gli studenti.

Tra la Gelmini (che ha minacciato di ritirare la riforma) e Bersani, che mercoledì era salito sul tetto dell'università di Roma per portare la solidarietà al movimento, c'è stato anche un confronto diretto, perché la Gelmini aveva dato ironicamente a Bersani del «fuoricorso», e il segretario democratico ha messo on line il suo libretto universitario di studente modello laureato con 110 e lode, sfidando la ministra a fare lo stesso.

Così, tra polemiche di sapore apertamente elettorale, la riforma si è impantanata e il governo è andato nuovamente sotto nell'aula della Camera, dove, per inciso, la confusione era tale che in una delle votazioni decisive la stessa Gelmini e il suo collega Alfano hanno votato per errore contro il governo.

L'epilogo, annunciato, della riforma, che dovendo passare al Senato difficilmente potrà essere approvata entro il 14 dicembre, data fissata per le votazioni di fiducia, contiene in sè tutti gli aspetti della situazione attuale: legislature brevi e maggioranze che si disfanno non consentono alcun respiro riformatore anche a governi, come quello di Berlusconi, usciti da una forte vittoria elettorale.

Al premier, che si dice sicuro che Casini e Fini puntino a farlo fuori, non è rimasto che consolarsi con il recupero della Carfagna, che ieri ha ritrovato l'accordo con il Pdl e ha ritirato la minaccia di dimissioni.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=8137&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #232 inserito:: Novembre 27, 2010, 05:52:18 pm »

27/11/2010

Il governo di minoranza ultima carta del premier

MARCELLO SORGI

Questa del governo di minoranza, che da due giorni passa di bocca in bocca come via d'uscita più probabile della crisi, è un'ipotesi con troppi padri. Ne parlano, forse temendola, ma fingendo di esserne i veri strateghi, finiani e centristi, che la presentano come l'estrema umiliazione di Berlusconi. E la sussurrano, con molta più circospezione, gli uomini più vicini al Cavaliere, secondo i quali invece rappresenta l'unico modo di ottenere la sconfitta della sfiducia annunciata da Fini e Casini. Certo, è difficile capire cosa avrebbe da festeggiare Berlusconi all'idea del suo governo, nato con più di cento voti di maggioranza alla Camera, che in due anni e mezzo non riesce neppure a superare la fatidica soglia 316, la metà più uno dei deputati. Ma tant’è: ognuno si consola come può. Ed è bastato cominciare a contare sulla possibilità di un esito come questo il 14 dicembre a far cambiare da un giorno all'altro gli umori a Palazzo Chigi.

A cominciare da quello del capo che condiziona tutti gli altri. Il piano, spiegano, è abbastanza semplice. Piuttosto che inseguire l'obiettivo pericoloso dei 316 voti a favore, che alla fine potrebbero esserci o non esserci, basterà ottenere la maggioranza dei presenti in aula. Muoversi, insomma, verso un risultato simile, anche se non eguale, a quello che consentì di salvare a luglio il malcapitato sottosegretario alla giustizia Giacomo Caliendo, una delle prime vittime della guerra interna al Pdl. Allora Fini con la sua pattuglia decise di astenersi, e Caliendo fu salvo. Bisognerà vedere cosa accadrà con il passaggio di Futuro e libertà all'opposizione. Qui sta l'incognita e qui diventano decisive le assenze che abbassano il quorum per il governo. In questi mesi, in seno al neonato gruppo di minoranza del centrodestra, ci sono state molte discussioni, ma al dunque Fini ha dimostrato finora di poter condurre il suo drappello dove vuole. Stavolta vuol portarli a sfiduciare il governo, ed è con questa prospettiva che Berlusconi ha dovuto fare i conti. Nell’attesa, ha attraversato tutti i possibili stati d'animo.

Prima ha negato che fosse possibile sfiduciarlo, promettendo di esibire una lettera, che nessuno ha visto, con dodici firme di finiani lealisti che giuravano di non voler votare contro il governo. Poi ha cominciato a rendersi conto delle reali difficoltà. E benché riluttante, s'è rassegnato a piegarsi alla scorciatoia del governo di minoranza. Non c'è altra strada: gliel’hanno detto tutti, da Letta a Bossi, al suo vecchio amico Confalonieri. L'ultima offerta, prima di questa settimana di guerriglia, al solito era venuta da Casini. Tu ti dimetti, aveva proposto Pier a Silvio, fai un appello a tutti, in nome della serietà del momento e dei rischi per la crisi economica europea, e noi dell’Udc siamo i primi ad accoglierlo. Dietro di noi, non ha altro da fare, tornerà a casa anche Fini. Bersani invece dovrà dire di no, altrimenti gli salta per aria il partito. E il gioco è fatto. Ma Berlusconi non s'è fidato. Se mi dimetto, ha ragionato a voce alta, chi mi dice che quei due non si alleano di nuovo per darmi una fregatura, e chiedere un governo di centrodestra non guidato da me?

Di qui, mercoledì, la richiesta all'Udc dell'appoggio esterno: sorprendente per Casini, che l'ha subito respinta, e imprevedibile da uno come il Cavaliere che ha sempre rifuggito le tattiche da Prima Repubblica. Avuto chiaro che Casini, per muoversi, non rinunciava all'apertura formale della crisi, al Cavaliere non è rimasto che il governo di minoranza. Ora, ammesso che in una situazione talmente confusa si riesca a pilotare una votazione in cui Pdl e Lega riescano a far respingere la sfiducia con 306-308 voti e un margine minimo di vantaggio sulle opposizioni, cosa se ne farebbe Berlusconi di un tale governo? Nella lunga storia parlamentare repubblicana infatti, non esistono precedenti. Capitò a Prodi, ai tempi della sua prima esperienza e dell' appoggio altalenante di Bertinotti, di trovarsi in una congiuntura simile, ma gli venne in soccorso Diliberto con la scissione da Rifondazione. Durò poco. Il suo successore D'Alema, pur di avere una vera maggioranza, non esitò a reclutare Cossiga, Mastella, i "Quattro gatti", e perfino l'ex-missino transfuga Misserville.

Che divenne sottosegretario, fu accusato per questo da Fini di essere un "puttano", e dopo aver rivendicato con orgoglio di essere rimasto fascista, dovette dimettersi dal primo governo guidato da un post-comunista. Ma a parte questi non fulgidi esempi, che rimandano all'endemica debolezza degli esecutivi di centrosinistra, per il resto c'è stato di tutto. Governi balneari come quelli di Leone e Rumor, destinati a sopravvivere un'estate. Governi "amici", come quello di Pella, con cui la Dc manteneva le distanze. E ancora, monocolori cosiddetti "di decantazione", a cui le correnti democristiane davano e toglievano l'appoggio in attesa dei congressi: le vere sedi, fuori dal Parlamento, dove si decidevano gli assetti del Paese. Prima e dopo, c'erano stati i famosi governi delle "convergenze parallele" di Moro con i socialisti, e quello di solidarietà nazionale di Andreotti, che per consentire ai comunisti di appoggiarlo senza votarlo, si inventò la "non sfiducia", cioè l'astensione, di tutti i gruppi che lo sostenevano. Bene: pur trattandosi della più larga coalizione mai creatasi in Parlamento, oltre il novanta per cento dei parlamentari, le diffidenze interne non mancavano.

La gestione quotidiana di questa maggioranza sui generis era affidata a Franco Evangelisti, il fantasista braccio destro di Andreotti, e a Fernando Di Giulio, il brillante vicecapogruppo del Pci, dal momento che il capogruppo, Alessandro Natta, aveva giurato pubblicamente che con un democristiano non avrebbe preso neanche un caffè. A una delle prime riunioni nello studio di Evangelisti, il capogruppo socialista Vincenzo Balzamo notò che Di Giulio si dirigeva con sicurezza verso il bagno, come uno che conoscesse da tempo l'appartamento. Così intuì che i due plenipotenziari, democristiano e comunista, si frequentavano anche al di fuori delle riunioni ufficiali, e s'insospettì. Avvertito da Balzamo, anche Craxi se ne dispiacque e cominciò a prendere le sue contromisure. In una rassegna tanto varia di formule, tuttavia, di governi di minoranza non c'è traccia. Per una ragione abbastanza semplice: i governi italiani stentano già quando hanno la maggioranza, figurarsi quando non ce l'hanno più. Berlusconi è il primo a saperlo: ed è per questo, non è difficile intuirlo, che non vorrà restare a lungo in una posizione palesemente scomoda.

Se riuscirà davvero ad avere la fiducia del Senato e una mezza fiducia della Camera, le userà innanzitutto per proclamare in tv di aver sconfitto Fini. Successivamente, e ufficialmente per senso di responsabilità, il governo s'impegnerà a portare all'approvazione il cosiddetto decreto "mille proroghe", se possibile la riforma universitaria, e i decreti del federalismo, che per la Lega sono una ragione di vita o di morte. E finalmente, all'inizio del 2011 salirà al Quirinale per chiedere le elezioni. Una partita assolutamente nuova si aprirà a quel punto per il Capo dello Stato: quella di un governo che sta in piedi, seppure su una gamba e mezza, ma vuole ripresentarsi davanti agli elettori. E' presumibile che Napolitano voglia fare un approfondimento. Ma se, legittimamente, obiettasse che si possono sciogliere le Camere solo quando non c'è più una maggioranza, Berlusconi ha pronto l'ultimo colpo di scena: sarà Bossi ad aprire per conto suo una vera crisi. E ad innescare la scintilla finale della legislatura.

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« Risposta #233 inserito:: Novembre 30, 2010, 05:30:27 pm »

30/11/2010 - TACCUINO

Una virata che rischierebbe di terremotare tutte le opposizioni

MARCELLO SORGI

Anche se è ancora presto per capire se davvero si tratti di una scelta definitiva e quali siano le vere ragioni che possono averla indotta, la rinuncia di Fini alla sfiducia verso il governo Berlusconi e il più che probabile ritorno all'astensione saranno molto difficili da spiegare.

Per temeraria che fosse, l'accelerata verso la crisi sancita a Bastia Umbra alla convention di Futuro e libertà aveva comunque una sua logica. Se Fini, con l'aiuto di Casini, fosse davvero riuscito a far dimettere Berlusconi, avrebbe potuto contare anche su una variegata gamma di soluzioni per il dopo. Ammesso che fosse difficile liberarsi in un sol colpo del governo e di Berlusconi, avrebbe potuto costringere il Cavaliere a una trattativa durissima, magari per concedergli un accordo rinegoziando programma e compagine ministeriale.

Dell'astensione, al contrario, non si capisce lo scopo. A luglio, subito dopo la rottura, nella votazione su Caliendo aveva rappresentato l'occasione di aggregare un largo schieramento centrale, in cui si riconoscevano insieme Fini, Casini e Rutelli, e di fare apparire chiaramente che il governo aveva perso la maggioranza. Ma alla fine di un periodo come questo, contrassegnato da una guerriglia parlamentare fine a se stessa, dato che poi, come accadrà oggi con la riforma dell'università, i finiani approvano le leggi che hanno appena smesso di criticare, l'astensione è destinata a perdere di senso. Servirà solo a rendere cronica la debolezza del governo, ad allungare i tempi delle trattative e in conclusione ad aumentare l'instabilità, cosa di cui Fini potrebbe rischiare di dover pagare un conto salato in termini di immagine. E se veramente ciò che ha spinto il presidente della Camera a mollare sulla sfiducia è stato il dissenso di otto irriducibili colombe di Futuro e libertà, il peso di questa minoranza decisiva è destinato a crescere.

Nell'immediato la svolta verso cui Fini si sta muovendo si ripercuoterà su tutta l'opposizione, terremotandola. Se solo si riflette che Casini fino a domenica ha ribadito la linea della sfiducia, che avrebbe dovuto concretizzarsi in una mozione comune con il Fli, l'effetto più probabile del ripensamento finiamo sarà una sorta di liberi tutti, in cui ognuno si riprende la sua autonomia. Discorso che vale ovviamente anche per il Pd, impegnato a promuovere alleanze sempre più larghe, e a questo punto sempre più impossibili, per abbattere Berlusconi. Il quale, invece, premiato dalla sua resistenza, e sol che sia capace di approfittarne, ha di nuovo una chance per tentare di rilanciare il governo con un vero accordo di fine legislatura.

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« Risposta #234 inserito:: Dicembre 02, 2010, 12:12:24 pm »

2/12/2010

Le pistole sul tavolo

MARCELLO SORGI

La decisione maturata ieri a sorpresa di chiudere la Camera fino al 13 dicembre, data di inizio del dibattito sulla sfiducia, dà purtroppo la misura della gravità a cui è giunta la crisi politica. Una crisi che si trascina da settimane e negli ultimi giorni ha visto il Parlamento trasformato in campo di guerriglia, neppure di guerra, in cui la regola sono trappole e agguati, e l’eccezione, piuttosto, la normale discussione e approvazione delle leggi che il Paese s’aspetta dai propri onorevoli.

Ma evidentemente il livello di guardia già superato varie volte nelle ultime sedute - e oltre il quale, va detto, c’è solo il degrado delle istituzioni - rischiava di essere travolto anche nelle prossime. Di qui, a male estremo, l’estremo rimedio adottato dalla (ex) maggioranza di centrodestra, con l’appoggio imprevisto dei finiani - i più impegnati di recente nelle avventurose scorribande tra i banchi di Montecitorio -, e tra le proteste delle opposizioni.

Una parte delle quali, l’Udc di Casini, che solo qualche giorno fa aveva proposto un armistizio, ha annunciato ieri stesso la presentazione di un’altra mozione di sfiducia, che si affiancherà a quella del centrosinistra, e presto, si sa già, sarà seguita da una terza di Fini e Lombardo.

Si dirà che un’accelerata come questa rischia di chiudere le ultime esili linee di collegamento tra gli spezzoni separati del centrodestra, ma per inaudita che possa apparire, è la logica reazione alla campagna acquisti praticata spavaldamente, e apertamente, da Berlusconi, che già si sentiva al sicuro e aveva dichiarato di aver messo in cassaforte i voti necessari a battere la sfiducia alla Camera. La prossima presentazione delle mozioni, con le firme dei parlamentari sui documenti, chiuderà formalmente il calciomercato costringendo gli eventuali transfughi a venire allo scoperto.

Non è un mistero infatti che nell’approssimarsi della resa dei conti, sia all’interno del Fli, il neonato gruppo finiano, sia nell’Udc, le divisioni tra falchi e colombe si fossero fatte sentire anche all’esterno. E agli incerti, ma non ancora disposti ad abbandonare i propri gruppi, il Cavaliere aveva fatto sapere che si sarebbe accontentato anche delle assenze: per ricavarne, con un abbassamento del quorum, il raggiungimento della maggioranza in aula ed evitare le dimissioni, pur restando a capo di un governo di minoranza incapace di superare la fatidica quota 316, la metà più uno dei membri della Camera. E’ stata proprio questa espressa intenzione del Cavaliere, di aggirare un vero chiarimento politico con Fini e Casini, e puntare a una maggioranza numerica e raccogliticcia pur di umiliarli, in attesa di sfidarli nelle urne, a provocare l’anticipo delle mozioni di sfiducia e l’anomala chiusura della Camera.

Fin qui, però, nessuno degli avversari in campo ha prevalso. Berlusconi per la seconda volta, dopo settembre, ha dovuto prendere atto che neppure uno come lui può comperarsi una maggioranza. Quanto a Fini e Casini, hanno dovuto rassegnarsi al fatto che far dimettere il Cavaliere non era così facile come pensavano. Ma paradossalmente, adesso, questa specie di azzeramento maturato dopo una serie infinita di colpi bassi può diventare, o ridiventare, la base di quella trattativa che finora s’è rivelata impossibile.

E’ inutile negarlo: al punto in cui sono giunte le cose, è davvero arduo scommettere su un ripensamento di leader come Berlusconi e Fini, che nel fuoco di uno scontro personale sembrano aver smarrito da tempo le ragioni della politica. Ed è quasi certamente destinata a rivelarsi un’illusione l’idea che, dopo aver perseguito con un tale accanimento l’eliminazione ciascuno dell’altro, ci ripensino e si accorgano di essersi cacciati in un vicolo cieco.

Eppure chissà perché, a guardare i due duellanti stanchi, a fine corsa, seduti uno di fonte all’altro con le pistole posate sul tavolo, viene da pensare che è più facile che se le rimettano in tasca, che non che premano il grilletto.

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« Risposta #235 inserito:: Dicembre 07, 2010, 03:59:06 pm »

7/12/2010

Con tre carte il Senatur vince sempre


MARCELLO SORGI

Pressing sulla Lega, a una settimana dal voto di fiducia. Più che alle dichiarazioni quotidiane, che vengono dai due fronti contrapposti, occorre guardare al lavorìo sotterraneo, già orientato al momento successivo al 14 dicembre, in cui si apriranno le trattative per risolvere la crisi o per dichiarare conclusa la legislatura.

Oltre al Quirinale, arbitro istituzionale in questa fase, sarà Bossi ad avere un peso decisivo: se deciderà di restare legato fino all’ultimo a Berlusconi, lo sbocco più probabile della crisi sarà il voto anticipato. Se invece dal Carroccio verrà anche solo un accenno di disponibilità all’ipotesi di un nuovo governo, tutti i giochi si riapriranno. Compreso quello, che ieri ha ripreso a circolare con insistenza, di un governo a guida leghista affidato al ministro dell’Interno Maroni, perfettamente titolato, come responsabile del Viminale, a guidare un esecutivo a termine mirato a una riforma della legge elettorale.

Forse è proprio per questo che Maroni, ad ogni occasione, ribadisce che la posizione della Lega è rimasta immutata: o si rimette in piedi questo governo o si va ad elezioni. E in effetti Bossi non ha alcuna necessità di cambiare il suo atteggiamento prima di conoscere il risultato della votazione. Tiene presente le offerte che continuano a giungergli specie dal fronte dell’assedio (Fini non a caso ieri ha ribadito che non punta a un ribaltone, ma a un nuovo governo di centrodestra, e Bocchino per la stessa ragione ha dichiarato che non si può escludere anche un Berlusconi bis), ma aspetta.

Se il 14 dicembre alla fine Berlusconi dovesse prevalere anche per un solo voto, e con un governo che resterebbe comunque al di sotto della fatidica soglia dei 316 deputati, Bossi sarebbe al suo fianco per aiutarlo ad andare avanti, almeno fino all’approvazione dei decreti sul federalismo, e forse anche per valutare le mosse dello sconfitto Terzo polo e gli eventuali smarcamenti dei tre leader che lo compongono. Il Cavaliere a quel punto potrebbe anche fare il famoso appello alla responsabilità, e misurare su questo se Casini, dopo il mancato successo della mozione di sfiducia, sarebbe disposto, a certe condizioni, a muoversi anche senza Fini. Nel caso invece fosse il Terzo polo a prevalere il 14, sia pure di poco, Bossi manterrebbe il suo asse con il Cavaliere solo se il Pdl si schierasse compatto con il proprio leader. Al primo accenno di ripensamento, al Senato o alla Camera, e a fronte di rassicurazioni sul percorso del federalismo, non potrebbe invece che valutare la possibilità di un nuovo governo. Specie se, come ripete Fini, si trattasse di un esecutivo di centrodestra.

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« Risposta #236 inserito:: Dicembre 08, 2010, 12:33:42 pm »

Politica

08/12/2010 - ANALISI

An, la lite infinita degli ex colonnelli

Dietro la battaglia un cumulo di legami infranti. Come nello scontro tv La Russa- Bocchino

MARCELLO SORGI

ROMA
Prima o poi ci si dovrà decidere a valutare quanto pesa, in questa crisi che rischia di segnare per sempre il destino del centrodestra, il vissuto di un partito, o un ex partito, come An. Perché appunto, al centro della crisi, c’è certamente lo scontro personale tra Berlusconi e Fini. Ma a renderne impossibile la ricomposizione, ha giocato certamente anche tutto il groviglio di amicizie, militanza e passioni politiche che ruota attorno agli ex eredi di Almirante. Il gruppo dei colonnelli, un tempo al fianco di Fini, ed ora stretti attorno a Berlusconi.
I nuovi pretoriani, quelli che l’altra sera il ministro della Difesa e coordinatore del Pdl Ignazio La Russa, davanti al capogruppo di Futuro e libertà Italo Bocchino, ha definito con disprezzo «caporali».

E ancora, l'insieme dei camerati, e perfino dei federali del vecchio Msi, che osserva questa lotta intestina tra i due tronconi di quello che, sia pure cambiando pelle, era rimasto il loro vecchio partito, come se dovesse dissolversi per sempre. Sì, bisognava proprio trovarsi lunedì sera nello studio di «Porta a porta» per vedere La Russa e Bocchino dar vita ad uno dei duelli più sanguinosi, a memoria di tutti i presenti, che annoveri la storia recente della Seconda Repubblica. I due camerati si scrutavano con gli sguardi pieni di odio, si rovesciavano addosso ondate di accuse infamanti, ma si vedeva chiaramente che lo facevano in sofferenza. E proprio per questo, di tanto in tanto, prendevano fiato rinfacciandosi il passato in comune, il pezzo di vita, ancora palpitante, vissuta uno accanto all'altro. «Ti ricordi, Italo?». «E tu, Ignazio?». «Quello che abbiamo fatto, lo abbiamo fatto sempre insieme», incalzava La Russa.

«Non è vero - ribatteva Bocchino - quando Berlusconi ci ha espulso dal partito voi eravate d’accordo». «Bugiardo - reagiva il ministro - siete stati voi ad andarvene, non noi a cacciarvi». E il capogruppo: «Sei tu a mentire. Lo sai benissimo perché sono stato cacciato!». Nello studio televisivo pieno di tensione, con La Russa che frenava a fatica un fremito, e Bocchino immobile nel suo sguardo assassino, si è arrivati a temere perfino che la lite potesse arrivare allo scontro fisico, come ai vecchi tempi in cui i due camerati andavano davanti alle scuole. Non era difficile intuire che, al di là dello sbocco della crisi, la vera ragione del contendere era l’infamia, per gente che ha sempre avuto una certa idea dell’onore politico, di sentirsi trattati reciprocamente da traditori. Si capiva benissimo, ad esempio, quando Bocchino, in un intervallo pubblicitario della trasmissione, ha tirato fuori dalla tasca il telefonino e ha fatto vedere a La Russa gli effetti della campagna sul tradimento inaugurata da Berlusconi e rilanciata da «Libero», che ha messo in prima pagina nomi, foto e indirizzi mail dei deputati finiani.

«Guarda Ignazio, se fossi quello di una volta dovresti ancora indignarti: c’è uno che mi scrive per augurare a mia figlia un cancro al cervello!». «Calma, Italo, se mi dovessi indignare come vuoi tu, da anni sarei sempre indignato». Ma dietro questo psicodramma che somigliava molto a una lite in famiglia, come quelle in cui le ragioni e i torti risalgono indietro per generazioni, ci sono naturalmente ragioni politiche, prima tra tutte l’inaccettabilità di una guerra intestina per persone che hanno condiviso la stessa esperienza politica.
Come Bocchino accusa La Russa e tutti gli altri colonnelli dell’ex An, Gasparri, Matteoli e Alemanno, di aver svenduto la tradizione del partito ed essersi messi al servizio di Berlusconi, per far fuori Fini, così La Russa rimprovera a Bocchino, e agli altri «caporali» del neonato partito finiano, di aver stretto attorno al leader un cordone asfissiante e averlo portato nel vicolo cieco della sfiducia. Poi, c’è una sorta di non detto, che rimbomba nel silenzio degli sguardi inferociti.

E’ come se ciascuno si rivolgesse all’altro per dire: ma come, eravamo gli unici veri politici di quell’armata Brancaleone che è il centrodestra, i più titolati a cogliere l’eredità di Berlusconi, e invece siamo finiti così. Eppure, nessuno vuol tirare fuori quelle che considera le vere cause di una divisione insanabile. Bocchino pensa (ma non lo dirà mai a voce alta) che La Russa e gli altri colonnelli si sono piegati, non a una scelta politica di Berlusconi, ma all’inaccettabile capriccio del Cavaliere di fargli pagare, senza neppure chiedersi se fossero veri, i gossip sulla storia tra lui e la Carfagna. La Russa e gli altri sono convinti che Fini, come dicono a Roma, sia stato «inzigato», cioè spinto sotto sotto a scegliere la linea radicale della rottura, non solo dalla nuova moglie, che avrebbe su di lui un’influenza superiore a qualsiasi altro, ma anche dalla mancata reazione, o addirittura dalla irragionevole propensione estremista, di «caporali» come Briguglio e Granata, gente a cui nella vecchia An non si dava alcuna importanza, che ora mirano a farli fuori per prendere i loro posti. E siccome Bocchino è l'unico del vecchio gruppo per il quale gli ex colonnelli nutrano malgrado tutto un po' di rispetto residuo, e' su di lui che si concentrano le accuse piu' pesanti.

Al dunque, e' come se dopo aver consumato il parricidio di un leader assoluto come Fini, gli ex-colonnelli si guardassero intorno, avvertendone la mancanza e non sapendo come occuparne il vuoto. Gasparri, il primo a veder incrinato il suo rapporto con Gianfranco gia' ai tempi del precedente governo, dopo la legge sulla tv che porta il suo nome e che gli costo' il posto da ministro, oggi fatica a fare il berlusconiano tutto d'un pezzo, come vuole il Cavaliere. Matteoli, che di Fini era sempre stato l'ombra, non fa mistero di aver vissuto la separazione come un dolore personale. La Russa ricorda a tutti che a volere il partito unico «e' stato Fini. Fosse dipeso da me, potevamo fare le liste insieme con Berlusconi e aspettare, formare una federazione e stare a vedere».

Quanto a Alemanno, che se non fosse sindaco di Roma, con l'obbligo di tenere insieme una maggioranza in cui gli ex-Forza Italia sono determinanti, sarebbe il meno berlusconiano di tutti, ha cercato fino all'ultimo di convincere Fini a non rompere. «Gli ho detto: Gianfranco, ma se poi si arriva alle elezioni, mi dici dove vai a prendere i voti? Vedrai - mi ha risposto -. Se mi guardo intorno, vedo tante reazioni che non mi aspettavo. Non sai quanti vecchi federali missini mi chiamano per incoraggiarmi». Una risposta del tutto inattesa, di fronte alla quale il sindaco e' rimasto stupito: «Dopo quindici anni, tutto mi sarei aspettato, ma non di dover tornare al Msi!».

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« Risposta #237 inserito:: Dicembre 11, 2010, 06:32:15 pm »

11/12/2010

Processo alla brutta politica

MARCELLO SORGI

Eravamo appena usciti - e non del tutto - dagli strascichi giudiziari dell’ultima campagna elettorale, in cui entrambi gli schieramenti avevano scelto di combattersi fino all’ultimo nelle aule di giustizia, per cercare di impedire, l’uno all’altro, di competere con la propria lista, e magari vincere a tavolino per assenza di avversario, ed ecco che ci ritroviamo alle prese con l’inchiesta della Procura romana sul cosiddetto calciomercato dei parlamentari, che potrebbe avere un peso decisivo nella votazione sulla sfiducia prevista per martedì alla Camera.

Intendiamoci: che qualcosa di strano sia accaduto e stia accadendo, nelle ultime ore che precedono il dibattito, è sicuro. Giorno dopo giorno si allunga la fila dei deputati che si presentano davanti alle telecamere, per esprimere i propri dubbi e riserve rispetto alle posizioni dei partiti a cui appartengono - meglio sarebbe dire appartenevano. Un leader come Di Pietro, che se ne è visti portare via due, e teme che la diaspora non sia finita, s’è rivolto ai suoi vecchi colleghi magistrati perché sospetta che questi ripensamenti non siano soltanto politici e che qualcuno di quelli che hanno deciso di passare dall’opposizione alla maggioranza lo abbia fatto per convenienza, o addirittura per soldi.

La reazione della magistratura romana è stata immediata, e l’inchiesta subito aperta, nello spazio di un solo giorno e a distanza di soli tre dall’inizio del dibattito in Parlamento. Cosa, quest’ultima, che ha determinato una furiosa reazione e un controesposto del partito del presidente del Consiglio.

Ma l’indagine, è fin troppo evidente, si presenta assai complicata. A partire dal fatto che gli indagati, i presunti colpevoli di aver messo in vendita i propri voti, hanno reso pubblica confessione in Parlamento, presentandosi in sala stampa, chiedendo di parlare con i giornalisti e rivendicando il loro diritto a cambiare idea. Non avrebbero mai pensato, per questo, di fornire una «notizia criminis» alla magistratura, attivare il meccanismo dell’obbligatorietà dell’azione penale, subire un interrogatorio e probabilmente anche dei controlli patrimoniali, oltre a doversi discolpare dal sospetto ignominioso di essersi venduti ed essere stati comperati. Ciò che - va detto - finora hanno accolto con sdegno, anche quando non sono stati in grado di spiegare le ragioni politiche e le motivazioni ideali del loro cambio di casacca. Se non fosse che chi ha elencato le tariffe - da 350 a 500 mila euro - per cui un deputato indeciso sarebbe disposto a mettersi all’asta è un signore benestante come l’ex pd Calearo, si potrebbe anche dire che la curiosità è legittima e la necessità di far chiarezza è evidente.

E tuttavia, che succede se la magistratura non trova entro domenica un deputato con il portafoglio o il conto corrente in banca fumante?
E peggio ancora, che succede se lo accerta il 15 o il 16 dicembre, o perfino un mese dopo, quando la votazione, comunque sia andata, sarà già stata archiviata? Nel primo caso, si potrebbe pensare che un normale deputato, che magari senza essere stato sollecitato da nessuno all’ultimo momento stava per cambiare idea, potrebbe essere stato portato a soprassedere per timore di finire sotto inchiesta. Nel secondo, invece, è davvero difficile immaginare le conseguenze: già, che si fa? Si ripetono dibattito e votazione? Si annulla tutto? Si decide a seconda se il governo era caduto o se era rimasto in piedi?

Se non se le erano poste prima, i magistrati della Procura di Roma troveranno tutte queste domande sulla strada della loro inchiesta.
Un’inchiesta sulla brutta politica, certamente. Che ha superato ogni livello sopportabile di bruttezza, eppure non è detto che possa o debba essere sanzionata facilmente dalla giustizia o dai magistrati. I quali, appunto, avrebbero fatto bene a non mescolarsi con una vicenda già abbastanza complicata come la crisi di governo. In fondo, bastava solo aspettare qualche giorno. Né più né meno come hanno deciso i più saggi giudici della Corte Costituzionale, che nello stesso giorno in cui la Procura di Roma ha addentato il calciomercato di Montecitorio hanno fatto sapere che sul legittimo impedimento decideranno a gennaio.

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« Risposta #238 inserito:: Dicembre 14, 2010, 08:29:33 am »

14/12/2010

Il sipario sulla Seconda Repubblica

MARCELLO SORGI

E’ inutile nasconderlo o cercare di relativizzare: ciò che abbiamo visto ieri per ore e ore, trasmesso in diretta dalle tv nelle case degli italiani, non è solo la crisi del governo Berlusconi - nato, non va dimenticato, meno di tre anni fa, sull’onda di una straordinaria vittoria elettorale con oltre cento deputati di maggioranza. Ma quella, evidente, della Seconda Repubblica. Una Repubblica nuova, anzi fondata sul «nuovismo», venuta a riempire nel 1994 il vuoto lasciato dalla Prima, inghiottita a sua volta da Tangentopoli e dalla propria incapacità di autoriformarsi. E’ precisamente questo sistema, che doveva dare agli elettori il potere di scegliersi direttamente i propri rappresentanti senza sottostare alle prepotenze dei partiti, e al contempo di stabilire da chi farsi governare, che è franato tutt’insieme sotto gli occhi dei cittadini-telespettatori. Paradossalmente, lo spettacolo a cui si è assistito in un giorno interminabile aveva le caratteristiche dell’inverosimile e della veglia funebre, così che a tratti sembrava di rivedere l’indimenticabile «Prova d’orchestra» di Fellini.

Nel momento terribile e fantastico del film in cui il maestro tenta per l’ultima volta di dirigere i suoi orchestrali, mentre tutto vien giù, il teatro, il palco, i leggii con le ultime note, sepolte da un cupo rimbombo. A somigliare al maestro felliniano erano appunto i due avversari che si fronteggiano da mesi, e che ieri si scambiavano reciprocamente gelide occhiate di disprezzo. Berlusconi s’è alzato a parlare tre volte, due nell’aula del Senato, una in quella della Camera, sforzandosi in ogni modo di apparire sicuro di sé. Ha lasciato intendere che è pronto a trattare su tutto, dalla legge elettorale al rimpasto di governo, ma che la trattativa, per lui, può cominciare solo un minuto dopo la vittoria, anche stentata, sulle mozioni di sfiducia. Quanto a Fini, mostrava qualche segno di sofferenza per le voci di dissenso e le grida di dolore dei più incerti tra i suoi, usciti allo scoperto. Ma al dunque, è riuscito a recuperarli, riunificando il suo gruppo parlamentare, mentre pure gli toccava coordinare, da presidente, una delle sedute più difficili della Camera.

Tal che, a fine giornata, i pronostici inizialmente favorevoli al Cavaliere erano di nuovo incerti. Se le tre deputate in gravidanza, per cui è stato già disposto un servizio di assistenza con sedie a rotelle, riusciranno a partecipare al voto di oggi, i due schieramenti, numeri alla mano, dovrebbero essere pari. La vittoria dell’uno o dell’altro dipenderà dal ripensamento di Guzzanti (ricollocato all’opposizione dopo un repentino passaggio alla maggioranza), dallo spostamento di Calearo (eletto con il Pd, traghettato nel gruppo misto e tentato dalla fiducia) e da quello eventuale di Scilipoti, transfuga dipietrista che all’ultimo momento potrebbe passare con il Cavaliere. Dove poi possa andare un governo appeso dichiaratamente a questi tre, è meglio non chiederselo.

Né vale interrogarsi, se per caso a vincere dovesse essere Fini, dove potrà arrivare il largo fronte della sfiducia. Consumata l’ipotesi di un governo di emergenza appoggiato anche dalla sinistra, esaurita la speranza di riunire in qualsiasi modo forze eterogenee per cambiare la legge elettorale Porcellum e poi riandare a votare, preclusa anche la strada di un restauro, forse sarebbe meglio dire un accomodamento, del centrodestra, la verità è che se cade Berlusconi non c’è alcuna alternativa pronta. I lunghi mesi impiegati a prepararla sono finiti nel nulla. Il confuso ribaltone del ‘94, costruito davanti a una scatola di sardine da Bossi e D’Alema, oggi appare sproporzionatamente come un esempio di architettura politica, a confronto dell’inconcludenza e del vicolo cieco in cui si sono cacciate le opposizioni. Anche per questo, la solenne seduta parlamentare e bicamerale officiata ieri resterà a suo modo nella storia per aver calato in un colpo il sipario sul centrodestra come lo avevamo conosciuto, su Berlusconi e il berlusconismo, e forse anche, definitivamente, sull’intera Seconda Repubblica.

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« Risposta #239 inserito:: Dicembre 16, 2010, 03:47:18 pm »

16/12/2010 - TACCUINO

Strategia di sopravvivenza ora il pallino è al Senatur

MARCELLO SORGI

La nascita, o la rinascita, del Terzo polo, dopo la botta della sconfitta subita alla Camera, è la diretta reazione alla strategia dell’allargamento della maggioranza per singole chiamate di deputati annunciata da Berlusconi dopo il voto con cui ha salvato il governo, e ribadita ieri in un’intervista a Mattino 5. E’ come se gli ottanta deputati dei gruppi che avevano presentato la mozione di sfiducia avessero risposto al premier che se vuole trattare, deve farlo con tutti insieme, senza cercare di separare i buoni dai cattivi, Casini da Fini e i parlamentari dai loro leader.

La delusione per l’esito della due giorni in Parlamento era palpabile nell’assemblea a due passi da Montecitorio ieri pomeriggio e attorno al tavolo a cui si sono seduti, oltre a Casini, Fini e Rutelli, tutti gli altri che hanno giocato la partita della sfiducia, da Giorgio La Malfa a Paolo Guzzanti. I terzopolisti ovviamente, piuttosto che le elezioni subito come annunciato dall’asse BB (Berlusconi-Bossi) in caso di impossibilità, per il governo, di andare avanti, preferirebbero che il Cavaliere riuscisse a galleggiare per un annetto, tenendolo a bagnomaria e magari aprendo la strada all’approvazione finale della riforma Gelmini o lasciando passare il decreto milleproroghe. Ma costringendolo anche ad affrontare altri passaggi rischiosi e logoranti, come le sfiducie personali contro i ministri Bondi e Calderoli o la mozione sulla Rai, che verranno discusse a gennaio. Tra le speranze inconfessabili, ma sussurrate da più d’uno dei leader del Polo ritrovato, c’è anche quella che la Corte costituzionale a gennaio annulli il legittimo impedimento, riconsegnando Berlusconi ai magistrati milanesi, e costringendolo a negoziare con gli avversari un nuovo salvacondotto per evitare di affrontare i processi.

Si tratta, come è evidente di una strategia di sopravvivenza, di un’alleanza finora abbastanza occasionale, che comincia a fare i conti con la sconfitta subita martedì e mette in conto l’eventualità che lo scioglimento anticipato delle Camere diventi inevitabile di qui a poco. La blindatura dei parlamentari incerti, sui quali il premier ha puntato immediatamente dopo il modesto risultato dei 314 voti alla Camera per allargare la maggioranza, potrebbe infatti produrre un effetto opposto a quello che i terzopolisti si propongono, accelerando le ambizioni elettorali di Berlusconi e Bossi. Approvato il federalismo, a fine gennaio, potrebbe essere il Senatur, d’intesa con il Cavaliere, a decidere di staccare la spina al governo.

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