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« Risposta #165 inserito:: Luglio 13, 2010, 10:11:27 am » |
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13/7/2010 - TACCUINO Metti un trattore tra Pdl e Carroccio MARCELLO SORGI Un piccolo manipolo di trasgressori», questo sono, per il ministro dell’Agricoltura (ed ex presidente della Regione Veneto) Giancarlo Galan gli allevatori in marcia con i loro trattori verso Bruxelles per protestare contro le multe comminate dalla Ue per aver superato i limiti previsti dalle quote latte. L’Italia ha già ottenuto in passato un aumento della propria capacità di produzione, ma gli allevatori non si accontentano e stanno confluendo con i loro trattori verso Bruxelles. Dove troveranno Galan ad aspettarli e a criticarli, per difendere la serietà degli impegni assunti dal governo italiano in sede comunitaria. Non è la prima volta che gli allevatori del Nord si scatenano contro l'Europa. Una delle precedenti, in marcia verso Roma, arrivarono a spruzzare gli escrementi dei loro animali sui poliziotti che cercavano di fermare il loro corteo. Ma in questo caso c’è un piccolo antefatto: due settimane fa i trattoristi avevano cinto d’assedio la Regione Lombardia, decisi a non andarsene finché Formigoni e la sua amministrazione non avessero trovato il modo di risolvere il problema. Dagli uffici milanesi scesero il vicepresidente leghista Gibelli e il figlio neo-consigliere regionale di Bossi, «la Trota», per rassicurarli. Gli allevatori accettarono di ritirarsi, ma rimasero in attesa di una risposta, che non è arrivata. La vicenda di Bruxelles si può leggere quindi in due modi: uno è il classico scontro tra alleati, con in prima linea Galan, che anche quando era alla guida del Veneto non aveva buoni rapporti con i leghisti e li ha peggiorati dopo la sua defenestrazione dalla Presidenza della Regione. L’altro, - ed è una novità -, è che la contestazione si rivolge dalla base al vertice leghista e si aggiunge ai mugugni sentiti di recente a Pontida contro l'immobilismo del governo e il federalismo da troppo tempo annunciato e rinviato. In questo secondo caso (ma è difficile, spiega Galan, che l’Italia possa ottenere un nuovo aumento della propria quota latte, ed è irresponsabile, da parte della Lega, alimentare l’illusione che tutto s’aggiusterà) le polemiche sono destinate a trasferirsi dall’Europa al condominio governativo di casa nostra, con un ulteriore appesantimento dei rapporti interni tra Pdl e Lega, già piuttosto tesi negli ultimi giorni, e della pressione, che dura da mesi ormai, rivolta a ottenere che il ministero dell’Agricoltura torni al Carroccio e che si trovi un'altra sistemazione per Galan. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7586&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #166 inserito:: Luglio 14, 2010, 10:26:27 am » |
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14/7/2010 - TACCUINO Caro Pomicino, è un'illusione superare l'anomalia italiana restaurando i partiti del '900 MARCELLO SORGI Caro Sorgi, ho letto con il solito interesse il suo ultimo editoriale sulla Stampa di lunedì 12 luglio e mi preme commentare due passaggi dell'articolo, entrambi riferiti alla Democrazia Cristiana. Sul primo non si può non essere d'accordo. Lei afferma, infatti, che la Democrazia Cristiana era una cosa seria. Ogni giorno che passa si capisce sempre più quale ruolo abbia giocato nella modernizzazione del Paese e nella crescita e nella diffusione del benessere la vecchia DC e il saldo non può che essere positivo nonostante i tanti errori dei singoli. La Dc non solo aveva il senso dello Stato (nessuno è mai rimasto al governo o nella direzione del partito dinanzi ad un avviso di garanzia) ma aveva anche la dimensione del futuro. Valgano per tutti gli esempi dei Patti di Roma per costruire l'Europa moderna nonostante molti fossero contrari, la riforma del punto unico della scala mobile del 1984 che debellò l'inflazione a 2 cifre e la sconfitta del terrorismo senza che l'Italia venisse trasformata in uno Stato di polizia. Meno condivisibile è il suo giudizio sul fatto che la Dc fosse sopravvissuta a se stessa. Nel 1992 la Dc raccolse il 29,7% dei consensi, il suo punto più basso che è stato comunque il punto più alto raggiunto da Forza Italia quando si presentava da sola. Ancora meno condivisibile, infine, è l'altro passaggio nel quale afferma che "non è proprio detto che per curare i mali italiani la medicina sia una nuova Dc". Ed invece mai come oggi il Paese avrebbe bisogno di un partito democratico -cristiano con la sua cultura di governo, la sua laicità e la sua ispirazione alla dottrina sociale della Chiesa. Germania, Austria, Belgio, Olanda, il piccolo Lussemburgo, sono governati da partiti che si chiamano cristiano-democratici a testimonianza che il cattolicesimo politico non è un incidente della Storia ma una grande cultura di governo. Comunque da sola non sarebbe sufficiente. Ci sarebbe bisogno anche di un grande partito socialista e di un partito liberale, le tre grandi culture politiche che governano l'Europa. Da 16 anni nessuno di questi tre partiti esiste in Italia e trionfa il liderismo autoritario e la personalizzazione della politica. E' forse questa la modernità? Insomma siamo un'anomalia europea o siamo, invece, il Paese che ha trovato il Santo Graal della politica con l'abolizione dell'identità di ciascuna forza politica? Senza una chiara e riconoscibile cultura politica di riferimento navighiamo tutti a vista e tutti tentiamo di parlare alla pancia del Paese non sapendo più cosa dire alla sua testa e alla sua anima. E i guasti sono crescenti. E' il caso di chiederci angosciati "usque tandem Catilina….eccetera, eccetera". Con stima Paolo Cirino Pomicino Roma 13/07/2010 --- Caro Pomicino, la ringrazio per l'attenzione. La sua lettera contiene molte osservazioni condivisibili, a cominciare dal riconoscimento degli errori di molti dc e della loro disponibilità a farsi da parte anche solo di fronte a un avviso di garanzia: sensibilità, questa, di cui oggi si avverte la mancanza. E tuttavia resto della mia idea: l'anomalia italiana ha ormai raggiunto dimensioni tali che credere di affrontarla semplicemente restaurando partiti e culture novecentesche è un'illusione. Intanto non mi pare che Berlusconi abbia alcuna voglia di farsi da parte. E tra quelli che vorrebbero toglierlo di mezzo, purtroppo, non vedo nessuno immune da quelli che lei definisce "liderismo autoritario e personalizzazione della politica". http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7593&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #167 inserito:: Luglio 15, 2010, 10:38:16 pm » |
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15/7/2010 Prigionieri di una spirale pericolosa MARCELLO SORGI Sarà che siamo in tempi di revival democristiano - forse sarebbe più appropriato parlare di parodia -, ma la soluzione trovata ieri con le dimissioni di Nicola Cosentino da sottosegretario, ma non da coordinatore del Pdl campano, convince poco. Ricorda i tempi in cui i ministri venivano dimissionati. E subito rinominati, in forza del peso delle loro correnti. Come espediente, non servirà neppure a raffreddare lo scontro tra Berlusconi e Fini, dato che è stata la decisione del presidente della Camera di mettere all’ordine del giorno, contro il parere del Popolo della Libertà e della Lega, la mozione di sfiducia, a indurre il premier a far uscire dal governo il sottosegretario inquisito. Se uno come «Nick ’u mericano», questo il suo inverosimile nome di battaglia, non è degno di stare al governo, non lo è neppure di guidare il partito. Né vale l’argomento che Cosentino ha condotto da poco il Pdl in Campania a una grande vittoria, abbattendo il regno ventennale della sinistra bassoliniana e insediando al suo posto come governatore il mite Antonio Caldoro, contro il quale, peraltro, uno dei tre coordinatori nazionali, Denis Verdini, in combutta con vecchi massoni, magistrati amici e rivali dello stesso candidato, veicolava dossier apocrifi basati sulla falsa frequentazione di transessuali. Come Berlusconi sa, per aver frequentato a lungo Napoli, trasformandola nel primo esempio del suo buon governo al momento della disinfestazione dalla monnezza, in città e nella regione il Pdl è un verminaio di correnti, in cui alle tre componenti principali, ex Forza Italia, ex An e sedicenti pidiellini, si sommano una infinità di potentati personali che, oltre che a «’u mericano», fanno capo a una serie di improbabili personaggi locali, noti più per i soprannomi semimalavitosi che portano - «’a purpetta», «’o sfacimme» - che non per impegno pubblico e corretta amministrazione. Il guaio è che un modello come questo - ammesso che di modello si tratti - sta prendendo piede sul piano nazionale, allungando le sue ombre sul vertice centrale del Pdl. Non è solo questione di Verdini e di P3 - una loggia che, almeno per quel che se ne sa, sembra neppure una sottomarca di quella del Venerabile di Arezzo di trent’anni fa -, ma di proliferazione di gruppi e gruppetti che a tutti i livelli si fanno la guerra per interessi quasi mai politici e fin troppo spesso, e chiaramente, privati. Un processo degenerativo del genere - soldi cercati e usati per conquistare il potere, potere usato per fare soldi - riguardò già vent’anni fa tutti i partiti della Prima Repubblica, e fu alla base, non va dimenticato, della sua caduta. Poco importa che una parte dei soldi, anche la gran parte, allora servissero per il finanziamento della politica e ora invece finiscano nelle tasche dei faccendieri: la questione era che quei partiti novecenteschi avevano tutte le regole interne per mettere in discussione, ed eventualmente sostituire, le loro classi dirigenti, ma non lo fecero, firmando così la loro fine. Proprio perché su quella rovina ha costruito la sua fortuna, Berlusconi dovrebbe agire oggi senza perdere più tempo. Altro che «campagna d’autunno», come si sente dire. Altro che mezze dimissioni e pezze che si rivelano peggiori del buco. Il problema è qui e ora, riguarda il suo partito e il premier deve affrontarlo, segnando una svolta come quella che da più parti, anche dall’interno, viene invocata. Dal 22 aprile, da quando i due cofondatori hanno litigato, il Pdl invece è come paralizzato, la direzione non viene più convocata, i coordinatori o girano a vuoto o fanno pasticci come Verdini. E il governo, di conseguenza, stenta e traballa. Non si deve solo capire chi comanda, nel Pdl. Ma come, con quali regole, si comanda e si può mettere in discussione quel che si fa. Altrimenti, invece di uscire dall’impasse, Berlusconi rischia di trascinare tutto in una spirale che potrebbe travolgere, nel suo insieme, perfino la Seconda Repubblica. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7597&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #168 inserito:: Luglio 16, 2010, 05:14:28 pm » |
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16/7/2010 - TACCUINO Il Senatùr e i timori sul federalismo MARCELLO SORGI Malgrado il tono scanzonato con cui ieri ha risposto ai giornalisti, scherzando sulla spada avuta in regalo dall'Alcalde di Toledo e su quella che Berlusconi dovrebbe decidersi a usare per risolvere i problemi che lo assillano, Umberto Bossi è evidentemente preoccupato. Ieri, dopo l'approvazione della manovra con il voto di fiducia del Senato, è rimasto quaranta minuti faccia a faccia con il ministro Tremonti e all'uscita, tra una battuta e l'altra, ha accennato ai decreti attuativi del federalismo che il Consiglio dei ministri dovrebbe varare, ma che vengono licenziati con una lentezza inaccettabile agli occhi della Lega. Un paio di settimane fa, all'atto della concessione ai Comuni dell'autonomia impositiva, fu lo stesso Tremonti a dire che il federalismo richiedeva una serie di passi importanti e successivi, da scandire nel prosieguo della legislatura. Un calendario ragionevole in una situazione normale, ma che non fa i conti con l'impazienza manifestata recentemente a Pontida dalla base leghista, che vuol sapere da Bossi e dai ministri della Lega cosa siano riusciti a ottenere finora da un governo afflitto da troppe divisioni che trova sempre il modo di allungare i tempi del federalismo. In realtà Bossi teme anche che la situazione nel Pdl possa precipitare e non si spiega gli indugi di Berlusconi nell'affrontarla una volta e per tutte drasticamente. Aveva detto «ghe pensi mi», e invece sta lì chiuso a Palazzo Grazioli a cercare all'infinito un compromesso. Di qui la disponibilità, ribadita dal leader leghista, a dare il suo appoggio a una rapida approvazione della legge sulle intercettazioni, e la sua richiesta, impossibile da accontentare, di chiudere l'iter del federalismo prima della pausa estiva, che a questo punto il leader della Lega sarebbe anche disposto a procrastinare anche oltre la prima settimana di agosto già prevista per i due provvedimenti attualmente all'esame del Parlamento. La sortita di Casini, l'attenzione mostrata dallo stato maggiore berlusconiano alle aperture del leader dell'Udc, la trattativa con Fini, sono tutti campanelli d'allarme che fanno pensare a un indebolimento dell'asse Pdl-Lega su cui s'è retto finora il governo. E Bossi teme anche che al di là delle minacce di Berlusconi, le elezioni anticipate possano diventare lo sbocco inevitabile della rottura con Fini. Ecco perché il Senatùr insiste per far sì che il Cavaliere adoperi la spada e si separi dai suoi alleati infedeli. Ricordandogli, peraltro, che anche lui potrebbe usare la sua, sempre in bella mostra nel suo ufficio di Milano. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7603&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #169 inserito:: Luglio 23, 2010, 11:11:02 am » |
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22/7/2010 - TACCUINO Tagli agli stipendi (stavolta obbligati) dei parlamentari MARCELLO SORGI Collocata in fondo all’agenda di un Parlamento che prevede ferie molto brevi, la questione del taglio degli stipendi dei parlamentari rischia di agitare la chiusura estiva (quando verrà) di un anno molto movimentato. Finora infatti tutte le volte che i deputati e i senatori avevano messo mano alle loro prebende si erano preoccupati di ottenere il massimo risultato d’immagine con il minimo sforzo. Di qui leggere piallatine a buste paga che, va detto, non sarebbero poi così enormi se i parlamentari dovessero ancora preoccuparsi dei collegi e tenere in piedi un minimo di struttura di collaboratori per dare ascolto al loro elettorato, mentre da due legislature in qua, come si sa, grazie alla nuova legge elettorale che prevede che l’elezione sia prestabilita al momento delle candidature, sono diventati dipendenti, per non dire sudditi, dei rispettivi capi partito. Anche ieri, dai questori della Camera era uscita un’ipotesi che prevedeva un taglio del dieci per cento dell’indennità base dei deputati, in totale 550 euro al mese. Gli emolumenti però sono composti, oltre che dall’indennità, da una serie di rimborsi, tra l’altro meno tassati, che vanno a formare il totale della paga, portandola fino a 21.270 euro lordi mensili. Così è toccato al presidente Fini, poco dopo, far sapere che il taglio del dieci per cento dovrà necessariamente riguardare tutte le voci degli stipendi: totale, più o meno, 2.127 euro e non 550. Un altro aspetto interessante riguarderà la scadenza, cioè da quando i deputati (e di conseguenza i senatori) cominceranno a fare la loro parte. In genere queste date venivano spostate avanti nel tempo, come quelle delle riforme che prevedevano la riduzione del numero dei parlamentari, approvate in modo da diventare effettive solo a distanza di due legislature a venire, per lasciare un margine di ripensamento. E anche nel caso dei tagli di quest’anno la data che era circolata, senza conferme, era quella del 2013: insomma a lavorare con stipendi ridotti sarebbero stati solo gli eletti della prossima legislatura. Stavolta invece la congiuntura 2010 è particolarmente sfavorevole agli on. I tagli degli stipendi statali colpiranno infatti, sindacati permettendo, anche i dipendenti e i dirigenti della Camera. Ed è difficile immaginare che questo possa accadere senza che i deputati (e di conseguenza i senatori) si rassegnino a rinunciare a una fetta delle loro remunerazioni in coincidenza con i sacrifici che tutto il settore pubblico, per effetto della manovra, volente o nolente dovrà accettare. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7627&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #170 inserito:: Luglio 23, 2010, 11:16:15 am » |
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23/7/2010 - TACCUINO Se davvero bastasse un pieghevole MARCELLO SORGI Se bastasse davvero un pieghevole a risolvere i guai del Pdl! Silvio Berlusconi lo ha fatto preparare per fornire ai militanti del suo partito materiale utile a spiegare in giro i buoni risultati del suo governo. Ma quando ieri lo ha presentato al vertice del Popolo della libertà - un vertice molto affollato a Palazzo Grazioli, con i coordinatori, i ministri più importanti, i capigruppo e perfino il presidente del Senato - un brivido di gelo dev’essere apparso sulle facce dei presenti. Tutti hanno ben chiaro che il partito del premier ha davanti una serie di problemi politici che non possono essere accantonati, a cominciare, appunto, dalle inchieste giudiziarie che hanno portato alle dimissioni due ministri e un sottosegretario, dalla governance del partito in cui Berlusconi è apertamente contestato dalla minoranza finiana, dall’esplosione del correntismo determinata dall’impressione, diffusa ormai a qualsiasi livello, che il Pdl possa implodere da un momento all’altro, non semplicemente tornando alla divisione tra l’ex-An e l’ex-Forza Italia, ma con una polverizzazione delle componenti interne che potrebbe mettere a repentaglio l'assetto bipolare italiano. Malgrado ciò Berlusconi continua a rispondere che la realtà non è questa, che il Pdl deve reagire alla campagna diffamatoria dei giornali e dell'opposizione, e che la soluzione più vicina ai desideri dell'elettorato è tenere il partito unito e stringersi attorno a lui. Sulla necessità di un congresso, o del superamento dell'attuale assetto con tre coordinatori (uno dei quali, Verdini, è al centro dell'inchiesta sulla cosiddetta P3), il premier ha fatto chiaramente intendere di non aver deciso: la data per le assise rimane fissata al 2012. La verità è che per quanto da tempo si moltiplichino le spinte interne per trasformare il Pdl in un vero partito, difficilmente, finché c'è Berlusconi, questo potrà accadere. Proprio perché non è e non sarà mai una nuova Dc, il «caminetto» alla democristiana tenutosi ieri a casa del leader è servito solo a fotografare le divisioni, con Verdini e La Russa seduti di fronte a Frattini, capo della corrente che ne chiede le dimissioni, Tremonti e il Cavaliere in freddo perché il ministro dell'Economia ha ammesso che esiste una questione morale, Alfano in imbarazzo per le critiche ricevute dal presidente del Consiglio sul compromesso sulle intercettazioni, e tutti insieme che in silenzio si interrogavano su cosa potrà accadere il mese prossimo, quando andranno in vacanza, mentre il premier, solo a Roma, promette di dar libero sfogo alle sue trovate. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7632&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #171 inserito:: Luglio 25, 2010, 12:26:05 pm » |
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24/7/2010
Il Cavaliere rassegnato MARCELLO SORGI
Da settimane, per non dire da mesi ormai, Silvio Berlusconi è sottoposto a un fuoco di fila che lo spinge a far chiarezza sul suo governo e sul suo partito. Glielo chiedono, non solo la gran parte dell'opposizione e la minoranza interna del Pdl, convinte che Berlusconi sia ormai al capolinea e debba solo scegliere il percorso per uscire di scena. Ma anche un gran pezzo di opinione pubblica che invece vorrebbe che andasse avanti, ma si rende conto che così non può. E' impossibile, si dicono gli uni e l'altra, che il premier non si renda conto che non può arrivare molto lontano un governo che perde per strada due ministri e un sottosegretario in così poco tempo, che fatica tutti i giorni a far approvare i suoi provvedimenti in Parlamento malgrado l'ampia maggioranza di cui gode sulla carta, e che è diviso al suo interno tra l'asse nordista Tremonti-Bossi e i Vespri meridionali, a malapena tenuti a freno dal sottosegretario Letta.
Allo stesso modo è improbabile che il Cavaliere non si accorga che il partito da lui fondato con tanto entusiasmo neppure tre anni fa, per corrispondere alle spinte unitarie dei cittadini di centrodestra, è ridotto a un brulicante verminaio di correnti, da cui traspaiono interessi poco chiari e quasi sempre privati. Si tratti della Sanità che ha messo nei guai fior di amministrazioni regionali, dell'energia eolica attorno alla quale si erano già concentrati comitati d'affari, dei rapporti con mafia, camorra e ’ndrangheta, della massoneria, regolare o deviata, che sembra ormai farla da padrona a tutti i livelli dell'organizzazione territoriale, di cardinali che scambiavano favori con case regalate o vendute a prezzi di favore a ministri in carica o ex, la sensazione è che il partito nato a furor di popolo, è il caso di dire, nella piazza San Babila in delirio all'urlo di "Silvio, Silvio", davanti al leader issatosi sul predellino della sua Mercedes, sia stato del tutto occupato da una nuova classe politica, che non è fatta neppure di politici, anzi tende ad emarginare i pochi rimasti, e punta solo a farsi i fatti propri, a dispetto della legalità che pure dovrebbe essere un valore fondante di una destra moderna. Per fortuna di Berlusconi, non tutto è così nel Pdl. Anche se quel che traspare tende a sommergere il resto, compreso ciò ch'è rimasto di buono, c'è chi si oppone al degrado, e lo fa anche coraggiosamente, aspettandosi da Berlusconi una risposta che purtroppo non arriva. Anzi il premier - gelando le attese di chi lo richiama continuamente alla vocazione originaria del centrodestra, nato sulle ceneri di Tangentopoli con l'anelito di imporre un nuovo modo di far politica -, continua a ripetere che tutto è a posto e tutto va benissimo, e per reagire a quelle che considera le imposture di giornali a lui avversi, foraggiati da magistrati comunisti, ha addirittura fatto preparare un dépliant, in cui il «noir» degli ultimi tempi è stato cancellato con corpose pennellate di rosa, senza badare all'evidente sproporzione tra la malattia emersa e il rimedio adottato. Così i cronisti che in questi giorni di calura si affacciano al famigerato portone di Palazzo Grazioli (che Berlusconi frequenta sempre meno, preferendo ritirarsi a meditare nella quiete dell'agro romano), o in via dell'Umiltà, dov'è la sede del febbricitante partito del presidente, forse in omaggio alla linea rassicurante scelta e ribadita dal premier, non colgono alcun senso di preoccupazione.
Gli inquisiti e i fuorusciti dal governo occupano tranquillamente le loro stanze, scherzando amabilmente tra di loro sui giudici che li vorrebbero in carcere, e di tanto in tanto rilasciando pure dichiarazioni piene di sicumera, che irridono a chi dall'interno del Pdl insiste per fare pulizia. Parlano come se si sentissero al sicuro, come se non avessero nulla da temere né dal «ghe pensi mi» che sembrava preludere a una serie di tagli chirurgici, né dalla prossima campagna agostana, che lasciava presagire strali lanciati dai merli del castello scelto dal Cavaliere come sua dimora estiva. Naturalmente nessuno sa davvero cosa ha in testa Berlusconi, né cosa farà e neppure perché indugi tanto a decidere uno come lui che non è nuovo a colpi di scena.
E tuttavia, al momento - questo è l'aspetto più grave -, la sensazione non è più che lui stenti a credere a quel che lo circonda. Ma piuttosto, che avendolo capito, pensi che non c'è altro da fare e sia rassegnato ad andare avanti così.
da lastampa.it
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« Risposta #172 inserito:: Luglio 27, 2010, 09:38:09 am » |
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27/7/2010 - TACCUINO Le dimissioni non servono al Pdl: nel partito i giochi restano aperti MARCELLO SORGI Le dimissioni di Denis Verdini dalla presidenza del Credito Fiorentino - banca della quale è il patron, e carica che finora era stata considerata incompatibile con il suo ingresso al governo - rappresentano l’estremo tentativo del coordinatore del Pdl al centro dell’affare P3 e sotto inchiesta per ipotesi di corruzione all’ombra della loggia segreta, di conservare il suo posto al vertice del partito. E’ come se Verdini dicesse: non ho più affari da difendere, ho scelto la politica come impegno esclusivo e desidero difendermi politicamente da quella che considero una campagna giustizialista ai miei danni. Il coordinatore deve aver valutato sia la conclusione delle vicende Scajola, Brancher e Cosentino che, pur difesi in prima battuta da Berlusconi, non hanno retto al peso delle accuse ai loro danni e si sono dovuti rassegnare alle dimissioni, sia l’ulteriore riscaldamento del clima interno al partito del premier, con l’esplosione ultima del «caso Granata» e la previsione, che corre ormai di bocca in bocca, di una rottura ormai prossima tra il Cavaliere e Fini. In questo senso Verdini ha in qualche modo precorso i tempi e usato il precedente Cosentino per salvare il posto al partito: ma non è detto che con quel che sta succedendo ci riesca. L’idea che la fuoruscita dei finiani dal Pdl - in che modo, poi, è tutta da vedere - porti automaticamente a un congelamento degli attuali equilibri interni del partito, come se il problema stesse tutto e solamente nel dissenso praticato sistematicamente dalla minoranza, non è altro che una speranza del gruppo di comando più vicino a Berlusconi e degli ex colonnelli finiani, oggi assurti a ruoli di governo, che temono molto di più un compromesso tra i due cofondatori. In realtà il nodo della questione morale viene sollevato da più parti tra governo e partito: ne ha parlato di recente Tremonti, i cui rapporti con il premier sono altalenanti negli ultimi tempi. E vi hanno insistito le ministre Gelmini, Prestigiacomo e Carfagna, accreditate, con la loro corrente, di muoversi per conto di Berlusconi, e il loro collega Frattini, candidato, in alternativa alla Gelmini, alla carica di coordinatore unico al posto dell’attuale triumvirato Bondi, Verdini, La Russa. Nel Pdl dunque i giochi restano aperti, in attesa dell’offensiva agostana preannunciata da Berlusconi. E le dimissioni di Verdini, più utili, probabilmente, per la banca che ha lasciato che non per il partito in cui rimane, non dovrebbero spostare più di tanto. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7644&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #173 inserito:: Luglio 28, 2010, 10:53:01 am » |
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28/7/2010 - TACCUINO Tutti gli occhi puntati su Gianfranco MARCELLO SORGI La giornata del silenzio del senatore Marcello Dell’Utri davanti ai giudici (s’è avvalso della facoltà di non rispondere) e del coinvolgimento del sottosegretario Giacomo Caliendo (ufficialmente indagato) nell’inchiesta P3 hanno ancora appesantito, se possibile, il clima interno al Pdl. Per Caliendo è prevedibile una mozione di sfiducia come quella che ha indotto alle dimissioni Cosentino, anche se i tempi per una rapida messa all’ordine del giorno nel calendario parlamentare ormai non ci sono. Tutti gli occhi sono puntati ancora una volta sul presidente della Camera: toccherà a lui domani decidere lo svolgimento delle ultime sedute prima della pausa estiva consentendo, dopo il voto finale della Camera sulla manovra previsto per oggi, quello sulle intercettazioni e sull’accordo maturato in commissione Giustizia su un testo fortemente emendato. Applicando una prassi consolidata, Fini potrebbe decidere di dare la precedenza a decreti in scadenza, rinviando di fatto a settembre le intercettazioni, lasciando in sospeso una delle questioni che tormentano di più la maggioranza, ma evitando anche l’ostruzionismo annunciato dall’opposizione prima della chiusura dei lavori. Una decisione in questo senso, presa contro il volere della sua maggioranza e del suo partito, com’è già accaduto per quella che riguardava Cosentino, equivarrebbe per Berlusconi a una definitiva dichiarazione di guerra, a cui potrebbe far seguito la richiesta formale del Pdl a Fini di lasciare il suo incarico perché non in grado di garantire l’imparzialità nello svolgimento dei lavori parlamentari. La sfiducia rivolta contro uno dei presidenti delle Camere segnerebbe un punto di non ritorno nello scontro che da mesi oppone i due cofondatori e un precedente assoluto nella storia parlamentare, dato che non è mai successo che il capo di un’assemblea parlamentare sia indotto alle dimissioni e non è neppure prevista una procedura per ottenerle. Quel che è sicuro è che la strada della tregua tra Berlusconi e Fini è ormai ostruita da ostacoli insormontabili e l’ipotesi di un incontro tra i due è ormai fuori dalla realtà. Non a caso si torna a parlare di elezioni anticipate. Tutti i contendenti ormai le mettono nel conto e Bersani appare il più preoccupato di quest’eventualità. E’ evidente infatti che non si tratterebbe più di elezioni bipolari, centrodestra contro centrosinistra, dato che c’è già chi lavora alacremente (vedi Di Pietro) per offrire una sponda a Fini e dar corpo a un terzo incomodo. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7649&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #174 inserito:: Luglio 29, 2010, 11:30:56 am » |
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29/7/2010 Non è cosa da probiviri MARCELLO SORGI Data ormai per scontata dallo stesso Berlusconi, che ieri sera l’ha praticamente annunciata, mentre Fini subito dopo frenava, la rottura nel Pdl tra i due cofondatori sembra appesa a un filo, anche se nessuno ha ancora capito come avverrà. L’idea che basti un solenne discorso di Berlusconi, pronunciato oggi o domani - e comunque dopo la ventilata decisione del presidente della Camera di rinviare a settembre l’approvazione della legge sulle intercettazioni contro i desideri della maggioranza -, va detto chiaro, non sta in piedi. Fini un minuto dopo gli risponderebbe in modo altrettanto pesante, e torneremmo al punto di prima. Ancora peggio sarebbe l’ipotesi, di cui si sente parlare da giorni, di un intervento dei probiviri, organismo che in tutti i partiti è deputato a questioni etiche o di regolamento interno, ma che nel Pdl è rimasto finora silenzioso di fronte a episodi grandi e piccoli di malversazioni e guerriglie intestine. Basti solo l’esempio dei dossier sessuo-politici che volevano attribuire frequentazioni trans al governatore della Campania Caldoro. Adesso invece i probiviri verrebbero chiamati in causa, fuori dalle loro competenze, per espellere dal partito Fini e i suoi. Seppur dovrebbe essere chiaro ormai, dopo le esperienze in Lombardia, Lazio e Piemonte, che il ricorso alla magistratura per risolvere questioni politiche è pernicioso, oltre che inutile, ne nascerebbe sicuramente una complicata querelle, come quelle che accompagnarono alla fine della Prima Repubblica il tramonto degli storici partiti novecenteschi, con mediocri dispute sulla gestione dei simboli o sulla proprietà degli immobili. Tutto, dunque, sconsiglia anche questa seconda strada, a cominciare dai tempi lentissimi della giustizia civile che finirebbero con l’imbrigliarla. La terza via, ma solo in ordine di elencazione, è quella di costringere Fini a lasciare il posto di presidente della Camera con la motivazione che avrebbe approfittato della sua carica e non si sarebbe comportato in modo imparziale. Benché dotato di un carisma che gli viene dalla lunga esperienza di leader, un cofondatore degradato al rango di peone diventerebbe assai meno temibile per Berlusconi, al punto che non sarebbe forse più necessario cacciarlo dal Pdl. E tuttavia, a memoria d’uomo e di frequentatori del Transatlantico, che ieri si esercitavano nella ricerca di un precedente, non si ricorda nella storia repubblicana il caso di un presidente d’Assemblea sfiduciato e costretto a lasciare l’incarico. Proprio perché è chiamato a garantire con la sua imparzialità tutti i componenti della Camera che presiede, il presidente, appena eletto, smette di appartenere alla maggioranza che l’ha votato e al partito di cui fa parte (non a caso molti hanno voluto riconsegnare platealmente la tessera il giorno stesso dell’elezione). Naturalmente è previsto il caso che i presidenti, nel corso della legislatura, possano cambiare ruolo: ce ne sono stati, infatti, che dallo scranno più alto di Montecitorio o di Palazzo Madama sono passati al Quirinale, o più raramente a Palazzo Chigi. Ma insomma, se non se ne va di sua volontà o non viene chiamato a più alto incarico, come si suol dire, non c’è verso di schiodare Fini dalla sua poltrona. Perfino la pensata, che qualcuno ha suggerito a Berlusconi, di far presentare una mozione di sfiducia, basata sull’accusa, tutta da dimostrare (anche se purtroppo ha trovato negli ultimi tempi qualche fondamento), che avrebbe usato per ragioni politiche e per vantaggi personali le sue prerogative, è assai discutibile. E va tenuto in considerazione il fatto che Fini avrebbe l’ultima parola sull’ammissibilità di una siffatta mozione e che la larga campagna di solidarietà che verosimilmente si alzerebbe in suo favore potrebbe alla fine convincerlo a respingerla. In tutti i casi si aprirebbe una crisi istituzionale, tra il capo del governo e il presidente della Camera. A voler essere legulei fino in fondo, con tutti gli azzeccagarbugli che ci sono in giro in questi giorni, solo la Corte Costituzionale sarebbe competente a dirimere una simile controversia. Passerebbero dei mesi. La sentenza della Consulta, quale che fosse, verrebbe contestata da Berlusconi, che già non perde occasione per ricordare che a suo dire undici dei quindici supremi giudici sarebbero di sinistra. La crisi istituzionale, come il premier ha già fatto capire ieri sera, si accompagnerebbe a una crisi politica, da risolvere rapidamente, perché il centrodestra, anche senza Fini e i finiani, secondo lui ha i numeri per governare e potrebbe dimostrarlo in Parlamento. E’ possibile: ne nascerebbe, però, un governicchio, tenuto in piedi a corrente alternata da Bossi, pronto a staccare la spina subito dopo l’approvazione del federalismo, o a offrire i suoi voti a un esecutivo d’emergenza che fosse disposto a inserirlo nel suo programma. Se ne ricava che risolvere coi probiviri, con i giudici e con gli avvocati la disputa che ormai da mesi paralizza il governo, come s’è visto è impossibile, fuori dalla realtà. Sarebbe una pazzia, impensabile perfino per uno che ci ha abituati a una conduzione spesso stravagante della cosa pubblica. Per questo, anche se si è convinto che non c’è più niente da fare, Berlusconi farebbe bene a ripensarci. Finché è in tempo. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7652&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #175 inserito:: Luglio 30, 2010, 09:29:40 am » |
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30/7/2010 (7:35) - IL FUTURO DEL CENTRODESTRA Silvio e Gianfranco, sedici anni di gelo L'alleanza fra Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini è iniziata ad ottobre '93 Il rapporto con Bossi, le trame con i centristi, lo sdoganamento. Una continua altalena, a celare l'impossibilità di una vera unione MARCELLO SORGI ROMA Il titolo c’è già: «C’eravamo tanto odiati...». E non importa come e quando sia finita, in fondo Berlusconi e Fini sono rimasti due estranei per tutti questi sedici anni, diciassette perfino, se si fa cominciare la storia da quelle fatidiche elezioni comunali del ’93 in cui il Cavaliere, che era ancora un imprenditore, in un’improvvisata conferenza stampa nell’ipermercato di Casalecchio sul Reno dichiarò che a Roma come sindaco, tra Rutelli e l’allora segretario del Msi avrebbe scelto senz’altro il secondo. Poco più d’un anno fa Fini, il 30 giugno, alla vigilia del G8 dell’Aquila, aveva ammesso che quel voto «cambiò la storia d’Italia. Ero il candidato di un partito che aveva il quattro-cinque per cento, persi con il 47 e tutto cambiò». A ben vedere, l’equivoco su quel passaggio storico è rimasto irrisolto. Perché Fini è sempre stato convinto che, dato a Berlusconi quel che è di Berlusconi, non gli sia rimasto più alcun debito da pagare, e il suo ruolo nella vicenda del centrodestra sia stato, semmai, sottovalutato: come se appunto la sua leadership e la storia della destra italiana che lui ha trasformato, da partito nostalgico e postfascista a membro di diritto del club delle moderne destre mondiali, non faccia ancora pienamente parte di diritto di quella del centrodestra italiano. Berlusconi al contrario pensa che senza il suo scatto del 24 novembre ’93 Fini sarebbe rimasto dov’era, nel suo ghetto di fascista che doveva ancora «uscire dalle fogne». Ci voleva coraggio, occorre riconoscerlo, nell’Italia di Tangentopoli che si avviava a consegnare tutte le metropoli italiane alla sinistra, a uscirsene come se ne uscì quel pomeriggio il Cavaliere. Quel che accadde di lì a poco cambiò nuovamente, e inaspettatamente, il panorama politico italiano. Mentre Fini, nel gennaio del 1994, archiviava il vecchio Msi e fondava la nuova Alleanza Nazionale, per spogliarsi del polveroso abito nero postfascista, Berlusconi, il 26 dello stesso mese, inviava la sua famosa cassetta tv ai telegiornali e dava il via alla più incredibile avventura politica mai vissuta in questo Paese. Insieme, di lì a poco, i due si sarebbero ritrovati in quel complicato marchingegno della doppia alleanza, al Nord con la Lega, al Centro e al Sud con An, che il 27 marzo portò il Cavaliere alla vittoria e al suo primo governo, e l’Italia, dal manto rosso uscito dalle recenti comunali, a quello azzurro in cui era avvolto il partito in provetta del Cavaliere. Qui la vicenda psicologico-politica del matrimonio freddo tra i due cofondatori conosce un secondo scompenso, destinato ad allungare i suoi effetti fino ad oggi. Mentre infatti Fini cerca di comportarsi con Berlusconi da alleato, facendo la campagna elettorale nell’interesse della coalizione oltre che del suo partito, Bossi non perde occasione per attaccare il candidato premier e il suo alleato meridionale, definendoli, senza mezzi termini, «imbroglioni» e «porci fascisti», apostrofando il Cavaliere come «Berluscone e Berluskaz», definendolo «il Garibaldo di Fini» o più semplicemente «povero pirla», e promettendogli che «la Lega glielo ficcherà in quel posto». Si dirà, e Berlusconi lo ha detto tante volte, acqua passata. Ma siccome a quelle ingiurie pronunciate in campagna elettorale, senza che il leader della coalizione trovasse modo di replicare efficacemente, Bossi fece seguire il famoso «ribaltone» di fine ’94, che riportò Fini e il Cavaliere all’opposizione per sette lunghi anni, è comprensibile che il leader di An i due pesi e due misure di Berlusconi nei confronti dell’alleato-concorrente nordista se li sia legati al dito. Anche se poi, della durata del periodo di opposizione, la cosiddetta «cavalcata nel deserto», Fini e Casini, che nel frattempo erano diventati amici stabilendo un asse che doveva durare nel tempo, portano la loro parte di colpa. L’uno e l’altro, peccando di presunzione, s’erano messi in testa che Berlusconi e il berlusconismo fossero un fenomeno passeggero. Ed è per questo che alla fine del ’96, quando il governo tecnico di Dini si era esaurito e si tentava di metterne su uno politico di larghe intese affidato a Maccanico, preferirono le elezioni anticipate, contraddicendo il Cavaliere e mettendo in conto la sua sconfitta, che avvenne puntualmente, e la sua uscita di scena, che invece non ci fu. Come sia riuscito Berlusconi a tenere insieme quel che era rimasto della sua coalizione, è ancora oggi sorprendente. Bossi se n’era andato per conto suo. Fini e Casini, si capiva benissimo, erano a caccia di altre avventure. Nella Bicamerale D’Alema del ’96-’97 ognuno si muoveva per conto proprio, e quando il Cavaliere, dopo il famoso «patto della crostata», mandò tutto per aria, Fini fece di tutto per soccorrere il leader Pds, inutilmente. Un anno dopo, cogliendo l’occasione delle elezioni europee votate con sistema proporzionale, diede una riverniciata ad Alleanza Nazionale collegandola al movimento referendario di Segni e a una parte dei radicali. La nuova lista, che aveva per simbolo l’Elefante, e correva in aperta concorrenza con Forza Italia, ricevette dalle urne una brutta delusione, fermandosi al 10 per cento laddove Fini alle ultime politiche aveva sfiorato il 14. Così che a molti parve un miracolo nel 2001 rivedere insieme i rissosi alleati del centrodestra, compreso Bossi che, novello figliol prodigo, nel frattempo s’era deciso a rientrare. Di quel miracolo, a dire la verità, molte responsabilità le aveva il centrosinistra, che era riuscito ad apparire perfino più litigioso dei suoi avversari nei suoi cinque anni di governo con tre diversi leader a Palazzo Chigi. Nella seconda legislatura di Berlusconi premier, 2001-2006, l’asse Fini-Casini, vicepremier e ministro degli Esteri il primo, presidente della Camera il secondo, prese le sembianze di una radicale opposizione interna, un «sub-governo», come venne definito, che arrivò a chiedere e a ottenere la testa del potente ministro dell’Economia Tremonti. Il resto, anche se sono passati anni, è storia che si ripete fino ai nostri giorni. Berlusconi lasciato solo nella campagna elettorale del 2006, persa per soli 24 mila voti (lo stesso avverrà nel 2010). Berlusconi dichiarato finito da Fini, che intona il «de profundis» nel 2007. Berlusconi che il 18 novembre dello stesso anno fonda il nuovo partito sul predellino di piazza San Babila e Fini che commenta: «Siamo alle comiche finali». Berlusconi che trova il modo di espellere dall’alleanza Casini alla vigilia delle elezioni del 2008, Fini che abbandona al suo destino il vecchio amico del «sub-governo», e con una giravolta impensabile anche per i suoi amici dell’ex An torna al fianco del Cavaliere. Da allora in poi, dopo la vittoria e la formazione del nuovo governo Berlusconi, con il cofondatore che va a presiedere la Camera, non si contano gli argomenti delle polemiche. Il voto agli immigrati. I troppi decreti. Le troppe fiducie chieste dal governo al Parlamento. La Finanziaria. Il cesarismo nel Pdl. La legge sulle intercettazioni. La difesa della legalità. Il garantismo e le dimissioni dei membri del governo inquisiti, come Brancher e Cosentino. In un «fuori onda», mentre aspetta in studio di partecipare a un talk show con il procuratore Trifuoggi, a Fini scappa detto che «Berlusconi scambia la leadership con la monarchia assoluta». La sensazione che il vaso sia colmo e l’alleanza finita precedevano da molto tempo la rottura annunciata e consumata in questi giorni. La previsione era che i cofondatori si sarebbero separati l’anno prossimo, alla vigilia dello scioglimento anticipato delle Camere, ormai messo nel conto apertamente anche da Berlusconi. Invece le elezioni arriveranno anche prima, proprio perché i due alla fine non ce l’hanno fatta a restare insieme. http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/57171girata.asp
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« Risposta #176 inserito:: Luglio 31, 2010, 05:10:06 pm » |
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31/7/2010 (7:34) - IL PARTITO SPACCATO Il nuovo Pdl di Berlusconi Il ruolo di La Russa e Gasparri negli equilibri che cambiano MARCELLO SORGI Parola d'ordine: nulla sarà più come prima. All'indomani della rottura tra Berlusconi e Fini, il necrologio del Pdl passa di bocca in bocca. C'è una corsa frenetica a mettere al sicuro i caposaldi del potere locale e del sottogoverno, dalle regioni alle città, dai governatori ai sindaci, agli enti, alla Rai, il termometro più sensibile di ogni spostamento politico. Ma nel fortino berlusconiano, dove l'altra sera la ghigliottina è calata in poco meno d'un'ora sul collo del cofondatore, gli umori non sono affatto rassegnati. E l'idea che la cacciata di Fini debba corrispondere necessariamente a una messa in liquidazione del partito non è per niente data per scontata. Il terremoto di giovedì sera ha ridisegnato completamente gli equilibri già incerti alla corte del premier. A prima vista, è avvenuto un capovolgimento, con la prima fila spinta indietro e una nuova schiera, una specie di falange, che si stringe attorno al leader. L'espulsione di Fini ha colpito in pieno tutto il mondo trasversale romano, il partito della mediazione a ogni costo, che aveva un asse forte in Gianni Letta e nello stesso presidente della Camera, e continuato a opporsi fino all'ultimo agli strappi voluti dal premier. Il sodalizio s'è sciolto la scorsa settimana, quando Letta ha avvertito Fini che Berlusconi stavolta non sarebbe tornato indietro, e gli ha chiesto, per il bene di tutti, di invertire la marcia finché era in tempo. Come si sa il segnale, molto più tiepido di quel che si aspettava, è arrivato solo alla vigilia, con l'intervista di Fini al Foglio giudicata del tutto insufficiente dal suo interlocutore. Così, inaspettatamente, l'estremo tentativo di evitare la rottura ha visto muoversi in parallelo due personaggi della prima ora berlusconiana come Letta e Giuliano Ferrara, che in passato, quando erano insieme al governo, si erano spesso trovati distanti, ma in quest'occasione, temendo il baratro verso cui stava andando il centrodestra, invano si sono mossi nella stessa direzione. Sul tavolo del giornalista sono rimasti gli appunti, sapientemente rielaborati per tradurli in un linguaggio più vicino a quello del Cavaliere, dell'intervista. E nella mente del sottosegretario le tante telefonate criptiche, spesso seguite da passeggiate guardinghe da Palazzo Chigi a Montecitorio, per parlare faccia a faccia con il presidente della Camera. Tutto inutile: eppure, c'è stato un tempo lunghissimo in cui Letta e Fini sedevano uno di fronte all'altro, alla destra e alla sinistra di Maria Angiolillo, nel suo famoso salotto che faceva da camera di compensazione dei momenti più drammatici, nei sedici anni di contrastatissima alleanza tra l'uomo di Arcore e l'ex leader di An. Di quell'insieme, di quel metodo erede dell'andreottismo e della pratica dell'eterno sminuzzamento di qualsiasi asperità, resta ben poco dopo la rottura. Già l'uscita di Casini dalla coalizione aveva fatto venir meno un interlocutore indispensabile delle continue mediazioni. Con Fini fuori, ormai, non c'è più nulla o quasi da mediare. Non a caso la corsa precipitosa verso la separazione, giovedì, ha travolto anche le ultime liturgie istituzionali, le cortesie informali tra Palazzi repubblicani di cui alla presidenza del Consiglio Letta è il custode: il Quirinale ha appreso quel che stava succedendo dalle agenzie e dai giornali: la crisi, tutta partitocratica ed extraparlamentare, s'è aperta alle spalle del Capo dello Stato. E a spingere per una reazione così dura a quella che i finiani a volte incoscienti, più che lo stesso Fini, da mesi definivano «una guerriglia» contro lo stato maggiore del Pdl, non è stato il solo Berlusconi. Vicino a lui, nell'ora della decisione, s'è raccolto il nuovo gruppo di comando del partito, che comprende i capigruppo Cicchitto (che alla Camera s’è trovato più spesso a fronteggiare Fini) e Gasparri, il vice capogruppo al Senato Quagliariello, i coordinatori Bondi, Verdini e La Russa, e soprattutto gli ex colonnelli finiani approdati al governo, che già da tempo avevano fatto la loro scelta a fianco del premier. C'è perfino chi dice che la sorprendente svolta del 2008, quando Fini d'improvviso - dopo aver definito solo pochi mesi prima «comiche finali» il battesimo del nuovo partito sul predellino di Piazza San Babila -, ruppe l'asse con Casini ch'era rimasto fuori e decise di confluire con il Cavaliere, sia stata determinata dalla conversione berlusconiana dei suoi colonnelli che l'aveva preceduto. Fatto sta che nel nuovo vertice sono praticamente sparite le distinzioni, le evidenti radici diverse, degli uomini nati nel partito-azienda Forza Italia rispetto agli eterni giovanotti del Fuan, l'organizzazione giovanile del Msi, e del Secolo d'Italia, che si portavano strette nel cuore le loro origini neofasciste, le loro inguaribili nostalgie, i metodi spicci di chi non ha avuto mai remore a usare le mani. E quando è servito, com'è accaduto a La Russa, ha dimostrato ancora di saperci fare. Per loro, man mano che tra i due cofondatori la temperatura saliva, è stata più che altro questione di sopravvivenza. E quando Gianfranco, in uno degli ultimi incontri prima della famosa direzione a pesci in faccia del 22 aprile, andò a dire a Silvio che tra le condizioni per ritrovare l'accordo c'era l'azzeramento degli ex-An che non lo rappresentavano più nel governo e nel partito, i colonnelli, che se l'aspettavano, si erano già spostati accanto ai fedelissimi e agli ultrà di Berlusconi. In molti casi ne imitavano già gli atteggiamenti, le abitudini, il gusto per le barzellette, e le cautele di quelli che sanno da sempre che è a lui che tocca l'ultima parola. Al punto che da questa nuova forma di cameratismo è uscita quasi una nuova identità collettiva, che in qualche modo ricorda i tempi del «Caf», l'alleanza strategica nata dalle iniziali di Craxi, Andreotti e Forlani. E quel tipo di personale politico caratterizzato da intercambiabilità, indifferenza ed empirismo senza principi, piegati al mantenimento del potere, che visse una breve fortuna e accompagnò la Prima Repubblica verso la fine. Nel blitz che ha capovolto gli equilibri interni del Pdl, berlusconiani di pura fede silviesca ed ex colonnelli si sono mossi d'intesa, come squadre speciali, ventre a terra, occupando velocemente lo spazio lasciato libero dai mediatori inascoltati, e riuscendo nello stesso tempo a spingere ai margini la ruspante corrente delle tre ministre, che pure aveva guadagnato molte posizioni negli ultimi tempi. E premeva su Berlusconi per una svolta e un rilancio del Pdl fondati sull'azzeramento dei coordinatori e un ritorno alle origini legato a una severa campagna di rinnovamento interno. La rottura di giovedì ha travolto anche questo disegno, che puntava a tenere Fini dentro il partito strategicamente e in nome di alcune contiguità personali e alleanze locali, come quelle dei finiani siciliani, Granata in testa, con la ministra Prestigiacomo e il sottosegretario dissidente Gianfranco Miccichè, a sostegno del governatore Lombardo e dell'accordo trasversale con il Pd alla Regione Sicilia. Equilibrismi, giochi pericolosi, manovre da sventare, guardati con l'occhio della nuova dottrina che non ammette dissensi o eccezioni alla linea. Oppure, dato che il gruppo di eretici messi all'angolo non ha alcuna voglia di arrendersi, carte di riserva che potrebbero tornare utili e riprendere forza in caso di elezioni anticipate o del ritorno a governi d'emergenza. Al momento, tuttavia, non c'è da farsi molte illusioni. Il Popolo della libertà com'eravamo abituati a conoscerlo sarà anche morto, abbattuto in mezza giornata dal divorzio dei due cofondatori, ma intorno al premier il partito berlusconiano è rinato e avanza con il coltello tra i denti. Questa è alla fine la metamorfosi uscita dalle rovine del Pdl: da partito unico del centrodestra a partito esclusivo del presidente. http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/57210girata.asp
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« Risposta #177 inserito:: Agosto 03, 2010, 06:53:09 pm » |
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3/8/2010 Il ricorso alla mossa del cavallo MARCELLO SORGI Se davvero verrà confermata stasera, alla vigilia della votazione sulla mozione di sfiducia al sottosegretario Caliendo, coinvolto nell’inchiesta sulla P3, la decisione dei deputati finiani di astenersi domani nella votazione che mette a rischio il governo, a meno di una settimana dalla rottura tra Berlusconi e Fini, darà subito il segno del cambiamento di passo del nuovo gruppo, interno al centrodestra ma distinto adesso dal Pdl. Un appoggio esterno, né pieno, né convinto a Berlusconi, specie in una materia come la legalità, su cui il presidente della Camera s’è impegnato in prima persona. E tuttavia niente che possa far pensare che «Futuro e libertà», come hanno scelto di chiamarsi i dissidenti, possa già staccare la spina. Seppure le loro intenzioni saranno spiegate chiaramente in aula, a cominciare dall’esigenza di prendere le distanze dall’iniziativa dei dipietristi, che con l’appoggio del centrosinistra hanno promosso l’iniziativa per far uscire Caliendo dal governo, il risultato di questa presa di posizione - per di più condivisa anche da Casini e dall’Udc - sarà di far sembrare il governo anche più debole di quel che era apparso subito dopo il divorzio tra i due cofondatori. In mancanza di ulteriori imprevisti, infatti, Berlusconi, diversamente da quanto era avvenuto per Scajola, Brancher e Cosentino, riuscirà nell’intento di salvare il quarto membro del suo governo finito sotto accusa. Ma con un numero di voti - 308 o giù di lì - che mostrerà in tutta evidenza come il premier non disponga più della maggioranza alla Camera. Il Cavaliere aveva preteso un’accelerazione, ieri, prima che la Conferenza dei capigruppo decidesse quando calendarizzare la sfiducia a Caliendo, per mettere chiaramente alla prova Fini. Il leader della nuova formazione nata dalla fuoruscita dal Pdl si sarebbe trovato così stretto davanti a una scelta difficile. Avrebbe smentito se stesso se avesse preso tempo, dopo aver tenuto un atteggiamento rigoroso nei confronti di tutti i casi giudiziari che hanno coinvolto componenti dell’esecutivo. E ancor di più se, una volta accontentato Berlusconi fissando subito dibattito e voto sulla sfiducia, si fosse allineato votando con la maggioranza per il salvataggio del sottosegretario e smentendo tutti i suoi atteggiamenti precedenti. Va da sé che nel caso contrario, di un improbabile voto dei finiani con Di Pietro e il centrosinistra per il licenziamento di Caliendo, la crisi di governo sarebbe stata automatica. E le assicurazioni, giunte nel fine settimana al Quirinale anche da parte dei finiani, sull’allentamento della tensione e sull’impegno a sostenere il governo malgrado la separazione dal Pdl, sarebbero state contraddette dai fatti. Fini invece ha scelto di smarcarsi con la «mossa del cavallo», un classico del professionismo politico, che aggirerà - sempre che sia confermata - le forche caudine sotto le quali il Cavaliere voleva costringerlo a passare. Lasciando intatto però lo stato dei rapporti tra i due diversi tronconi del centrodestra, e confermando che l’appoggio dei finiani Berlusconi dovrà conquistarselo volta per volta. A tutto ciò occorrerà aggiungere l’effetto-immagine sul governo che verrà dalla seduta parlamentare sulla sfiducia per la quale è stata prenotata la diretta tv. Anche qui: nei calcoli del premier doveva essere l’occasione per far vedere dopo gli ultimi giorni incerti il governo vincente e l’opposizione battuta. Ma in realtà l’effetto che si preannuncia alla fine sarà l’opposto. Pensiamo solo se il Cavaliere dovesse decidere di partecipare sedendo, come gli spetta, al centro del banco del governo ed esattamente sotto la poltrona di Fini, che questa volta risulterebbe assiso direttamente sulla sua testa. E se, com’è normale, le telecamere dovessero indugiare sul disappunto, sicuramente palpabile, dei berlusconiani, quando i finiani spiegheranno le ragioni per cui non possono votare con il governo. Inoltre, dalla separazione dei due cofondatori al dibattito sulla sfiducia saranno passati così pochi giorni che non ci sarà stato il tempo di stabilire una nuova collocazione nell’aula di Montecitorio per i due gruppi neo-separati e per deputati che fino a qualche giorno fa erano alleati e iscritti allo stesso partito e adesso si considerano vicendevolmente traditori quando non avversari. Si dirà che questi sono dettagli, e la sostanza è che Caliendo, alla fine di una dura giornata, potrà tornarsene a casa (e l’indomani in ufficio) a bordo della sua auto blu governativa, diversamente da quel che è accaduto per i suoi tre colleghi - due ministri e un sottosegretario - che nei mesi scorsi hanno dovuto dimettersi dai loro incarichi. E’ così, la conclusione sarà quasi certamente questa. Ma a che prezzo, e di quale governo resterà membro Caliendo, gli italiani lo vedranno bene con i loro occhi. http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7672&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #178 inserito:: Agosto 05, 2010, 03:35:47 pm » |
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5/8/2010 - TACCUINO Il fragile fronte astensionista e l'assenza di maggioranze MARCELLO SORGI Si può leggere la giornata di ieri alla Camera a partire dai numeri, che rivelano l'avvitamento di una legislatura in cui non c'è più una maggioranza: non ce l'ha (non ce l'ha più) Berlusconi, ma non ce l'hanno neppure i terzopolisti Fini, Casini e Rutelli che si sono astenuti, e men che mai l'opposizione. Il fatto che anche la somma delle astensioni e dei voti del centrosinistra produce solo un'ennesima minoranza la dice lunga sulla possibilità di costruire un altro governo, anche a partire da un accordo minimo su uno o due punti, come ad esempio la legge elettorale e il federalismo. No, i numeri non ci sono, e Berlusconi malgrado tutto resta arbitro della situazione. Nelle condizioni in cui si trova, il suo governo però è paralizzato: la realizzazione del programma resta per aria e sul medio periodo l'insoddisfazione della Lega per la paralisi dell'esecutivo è sicura, perché finiani e Udc non consentiranno di completare l'iter della riforma federale. Inoltre, senza federalismo, non è detto che Bossi sia proprio felice di aiutare Berlusconi a ottenere le elezioni anticipate, che il premier vorrebbe per cavarsi dall'impaccio e regolare definitivamente i conti con il presidente della Camera e i suoi seguaci. Prima di far calare il sipario sulla legislatura, il Senatur farebbe sicuramente un minimo di verifica con Fini e Casini. E a sorpresa potrebbe trovarli molto più disponibili del previsto, a patto di ricostruire un patto di governo basato sulle ragioni di tutti. Questa è appunto la novità che traspare dal dibattito di ieri: partiti per disarcionare il Cavaliere, i finiani hanno cominciato a rendersi conto che tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare, e soprattutto che quando parla di esecutivo di responsabilità nazionale, Casini ha una strategia diversa dalla loro e contraria alle elezioni. In altre parole: a nessun costo il leader dell'Udc si presterebbe a sostituire i finiani nell'attuale governo, e tuttavia ritiene che l'indebolimento di Berlusconi possa creare le condizioni per una rinegoziazione generale, di un nuovo esecutivo e una nuova maggioranza, senza pregiudizi sul fatto che Berlusconi possa succedere a sé stesso. Prima di capire se questa prospettiva possa interessare al Cavaliere, convincendolo a rinunciare al ricorso alle urne, che al momento rimane la sua prima chance, questa diversità di vedute può servire a capire quanto fragile sia l'accordo tra i leader dello schieramento astensionista emerso ieri alla Camera. E' anche questo un dato che dovrebbe far riflettere Berlusconi, nel suo agosto operoso. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7681&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #179 inserito:: Agosto 06, 2010, 02:58:38 pm » |
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6/8/2010 - TACCUINO È Umberto il capo della maggioranza MARCELLO SORGI Nella confusione generata dal mercoledì nero del governo nell'aula del caso Caliendo, Bossi è l'unico a muoversi con chiarezza: come sempre lo schema del Senatur è "bianco-nero", senza chiaroscuri. La Lega sta con Berlusconi sia che il governo continui, sia che si debba andare ad elezioni anticipate. Ma a patto che il Cavaliere tenga la porta chiusa ad ogni ipotesi di rinegoziazione con Fini o con Casini, che potrebbero maturare in autunno, magari come effetto di missioni diplomatiche segrete in questo agosto che per la prima volta non vedrà il premier andare in vacanza. Il rafforzamento dell'asse nordista tra Pdl e Lega fa di Bossi, non più solo l'azionista di riferimento del centrodestra, ma in qualche modo l'amministratore delegato della maggioranza ridotta in minoranza. Più che dalle minacce uscite ieri dall'ennesimo vertice del Pdl a Palazzo Grazioli, lo scioglimento delle Camere dipenderà dall'ultima parola del leader leghista. Per il quale, ovviamente, sarebbe preferibile andare alle urne avendo incassato la riforma federalista, con l'obiettivo di fare stabilmente del Carroccio il primo partito del Nord, che non dovendo chiamare i suoi elettori a un'estrema battaglia per ottenerlo. Nel primo caso, infatti, si tratterebbe di fare una campagna più simile a quella delle ultime regionali, a fianco di Berlusconi e contro tutti gli avversari "romani", a partire naturalmente da Fini e dagli ex-An. Nel secondo, per placare le frange più impazienti di un elettorato che ha già mostrato di recente le sue inquietudini per il mancato incasso della lunga collaborazione della Lega con il centrodestra, il Senatur dovrebbe in qualche modo prendere di mira anche il Cavaliere e la sua incapacità finora, di realizzare le grandi riforme che aveva messo in programma. In questo senso la gaffe che ieri aveva messo in forse l'alleanza tra i due partiti superstiti dell'attuale maggioranza, pur smentita tempestivamente, è rivelatrice dei dubbi che si agitano anche nel Carroccio. Al momento, tuttavia, questo inconcludente gran parlare che si fa, a proposito di un eventuale nuovo scioglimento delle Camere, finirà con l'avere come unico esito di irritare Napolitano. Il Capo dello Stato è l'unico interlocutore deputato ad esaminare il problema ed eventualmente, in caso di crisi, a decidere se in mancanza di una qualsiasi maggioranza, come ieri è apparso chiaro dai numeri della Camera, non ci sia altro da fare che tornare alle urne. Ma nessuno di quelli che ieri sera si affollavano in tv a parlare di elezioni finora s'è preso la briga di sentire l'opinione del Presidente della Repubblica. http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7686&ID_sezione=&sezione=
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