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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 287958 volte)
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« Risposta #150 inserito:: Giugno 11, 2010, 05:30:49 pm »

11/6/2010 - TACCUINO

Ora bisogna abbandonare la retorica
   
MARCELLO SORGI


Dopo il voto del Senato che ha licenziato il testo sulle intercettazioni destinato a diventare legge - e, almeno nei desideri di Berlusconi, a diventarlo senza più modifiche come stabilito al vertice del Pdl -, l'opposizione alla Camera dovrà decidere con quale tattica andare allo scontro finale.

La sensazione, a giudicare dalle prime reazioni, è che prevarrà la linea della grande battaglia di principio, accompagnata da slogan contro «la morte della libertà», da drappi neri sventolati nelle manifestazioni e da richiami al fascismo, come ieri hanno esordito Di Pietro e Italia dei Valori. Anche se non c'è alcuna ragione di minimizzare la gravità della decisione presa dal centrodestra, di approvare senza sostanziali modifiche un testo che per la prima volta dopo molti anni riduce i mezzi a disposizione della magistratura e delle forze di polizia per il contrasto della criminalità, e per la prima volta in assoluto introduce limiti alla libertà di informazione, va detto che in questo modo si andrà in tempi brevi a una replica, a Montecitorio, di quanto è avvenuto al Senato: il centrodestra, allo scopo di accorciare i tempi e non rischiare di dover sottoporre il testo a un nuovo passaggio parlamentare, riproporrà la richiesta del voto di fiducia e di una ghigliottina il più possibile svelta del dibattito sulle intercettazioni.

Se invece, proprio a partire dal fatto che alla legge ormai si arriverà di sicuro, l'opposizione vuol tentare di riaprire qualche spiraglio in un articolato che è stato frettolosamente scritto fuori dal Parlamento e di cui gli emendamenti proposti dalla stessa maggioranza non hanno mutato l'impianto autoritario, l'opposizione ha il dovere di ricercare un'interlocuzione proprio con quelle parti del centrodestra che, specie alla Camera, o appaiono meno convinte delle conclusioni del Senato, o hanno finto soddisfazione per il compromesso raggiunto da Berlusconi con Fini.

I principali punti su cui - è bene ricordarlo - questo tentativo andrebbe concentrato sono: la disparità introdotta tra indagini di mafia e terrorismo e quelle di altro genere; i limiti temporali di 75 giorni e il farraginoso sistema di proroga delle intercettazioni; le sanzioni per gli editori dei giornali che li costringeranno a intervenire sui direttori responsabili e sui giornalisti per imporre la censura sui verbali. Una riflessione del genere riguarda ovviamente anche i sindacati dei magistrati e dei giornalisti: per salvare il salvabile di una libertà minacciata, occorre abbandonare la retorica, le posizioni di principio e perfino l'orgoglio, e rompersi la testa cercando di trattare.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7464&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #151 inserito:: Giugno 15, 2010, 09:32:08 am »

15/6/2010 - TACCUINO
 
Rischio boomerang sulla polemica
 
 
MARCELLO SORGI
 
La polemica, continuata per tutta la giornata di ieri malgrado le scuse del governatore Zaia, sulla mancata (o posticipata) esecuzione dell'inno di Mameli all'inaugurazione della scuola di Vedelago in provincia di Treviso, rischia di sortire l'effetto opposto a quel che si propone. L'idea del ministro della Difesa La Russa di imporre per legge l'inno nazionale, per bloccare una volta e per tutte le libere uscite leghiste, potrebbe incoraggiare una sorta di disobbedienza civile, moltiplicando le assenze alle cerimonie ufficiali. E non perché il "Va’, pensiero" di Verdi (che per la Lega è com'era "Bandiera rossa" per i comunisti) sia in realtà preferito al Nord ai vecchi "Fratelli d'Italia", ma al contrario perché una sorta di adesione obbligatoria, fuori dalle grandi cerimonie celebrative, non è detto che sia poi così condivisa.

Le assenze dei ministri leghisti alle celebrazioni del 2 giugno, la vicenda della canzone di Paoli "La gatta" intonata a Varese davanti a Maroni, oltre a suscitare scontri continui con la componente ex-An del Pdl e del governo, preoccupata che Berlusconi alla Lega perdoni sempre tutto, stanno aprendo un problema nuovo nell'anno che precede la ricorrenza dei 150 anni dell'Unità. E' evidente che, man mano che il calendario delle manifestazioni che riguardano l'anniversario si fa più fitto, la Lega in più circostanze colga l'occasione per prendere le distanze e parlare alla sua gente nella lingua che preferisce ascoltare. La moltiplicazione delle occasioni, pubbliche o mediatiche (giornali e tv hanno già cominciato in larghissimo anticipo e con grande dispiego di mezzi), in cui l'Unità viene ricordata, non potrà che avere come conseguenza una più frequente presa di distanze del Carroccio, da una narrazione, e spesso da una retorica, che mai prima d'ora s'era trovata a dover condividere pubblicamente.

Questo serve a compensare, tra l'altro, la crescente «romanità» degli esponenti leghisti: perfino Cota e Zaia, divenuti governatori del Piemonte e del Veneto, continuano ad apparire quasi tutte le sere nei tg per parlare di politica nazionale e non delle Regioni di cui hanno assunto la guida (alle quali semmai si dedicano nei notiziari regionali). Che da tutto ciò possa derivare una disaffezione ai valori unitari, è da dimostrare. Ma di questo passo, se a Genova, dove molti tifosi della Samp sono irritati perché Lippi non ha convocato Cassano, e se a Milano, dove un sacco di interisti avrebbero voluto Balottelli in Sudafrica, salta fuori uno che non tiene per l'Italia ai mondiali, va a finire che qualche altro proporrà una legge sul tifo obbligatorio.
 
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7477&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #152 inserito:: Giugno 16, 2010, 11:23:49 pm »

16/6/2010 - TACCUINO

La sorpresa dell'alleanza tra governatori
   
MARCELLO SORGI

Il cammino del governo procede con un continuo stop and go. Nella stessa giornata, ieri, è arrivato il «no» dell'Osce alla legge sulle intercettazioni, il plauso dell'Unione europea alla manovra predisposta da Tremonti, seguito a stretto giro da un documento durissimo, e approvato all'unanimità da tutti i presidenti delle regioni.

Con un'inedita alleanza Errani-Formigoni, la Conferenza delle Regioni ha sposato la linea del governatore della Lombardia e ha chiesto al governo di riscrivere la manovra, redistribuendo in modo diverso i sacrifici tra centro e periferia. I 4,3 miliardi di tagli previsti per il 2011, secondo quanto ha spiegato il presidente della Conferenza Vasco Errani, sono tali da far saltare i bilanci di tutte le amministrazioni e non consentirebbero di applicare il federalismo, giacché le regioni, ha aggiunto Formigoni, si troverebbero ad avere sulla carta i poteri ceduti dallo Stato in nome del decentramento, ma non i fondi necessari per esercitarli. Di qui il rischio di un rinvio o di un blocco del federalismo e il conseguente aspetto di incostituzionalità della manovra.

Da sempre la medaglia dei tagli alla spesa ha un rovescio difficile da digerire per gli amministratori locali: se il governo taglia i fondi dei trasporti, tanto per fare un esempio, ai sindaci e ai presidenti delle province o delle regioni tocca aumentare le tariffe degli autobus. In altre parole, si tratta di introdurre nuove tasse, anche se indirette, proprio mentre il governo si fa bello dicendo che «non ha messo le mani in tasca agli italiani».

Oltre ad aver messo in luce questo aspetto, sul quale, da due anni, dopo il taglio dell'Ici del 2008, insistono senza risultati i sindaci, la levata di scudi dei governatori è interessante anche perché contiene la novità dell'asse tra il governatore azzurro della Lombardia Formigoni e quello rosso dell'Emilia Errani. Un'alleanza foriera non certo di buon vento per il governo, che ha colto di sorpresa Tremonti e Bossi. Forse è proprio per questo che Cota, su suggerimento del leader del Carroccio (il Senatur, finché non vedrà chiaro, appoggia il ministro dell'Economia), ha ritirato la sua firma dal documento della Conferenza.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7482&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #153 inserito:: Giugno 17, 2010, 09:17:33 am »

17/6/2010

La strategia per arginare il ruolo di Fini
   
MARCELLO SORGI

Il durissimo intervento di ieri di Berlusconi alla Confcommercio, in cui, alle cose che va ripetendo da mesi - tipo che lui non ha poteri, le leggi in Parlamento non passano mai, e quando passano vengono cancellate dalla Consulta - ha aggiunto un'intemerata sulle intercettazioni, con cifre e numeri un po' approssimativi sui milioni di italiani spiati, si spiega con la svolta maturata nell'ennesimo vertice a Palazzo Grazioli. Il Pdl ha deciso di non forzare alla Camera, lasciando aperto il calendario dei lavori fino a metà agosto, e cercare al contrario una via per arrivare in tempi ragionevoli all'approvazione, sia della contestatissima legge appena uscita dal Senato, sia della manovra economica e della riforma universitaria.

Ministri e coordinatori del partito hanno spiegato al Cavaliere che un nuovo scontro con Fini, come quello che fino a martedì il premier sembrava determinato a provocare, non avrebbe portato a niente.

Inoltre avrebbe creato un clima sfavorevole nelle votazioni che richiedono l'impegno della maggioranza e rischiando perfino di agevolare l'opposizione, che a questo punto ha definitivamente scelto lo scontro frontale e le manifestazioni di piazza, e non si fida più neppure del Presidente della Camera.

Questa del centrosinistra deluso da Fini e dai suoi, e convinto che la minoranza finiana stia giocando solo una partita interna al Pdl, senza un vero interesse a creare un'intesa parlamentare trasversale tra parti della maggioranza e parti dell'opposizione, è la vera novità emersa negli ultimi giorni dal quadro politico. Non è di poco conto, se solo si riflette che fino a qualche settimana fa tra le opzioni strategiche del Pd e dell'Udc c'era anche l'ipotesi di un governo tecnico o di emergenza, non guidato da Berlusconi, che avrebbe potuto godere della benemerenza delle opposizioni e avrebbe dovuto gestire la crisi con misure concertate e un largo consenso parlamentare.

Ora che di questo disegno è emersa l'inconsistenza (come sempre, Casini è stato il primo a smarcarsi), a Palazzo Grazioli s'è lavorato per portare il Cavaliere a rinunciare allo scontro e a condividere piuttosto l'accerchiamento di Fini: il quale, se insisterà, come ha fatto nei giorni scorsi, per prendere tempo sulle intercettazioni, sarà accontentato. Ma privo ormai della sponda del centrosinistra, dovrà rendersi conto di avere sempre meno ragioni per opporsi al varo finale della legge. E se le intercettazioni slitteranno a settembre, manovra e riforma universitaria dovranno passare prima della pausa estiva. Su questo Fini dovrà impegnarsi senza se e senza ma.

Un ripiegamento come questo prende atto realisticamente della situazione dei gruppi parlamentari del centrodestra, stanchi e fiaccati da mesi di guerriglia interna al Pdl. Decisivo è stato anche l'atteggiamento di Bossi, restio ad impiccarsi sulle intercettazioni e deciso a liberarsi al più presto della manovra, per togliere dal campo i dubbi che giorno dopo giorno continuano ad affacciarsi sugli effetti della crisi e sulla possibilità che il federalismo possa subire uno slittamento. Non a caso, dopo aver trattenuto Cota e Zaia dall'adesione al documento dei governatori critico sulla linea Tremonti, Bossi s'è adoperato anche per far in modo di venire incontro alla protesta delle regioni. Si andrà dunque a un difficile negoziato parlamentare sulle misure anticrisi, gravato non solo dalle assenze dei parlamentari e dalle tattiche correntizie, ma anche da votazioni a sorpresa, in cui ad esempio i deputati lombardi o quelli pugliesi, votando tutti insieme a prescindere dagli schieramenti, cercheranno di cancellare con emendamenti tagli di spesa che considerano inaccettabili.

Ma il ritorno al realismo e la campagna di pacificazione e di sminamento del percorso del governo, che comunque rimane accidentato, ovviamente non piacciono a Berlusconi. Il Cavaliere, con il gruppo più ristretto dei suoi, confessa sempre più spesso la sua amarezza per la situazione, teme che le intercettazioni finiscano nuovamente sepolte nei cassetti del Parlamento e conserva una sua personale antipatia per la manovra di Tremonti. Malgrado ciò, anche stavolta il premier ha dovuto fare buon viso a cattivo gioco. Così non gli è rimasto che sfogarsi davanti ai commercianti.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7487&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #154 inserito:: Giugno 19, 2010, 09:20:32 am »

18/6/2010 - TACCUINO

Ma un iter concordato farebbe comodo al premier
   
MARCELLO SORGI

L’entrata in scena di Umberto Bossi sul terreno accidentato della legge sulle intercettazioni inaugura la fase due della strategia dell’accerchiamento di Fini e il tentativo di rimettere insieme i cocci della maggioranza, a partire dai due estremi. Il Senatur e il Presidente della Camera, si sa, non si sono mai amati. La loro è da molti anni una convivenza forzata all'interno del centrodestra. Una delle ragioni per cui Fini ha rotto con Berlusconi è che considera l'alleanza del Pdl con la Lega sbilanciata verso quest'ultima, e la consuetudine dei pranzi settimanali ad Arcore tra il Cavaliere e la delegazione del Carroccio una plateale dimostrazione della disparità tra i membri dell'alleanza.

A quegli incontri, infatti, Fini non è mai stato ammesso. E il tentativo di riequilibrare i rapporti istituendo un altro parallelo incontro settimanale tra il presidente del consiglio e il presidente della Camera, dopo un paio di tentativi, s'è rivelato fallimentare e ha dato luogo a litigate memorabili, alternate da lunghi periodi di mancata frequentazione.

Mentre appunto i finiani - in testa la solforosa presidente della commissione giustizia Giulia Bongiorno - ieri alla Camera davano fuoco alle polveri, chiedendo un ripensamento e una riscrittura di parte del contestato testo varato dal Senato, un Bossi piuttosto affaticato dalla torrida giornata romana, e sorretto a tratti dal figlio Renzo, si dirigeva verso l'ufficio del più alto inquilino di Montecitorio. La discussione tra i due, s'è capito da quel che lo stesso Bossi ha detto all'uscita, come si dice dev'essere stata franca. Il leader leghista s'è presentato da mediatore e non da ambasciatore di un Berlusconi molto irato.

La conclusione è che, se quella di Fini non è una tattica pregiudiziale che punta a far saltare la legge, si può discutere quali emendamenti servono per migliorare il testo e approvarlo rapidamente, rispedendolo al Senato per l'esame finale. Berlusconi nel frattempo si occuperebbe di approfondire con Napolitano tutte le riserve emerse finora, per sì che una volta approvata la legge possa seguire anche la firma del Quirinale.

In due settimane il problema potrebbe essere risolto così. L'iter concordato consentirebbe a Fini di avere la parola finale su un testo mai condiviso fino in fondo, a Berlusconi di evitare la brutta figura di un altro rinvio, e a Bossi, oltre al merito di aver riportato la pace nella maggioranza, la possibilità di chiedere un'accelerazione sulla manovra economica e garanzie precise sul completamento del federalismo, la riforma che da sempre interessa più di tutto alla Lega.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7490&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #155 inserito:: Giugno 22, 2010, 09:48:12 am »

22/6/2010 - TACCUINO

Il Quirinale e lo spettro dell'anarchia
   
MARCELLO SORGI

L’appello del Capo dello Stato, rivolto a maggioranza e opposizione, a concentrarsi sulla manovra economica per riuscire a concluderne l’esame in Parlamento prima della pausa estiva non è affatto formale, né mirato esclusivamente ad ottenere un rinvio delle intercettazioni alla ripresa. Dopo aver preso attenta visione del documento trasmessogli dal governo, e dopo essere stato avvertito che gli emendamenti presentati da tutte le parti politiche sono già oltre duemila, Napolitano con i suoi collaboratori s’è detto molto preoccupato per la piega che l’iter delle misure anticrisi potrebbe prendere di qui a poco.

Non è solo un problema di clima politico, vieppiù deteriorato. E’ ormai evidente che in Parlamento, anche nei gruppi della maggioranza, regna un clima di incertezza e di stanchezza che moltiplica le assenze e sfocia spesso in episodi di anarchia. Come appunto quello che ieri ha convinto tre peones del Pdl (Tancredi, Latronico e Picchetto Frattin), a cercare di introdurre con emendamenti nientemeno che un nuovo condono edilizio e un altro condono fiscale tombale sulle tasse evase fino al 2008.

La libera uscita dei tre, subito motivo di attacchi dell’opposizione al governo, è stata subito stoppata dal portavoce di Palazzo Chigi Bonaiuti. Ma è ugualmente apparsa come un sintomo di ulteriore scollamento interno dei gruppi parlamentari del centrodestra e come un segno di difficoltà dei capigruppo - che dovrebbero avere potere di autorizzazione sugli emendamenti - di controllarli. Il rinvio del voto sulle intercettazioni dovrebbe essere deciso oggi. La corsia preferenziale chiesta dal Quirinale, e quasi certamente condivisa dal governo, per la manovra, oltre ad essere una proposta ragionevole, riuscirebbe a separare almeno di due mesi l’attuale discussione e il voto sul decreto anticrisi dalla sessione di bilancio che si riaprirà a settembre.

Sul governo preso ormai da un’emergenza dopo l’altra, preme inoltre l’aggravamento della situazione dei terremotati dell'’quila: il pronto soccorso ch’era stato un fiore all’occhiello del governo l’anno scorso mostra ormai la corda rispetto al ritardo della ricostruzione e alle preoccupazioni delle autorità locali per la paralisi di tutte le attività economiche della città.

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« Risposta #156 inserito:: Giugno 23, 2010, 05:47:51 pm »

23/6/2010 - TACCUINO

"Il patto tra i due Gianni" e la nuova sfida di Alemanno
   
MARCELLO SORGI

Siglato lunedì sera alla presenza della Roma che conta, l'accordo subito ribattezzato «dei due Gianni», Letta e Alemanno - per rimettere a posto i disastrati conti del Comune della capitale e per avviare operativamente il comitato che mira a riportare all'ombra del Colosseo le Olimpiadi del 2020 -, conta molto di più dei due concreti e dichiarati obiettivi che si propone.

Quando Alemanno si insediò in Campidoglio due anni fa, alla fine di una campagna elettorale in cui a sorpresa era diventato il candidato vincente, piegando i pronostici che davano favorito Francesco Rutelli, non fece mistero di considerare Letta un avversario da battere. «Lettiana», oltre che veltroniana e rutelliana, era stata infatti negli ultimi 15 anni di sindaci di centrosinistra, la gestione bipartisan della capitale, fondata su un metodo di trasparente collaborazione e sulla convinzione che nessun sindaco romano può fare a meno del governo e nessun governo può fare a meno di Roma.

Quella di Alemanno era invece, almeno nelle aspirazioni, una vittoria «rivoluzionaria», da gestire come tale, azzerando il sistema di potere sopravvissuto alla staffetta dei due sindaci di centrosinistra e portando in Campidoglio lo spirito battagliero e le dure contrapposizioni, tipiche del bipolarismo nazionale e della Seconda Repubblica. A ventiquattro mesi dall'inizio della sua nuova avventura, Alemanno, alle prese con le difficoltà e gli enormi problemi di una capitale ingovernabile, ha dovuto rassegnarsi all'accordo, che peraltro Letta ha sottoscritto volentieri, accettando di guidare Roma nella corsa per le Olimpiadi malgrado la precedente sconfitta in favore di Atene.

Letta, si sa, non è un uomo di partito ma di istituzioni, e non ha mai avuto la tessera di Forza Italia o del Pdl, pur essendo il braccio destro di Berlusconi. Alemanno è un outsider assurto rapidamente al successo grazie anche all'insipienza degli altri colonnelli ex-finiani e alla testarda battaglia contro il Cavaliere, che Fini sta conducendo senza tregua, e finora senza molti risultati, dentro il partito. Nella stretta di mano che il sindaco e il sottosegretario si sono scambiati pubblicamente lunedì non c'è dunque solo la conferma dell'eterna legge romana del compromesso. Ma anche, forse, un'ipoteca sulla futura corsa alla successione del premier, che aveva avuto finora in Tremonti e nel presidente della Camera i due principali aspiranti. E che adesso, dopo il «patto dei due Gianni», con Alemanno ne ha tre.

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« Risposta #157 inserito:: Giugno 25, 2010, 10:21:46 am »

25/6/2010 - TACCUINO

La rivolta dei governatori divide Pdl e Lega

MARCELLO SORGI

La protesta delle Regioni contro il governo che scarica sulle amministrazioni locali il peso maggiore della manovra da ieri ha assunto toni da rivolta. I governatori minacciano nientemeno che di rinunciare alle loro competenze in molte materie su cui da tempo il potere centrale non esiste più. La spiegazione, data a nome di tutti dal presidente della Conferenza Stato-Regioni Vasco Errani, è che tagliando i fondi previsti per una serie di servizi la manovra rende impossibile garantirli, a meno di non procedere, localmente, all’istituzione di nuove tasse per finanziarli.

Va detto che era abbastanza prevedibile che sarebbe finita così. La vicenda di un governo che a Roma si vanta di «non aver messo le mani nelle tasche degli italiani» mentre in periferia costringe le amministrazioni a farlo era apparsa chiara da quando l’impianto della manovra fu spiegato per la prima volta. Nel nostro Paese, più che in altri, tagli e tasse si equivalgono: l’Italia, rispetto alla Francia, tanto per fare un esempio, è più avanti in fatto di decentramento: in molte materie come trasporti pubblici locali, polizia amministrativa, incentivi alle imprese, parte della Protezione civile, invalidi civili, agricoltura, viabilità e ambiente, oltre naturalmente alla Sanità, che da sola copre più di metà dei bilanci regionali, le amministrazioni locali hanno potestà esclusiva o quasi esclusiva, ma il finanziamento dei servizi che devono fornire è ancora assicurato dallo Stato, che è il destinatario centrale della quasi totalità delle entrate ricavate dalle tasse.

Come mercoledì i sindaci che avevano appreso dai giornali della possibilità allo studio di una nuova imposta comunale per rimpiazzare l’Ici, abolita dal 2008 e mai reintegrata con trasferimenti di fondi da parte del governo, così oggi anche i governatori vorrebbero sapere quale sorte li aspetti. Va da sé che in un quadro del genere la ormai sommersa discussione sul federalismo, prima di tutto su quello fiscale, torna drammaticamente d’attualità, e non a caso il leader della Lega l’altro giorno è andato a parlarne con il Capo dello Stato. La sensazione è che un governo con le casse vuote e con una capacità famelica di tagliare i fondi per le Regioni e i Comuni non sia affatto pronto a rinunciare al centralismo delle tasse. Accanto al contenzioso sulle tabelle dei bilanci dei governatori, e sui futuri aumenti, tra gli altri, dei biglietti dei tram e dei bus, è quindi destinato a crescere anche l’attrito politico su uno dei punti chiave dell’alleanza che cementa il patto tra Pdl e Lega.

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« Risposta #158 inserito:: Giugno 27, 2010, 09:26:35 am »

27/6/2010

Bossi spera nell'aiuto del Quirinale

MARCELLO SORGI

Nel bel mezzo del pasticcio originato dalla nomina a ministro di Brancher, e dal suo tentativo, fallito ieri sera, di utilizzarla per sottrarsi ai giudici, Bossi dice che «il Quirinale è il punto che tiene in equilibrio lo Stato» e i leghisti salgono due volte in tre giorni al Colle.

Qualcosa, è chiaro, si sta muovendo. Se solo si considera che il Carroccio ha sempre avuto una palese diffidenza per l’inquilino del Palazzo più importante - Scalfaro, con cui pure Bossi firmò il «ribaltone», o Ciampi, di cui non sopportava l’esplicita passione patriottica, senza differenze -, fa riflettere la liaison tra la Lega e Napolitano, il primo Presidente della Repubblica a non essere fischiato dalle camicie verdi quando va a parlare di federalismo e unità nazionale nei territori padani.

Seppure solo adesso stia emergendo chiaramente, la consuetudine tra il Capo dello Stato e il Carroccio data da tempo. A parte la stima e il rispetto reciproci, che hanno fatto dire a Bossi, col suo tono un po’ spaccone, che lui e Napolitano sarebbero in grado di risolvere in cinque minuti il pasticcio della legge sulle intercettazioni, c’è, a partire da sedici anni fa, quando entrò per la prima volta al Viminale come ministro dell’Interno, il rapporto con Maroni, che ha accettato di buon grado le critiche del Quirinale al decreto sicurezza e s’è impegnato a cambiarlo appena possibile. E c’è stata, di recente, la pubblica pace con il sindaco di Verona Flavio Tosi, quello che si vantava di tenere appesa nel suo ufficio la foto del presidente partigiano e nordista Pertini, e che invece al momento di riceverlo l’ha sostituita e s’è fatto trovare con quella di Napolitano dietro la poltrona. Insieme, poi, Tosi e il Presidente hanno fatto una passeggiata a piedi nel centro della città, che simboleggiava la plateale riconciliazione.

Le ragioni di questa imprevedibile convergenza sono chiare, anche se a prima vista i soggetti non potrebbero apparire più lontani: Napolitano con il suo amore per Napoli e il Sud e l’impegno ormai solitario sulla trascuratissima questione meridionale, Bossi che a Napoli c’è andato sì e no una volta con Berlusconi e s’è fermato a prendere una pizza con evidente disagio. La prima spiegazione è la politica intesa un po’ alla vecchia maniera, come costruzione e arte del possibile, non solo scontro quotidiano di propaganda. Il Senatùr e il Presidente sono ancora due tipici leader della Prima Repubblica, che si parlano, studiano le loro mosse, cercano l’avvicinamento, e anche quando non lo trovano non si chiudono mai la porta in faccia. Questo ha reso possibile, per il Presidente, valutare certe rumorose e sgarbate, in qualche caso, uscite della Lega, tipo le assenze alle cerimonie del 2 Giugno, per quel che sono: mosse propagandistiche senza sostanza che non devono influire su un percorso di collaborazione.

Poi c’è la percezione, chiara per tutti i leghisti che lo hanno incontrato, compreso Calderoli che è il più esuberante, che Napolitano è un vero riformista, convinto che così com’è l’Italia non può andare avanti, che debba finalmente rinnovarsi e in quest’ambito si possano coniugare intelligentemente unità nazionale e federalismo. Napolitano ha dedicato fin dall’inizio il suo settennato alle riforme, non ha mai mostrato nostalgie passatiste o centraliste, ha parlato chiaro in tutti gli appuntamenti ufficiali importanti, ha insistito sugli stessi argomenti nei suoi messaggi di Capodanno, e tutto ciò, a differenza di Berlusconi con cui l’alleanza è solida ma guardinga, lo rende credibile agli occhi della Lega e strategico nel momento in cui la confusione tra manovra economica, intercettazioni e riforme cresce e sembra piegare verso uno sbocco inconcludente, oltre a far temere un nuovo rinvio del federalismo.

Il Presidente fa quel che può, ma quando promette mantiene, dicono i leghisti. Inoltre, da qualche tempo, Bossi e i suoi hanno ripreso a sospettare che Berlusconi, se la situazione economica lo consentisse dando un po’ di respiro, sotto sotto non abbia rinunciato all’ipotesi di elezioni anticipate, come resa dei conti con Fini. Le elezioni prima del federalismo, va da sé, sarebbero un disastro per la Lega, che in occasione del caso Brancher ha scontato un evidente mugugno della base nel raduno simbolico di Pontida. Per questo, tra le altre cose di cui sono andati a parlare al Quirinale, i leghisti hanno fatto capire che si aspettano, nel caso infausto le loro previsioni dovessero realizzarsi, una cautela speciale da parte di Napolitano prima di sciogliere di nuovo le Camere

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« Risposta #159 inserito:: Giugno 30, 2010, 10:17:21 pm »

30/6/2010 - TACCUINO

Che affare fondare un partito
   
MARCELLO SORGI

La querelle irrisolta tra Antonio Di Pietro e il suo vecchio socio fondatore di «Italia dei valori» Elio Veltri, che lo accusa di aver organizzato una truffa sui rimborsi elettorali, appropriandosi di una parte di quel che lo Stato ha versato al suo partito per interessi personali, non accenna a finire. Ma al di là delle responsabilità che toccherà alla magistratura accertare (Di Pietro si dice sicuro anche stavolta, come in precedenza, di un'archiviazione), il caso ha messo in evidenza un aspetto non secondario della crisi della politica.

In Italia, in altre parole, è diventato conveniente fondare un partito. Si guadagna bene. E questo spiega perché, ad onta dei meccanismi maggioritari che, escluse le europee, funzionano per qualsiasi tipo di elezione, nell'approssimarsi della data per la presentazione dei simboli, si moltiplichino liste senza quasi alcuna altra ragione sociale che quella di concorrere alla ricca torta dei rimborsi.

Basti solo un dato, pubblicato, al termine di un'approfondita ricerca, in un piccolo e prezioso pamphlet di Giuseppe Sangiorgi, («Rivoluzione Quirinale», Gaffi editore): nel 1993, ultimo anno prima che il finanziamento pubblico venisse abolito da un referendum, lo Stato versò ai partiti poco più di 80 miliardi delle vecchie lire, pari a meno di 45 milioni di euro di oggi. Nel 2008 i rimborsi elettorali assegnati ai nuovi partiti per le elezioni politiche sono stati più di 503 milioni di euro, dieci volte di più.

A ciò si aggiunga il fatto che hanno diritto a prenotare i rimborsi tutti i partiti che abbiano partecipato almeno alle elezioni regionali eleggendo un consigliere, e quelli che hanno raggiunto l'uno per cento dei voti (più o meno 450mila) alle elezioni politiche. Un siffatto partito può conquistare, non solo la fetta di torta che riguarda la competizione in cui s'è presentato, ma anche quella delle altre elezioni, con l'unico limite, stabilito nel 2009, che per farsi rimborsare le europee dovrà aver raggiunto il 4 per cento dei voti. Del tutto inspiegabile - e la Corte dei Conti lo ha più volte sanzionato - è poi il meccanismo che sovrintende ai rimborsi: i partiti sono tenuti a portare le pezze d'appoggio delle spese affrontate, ma i pagamenti avvengono in relazione ai voti conquistati, con un moltiplicatore che è andato sempre in crescendo dal '93 al 2008. Al punto che a fronte di spese riconosciute per 600 milioni di euro sono stati erogati contributi per due miliardi 253 milioni, un miliardo e 670 milioni in più di quanto speso. Un campo lasciato intatto dalla manovra di Tremonti.

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« Risposta #160 inserito:: Luglio 01, 2010, 12:21:11 pm »

1/7/2010 - TACCUINO

Partita decisiva dentro il Pdl
   
MARCELLO SORGI

Le aperture di Tremonti sulla manovra e l'irrigidimento di Berlusconi sulle intercettazioni solo apparentemente sono in contraddizione: segnalano, anzi, un rafforzamento della strategia che sempre più negli ultimi tempi ha visto il premier stringere l'alleanza con la Lega e andare a una resa dei conti con il dissenso interno al Pdl. Nella sola giornata di ieri il ministro dell'Economia ha cercato invano di placare l'ira dei magistrati in sciopero, ha confermato la volontà espressa dal Cavaliere di trattare sulle misure anticrisi, salvaguardando tuttavia «saldi e soldi», e ha concluso con Bossi un accordo che dovrebbe servire a fugare i sospetti del Carroccio sulla possibilità di un nuovo rinvio del federalismo, dovuto all'incrudelirsi della congiuntura economica.

Il passaggio, salutato con soddisfazione dal Senatur, dell'intero comparto della finanza sugli immobili ai Comuni, oltre a significare in tempi brevi il ritorno di imposte sulle case sostitutive dell'Ici, che era stata abolita dal governo all'atto dell'insediamento due anni fa, segna un punto a vantaggio delle richieste della Lega, convinta che il nuovo meccanismo favorirà i comuni virtuosi a svantaggio di quelli gravati da un eccesso di spese, e che l'introduzione del principio della responsabilizzazione delle amministrazioni locali rispetto ai costi dei servizi da fornire ai cittadini potrà tradursi più avanti in un allargamento dell'autonomia impositiva locale. I soldi del Nord devono restare al Nord, invoca da anni la Lega: la decisione di ieri è un primo passo in questa direzione perché limita i poteri del governo nella redistribuzione sul territorio delle risorse. La svolta, presentata da Tremonti e Bossi, dovrebbe servire anche a raffreddare le tensioni prodotte dal caso Brancher e favorire una pacificazione nel rapporto con l'alleato strategico del Pdl, in vista della battaglia finale sulle intercettazioni. Sulle quali, appunto, Berlusconi, anche a costo di scontare un nuovo, plateale, dissenso di Fini, e contraddicendo anche il consiglio venuto dal Quirinale di concentrarsi sulla manovra economica, ha deciso di accelerare, sfidando anche l'ostruzionismo annunciato dall'opposizione. Ma oltre all'importanza che il premier attribuisce alla legge, si tratta soprattutto di una partita interna al Pdl.
Il Cavaliere ha tracciato una linea di confine per terra: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori una volta per tutte.

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« Risposta #161 inserito:: Luglio 02, 2010, 09:42:46 pm »

2/7/2010 - TACCUINO

La pericolosa politica dei tre forni di Bossi
   
MARCELLO SORGI


Sulle intercettazioni si deve trovare la mediazione e la troveremo», dice Bossi, sicuro di sé, con antico linguaggio democristiano. Ringalluzzito dall’accordo sulle tassazione delle case riservata ai comuni, il Senatur s’è messo al centro della complessa partita di fine stagione, annunciata per il 29 luglio.

In realtà quella di Bossi è la classica politica dei due forni, per non dire tre. Il primo è quello di Berlusconi, al quale il leader del Carroccio è disposto a dare una mano, trovando il modo di portare a casa il controverso testo che da due anni fa stop and go in Parlamento. Chiede in cambio una rassicurazione definitiva sul federalismo, lasciando intendere a Berlusconi che non gli conviene indugiare sul punto chiave dell’alleanza tra Pdl e Lega. Specie se, sotto sotto, come si vocifera di nuovo, il premier non ha rinunciato all’idea di tentare all’inizio del prossimo anno di andare ad elezioni anticipate per chiudere i conti con Fini. Senza federalismo, la Lega non può tornare davanti agli elettori. Con, invece, è un altro discorso.

Il secondo forno è quello di Tremonti, amico oltre che alleato della Lega e autore dell’accordo ritrovato mercoledì in consiglio dei ministri. Il ministro dell’Economia, per il completamento del federalismo, propone una strada più lenta ma più sicura, che si dispiega nell’arco dell’intera legislatura, fino al 2013. In questo quadro Bossi resta strategico sia nell’attuale compagine di governo, sia in un’eventuale diversa soluzione, che nascerebbe nel caso di un aggravamento della situazione economica e della ricerca di un'intesa diversa con l'opposizione per varare misure più dure sorrette da un consenso più ampio. E’ l’ipotesi, che fa capo di tanto in tanto ma fin qui s’è rivelata irrealizzabile, di un nuovo governo, guidato da Tremonti, per gestire l’emergenza.

L’opposizione, inoltre, diventerà un forno indispensabile - il terzo per il Senatur! - al momento del varo definitivo della parte di riforma costituzionale che riguarda il federalismo. Senza l'appoggio dei due terzi del Parlamento infatti, la riforma, come accadde nel 2006, resterebbe zoppa. Di qui l’interesse di Bossi di agganciare il centrosinistra già adesso, sul terreno spinoso delle intercettazioni, per spendere più avanti la credibilità guadagnata sul campo. Malgrado l’indiscutibile abilità politica di Bossi, un triplo movimento così articolato - e così evidentemente modellato sull’interesse della Lega prima di tutto - ha una sola controindicazione: la vecchia regola della Prima Repubblica che le volpi, presto o tardi, finiscono tutte in pellicceria.

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« Risposta #162 inserito:: Luglio 08, 2010, 10:57:35 am »

8/7/2010 (7:11)  - IL CASO

Nasce la corrente tutta rosa del Pdl col sì del Cavaliere

Guidata dalle ministre Carfagna, Prestigiacomo e Gelmini sta già suscitando tensioni nel partito

MARCELLO SORGI
ROMA

Una sfida: all’indomani del diktat di Berlusconi per cancellare le divisioni interne nel Pdl e regolare i conti con l’agguerrita minoranza finiana, non potrà sembrare altro, sabato, la nascita della corrente delle tre ministre Gelmini, Carfagna e Prestigiacomo, nella Sicilia greca e molto mediterranea della città natale della responsabile dell’Ambiente, e nel castello di Man, carico di mistero, a Siracusa.

Osteggiata dagli eterni rivali Alfano e Schifani che avevano chiesto al premier in persona di fermarla e, pur invitati, non ci saranno, fiancheggiata dal ministro degli Esteri Frattini, che aveva già dato vita con la collega dell’Istruzione alla Fondazione «Liberamente», l’alleanza nazionale delle tre donne più importanti del governo, una milanese, una napoletana e una siciliana che escono allo scoperto, non ha ricevuto alcun «alt» dal Cavaliere. Per la semplice ragione che a loro Berlusconi non sa dire di no, che con ognuna vanta un rapporto speciale, e a un grande comunicatore come lui non sfugge il potenziale politico-mediatico di un’iniziativa come questa, legata a tre dei volti più amati del centrodestra.

Così, quando Maria Stella Gelmini, martedì sera, dopo aver letto sulle agenzie l’annuncio della guerra alle correnti del Pdl, ha telefonato a Berlusconi, per chiedergli se in qualche modo poteva riguardare anche il convegno delle ministre, il premier ha chiesto qualche dettaglio, s’è informato sui nomi dei relatori, e poi ha dato il via libera. Spinta dalla Prestigiacomo, la più ribalda delle tre, la Gelmini ha insistito allora con il Cavaliere per ottenere una pubblica benedizione. Berlusconi non ha detto né di sì né di no, fino a ieri sera la sua dichiarazione non era arrivata.

Ma anche se il consenso del leader resterà riservato, è evidente che il Cavaliere sta con loro. Prestigiacomo, Gelmini e Carfagna, infatti, al di là del loro impegno nel governo, che il premier non perde occasione per lodare, rappresentano il concentrato di quel che Berlusconi ha sempre immaginato come elementi costitutivi del suo partito e del suo modo di stare in politica. Ai suoi occhi, sono brave, giovani e belle. Sono laureate. Riescono a dividersi, non si sa come, tra il lavoro durissimo a cui sono state chiamate, le loro famiglie e gli impegni politici sul territorio. Inoltre - dettaglio a cui il leader, come si sa, attribuisce molta importanza - hanno grande cura di se stesse, sono eleganti, sanno stare in tv. E si presentano a qualsiasi ora a Palazzo Chigi, alle trattative o al Consiglio dei ministri, con un look charmoso, senza un capello fuori posto e con grande personalità.

Le ministre sono molto consapevoli di questo. La loro idea di femminilità in politica è powerfull, il loro modello è un mix dell’americana Condoleezza Rice, della francese Rachida Dati, dell’israeliana Tzipi Livni, dell’ucraina Yulia Timoshenko. Poi, ciascuna sa di occupare un posto particolare nel cuore del Cavaliere. Alta, bionda, sorridente, con quella sua cantilena siciliana così sensuale, Stefania, che sabato sarà la madrina del battesimo della corrente, è una combattente della prima ora. C’era già nel ’94, quando fu scelta subito come Miss Parlamento, è entrata al governo che era appena una ragazza. Ma quando qualcuno dei ministri più importanti, si tratti di Tremonti o dell’ex Scajola, ha provato a entrare nel suo campo, ha dovuto subito fare un passo indietro. «Sanno che sono pronta ad alzargli le mani», conferma, e nello slang della ministra dell’Ambiente vuol dire che sa difendersi.

A chi ancora le fa scontare il suo passato televisivo, Mara - che come ricorda Elisabetta Gregoraci, moglie di Flavio Briatore e mamma del suo adorato Falco, nasce pubblicamente «in una formidabile edizione di Miss Italia, in cui c’eravamo tutte» - ha appena risposto portando in dote al partito ben cinquantamila voti alle recenti elezioni regionali. Un successo che le è costato l’ostracismo del potente (e inquisito per rapporti con la camorra) sottosegretario Nicola Cosentino, il vero ras del Pdl in Campania. Eppure, malgrado ciò, si continua a parlare di lei come del futuro sindaco di Napoli. E sarà la ministra delle Pari Opportunità, non a caso, a presiedere la tavola rotonda sulla legalità al convegno di Siracusa.

A concludere i lavori invece sarà Maria Stella. Bruna, minuta, apparentemente più timida delle altre due e neo-mamma, la Gelmini, di cui il maestro del cinema porno-soft Tinto Brass ha appena detto che la vorrebbe in un suo film «perché ha il volto del turbamento», è il classico pugno di ferro in guanto di velluto. S’è fatta le ossa alla guida di Forza Italia in Lombardia, nella regione in cui il potere berlusconiano deve fare i conti con quello assoluto del governatore Formigoni, il «Celeste», e con le ambizioni padane della Lega. Fu proprio a Milano che una domenica di quasi tre anni fa la raggiunse la telefonata del Cavaliere, che da Arcore, come preso da una folgorazione, muoveva su piazza San Babila per fondare il suo nuovo partito. Di quel giorno, la Gelmini ha raccontato che sul momento, temendo di non trovare la gente per accogliere Berlusconi, le veniva da piangere. Ma poi, pragmatica e puntuale com’è, si attaccò al telefono: in meno di un’ora la piazza si riempì e Maria Stella si guadagnò il suo posto al governo.

A scorrere il programma di Siracusa si capisce non solo che sarà un successone, ma che è destinato a muovere parecchio le acque del Pdl nella sua stagione più inquieta. Gli occhi di Berlusconi sul convegno saranno Giampiero Cantoni, il senatore milanese membro da sempre della cerchia più ristretta degli amici del premier, e Mario Valducci, che presto potrebbe sollevare il premier dall’interim allo Sviluppo economico.

Quello di Gianni Letta sarà il ministro delle Regioni Raffaele Fitto. Poi, sempre perché è impossibile non accontentare Stefania, il coordinatore catanese del Pdl «lealista» Castiglione siederà accanto all’eretico capo del Pdl-Sicilia Gianfranco Miccichè, anche se da mesi non si rivolgevano la parola e si sono affrontati come avversari in tutte le ultime prove elettorali. Ci saranno intellettuali - lo storico e giornalista Paolo Mieli, lo scienziato statistico Luca Ricolfi, l’economista Bob Leonardi della London School of Economics, il rettore dello Iulm Gianni Puglisi -, di solito restii a intervenire in sedi di partito e qui per parlare di federalismo, di Sud e di Unità d’Italia. La Chiesa e l’Antimafia parteciperanno con il presidente di Confindustria Sicilia Ivanhoe Lo Bello e il vescovo responsabile della Cei per l’educazione alla legalità Michele Pennisi.

Ma più interessante è l’elenco di chi non ci sarà: il vertice partitocratico del Pdl, a cominciare dai tre coordinatori, responsabili, a giudizio della componente femminile del centrodestra, di una gestione maschilista e accentratrice del partito e di aver stretto attorno a Berlusconi una sorta di cordone di sanità; i capigruppo che devono spesso essere aggirati (con l’aiuto di Fini) per ottenere che i provvedimenti siano messi ai voti in Parlamento; i ministri capibastone che, spesso all’insaputa del premier, non perdono occasione per farsi i fatti loro ai danni delle colleghe. A tutti questi, anche senza dirlo esplicitamente, la corrente delle ministre sta per dichiarare guerra in nome di Berlusconi

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201007articoli/56563girata.asp
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« Risposta #163 inserito:: Luglio 08, 2010, 11:28:43 pm »

6/7/2010

Situazione balneare
   
MARCELLO SORGI

Le dimissioni - anzi il brusco dimissionamento, voluto da Berlusconi - dell’occasionale ministro Brancher e il lungo incontro avuto ieri con Tremonti sono le prime mosse del premier per arginare la difficile situazione trovata al rientro dall’estero. Non essendo possibile, al momento, affrontare veramente i problemi gravi che ha davanti il governo, quella che si sta delineando è una classica soluzione balneare, un rappattumamento che non somiglia affatto ai proclami ottimistici di Berlusconi venerdì sera in tv, quando a tutto pareva bastare un sorridente «Ghe pensi mi».

Invece, ancora una volta da quando la crisi economica ha preso il sopravvento anche in Italia, è toccato al sottosegretario Gianni Letta confermare ieri la complessità di una situazione senza molte vie d’uscita. La manovra dovrà quindi passare presto, con le buone o con le cattive, in Parlamento, dove sarà presto riproposta la questione di fiducia per decimare le migliaia di emendamenti che tendevano a modificarla e ad ammorbidirla. Nelle Camere lo scontro sarà durissimo e la maggioranza, pur militarizzata, verrà messa a dura prova.

Le Regioni, fin qui arrampicate su una specie d’Aventino e pronte a rinunciare ai loro poteri per mancanza di mezzi per finanziarli, dovranno fare buon viso a cattivo gioco e accontentarsi dei cambiamenti minimi che saranno concessi dal ministro dell’Economia.
Sullo sfondo, tutte le questioni che hanno rallentato la marcia, sempre più difficoltosa, del governo, restano intatte. Il gelo con il Quirinale, determinato dalla nomina-imbroglio di Brancher - un ministro di cui non si riuscivano neppure a chiarire le deleghe, un'operazione che il Capo dello Stato aveva definito «un gioco delle tre carte» - potrà magari trovare un ammorbidimento, ma non fino al punto da convincere Napolitano a collaborare con i suoi tecnici alla messa a punto di un testo condivisibile della legge sulle intercettazioni. Il Presidente della Repubblica è risoluto a dare il suo giudizio, ed eventualmente a negare la sua firma se le nuove norme non lo convinceranno, solo dopo che il Parlamento le avrà licenziate. Sempre che ci riesca e sempre che Berlusconi e Fini trovino un'intesa, assai ardua da individuare, sul provvedimento, mentre ancora non sono d'accordo neppure sui tempi delle votazioni e stanno valutando se non sia venuto il giorno di dividere politicamente le loro strade.

Anche in questo caso, però, il giorno non sembra arrivato. Né il Cavaliere, né il presidente della Camera sono pronti a separarsi, pur se le loro strategie, ormai è chiaro, collidono. Berlusconi pensa a un ennesimo nuovo partito (nei corridoi della Camera se ne parla, ricordando l’uscita a sorpresa di piazza San Babila del 2007) come di un «predellino 2».

Anche Fini è in cerca di nuovi approdi, forse centristi, forse terzaforzisti, non sufficientemente definiti. Pur vivendo ormai da mesi come «separati in casa», i due leader non hanno alcuna convenienza a divorziare adesso. Il divorzio avverrà quasi certamente quando la prospettiva finale della legislatura sarà più chiara, e per questo occorrerà aspettare la fine dell’anno.

Se in autunno, come molti si aspettano purtroppo, la crisi economica dovesse incrudelirsi e la manovra del governo, manifestamente più debole di quella di altri partners europei come Germania e Inghilterra, rivelare la sua insufficienza, cresceranno infatti le tentazioni di dare una spallata a Berlusconi, anche più vigorosa di quella che confusamente è stata tentata in sua assenza nell’ultima settimana. Lo testimonia, tra l’altro, il ritorno agli appelli al Capo dello Stato e all’ipotesi di un governo d’emergenza da parte delle opposizioni. Se invece, come lui stesso spera senza farne mistero, lo stellone italiano riuscisse nuovamente a prevalere, e la ripresa a farsi un po’ meno timida di quel che appare oggi, il Cavaliere avrebbe finalmente mano libera per la resa dei conti con i suoi avversari, soprattutto interni al centrodestra, e per cercare un rilancio personale nello scioglimento anticipato delle Camere e in un nuovo lavacro elettorale.

Ma intanto, anche se è contrario al suo temperamento, a Berlusconi tocca aspettare. In altri tempi, si sarebbe detto che il premier, il suo esecutivo e la sua maggioranza devono fare la verifica. Poi si sa, sulle verifiche estive aveva sempre il sopravvento il «generale agosto», e per far passare l’estate e insieme decantare il quadro nasceva un «governo balneare». L’unica cosa che è rimasta di quei tempi, verrebbe da concludere.

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« Risposta #164 inserito:: Luglio 12, 2010, 10:06:47 am »

12/7/2010

Il premier cerca l'exit strategy
   
MARCELLO SORGI

Anche se molti, nell’entourage del presidente del Consiglio, assicurano che fosse stata attentamente preparata, fin dall’accorta scelta degli ospiti che dovevano presenziarvi e dalla scelta della casa che doveva ospitarla, l’idea che la rifondazione della Dc, vale a dire il partito-Stato della Prima Repubblica, potesse ripartire nel modo in cui Berlusconi ci ha provato giovedì sera, nella famosa cena a casa di Bruno Vespa, suona a dir poco approssimativa. E non sorprendono, va detto subito, le reazioni sconcertate con cui esplicitamente hanno preso le distanze sia il leader dell’Udc Casini, partner presunto e obbligato dell’operazione, sia il ministro dell’Interno leghista Roberto Maroni, che lo stesso Bossi.

Per quanto logora, acciaccata e sopravvissuta a se stessa oltre ogni limite fino al momento della sua scomparsa, la Democrazia cristiana - il partitone cardine (oltre che guida, per una buona metà) di tutti i governi di più di quarant’anni della nostra storia -, era una cosa seria.

Alle sue spalle non c’era solo l’appoggio, peraltro intermittente e mai univoco, della Chiesa e delle Gerarchie vaticane, ma la variegata realtà del cattolicesimo italiano impegnato in politica, oggi in gran parte a disagio nella nuova democrazia bipolare e disperso in una lunga diaspora.

Che una complessa architettura come quella (che per semplificare faceva dire ai cronisti politici che nella Dc potevano convivere dai fascisti ai brigatisti) potesse rinascere in una cena romana, grazie alla disponibilità di uno dei più famosi giornalisti italiani e alla presenza di cardinali, banchieri, manager e una ristretta rappresentanza della classe dirigente italiana, francamente è un po’ troppo. Perfino Berlusconi, che spesso si lascia andare alla faciloneria, e che ha preso male le reazioni di Casini e della Lega, siamo sicuri che avesse ambizioni più forti. Anche lo stupore di alcuni degli ospiti, manifestato privatamente all’uscita dalla casa di via Gregoriana, era più che giustificato. Infatti non è proprio detto che per curare i mali italiani la medicina sia una nuova Dc.

Non è solo questione di procedure, che il Cavaliere si ostina a considerare superflue e invece fanno parte della liturgia repubblicana, come una crisi e un programma da rinegoziare, che diverrebbero indispensabili se il governo dovesse rinascere con una nuova maggioranza. È tutta la concezione berlusconiana della velocità e della semplificazione, per non dire dell’amicizia, che consentono di risolvere tutto, e al contrario sono messe a dura prova da una situazione divenuta, giorno dopo giorno, più difficile.

Davanti a sé Berlusconi ha il problema di un’«exit strategy» da una congiuntura di cui non porta, certo, tutte le colpe, ma che richiede da parte sua una piena assunzione di responsabilità, per capire veramente ciò che il governo può fare nella seconda parte della legislatura e cosa non può. E soprattutto, con chi può e vuole farlo. Senza chiamarlo necessariamente «governo d’emergenza» (un concetto che il Cavaliere rifiuta come tutti quelli che possono allarmare i suoi elettori), Berlusconi ha il dovere di mettere a punto un piano per una situazione che tutti, in Europa e in buona parte del mondo, considerano d’emergenza; di dire francamente quale parte del programma con cui ha vinto le elezioni nel 2008 considera ancora realistica e a quale è disposto a rinunciare; cosa pensa davvero di poter fare, uno, due tre punti, e con quali scadenze.

È sulla base di questo metodo, di questi contenuti assenti finora, che il premier potrebbe avviare una seria trattativa all’interno della sua attuale maggioranza, a cominciare dalla Lega, comprensibilmente nervosa per l’immobilismo del governo sulle riforme, e anche all’esterno, con partiti, come quello di Casini, ma non solo, che su alcuni punti potrebbero convergere, o dichiarare la loro disponibilità a gestire il nuovo programma fino al 2013. Un processo del genere, oltre a mettere in chiaro, di fronte agli elettori, chi è disposto a farsi carico della crisi, gli consentirebbe pure di riorganizzare il suo partito con la severità che richiedono tutti gli ultimi avvenimenti che lo hanno riguardato. Senza farsi imporre nulla, né ghigliottine né azzeramenti del gruppo dirigente, ma scegliendo autonomamente sulla base delle proprie convinzioni, del merito, delle capacità e di criteri oggettivi, come quello che se uno è investito da uno scandalo, per un po’ si può aspettare e veder di fare chiarezza, ma a un certo punto è legittimo chiedergli di farsi da parte. Specie se gli scandali non sono più uno, ma due o tre.

Tutto questo il presidente del Consiglio lo sa benissimo. Da tre mesi, cioè dalla sua ultima vittoria elettorale alle regionali, Berlusconi annuncia un giorno sì e l’altro pure novità e cambiamenti che il giorno dopo o due giorni dopo è costretto a rimangiarsi. Non fosse che per le urgenze e le emergenze che gli piovono addosso, dall’economia ai delicati appuntamenti internazionali, l’immagine che lui stesso avvalora, quando si sfoga in pubblico, è quella di un premier impotente, bloccato da veti paralleli e dall’ostruzionismo dei suoi stessi alleati. Siccome è perfettamente in grado - e lo ha dimostrato - di capovolgere un quadro del genere, a questo punto, ricordargli cosa può e deve fare è un normale esercizio giornalistico. Ma negli ultimi tempi, anche per questo, si rischia di incorrere nei suoi strali.

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